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Erionite, la “fibra killer” peggiore dell’amianto: individuato un potenziale meccanismo di tossicità

Uno studio congiunto condotto da Sapienza Università di Roma, Università di Genova ed ENEA ha indagato sperimentalmente i meccanismi alla base della tossicità del minerale appartenente al gruppo delle zeoliti e relativamente diffuso sulla Terra. I risultati della ricerca sono stati pubblicati sul “Journal of Hazardous Materials”.

Immagine al microscopio elettronico a scansione di fibre di erionite. Crediti per la foto: Paolo Ballirano
Immagine al microscopio elettronico a scansione di fibre di erionite. Crediti per la foto: Paolo Ballirano

L’erionite è una specie appartenente al gruppo delle zeoliti, minerali presenti principalmente in rocce vulcaniche e di ampio impiego in vari settori, dall’edilizia all’agricoltura. Sebbene le zeoliti, in generale, non siano dannose per l’uomo, l’erionite, al contrario, possiede un alto grado di tossicità per inalazione, centinaia di volte superiore a quella dell’amianto. A partire dalla metà degli anni Settanta, infatti, l’erionite è stata la causa di un’epidemia di mesotelioma pleurico maligno (MPM) in alcuni villaggi della Cappadocia, dove le abitazioni erano costruite con materiali contenenti questo minerale.

Uno studio congiunto tra Sapienza Università di Roma, Università di Genova ed ENEA, condotto nell’ambito del Partenariato Esteso RETURN e finanziato dall’UE – NextGenerationEU, recentemente pubblicato sulla rivista internazionale “Journal of Hazardous Materials”, ha indagato i meccanismi alla base della tossicità dell’erionite finora ancora poco chiari.

La ricerca, utilizzando un innovativo approccio interdisciplinare, ha analizzato i cambiamenti strutturali e chimici che avvengono nelle fibre del minerale una volta che queste sono fagocitate dalle cellule macrofagiche presenti nei polmoni e responsabili dell’internalizzazione e distruzione di sostanze estranee.

Lo studio ha rilevato che quando le fibre di erionite vengono fagocitate dalle cellule macrofagiche, gli “spazzini” del sistema immunitario, innescano uno scambio ionico che determina l’innalzamento del pH e il malfunzionamento dei lisosomi, gli organelli cellulari responsabili della degradazione di corpi estranei.

“Il complesso processo di scambio ionico – precisa Paolo Ballirano, docente presso Sapienza – è stato rivelato attraverso esperimenti di diffrazione dei raggi X su polveri condotti presso i laboratori del Dipartimento di Scienze della Terra di Sapienza Università di Roma su quantità di fibre dell’ordine di frazioni di milligrammo, recuperate dall’interno delle cellule dopo diverse tempistiche di incubazione da un minimo di 24 ore ad un massimo di 14 giorni”.

“L’innalzamento del pH cellulare – spiega Sonia Scarfì, docente presso l’Università di Genova – provoca inoltre un’elevata richiesta energetica, la quale viene soddisfatta da un’iperattivazione dei mitocondri, centrale energetica della cellula. Il risultato di questa iperattivazione dopo qualche giorno dalla fagocitosi è un aumento di produzione dei radicali dell’ossigeno nei mitocondri e, successivamente, una sofferenza mitocondriale che può portare alla morte cellulare”.

“Data la notevole stabilità chimica dell’erionite nei fluidi biologici, questo meccanismo che porta alla morte delle cellule può ripetersi potenzialmente all’infinito: infatti l’erionite, una volta liberata nuovamente in ambiente extracellulare, è in grado di riacquistare il suo potenziale tossico. Ne consegue – concludono Ballirano e Scarfì – che questo fenomeno porta a infiammazione cronica e al potenziale sviluppo di cancro”.

Diffrattometro RX su polveri con capillare contenente erionite montato. Crediti per la foto: Paolo Ballirano
individuato un potenziale meccanismo di tossicità dell’erionite, minerale appartenente al gruppo delle zeoliti. Diffrattometro RX su polveri con capillare contenente erionite montato. Crediti per la foto: Paolo Ballirano

Riferimenti bibliografici: 

Paolo Ballirano, Alessandro Pacella, Serena Mirata, Mario Passalacqua, Maria Cristina Di Carlo, Lorenzo Arrizza, Maria Rita Montereali, Sonia Scarfì, “Fibrous erionite modifications following THP-1 macrophage phagocytosis: An insight into the mechanisms of interaction with biological systems”, Journal of Hazardous Materials, 2025, 489:137646, DOI: https://doi.org/10.1016/j.jhazmat.2025.137546

 

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Tumori: per il 2025 si stima una diminuzione dei tassi di mortalità.
Per il cancro alla mammella è previsto un calo generale, ma un aumento tra le pazienti più anziane

Le previsioni dei decessi per tumori indicano una diminuzione dei tassi di mortalità del 3,5% circa nell’Unione Europea negli uomini e dell’1,2% nelle donne. Un andamento positivo è stimato anche per il tumore della mammella, tranne nelle donne ultraottantenni, probabilmente per mancanza di screening regolari, diagnosi tempestive e utilizzo di terapie innovative. I risultati dello studio, coordinato dall’Università degli Studi di Milano in collaborazione con l’Università di Bologna e sostenuto dalla Fondazione AIRC, sono stati pubblicati sulla rivista “Annals of Oncology”.

Milano, 12 marzo 2025 – Nel 2025 i tassi di mortalità per tumore della mammella dovrebbero diminuire in tutte le fasce d’età nell’Unione Europea (UE), a eccezione delle pazienti ultraottantenni. Per queste ultime si prevede infatti un aumento del 7% circa rispetto ai tassi osservati nel periodo 2015-2019.

Questi risultati provengono da uno studio in cui si sono stimati i tassi di mortalità per tumore nell’UE [1] e nel Regno Unito per il 2025. I risultati dello studio, condotto da ricercatori dell’Università degli Studi di Milano in collaborazione con l’Università di Bologna, sono stati pubblicati oggi sulla rivista Annals of Oncology [2].

Gli epidemiologi coordinati da Carlo La Vecchia, professore di statistica medica ed epidemiologia all’Università Statale di Milano, ritengono che un motivo per l’aumento dei tassi di mortalità per tumore della mammella tra le pazienti più anziane nell’UE possa essere dovuto alla mancanza di screening regolari e di diagnosi tempestive per le donne ultraottantenni, che hanno anche minore probabilità di ricevere i trattamenti più innovativi.

Le donne anziane non sono incluse nei programmi di screening e probabilmente, rispetto alle donne più giovani, hanno minore giovamento dagli importanti progressi nella diagnosi e nella gestione del tumore della mammella, compresi i miglioramenti nella chemioterapia, nella terapia ormonale e nell’immunoterapia che include il trastuzumab e i farmaci similari, ma anche nella radioterapia e nella chirurgia” ha dichiarato La Vecchia.

