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Nuovo censimento della flora delle Alpi apuane: segnalate 3 nuove specie per la Toscana e 141 a rischio estinzione

Il lavoro firmato dal professor Lorenzo Peruzzi dell’Università di Pisa.

Tre nuove specie segnalate per la Toscana e 141 inserite nella “Lista Rossa Nazionale” delle piante a rischio di estinzione, il dato emerge dall’ultimo censimento della flora delle Alpi apuane realizzato dal professore Lorenzo Peruzzi del Dipartimento di Biologia e Direttore dell’Orto e Museo Botanico dell’Università di Pisa.

Il lavoro, pubblicato nella rivista Italian Botanist, ha documentato un totale di 1987 tra specie e sottospecie, di cui 130 aliene, in un’area ampia 1056 km². Le nuove specie sono: le native Vulneraria piccolina (Anthyllis vulneraria subsp. pulchella) e Pigamo dei sassi (Thalictrum minus subsp. saxatile) e l’esotica casuale Fior di pesco (Chaenomeles speciosa). Fra quelle a rischio estinzione si segnalano le tre specie gravemente minacciate: l’Atamanta di Corti (Athamanta cortiana), un’ombrellifera endemica apuana che vive esclusivamente su rupi di marmo, fiorendo raramente; l’Erba-unta di Maria (Pinguicula mariae), una graziosa pianta carnivora endemica apuana, dedicata alla studiosa Maria Ansaldi, scomparsa prematuramente nel 2013; la Felcetta atlantica (Vandenboschia speciosa), rara felce presente in Italia solo sulle Alpi Apuane, rappresentata anche nel logo del Parco Regionale delle Alpi Apuane.

Nel territorio sono inoltre presenti 93 specie endemiche italiane, cioè che esistono in tutto il mondo solo in Italia, di cui 30 endemiche delle Alpi Apuane.

La flora delle Alpi Apuane è particolarmente ricca, al di sopra dell’atteso per un’area di quell’ampiezza per quanto riguarda il numero di specie autoctone, ma fortunatamente anche al di sotto dell’atteso per il numero di specie aliene – afferma Lorenzo Peruzzi – In particolare, la maggiore ricchezza floristica si concentra sulle colline e montagne al di sopra delle città di Massa e di Carrara, che purtroppo però sono anche le zone maggiormente impattate dalle cave di marmo”.

Lo studio aggiorna alcuni censimenti realizzati in passato. Le Alpi Apuane, per le loro peculiarità geomorfologiche e biogeografiche, hanno infatti da sempre attratto l’interesse dei botanici. Un primo elenco completo di tutte le felci, conifere e piante a fiore di quest’area fu pubblicata da Pietro Pellegrini nel 1942, aggiornato poi da Erminio Ferrarini tra il 1994 e il 2000. In entrambi i casi, però, gli elenchi floristici ricavati erano relativi a un territorio diverso e più ampio, per cui un vero e proprio elenco floristico aggiornato e mirato alle sole Alpi Apuane ancora non esisteva.

“Per dare un’idea della mole del lavoro svolto, basti pensare che l’elenco completo della flora che abbiamo reso disponibile come appendice all’articolo è di ben 936 pagine – racconta Peruzzi – ha collaborato all’opera Brunello Pierini, appassionato esperto di botanica, ben esemplificando l’importanza della cosiddetta Citizen Science in questo tipo di studi”.

“Le Alpi Apuane sono obiettivamente ricche – conclude Lorenzo Peruzzi – non resta che auspicare, quindi, una adeguata tutela di questo eccezionale territorio, un vero e proprio gioiello dal punto di vista botanico in particolare e naturalistico in generale”.

Il lavoro fa parte delle attività di ricerca svolte nell’ambito del progetto 3P_earthBIODIV, un importante finanziamento alla ricerca di base ottenuto dal nostro ateneo nell’ambito di un bando a cascata del National Biodiversity Future Center. Il progetto, che vede fortemente impegnato il gruppo di ricerca PLANTSEED Lab dell’Università di Pisa per tutto il 2025, prevede l’esplorazione di territori poco conosciuti o con flore mancanti o non aggiornate e uno studio tassonomico integrato di gruppi critici della flora italiana, con particolare attenzione alla componente endemica.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

Censita per la prima volta la flora del Comune di Pisa, in totale sono presenti 1404 specie di cui 112 aliene

La ricerca dell’Università di Pisa pubblicata sulla rivista Plants rivela una ricca diversità floristica, anche se le specie aliene superano le aspettative

La città di Pisa rappresenta un po’ la culla della Botanica moderna: nel 1543, durante il Rinascimento, proprio all’Università venne fondato il primo Orto Botanico accademico al mondo. Ma nonostante questa illustre storia, ancora oggi mancava un elenco completo di tutte le specie e sottospecie di piante vascolari (felci, conifere, piante a fiore) che crescono spontaneamente nel Comune di Pisa.

Censita per la prima volta la flora del Comune di Pisa. Gallery

A colmare questa lacuna è stato un gruppo di botanici dell’Università di Pisa, Lorenzo Peruzzi, Gianni Bedini Jacopo Franzoni del Dipartimento di BiologiaIduna Arduini del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali a cui si è aggiunto Brunello Pierini, studioso appassionato della materia. Il risultato è stata una ricerca appena pubblicata sulla rivista internazionale Plants che ha censito nel Comune di Pisa un totale di 1404 tra specie e sottospecie, di cui 112 aliene.

“Nonostante la marcata urbanizzazione dell’area, abbiamo documentato una importante ricchezza floristica, con il 33% di specie native in più rispetto all’atteso – afferma Lorenzo Peruzzi, professore ordinario di Botanica sistematica – ma purtroppo, anche le specie aliene sono molto rappresentate, con il 34,9% in più rispetto alle aspettavive”.

Dal punto di vista conservazionistico, l’inventario comprende alcune piante a rischio di scomparsa che in gran parte sono state trovate nell’area protetta del Parco Naturale Regionale di Migliarino – San Rossore – Massaciuccoli. In particolare, sono quattro le specie vulnerabili (Butomus umbellatus , Leucojum aestivum subsp. aestivum , Ranunculus ophioglossifoliusThelypteris palustris), nove quelle minacciate (Anacamptis palustrisBaldellia ranunculoidesCardamine apenninaCentaurea aplolepa subsp. subciliataHottonia palustrisHydrocotyle vulgarisSagittaria sagittifoliaSolidago virgaurea subsp. litoralis , Triglochin barrelieri) e una gravemente minacciata (Symphytum tanaicense).

“Il problema delle invasioni biologiche è molto rilevante nel Comune di Pisa – commenta Iduna Arduini, professoressa associata di Botanica ambientale e applicata – Tra le 45 aliene invasive documentate nello studio, ve ne sono 4 di rilevanza unionale, piante cioè i cui effetti negativi sono talmente rilevanti da richiedere un intervento coordinato e uniforme a livello di Unione Europea, e una, Salpichroa origanifolia, localmente molto invasiva”.

“La fonte primaria dei dati floristici utilizzati è rappresentata da Wikiplantbase #Toscana,” – continua Gianni Bedini, professore ordinario di Botanica sistematica – un database floristico liberamente accessibile da cui abbiamo potuto estrarre ben 12.002 segnalazioni, disponibili grazie allo sforzo di numerosi e attivi collaboratori, ben esemplificando il ruolo cruciale giocato anche dalla cosiddetta Citizen Science nell’accumulare importanti informazioni di tipo floristico”.

“Questo lavoro, oltre a fare il punto sulle conoscenze floristiche della città, fornirà anche i dati di base per il progetto IDEM FLOS, finanziato nell’ambito di un bando a cascata del National Biodiversity Future Center, con l’Università di Trieste come partner capofila – conclude Jacopo Franzoni, assegnista in Botanica sistematica – consentendoci di costruire uno strumento per l’identificazione di tutte queste specie, che sarà reso liberamente accessibile entro il 2025 e potrà essere usato per diffondere le conoscenze della flora locale alla popolazione”.

Riferimenti bibliografici:

Peruzzi L, Pierini B, Arduini I, Bedini G, Franzoni J. The Vascular Flora of Pisa (Tuscany, Central Italy), Plants. 2025; 14(3):307, DOI: https://doi.org/10.3390/plants14030307

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

PROGETTO NOCTIS: UNA RETE NAZIONALE PER LO STUDIO DEL CIELO

progetto NOCTIS Network Osservativo Coordinato di Telescopi per l’Insegnamento e la Scienza

Unire tecnologia, passione e collaborazione per esplorare l’universo: NOCTIS trasforma l’osservazione del cielo in un’esperienza condivisa e accessibile a tutti. Guidato dall’Università di Genova in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Astrofisica e l’Università della Calabria, il progetto viene inaugurato oggi.