L’aumento della prevalenza di sovrappeso e obesità osservato negli ultimi decenni nella maggior parte dell’Europa settentrionale e centrale ha portato a un aumento del rischio di tumore della mammella. Questo fenomeno, però, non è stato controbilanciato da un miglioramento della diagnosi e della gestione della malattia nelle donne anziane e, di conseguenza, potrebbe spiegare l’aumento della mortalità stimato.

Il gruppo di ricercatori prevede una diminuzione dei tassi di mortalità per tumore della mammella a tutte le età pari al 3,6% nell’UE e allo 0,8% in Italia nel 2025 rispetto al 2020. Il tasso di mortalità standardizzato per età è 13,3 per 100.000 donne nell’UE (per un totale di 90.100 decessi) e di 14,0 per 100.000 donne in Italia (per un totale di 13.660 decessi).

Stimiamo che tra il 1989 e il 2025 siano stati evitati 373.000 decessi per tumore della mammella nell’UE. La maggior parte di questi decessi evitati è dovuta al miglioramento della gestione della malattia e all’introduzione di innovazioni terapeutiche, ma il 25-30% è probabilmente attribuibile auna maggiore diffusione della diagnosi precoce e del programma di screeningPoiché oggi il tumore della mammella può essere curato efficacemente grazie ad approcci innovativi, è essenziale che tutte le pazienti alle quali viene diagnosticato vengano indirizzate a centri oncologici in grado di offrire tutte le terapie necessarieInoltre, come indicato dagli andamenti sfavorevoli per le donne ultraottantenni, il controllo del sovrappeso e dell’obesità rimane una priorità, non solo per le malattie cardiovascolari, ma anche per i tumori, compreso il quello della mammella” ha aggiunto il professor La Vecchia.

I ricercatori hanno analizzato, per il quindicesimo anno consecutivo, i tassi di mortalità per tumore nell’UE [3] e nel Regno Unito, esaminando separatamente i tassi di mortalità per tumore dello stomaco, colon-retto, pancreas, polmone, mammella, utero (compresa la cervice), ovaio, prostata e vescica, nonché i tassi di mortalità per leucemie, per entrambi i sessi [4]. Sono stati raccolti i dati di mortalità dai database dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e delle Nazioni Unite, relativi al periodo 1970-2020. Tali stime si sono dimostrate affidabili nel corso degli anni.

Tutti i tumori:

Nei Paesi dell’UE si prevede un calo del 3,5% circa dei tassi di mortalità per tutti i tumori: si passerà da 125/100.000 nel 2020 a 121/100.000 nel 2025 per gli uomini, e da 80/100.000 a 79/100.000 per le donne. In totale si stima che nel 2025 circa 1.280.000 persone moriranno di tumore nell’UE e circa 176.000 in Italia. In Italia il tasso di mortalità per tutti i tumori diminuirà per gli uomini, passando da 112 nel 2020 a 96/100.000 nel 2025, e per le donne, passando da 75 a 71/100.000.

Secondo le stime dei ricercatori, dal 1988 al 2025 nell’UE si sono evitati 6,8 milioni di decessi per tutti i tipi di tumore (4,7 milioni negli uomini e 2,1 milioni nelle donne), ipotizzando che i tassi di mortalità rimanessero costanti rispetto a quelli del 1988.

Tuttavia, a causa del crescente numero di anziani nella popolazione, il numero di decessi per tumore aumenterà da 671.963 nel 2020 a 709.400 nel 2025 tra gli uomini nell’UE e da 537.866 a 570.500 tra le donne. In Italia, invece, il numero di decessi passerà da 97.866 a 94.740 per gli uomini e da 79.991 a 81.740 per le donne.

Si prevede che i tassi di mortalità per la maggior parte dei tumori diminuiranno quest’anno nell’UE, a eccezione del tumore del pancreas, che mostrerà un aumento del 2% negli uomini e del 3% nelle donne. Per le donne si prevede un aumento del 4% del tumore del polmone e del 2% del tumore della vescica.


In Italia gli unici tassi di mortalità previsti in lieve aumento sono quelli per il tumore del pancreas e della vescica nelle donne. 
I tassi di mortalità per tutti gli altri tipi di tumore sono in calo per entrambi i sessi.

Il fumo rimane di gran lunga la principale causa nota di tumore del pancreas, causando dal 20 al 35% dei casi in varie fasce di età, a seconda delle diverse abitudini di fumo. Il diabete, il sovrappeso che portano allo sviluppo della sindrome metabolica sono responsabili di circa il 5% dei tumori al pancreas in Europa. Questo aspetto sta diventando sempre più importante a causa della crescente prevalenza dell’obesità, ma il controllo e la prevenzione del fumo rimangono la priorità per il controllo anche del tumore del pancreas” ha spiegato la professoressa Eva Negri, docente di epidemiologia ambientale e medicina del lavoro dell’Università di Bologna e co-leader della ricerca.

Il tumore del polmone rappresenta la principale causa di morte per tumore tra gli uomini nell’UE (151.000 casi) e in Italia (19.600 casi). Nel nostro Paese il tumore della mammella è la prima causa di morte per cancro fra le donne italiane (13.660 casi). Anche nell’UE, il tumore della mammella rappresenta la principale causa di morte per tumore tra le donne; tuttavia, si stima che il tasso di mortalità per il tumore del polmone supererà quello della mammella nel 2025. Infatti, l’andamento della mortalità per tumore del polmone è ancora in aumento tra le donne (+3,8% rispetto al 2020).

Conclude Carlo La Vecchia: Gli andamenti di mortalità per tumore continuano a essere favorevoli in tutta Europa. Tuttavia vi sono anche aspetti negativi: uno di questi sono i decessi per tumore del colon-retto nelle persone di età inferiore ai 50 anni, che hanno iniziato ad aumentare nel Regno Unito e in diversi Paesi dell’Europa centrale e settentrionale, a causa dell’aumento della prevalenza del sovrappeso e dell’obesità nei giovani che, per età, non sono coperti dallo screening del tumore colorettale. Inoltre i tassi di mortalità per il tumore del pancreas non sono in diminuzione nell’UE ed è ora la quarta causa di morte per tumore dopo il cancro del polmone, del colon-retto e della mammella. I tassi di mortalità per tumore del polmone stanno iniziando a stabilizzarsi, ma non ancora a diminuire nelle donne dell’UE. Le tendenze del tumore del pancreas e del polmone nelle donne sottolineano l’urgenza di attuare un controllo ancora più rigoroso del tabacco in tutta Europa”.

Il progetto è stato sostenuto dalla Fondazione AIRC; Claudia Santucci e Carlo La Vecchia hanno ricevuto sostegno dall’iniziativa Next Generation EU-MUR PNRR Extended Partnership Inf-Act.