Connettere telescopi, coinvolgere persone e osservare il cielo con un approccio collaborativo: è questa la missione di NOCTIS, il Network Osservativo Coordinato di Telescopi per l’Insegnamento e la Scienza. Il progetto, guidato da Silvano Tosi dell’Università di Genova in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e l’Università della Calabria, le cui unità di ricerca sono coordinate da Serena Benatti e Sandra Savaglio, rispettivamente. NOCTIS mira a creare una rete italiana di telescopi ottici automatici e robotici, distribuiti da nord a sud del Paese.

Con sei osservatori già attivi in Liguria, Toscana, Campania, Calabria e Sicilia, NOCTIS offrirà una copertura coordinata del cielo a livello nazionale, consentendo di monitorare fenomeni astronomici come i transiti di esopianeti, la variabilità stellare, i detriti spaziali e le esplosioni cosmiche. L’obiettivo è raccogliere dati scientifici utili e complementari a quelli raccolti con strumentazione tecnologicamente più avanzata, contribuendo a una visione più completa dell’universo.

La vera forza di NOCTIS, però, non è solo nella tecnologia, ma nelle persone. Attraverso il modello della citizen science, appassionati, studenti e curiosi potranno partecipare attivamente alle osservazioni e all’analisi dei dati, come spiega Serena Benatti dell’INAF di Palermo, coordinatrice dell’unità di ricerca di INAF per il progetto NOCTIS:

“Non serve essere scienziati per contribuire alla conoscenza del cosmo. Chiunque potrà raccogliere dati, analizzarli e persino diventare coautore di pubblicazioni scientifiche. Un modo per rendere tutti protagonisti della scienza”.

Serena Benatti, INAF di Palermo
Serena Benatti, INAF di Palermo

Oltre alla ricerca, infatti, NOCTIS punta a offrire opportunità educative, di formazione e divulgative. Sono previsti incontri pubblici, workshop e sessioni di osservazione guidata dai ricercatori del progetto e accessibili anche da remoto. Questa modalità permetterà a chiunque di familiarizzare con strumenti avanzati e di esplorare più a fondo i segreti del cielo.

“È incredibile pensare che un appassionato possa contribuire a scoprire nuovi mondi o monitorare eventi straordinari nell’universo” aggiunge Benatti, che prosegue: “Grazie a NOCTIS possiamo valorizzare il lavoro e la territorialità degli osservatori sparsi in Italia”.

L’attuale rete di telescopi è solo il punto di partenza. Altri osservatori in Italia si sono già dichiarati interessati a unirsi al progetto. Silvano Tosi, responsabile scientifico del progetto NOCTIS, evidenzia l’importanza del coinvolgimento pubblico:

“L’osservazione del cielo è un’attività che da sempre affascina persone di ogni età. Vogliamo offrire strumenti che permettano a tutti di partecipare, valorizzando le risorse locali e rafforzando il legame tra ricerca e società”.

NOCTIS non si limita a fare scienza: ambisce a ispirare e coinvolgere nuove generazioni, avvicinando sempre più persone alla ricerca astronomica. Il cielo diventa uno spazio condiviso, dove tecnologia, curiosità e conoscenza si incontrano:

“Contiamo sulla partecipazione di tanti appassionati in tutto il Paese – conclude Tosi – e siamo pronti a partire con grande entusiasmo”.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

Biosentinelle a due passi dalla Torre pendente: trovati 57 licheni (più un fungo non-lichenizzato) nell’Orto Botanico dell’Università di Pisa

Lo studio pubblicato sulla rivista Italian Botanist rivela una insolita concentrazione di questi organismi su una superficie ridotta, fra cui specie rare e a rischio estinzione

Sentinelle che monitorano la qualità dell’aria, purificandola dai metalli pesanti, sono i licheni, organismi simbiotici composti da almeno due partner diversi che traggono vantaggio l’uno dall’altro, in questo caso un fungo e un’alga. Nell’Orto Botanico dell’Università di Pisa, a due passi dalla Torre pendente, un gruppo di ricerca dell’Università di Pisa ha trovato una concentrazione inusuale di questi organismi, ben 57 licheni “epifiti”, che crescono cioè sulla corteccia degli alberi, più un fungo non-lichenizzato. Fra essi, ci sono anche specie rare e a rischio estinzione, alcune delle quali rinvenute per la prima volta in Toscana, mentre la presenza diffusa di licheni tolleranti all’azoto è probabilmente associata alle condizioni ambientali urbane.