NOTE

[1] Al momento di questa analisi, l’UE contava 27 Stati membri, con l’uscita del Regno Unito nel 2020. Cipro è stato escluso dall’analisi perché non erano disponibili sufficienti dati a lungo termine, necessari per prevedere le tendenze, soprattutto nei piccoli Paesi. Tutti gli altri Paesi avevano dati che risalivano almeno al 1970.

[2] “European cancer mortality predictions for the year 2025 with focus on breast cancer”, by C. Santucci et al. Annals of Oncology, doi: 10.1016/j.annonc.2025.01.014.

[3] I tassi standardizzati per età per 100.000 abitanti riflettono la probabilità annuale di morire aggiustata per riflettere la distribuzione per età di una popolazione.

[4] Il documento contiene tabelle individuali dei tassi di mortalità per tumore per ciascuno dei sei massimi Paesi Europei.

Tumori: per il 2025 si stima una diminuzione dei tassi di mortalità. Foto di Konstantin Kolosov

Testo dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano e dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Bologna.

FARMACI ONCOLOGICI: PERCHÉ EUROPA E STATI UNITI D’AMERICA PRENDONO DECISIONI DIVERSE? 

Uno studio dell’Università di Torino evidenzia le discrepanze tra le due principali agenzie regolatorie nell’approvazione dei medicinali per il cancro.

 

L’Università di Torino ha pubblicato sulla prestigiosa rivista Lancet Oncology uno studio intitolato Differences in the on-label cancer indications of medicinal products between Europe and the USA, che mette a confronto le decisioni della Food and Drug Administration (FDA) e della European Medicines Agency (EMA) nell’approvazione dei farmaci oncologici.

La sicurezza dei medicinali è garantita da un’attenta analisi dei dati da parte delle Agenzie Regolatorie. Solo dopo la revisione approfondita dei dati derivanti dagli studi clinici, i farmaci possono essere messi a disposizione dei pazienti. Negli Stati Uniti, questa funzione è svolta dalla FDA, mentre in Europa è di competenza dell’EMA. Tuttavia, lo sviluppo di un farmaco è ormai globale e le diverse Agenzie Regolatorie valutano gli stessi studi clinici, sebbene possano arrivare a conclusioni differenti.

“Ci saremmo aspettati che le due agenzie più importanti del mondo, considerando gli stessi dati, arrivassero alle stesse conclusioni” – spiega Gianluca Miglio, professore di farmacologia all’Università di Torino – “ed invece oltre la metà dei farmaci è approvata per popolazioni leggermente diverse. In altre parole, vi sono pazienti dai due lati dell’Atlantico che hanno o non hanno accesso ad un dato medicinale a seconda della zona geografica in cui vivono”.

Nella ricerca sono state analizzate 162 indicazioni terapeutiche di 80 medicinali per tumori solidi e tumori del sangue autorizzate dall’EMA tra gennaio 2015 e settembre 2022 con le corrispondenti indicazioni approvate dalla FDA. Sono state identificate discrepanze clinicamente rilevanti per il 51,9% delle indicazioni valutate. Le differenze riguardano la collocazione nella terapia, la necessità che i pazienti siano refrattari a terapie precedenti, i requisiti di eleggibilità dei biomarcatori, i trattamenti concomitanti o le caratteristiche dei pazienti.

“Il nostro lavoro non è disegnato per definire quali delle due agenzie sia la migliore, sono entrambe eccezionali” – sottolinea Armando Genazzani, anche lui docente dell’Università di Torino, con esperienze sia in EMA che nell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) – “ma evidenziare quanto sia difficile prendere delle decisioni che impattano su milioni di malati in presenza di incertezze. Da un lato le agenzie mirano a concedere l’accesso del farmaco al maggior numero di persone possibile, e dall’altro, invece, devono essere sufficientemente sicure che per tutti i malati per i quali il farmaco è indicato vi è una ragionevole certezza di efficacia e sicurezza. Quello che cambia tra le due agenzie è il diverso bilanciamento tra questi due obiettivi”.

Le differenze osservate sono sottili, e derivano principalmente dalle discrepanze legislative e dalla differente inclinazione a estrapolare i dati in popolazioni non studiate direttamente nei trial clinici. 

“Le ragioni per le differenze osservate sono molteplici così come lo sono le implicazioni” – continua Genazzani – “La nostra analisi sembra suggerire che l’FDA sia più incline ad allargare il bacino dei pazienti che potenzialmente potrebbero beneficiare del farmaco, mentre l’EMA è più conservativa e maggiormente incline a riservare il farmaco ai pazienti per i quali vi è una dimostrazione chiara. Questo vuol dire che i pazienti americani hanno più opportunità terapeutiche mentre i pazienti Europei hanno maggiori certezze sui farmaci che assumono”.

Con questo studio dell’Università di Torino mira a fornire un contributo fondamentale alla comprensione delle dinamiche di approvazione dei farmaci oncologici a livello internazionale, evidenziando il delicato equilibrio tra accesso alle terapie e sicurezza dei pazienti.

Riferimenti bibliografici:

Perini, Martina et al., Differences in the on-label cancer indications of medicinal products between Europe and the USA, The Lancet Oncology, Volume 26, Issue 2, e103 – e110, DOI: https://doi.org/10.1016/S1470-2045(24)00434-0

cancro intelligenza artificiale nuovo metodo CEST-MRI Case report of first woman of color possibly cured of HIV
Farmaci oncologici: perché Europa e Stati Uniti d’America prendono decisioni diverse? Lo studio è stato pubblicato su The Lancet Oncology. Foto di StockSnap

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

La strada dell’immunoterapia per combattere il tumore alla mammella

I risultati di uno studio condotto dal CNR-IEOS e dall’Università Federico II di Napoli hanno individuato nei linfociti T regolatori (Treg) – un particolare tipo di cellule del sistema immunitario – un bersaglio da colpire per consentire al nostro organismo di riattivare la risposta antitumorale e distruggere il carcinoma mammario. I risultati della ricerca, sostenuta da Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro, sono stati pubblicati sulla rivista Science Advances.

 

I dati di uno studio svolto congiuntamente da ricercatori dell’Istituto per l’endocrinologia e l’oncologia sperimentale del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR-IEOS) e dell’Università Federico II di Napoli aggiungono un importante tassello alla comprensione delle complesse interazioni tra il sistema immunitario e il tumore alla mammellaaprendo la strada allo sviluppo di nuove strategie per la prognosi e la cura di questa patologia.

Il gruppo è stato coordinato da Veronica De Rosa, immunologa del CNR-IEOS, in collaborazione con Francesca di Rella dell’Istituto Nazionale Tumori Fondazione Pascale, Antonio Pezone e Irene Cantone, afferenti rispettivamente al Dipartimento di Biologia e al Dipartimento di Medicina Molecolare e Biotecnologie Mediche dell’ateneo federiciano. I ricercatori hanno scoperto il ruolo prognostico di un particolare tipo di cellule del sistema immunitario nel carcinoma mammario, noti come linfociti T regolatori (in breve, Treg). Tali cellule sono presenti ad alte concentrazioni sia nei tumori primari sia nel sangue delle donne con una prognosi più sfavorevole, e sono inoltre associate allo sviluppo di microambienti tumorali particolarmente aggressivi. In condizioni normali i linfociti Treg sono deputati al controllo delle risposte immunitarie dell’organismo, mantenendone l’equilibrio; ma in questi tipi di cancro possono essere un bersaglio importante di cura: se eliminate selettivamente, infatti, il carcinoma mammario può essere distrutto in maniera efficace.

I risultati, pubblicati sulla rivista Science Advances, sono emersi nel corso di uno studio iniziato nel 2016 grazie al sostegno ottenuto nell’ambito del bando TRIDEO cofinanziato da Fondazione AIRC per la ricerca su cancro e da Fondazione Cariplo. Spiega Veronica De Rosa (CNR-IEOS):

“I linfociti Treg svolgono un ruolo cruciale nel decorso dei tumori e in particolar modo del carcinoma mammario. Essi, infatti, limitano la risposta immunitaria antitumorale attraverso l’espressione di molecole di superficie inibitorie, note con il nome di checkpoint. Ciò in pratica favorisce la progressione e la successiva metastatizzazione del tumore. Tuttavia, se i linfociti Treg sono bloccati, soprattutto nelle fasi iniziali della malattia, ciò potrebbe permettere al sistema immunitario di riattivarsi per distruggere il tumore. Questo è proprio il principio su cui si basa l’immunoterapia, che molto spesso ha proprio i linfociti Treg quale bersaglio terapeutico”.

La messa a punto di una strategia basata sull’eliminazione delle cellule Treg al fine di indurre o incrementare la risposta immunitaria antitumorale è, tuttavia, particolarmente complessa.

“Numerose sperimentazioni cliniche in corso perseguono questo obiettivo. Tuttavia, i linfociti Treg non sono tutti uguali. Proprio la loro eterogeneità rende difficile identificare marcatori specifici con cui discriminare le Treg presenti nel sangue, importanti per mantenere una corretta funzione immunitaria, da quelle presenti all’interno del tumore e che gli consentono di crescere”, aggiunge la ricercatrice.

“Il nostro gruppo di ricerca ha dimostrato che i tumori primari di donne affette da carcinoma mammario ormono-positivo presentano una maggiore quantità di linfociti Treg che esprimono una variante della proteina FOXP3 (FOXP3E2). Misurando la loro frequenza nel sangue con la tecnica della biopsia liquida, siamo stati in grado di predire la prognosi delle pazienti già al momento della diagnosi”.

Lo studio è stato possibile grazie al contributo di Francesca di Rella, oncologa presso l’Istituto Nazionale Tumori Fondazione Pascale, e di Antonello Accurso, chirurgo oncologo dell’Università Federico II di Napoli: negli ultimi cinque anni in entrambi i centri sono state arruolate nello studio clinico pazienti con carcinoma mammario in fase precoce, prima che iniziassero la terapia.

Inoltre, l’analisi computazionale di una banca dati nota come The Cancer Genome Atlas (TCGA) su circa mille pazienti è stata condotta da Antonio Pezone, patologo molecolare, e da Irene Cantone, genetista. Le loro analisi hanno confermato che misurando i linfociti Treg che esprimono FOXP3E2 all’interno del tessuto tumorale è possibile anticipare fino a vent’anni sia la prognosi sia le possibili ricadute non solo nelle donne con carcinoma mammario (di tutti i sottotipi), ma anche in pazienti affetti da carcinoma papillare renale, carcinoma a cellule squamose della cervice e adenocarcinoma polmonare.

I risultati ottenuti, se confermati in studi clinici più ampi, potrebbero permettere di sviluppare nuovi marcatori prognostici e predittivi e di individuare bersagli terapeutici altamente specifici, con l’obiettivo di migliorare la vita delle persone malate di cancro.

Mutazioni BRCA
La strada dell’immunoterapia per combattere il tumore alla mammella, lo studio pubblicato su Science Advances. Foto di RyanMcGuire

 

Testo dall’Ufficio Stampa Rettorato Università degli Studi di Napoli Federico II.

L’ERC FINANZIA DUE PRINCIPAL INVESTIGATOR DELL’UNIVERSITÀ DI PADOVA: I vincitori sono Elisa Cimetta del Dipartimento di Ingegneria Industriale col progetto SPOTTED e Manuele Faccenda del Dipartimento di Geoscienze col progetto MODEM

L’Agenzia Esecutiva dello European Research Council – ERCEA ha annunciato oggi i Principal Investigator (PI) selezionati nell’ambito della seconda call ERC Proof of Concept POC 2024, che assegna un finanziamento di 150.000 euro a 134 ricercatori e ricercatrici in tutta Europa.

Sono due i progetti vincitori dell’Università di Padova: il progetto SPOTTED di Elisa Cimetta, docente al Dipartimento di Ingegneria Industriale, e MODEM di Manuele Faccenda, docente al Dipartimento di Geoscienze, entrambi beneficiari di un finanziamento di 150.000 euro.

Il programma Proof of Concept del Consiglio Europeo della Ricerca (ERC) supporta eccellenti PI che hanno già ricevuto una sovvenzione ERC per un progetto di ricerca di frontiera e ora desiderano esplorare il potenziale commerciale o sociale della propria idea scientifica. Le proposte selezionate per il finanziamento sono distribuite su 20 paesi: Germania, Italia e Paesi Bassi con 15 grant vinti ciascuno sono i paesi con il maggior numero di finanziamenti ottenuti, seguiti da Spagna e Regno Unito con 14 e Israele con 12.

Il progetto SPOTTED di Elisa Cimetta

Con un budget di 150.000 euro, il progetto dal titolo MicroScale system integrating Patient-specific cancer Organoids in a 3D Tumor microenvironment for Therapy rEsponse preDiction (SPOTTED) di Elisa Cimetta si propone di sviluppare uno strumento innovativo per testare i trattamenti dei pazienti affetti da tumore pancreatico, aiutando i medici a scegliere le terapie più efficaci per ciascuno. Questo approccio rivoluzionario potrebbe colmare il divario tra ricerca e pratica clinica, aprendo la strada a trattamenti oncologici più efficaci e personalizzati per milioni di persone.

«Il progetto SPOTTED mira a sviluppare modelli avanzati e specifici per il paziente grazie a una piattaforma microfluidica all’avanguardia», spiega Elisa Cimetta. Utilizzando piccole repliche di tumori coltivate in laboratorio a partire da tessuti di pazienti, SPOTTED crea un modello tridimensionale altamente realistico del tumore pancreatico, una delle forme più letali della malattia. Questo modello non solo riproduce fedelmente l’ambiente tumorale, ma integra anche componenti chiave come cellule immunitarie e di supporto, permettendo test farmacologici più accurati. Grazie alla sua capacità di ricreare le condizioni all’interno del corpo umano, SPOTTED offre uno strumento innovativo per testare i trattamenti in un ambiente controllato, aiutando i medici a scegliere le terapie più efficaci per ogni paziente».