Lo studio dell’Ateneo di Pisa, in collaborazione con l’Accademia delle Scienze Slovacca, è stato pubblicato sulla rivista Italian Botanist ed è partito da una tesi di laurea triennale in Scienze Naturali e Ambientali condotta da Giorgia Spagli, con la supervisione dei professori Luca Paoli e Lorenzo Peruzzi, botanici del Dipartimento di Biologia, e la collaborazione di Marco D’Antraccoli e Francesco Roma-Marzio, rispettivamente curatore dell’Orto Botanico e curatore dell’Erbario del Museo Botanico.

“In un recente studio è stato calcolato che nelle aree protette italiane ci si possono attendere circa 59 specie di licheni epifiti per km², mentre nel nostro caso, in contesto urbano e su una superficie di soli 0,02 km², ne sono state censite ben 57 – racconta Peruzzi – I giardini botanici nei centri urbani sono infatti isole verdi che offrono rifugio a diversi organismi animali e vegetali, compresi i licheni, che compaiono spontaneamente grazie alla diversità di micro habitat presenti e alla ricchezza di specie arboree”.

“I licheni sono fra i primi colonizzatori degli habitat anche se spesso passano inosservati – aggiunge Paoli – e tuttavia il ruolo che rivestono è molto importante: si tratta di organismi che possono fra l’altro essere utilizzati come biomonitor, una soluzione economica che può integrare le tradizionali centraline di rilevamento per valutare la qualità dell’aria e degli ecosistemi in generale”.

Fra le specie trovate, Arthopyrenia platypyrenia Coenogonium tavaresianum sono nuove segnalazioni per la Toscana. Il primo è un fungo non-lichenizzato di ridottissime dimensioni, poco noto e poco segnalato a livello europeo, in Italia questa specie era nota sinora solo in Calabria. A Pisa cresce sulla scorza di un esemplare di pittosporo (Pittosporum tobira). Coenogonium tavaresianum colonizza tipicamente boschi umidi della costa tirrenica, è una specie a rischio di estinzione, ma nell’Orto Botanico cresce abbondantemente sulla scorza di un esemplare di cedro della California (Calocedrus decurrens). Lecania cyrtellina, infine, è segnalato per la Toscana solo nell’Orto Botanico di Pisa, dove cresce sulla scorza di un vetusto esemplare di palma del Cile (Jubaea chilensis).

Riferimenti bibliografici:

Fačkovcová Z, Spagli G, D’Antraccoli M, Roma-Marzio F, Peruzzi L, Paoli L, Guttová A (2024) Islands of lichen diversity in urban environments: a hidden richness in botanical gardens, Italian Botanist 18: 245-258, DOI: https://doi.org/10.3897/italianbotanist.18.144373

Testo e foto dall’Ufficio stampa dell’Università di Pisa.

La salute degli invisibili: pubblicato uno studio sulla diffusione dell’epatite tra le comunità emarginate italiane in Toscana

Un team di ricercatrici e ricercatori delle Università di Pisa e Firenze ha condotto uno screening in Toscana su oltre 1800 persone

Con una serie di campagne di screening pluriennali su gruppi marginali della popolazione, un team di ricercatrici e ricercatori delle Università di Pisa e Firenze è riuscito a monitorare l’incidenza delle infezioni da epatite B (HBV) e C (HCV) tra le comunità più emarginate della Toscana, riscontrando prevalenze molto più alte della media nazionale e in soggetti di età molto giovane. Inoltre, grazie alla collaborazione e al filo diretto con unità assistenziali di Firenze, Empoli, Prato e Pistoia, i soggetti positivi hanno avuto accesso all’assistenza clinica e, se necessario, alla terapia. Lo studio, dal titolo “HBV and HCV testing outcomes among marginalized communities in Italy, 2019–2024: a prospective study”, è stato recentemente pubblicato sulla rivista “The Lancet Regional Health – Europe”, con corresponding author Laura Gragnani, ricercatrice del dipartimento di Ricerca traslazionale e delle nuove tecnologie in Medicina e Chirurgia dell’Università di Pisa, e prima autrice Monica Monti del Centro MaSVE dell’Università degli Studi di Firenze. Lo studio è stato finanziato da Gilead Science, Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia e dalla Regione Toscana.