Elisa Cimetta

Dopo la laurea e il dottorato di ricerca in Ingegneria Chimica all’Università di Padova, Elisa Cimetta è stata Associate Research Scientist nel laboratorio della Prof Vunjak-Novakovic alla Columbia University di New York. In quel periodo ha vinto una prestigiosa fellowship dalla New York Stem Cell Foundation e ottenuto una certificazione post-lauream in business e amministrazione. È co-fondatrice di EpiBone Inc, produttrice di ossa ingegnerizzate e tessuti osteocondrali paziente-specifici con studi clinici in Fase I-II. Ora docente al Dipartimento di Ingegneria Industriale (DII), nel 2017 ha vinto un ERC Starting Grant dell’EU. Sempre a livello di programmi di ricerca EU, ha vinto un altro Proof of Concept nel 2024. Il suo laboratorio BIAMET ha sede presso il DII e l’Istituto di Ricerca Pediatrica (IRP) Città della Speranza. Con oltre 15 anni di esperienza nel campo dello sviluppo di bioreattori e microbioreattori, è stata pioniera nello sviluppo di tecnologie e dispositivi volti a studiare i sistemi biologici e avvicinarli a nuove applicazioni cliniche.

Elisa Cimetta
Elisa Cimetta

Il progetto MODEM di Manuele Faccenda

Con un budget di 150.000 euro, il progetto dal titolo Monitoring crustal stress state frOm 4D sEismic iMaging (MODEM) di Manuele Faccenda mira allo sviluppo di un software che, attraverso la rilevazione automatica di variazioni di velocità delle onde sismiche derivanti da condizioni di fratturazione delle rocce crostali, fornirà importanti informazioni sulle condizioni dei sistemi magmatici e sismogenetici nei mesi e settimane precedenti a eventi potenzialmente catastrofici, favorendo una diminuzione dei rischi correlati. Le zone tettonicamente attive come le aree vulcaniche e i sistemi di faglie sismogenetiche sono infatti caratterizzate da condizioni di sforzo in continua evoluzione che controllano lo stato di fratturazione delle rocce e la migrazione di magma e fluidi crostali, specie nelle fasi precedenti le eruzioni vulcaniche e i terremoti maggiori.

«La metodologia che intendiamo sviluppare avrà ricadute positive sulla società in quanto migliorerà il monitoraggio di importanti siti geologici come aree vulcaniche ma anche campi petroliferi e geotermici, fornendo informazioni di importanza critica riguardo lo stato di fratturazione delle rocce e la distribuzione dei fluidi in profondità che porteranno alla possibilità di “prevedere” imminenti attività sismiche – commenta Manuele Faccenda –. Il software verrà testato e calibrato grazie ai dati acquisiti dal sistema di monitoraggio dell’Etna, e successivamente distribuito agli enti di monitoraggio italiani e internazionali delle principali aree vulcaniche».

Manuele Faccenda

Si è laureato in Geologia nel 2005 all’Università di Perugia, per poi conseguire nel 2009 il dottorato in Geofisica all’ETH di Zurigo. Dopo 2 anni come research fellow alla Monash University (Australia), nel 2012 viene assunto come ricercatore al Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova, dove dal 2018 ricopre il ruolo di docente in Geofisica della Terra Solida. Le attività di ricerca sono rivolte principalmente allo studio della struttura e dinamica interna del pianeta Terra tramite l’utilizzo di tecniche di modellazione numerica dei processi geologici e geofisici e di metodi di indagine sismologica quali la tomografia sismica. Queste attività hanno portato alla pubblicazione di circa 60 articoli e oltre 100 contributi in convegni scientifici.

Manuele Faccenda
Manuele Faccenda

Per informazioni:

https://erc.europa.eu/news-events/news/Proof-of-Concept-Grants-2024

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

Cancro ovarico: un nuovo alleato diagnostico grazie all’intelligenza artificiale

L’Intelligenza artificiale potrebbe affiancare i medici nella definizione ecografica del rischio di malignità di formazioni ovariche. Lo dimostra un nuovo studio a cui hanno partecipato l’Università di Milano-Bicocca e la Fondazione IRCCS San Gerardo dei Tintori.

 

Milano, 22 gennaio 2025 – Individuare un tumore in fase precoce è fondamentale per garantire una prevenzione e una cura efficaci. Oggi c’è un alleato in più, che sta imparando molto in fretta ed è sempre più preciso: si tratta dell’intelligenza artificiale. Lo dice un recente studio, pubblicato sulla rivista Nature Medicine, a cui ha collaborato Robert Fruscio, professore associato in Ginecologia e Ostetricia dell’Università di Milano-Bicocca e direttore della Struttura semplice di Ginecologia Preventiva della Fondazione IRCCS San Gerardo dei Tintori: la ricerca, condotta da un team del Karolinska Institutet in Svezia, ha coinvolto 20 centri in otto Paesi e ha analizzato un dataset di oltre 17.000 immagini ecografiche provenienti da più di 3.600 pazienti, tra cui alcune che si sono rivolte all’Ospedale San Gerardo di Monza. L’obiettivo è stato quello di addestrare un programma di Intelligenza artificiale a distinguere, in queste immagini, le lesioni ovariche benigne da quelle maligne e testare le potenzialità di questi modelli nel supportare le diagnosi mediche, ridurre il margine di errore diagnostico e migliorare la gestione clinica delle pazienti.

«Le lesioni ovariche sono comuni e spesso rilevate incidentalmente, per questo è fondamentale, al fine di impostare un trattamento corretto, definirne il più precisamente possibile il rischio di malignità», spiega Robert Fruscio. «Abbiamo sviluppato e validato un sistema di Intelligenza artificiale in grado di distinguere, a partire da un’immagine ecografica, le lesioni ovariche benigne e quelle maligne. Abbiamo poi confrontato le prestazioni dell’IA con quelle di operatori ecografici esperti (tra i quali io e altri colleghi da tutto il mondo) e di operatori non esperti. Il modello si è rivelato superiore, seppur di pochissimo, agli esperti e significativamente migliore dei non esperti».

I modelli basati sull’Intelligenza artificiale, nello specifico, hanno raggiunto un tasso di accuratezza nell’individuazione del cancro ovarico dell’86%, rispetto all’82% degli esperti umani e al 77% di quelli con minore esperienza. I risultati sono stati consistenti indipendentemente dall’età dei pazienti, dai dispositivi ecografici utilizzati e dai contesti clinici.

L’importanza di questa sperimentazione avviene in un contesto generale in cui gli operatori esperti scarseggiano in molte parti del mondo e non sono disponibili in tutti gli ospedali. La carenza di ecografisti esperti ha come conseguenza da una parte l’esecuzione di interventi chirurgici non necessari e dall’altra una diagnosi ritardata di cancro.

«I modelli di intelligenza artificiale potrebbero quindi costituire un ausilio per gli operatori meno esperti nel processo di selezione di pazienti da inviare a centri di secondo livello e, dall’altra parte, evitare chirurgie inutili in pazienti con lesioni a basso rischio», continua Robert Fruscio. «In generale, è il classico caso in cui la IA non si sostituisce all’uomo, ma potrebbe migliorare l’efficienza di tutto il sistema e la gestione delle pazienti».

Sempre secondo lo studio, in una simulazione di triage, il supporto diagnostico guidato dall’IA ridurrebbe del 63% i rinvii agli esperti, superando significativamente le prestazioni diagnostiche della pratica corrente. Pur sottolineando che sono necessari ulteriori studi prospettici e randomizzati per convalidare il beneficio clinico e le prestazioni diagnostiche dei modelli di Intelligenza artificiale, lo studio offre spunti di riflessione sull’applicabilità dei sistemi di supporto diagnostico guidati dall’IA per la diagnosi del cancro ovarico.

Riferimenti bibliografici:

Christiansen, F., Konuk, E., Ganeshan, A.R. et al. International multicenter validation of AI-driven ultrasound detection of ovarian cancer, Nat Med 31, 189–196 (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41591-024-03329-4

causa rischio metastasi tumore al seno
Foto di StockSnap

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca

Università Statale di Milano: innovativo studio “in vivo” sulle metastasi, su come migrano le cellule tumorali

Un team di scienziati coordinati dall’Università Statale di Milano ha osservato “in vivo”, grazie a tecniche di imaging avanzate, la migrazione delle cellule tumorali nei tessuti viventi, rivelando il meccanismo con cui si spostano all’interno del corpo. Lo studio, pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) sarà cruciale per identificare nuove strategie di intervento sulle metastasi.

Milano, 15 gennaio 2025 – Il 90% delle morti da tumore sono dovute alle metastasi, cioè ai tumori secondari che si formano a distanza dal tumore iniziale e sono causati dalla migrazione delle cellule malate. Ecco perché comprendere i meccanismi di questa migrazione è fondamentale per cercare di identificare nuove strategie di intervento sulle metastasi. Ad oggi sappiamo che queste cellule possono muoversi individualmente o in gruppo, ma la maggior parte degli studi fatti finora sono stati svolti in vitro.

Ora, un gruppo di ricercatori del Centro per Complessità e Biosistemi dell’Università degli Studi di Milano, in collaborazione con il Centro Medico dell’Università Radboud di Nimega (Radboud University Medical Centre), nei Paesi Bassi, ha pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) uno studio che mostra “in vivo” come avviene l’invasione collettiva di cellule tumorali nel derma.

Da questa osservazione, effettuata grazie alla microscopia intravitale a multifotone, una tecnica che consente l’osservazione dei tessuti ad alta risoluzione e su diversi piani focali consentendo una ricostruzione tridimensionale delle immagini, è risultato che le cellule si muovono usando una modalità di migrazione multicellulare poco coesiva, caratterizzata da un moto turbolento che si auto-organizza in percorsi alternati persistenti in cui le cellule si spostano avanti e indietro dal tumore originale, utilizzando interstizi già presenti nei tessuti.

Abbiamo analizzato le deformazioni indotte dalle cellule nella matrice extracellulare e abbiamo osservato come le cellule si facessero largo tra i tessuti comprimendoli” spiega Stefano Zapperi, professore al Dipartimento di Fisica “Aldo Pontremoli” dell’Università degli Studi di Milano e coautore dello studio, “mostrando come la presenza di un tessuto che racchiude e comprime il tumore gioca un ruolo chiave nell’organizzazione e nel moto delle cellule tumorali”.

Un aspetto molto interessante”, aggiunge Caterina La Porta docente di Patologia Generale del dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Ateneo e coordinatrice dello studio, “è che la migrazione collettiva delle cellule tumorale sfrutta le vie utilizzate dai linfociti T del nostro sistema immunitarioComplessivamente” conclude La Porta, “i nostri risultati contribuiscono a chiarire i modelli di migrazione delle cellule tumorali in vivo e forniscono indicazioni quantitative per lo sviluppo di modelli realistici in vitro e in silico (simulazione matematica al computer)”.

Riferimenti bibliografici:

O. Chepizhko, J. Armengol-Collado, S. Alexander, E. Wagena, B. Weigelin, L. Giomi, P. Friedl, S. Zapperi, C.A.M. La Porta, Confined cell migration along extracellular matrix space in vivo, Proc. Natl. Acad. Sci. U.S.A.  (2025) 122 (1) e2414009121, DOI: https://doi.org/10.1073/pnas.2414009121

Un innovativo studio “in vivo” sulle metastasi, su come migrano le cellule tumorali, pubblicato oggi sulla rivista PNAS. Foto di Konstantin Kolosov

Testo dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.

STUDIO DEI PROCESSI METABOLICI E INFIAMMATORI LEGATI A CANCRO E MALATTIE CRONICHE: NASCE A UNITO IL NUOVO CENTRO DI RICERCA ATLANTIS
 
Il centro interdipartimentale, diretto dalla Prof.ssa Paola Costelli è specializzato nello studio dell’infiammazione e del metabolismo nel cancro e nelle malattie cronico-degenerative
 

 

È stato inaugurato ieri, venerdì 20 dicembre, il nuovo centro di ricerca Atlantis, nato dalla collaborazione tra il Dipartimento di Scienze Cliniche e Biologiche, il Dipartimento di Oncologia e il Dipartimento di Chimica dell’Università di Torino.
Il centro, diretto dalla Prof.ssa Paola Costelli, è specializzato nello studio delle vie metaboliche e della loro interazione con i processi flogistici nella patogenesi del cancro e delle malattie cronico-degenerative.
Atlantis si propone di promuovere la ricerca di base, preclinica e clinica nel campo del metabolismo e dell’infiammazione sfruttando un approccio innovativo ed interdisciplinare, anche nell’ottica di favorire le collaborazioni nazionali ed internazionali. Oltre agli obiettivi di ricerca, Atlantis favorirà la formazione superiore e la divulgazione scientifica, attraverso l’interazione con corsi di dottorato, scuole di specializzazione, centri di ricerca e associazioni di pazienti. Inoltre, promuoverà la collaborazione con l’industria biotecnologica per lo sviluppo di brevetti e tecnologie innovative, facilitando il trasferimento dei risultati della ricerca al settore industriale.
Dal punto di vista tecnologico, Atlantis offre la possibilità di eseguire analisi metabolomiche e proteomiche ‘targeted’ e ‘untargeted’ sia su fluidi biologici (bulk) che su matrici solide (spatial metabolomic/proteomic). Più semplicemente, le strumentazioni presenti in Atlantis rendono possibile analizzare il profilo metabolomico/proteomico di un campione biologico, identificare i metaboliti di interesse e analizzare la loro distribuzione a livello cellulare.
“L’inaugurazione di Atlantis è un momento importante non solo per il Polo di Medicina Orbassano-Candiolo, ma per tutta la Scuola di Medicina e per l’Università di Torino” – afferma Paola Costelli, direttrice del Dipartimento di Scienze Cliniche e Biologiche e del centro di Ricerca Atlantis“Il Centro Atlantis si pone come una realtà di ricerca all’avanguardia sul territorio regionale e nazionale, essendo equipaggiato per effettuare analisi metabolomica e lipidomica su diverse matrici biologiche. Anche se al momento siamo ancora relativamente lontani dal rendere l’analisi metabolomica una routine nella pratica clinica, le applicazioni di queste tecnologie in ambito biomedico sono vastissime. A solo titolo di esempio, possiamo citare l’identificazione di biomarcatori utili a fini diagnostici, prognostici e di follow-up della malattia, permettendo così di personalizzare l’approccio terapeutico”.
Inaugurazione del Centro di Ricerca Atlantis, da sinistra Cristian Fiori, Cristina Prandi, Andrea Graziani, Elisabetta Bugianesi, Paola Costelli
Inaugurazione del Centro di Ricerca Atlantis, da sinistra Cristian Fiori, Cristina Prandi, Andrea Graziani, Elisabetta Bugianesi, Paola Costelli

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

ALL’UNIVERSITÀ DI TORINO 1,8 MILIONI DI EURO PER RIVOLUZIONARE LE TERAPIE TUMORALI ANTI-ANGIOGENESI DEL PROGETTO COOLISH

COOLISH, progetto di ricerca interdisciplinare del Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino e del Candiolo Cancer Institute-IRCCS-FPO, ha ottenuto un importante finanziamento di 1,8 milioni di euro dal Fondo Italiano per le Scienze Applicate (FISA), il programma del Ministero dello Sviluppo Economico istituito con la legge di bilancio 2022, che ha l’obiettivo di innalzare il livello di attrazione, competitività e innovazione dell’Italia, elevando la capacità di fare ricerca.

Il progetto COOLISH ha lo scopo di ottimizzare la scoperta di molecole bioattive in ambito oncologico attraverso il superamento degli attuali limiti presenti nelle colture cellulari bidimensionali e dei modelli tridimensionali, poco efficaci nel riprodurre il microambiente tumorale. L’obiettivo è sviluppare una piattaforma basata su organoidi vascolarizzati derivati da pazienti con tumori di difficile trattamento, come l’adenocarcinoma duttale pancreatico, il carcinoma polmonare non a piccole cellule e il melanoma metastatico, noti per essere refrattari o scarsamente responsivi alle attuali terapie anti-angiogeniche. Questa progetto consentirà di testare un’ampia libreria di molecole, già approvate alla sperimentazione umana dalle agenzie regolatorie, per identificare composti in grado di bloccare la crescita degli organoidi tumorali attraverso il blocco dell’angiogenesi, ossia il processo di formazione di formazione di nuovi vasi sanguigni.

“I farmaci anti-angiogenetici – spiega il Prof. Federico Bussolino, Direttore del laboratorio di Oncologia vascolare al Candiolo Cancer Institute – sono fondamentali nella lotta contro il cancro perché bloccano la formazione di nuovi vasi sanguigni, impedendo al tumore di crescere e diffondersi. Agiscono in modo mirato e possono essere combinati con altre terapie per aumentarne l’efficacia. Tuttavia le molecole anti-angiogenetiche attualmente disponibili non sono efficaci in tutti i tumori, che per altro richiedono la vascolarizzazione per la loro progressioneLa presenza di un team multidisciplinare supportato da un finanziamento importante quale FISA 2022 permetterà a COOLISH di effettuare nei prossimi quattro anni una Ricerca ad alto profilo diretta a innovare questi trattamenti, offrendo di riflesso nuove speranze ai pazienti”.

COOLISH è una piattaforma multidisciplinare sviluppata dal Prof. Federico Bussolino del Candiolo Cancer Institute-IRCCS-FPO, dal Prof. Luca Primo del Dipartimento di Oncologia, dalla Prof.ssa Laura Anfossi del Dipartimento di Chimica e del Prof. Marco L. Lolli del Dipartimento di Scienza e Tecnologia del Farmaco.

tumori infantili RNA
Foto di RyanMcGuire

 

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

Tumore della vescica: scoperto un nuovo meccanismo molecolare; la proteina NUMB è un biomarcatore nell’evoluzione del tumore, l’interruttore per la diagnosi delle forme più aggressive

NUMB è la proteina che costituisce un biomarcatore nell’evoluzione del tumore alla vescica: la scoperta del meccanismo molecolare apre la strada a nuove strategie terapeutiche per combattere il cancro vescicale. Lo studio, condotto dal team di ricercatori dell’Istituto Europeo di Oncologia (IEO) e dell’Università degli Studi di Milano e pubblicato su Nature Communications, dimostra inoltre che i tumori vescicali superficiali e quelli profondi rappresentano stadi differenti di un unico processo patologico che evolve nel tempo, contrariamente a quanto ritenuto fino ad ora.

Milano, 4 dicembre 2024. Una nuova speranza per la diagnosi e la cura dei tumori della vescica più aggressivi nasce dalle ricerche di un gruppo di scienziati dell’Istituto Europeo di Oncologia (IEO) e dell’Università degli Studi di Milano. Lo studio sostenuto da Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro è stato coordinato da Salvatore Pece, professore ordinario di Patologia generale e vice-direttore del Dipartimento di Oncologia ed Emato-Oncologia dell’Università Statale di Milano, Direttore del Laboratorio “Tumori Ormono-Dipendenti e Patobiologia delle Cellule Staminali” dello IEO.

I risultati hanno condotto i ricercatori a scoprire un inedito meccanismo molecolare, alla base dell’aggressività biologica e clinica dei tumori della vescica, che determina le prognosi più sfavorevoli. I dati sono appena stati pubblicati sulla prestigiosa rivista Nature Communications.

All’origine dell’intero processo sembra esserci la proteina NUMB, che è normalmente espressa nella vescica normale, ma viene perduta in oltre il 40% di tutti i tumori vescicali umani. Tale perdita causa una cascata di eventi molecolari che rendono il tumore altamente proliferativo e invasivo, consentendogli di oltrepassare gli strati superficiali della mucosa vescicale per raggiungere gli strati più profondi. Tale evento rappresenta il punto di svolta nella evoluzione clinica della malattia, determinando la progressione dei tumori vescicali superficiali, i cosiddetti non-muscolo-invasivi, verso tumori profondi, definiti muscolo-invasivi, che richiedono l’intervento di rimozione chirurgica totale della vescica. Nonostante l’operazione radicale, queste forme di malattia sono caratterizzate da un decorso clinico spesso sfavorevole.

Dunque la proteina NUMB – spiega il professor Pece – funziona come un interruttore molecolare. che, se è spento, accelera la progressione tumorale e influenza il decorso clinico della malattia. Rappresenta quindi un biomarcatore molecolare che consente di identificare i tumori superficiali a elevato rischio di progressione verso tumori muscolo-invasivi”.

La nostra scoperta ha un forte e immediato potenziale di applicazione nella pratica clinica – continua Salvatore Pece –. I criteri clinico-patologici utilizzati nella routine per predire il rischio di progressione dei tumori vescicali superficiali a tumori muscolo-invasivi sono infatti del tutto insufficienti e inadeguati a individuare i pazienti a basso rischio, che potrebbero beneficiare di trattamenti più mirati, di tipo conservativo, in protocolli di sorveglianza attiva. I pazienti ad alto rischio necessitano invece di trattamenti più aggressivi, quali la chemioterapia e l’asportazione chirurgica della vescica, che hanno purtroppo considerevoli effetti collaterali e un elevato impatto sulla qualità della vita”.

Abbiamo analizzato il profilo molecolare sia in cellule in coltura e animali di laboratorio, sia in campioni di tumori umani privi dell’espressione di NUMB – spiega il dottor Francesco Tuccidottorando di ricerca presso la Scuola Europea di Medicina Molecolare e primo autore dello studio –. Abbiamo così osservato che la perdita di NUMB attiva un complesso circuito molecolare che conduce all’attivazione di un potente oncogene, il fattore di trascrizione YAP. Quest’ultimo è alla base del potere proliferativo e invasivo delle cellule tumorali”.

Siamo andati oltre – aggiunge la dottoressa Daniela Tosoni, ricercatrice presso il Dipartimento di Oncologia ed Emato-Oncologia dell’Università di Milano e dello IEO, che ha contribuito alla supervisione dello studio –. In esperimenti di laboratorio abbiamo dimostrato che è possibile inibire la capacità proliferativa e invasiva delle cellule tumorali prive di NUMB, utilizzando farmaci in grado di colpire questo complesso circuito molecolare a diversi livelli”. “I tumori della vescica privi di NUMB – continua Daniela Tosoni – sono quindi molto aggressivi ma anche altamente vulnerabili”.

Sono infatti già disponibili alcuni farmaci molecolari impiegati in clinica per patologie differenti dal tumore vescicale, che potrebbero rapidamente essere sperimentati e adottati come trattamenti innovativi per prevenire la progressione clinica dei tumori vescicali superficiali ad alto rischio, privi della proteina NUMB.

Nel 2023, in Italia, sono stati stimati 29.700 nuovi casi di tumore della vescia (il quinto più frequente dopo quelli della mammella, colon-retto, polmone e prostata).

Al momento della diagnosi iniziale – spiega Salvatore Pece – i tumori della vescica si presentano in larga maggioranza come tumori superficiali non muscolo-invasivi, che sono generalmente caratterizzati da una buona prognosi. Solo in una percentuale ridotta si presentano invece sin dal principio come tumori profondi muscolo-invasivi, molto aggressivi e con decorso clinico meno favorevole. Per questo necessitano di chemioterapia e di intervento di cistectomia radicale. Questo ha fatto storicamente considerare i tumori superficiali e quelli profondi come due patologie differenti sin dal principio, guidate da differenti meccanismi molecolari. Tuttavia circa il 20-30% dei tumori superficiali possono evolvere in tumori muscolo-invasivi. L’esperienza clinica ci ha insegnato che i tumori muscolo-invasivi che derivano dalla progressione di tumori inizialmente superficiali rappresentano le forme più aggressive e potenzialmente letali di tumore vescicale”.

I nostri studi – continua Pece – dimostrano invece che i tumori vescicali superficiali e quelli profondi rappresentano stadi differenti di un unico processo patologico che evolve nel tempo, guidato già dal principio da specifici meccanismi molecolari che possono essere ostacolati con farmaci precisi e mirati. Diventa quindi fondamentale identificare i meccanismi biologici alla base di questa evoluzione e sviluppare nuovi marcatori molecolari per identificare i pazienti con caratteristiche specifiche di aggressività. In questo contesto, la nostra scoperta apre la strada a nuove strategie terapeutiche per combattere il cancro vescicale in una elevata percentuale di pazienti che presentano tumori privi di espressione della proteina NUMB”.

Abbiamo anche identificato – continua Salvatore Pece – una nuova firma molecolare che consentirà di identificare con accurata precisione i pazienti che potranno beneficiare di trattamenti mirati con nuovi farmaci che colpiscono in maniera specifica i meccanismi molecolari che sono attivati a seguito della perdita di NUMB”.

Questo studio sostenuto da AIRC rappresenta per noi motivo di grande soddisfazione – continua il professor Pece – non solo per la sua valenza scientifica ma anche per i risultati clinici. Rappresenta infatti uno di quei rari momenti della ricerca scientifica in cui, dopo molti anni di studio, è possibile effettuare il passaggio dalla ricerca di base all’applicazione in ambito clinico. Abbiamo ora a disposizione una nuova firma molecolare per misurare il rischio di progressione di malattia e al tempo stesso nuovi possibili bersagli di terapie più precise e mirate tramite l’uso di farmaci già disponibili nella pratica clinica”.

Questa ricerca è una ulteriore conferma della qualità dei nostri ricercatori – sottolinea il Direttore del Dipartimento di Oncologia ed Emato-Oncologia della Statale, Gianluca Vago – e dei risultati che otteniamo grazie alla stretta collaborazione, ormai ventennale, con l’Istituto Europeo di Oncologia e il sostegno, altrettanto fondamentale, di AIRC. Milano ha un potenziale unico per la ricerca nelle scienze della vita; fare rete è ancora più importante ora, come condizione necessaria per competere con le migliori realtà europee ed internazionali”.

Lo studio, che ha visto impegnati in uno sforzo comune scienziati e clinici del nostro istituto, – conclude il professor Roberto Orecchia, Direttore dello IEO di Milano – è un risultato straordinario e una ottima notizia per molti pazienti per i quali abbiamo oggi una nuova possibilità di cura. Abbiamo già brevettato la nuova firma molecolare emersa da queste ricerche e stiamo per avviare studi clinici per validarne l’utilizzo come marcatore, per identificare i pazienti ad alto rischio di progressione di malattia che potranno beneficiare nel prossimo futuro di una nuova prospettiva terapeutica con farmaci più precisi e mirati”.

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Foto PublicDomainPictures

Testo dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.