Tra il 2019 e il 2024, con una sospensione dovuta alla pandemia di COVID-19, il gruppo di ricerca ha testato marcatori per le infezioni da HBV (antigene di superficie dell’HBV – HbsAg) e da HCV (anticorpi anti-HCV) in 1.812 soggetti che frequentano mense popolari, centri di accoglienza, scuole di italiano per stranieri nelle aree metropolitane di Firenze, Prato e Pistoia. Lo studio ha rilevato che il 4,4% dei partecipanti era positivo all’HBsAg, segno di infezione attiva, mentre il 2,9% presentava anti-HCV, indicativi di un’esposizione al virus. La positività a HBV era più frequente tra gli uomini (91%) e individui di origine non italiana, provenienti soprattutto da aree con basse coperture vaccinali. I partecipanti positivi a HCV includevano una maggiore proporzione di cittadini italiani (51,9%) con storie di marginalità estrema spesso legate ad un pregresso consumo di droghe per via endovenosa. Lo screening è stato effettuato direttamente presso le strutture di accoglienza, con test rapidi su sangue capillare e risultati disponibili in pochi minuti. Questa strategia ha garantito un’alta adesione, pari all’82%. Inoltre, la presenza di mediatori culturali e la collaborazione con gli operatori delle associazioni ha facilitato il collegamento dei pazienti positivi ai centri clinici locali. Il 66,3% dei positivi a HBV e il 37,8% di quelli a HCV hanno intrapreso un percorso di monitoraggio o cura, in base alle valutazione clinica. Tra i pazienti con infezione HCV attiva, tutti quelli trattati con farmaci antivirali hanno ottenuto la guarigione.

“Le infezioni da HBV e HCV possono evolvere in gravi patologie come la cirrosi e il tumore al fegato e molti dei soggetti colpiti non sono consapevoli della loro condizione fino alle fasi avanzate della malattia – spiega la dott.ssa Laura Gragnani  – Questo ritardo diagnostico è evidente nelle comunità marginali, che non sono raggiunte dai programmi di prevenzione e screening nazionali e regionali e che spesso incontrano barriere nell’accesso ai servizi sanitari, come la mancanza di informazioni, fiducia o risorse economiche. I risultati raggiunti col nostro studio dimostrano l’importanza di strategie di screening mirate per ridurre le disuguaglianze sanitarie, ridurre la circolazione di questi virus nell’intera comunità e raggiungere l’obiettivo dell’OMS di eliminare le epatiti virali come minaccia infettiva entro il 2030”.

Laura Gragnani
La salute degli invisibili: pubblicato su The Lancet Regional Health – Europe uno studio sulla diffusione dell’epatite tra le comunità emarginate italiane in Toscana. In foto, Laura Gragnani

“Questa ricerca – aggiunge Monica Monti – ha inoltre evidenziato l’importanza di ‘agganciare’ e curare i soggetti marginali che spesso non accedono ai canali ufficiali di assistenza sanitaria”.

Allo studio hanno partecipato anche la professoressa Gabriella Cavallini e la dottoressa Maria Laura Manca dell’Ateneo pisano e la professoressa Anna Linda Zignego, docente in pensione dell’Università degli Studi di Firenze, direttrice del Centro MaSVE fino all’ottobre 2023.

 

Testo e foto dall’Ufficio stampa dell’Università di Pisa.

Fiumi e torrenti: grazie all’intelligenza artificiale ora è possibile prevedere le alluvioni fino a sei ore di anticipo

Lo studio dell’Università di Pisa e del Consorzio di Bonifica Toscana Nord pubblicato su Scientific Reports

 

Nuovi modelli previsionali basati sull’intelligenza artificiale consentono di prevedere fino a sei ore di anticipo le alluvioni provocate da fiumi minori e torrenti, corsi d’acqua che sono ad oggi i più difficili da gestire e monitorare. La notizia arriva da uno studio dell’Università di Pisa e del Consorzio di Bonifica Toscana Nord pubblicato su Scientific Reports, rivista del gruppo Nature.

“Le forti precipitazioni concentrate in breve tempo e su aree ristrette rendono difficile la gestione dei corsi d’acqua minori, dove la rapidità di deflusso delle acque piovane aumenta il rischio di piene improvvise, basti pensare agli eventi alluvionali avvenuti nel novembre 2023 nella provincia di Prato dove sono esondati i torrenti Furba e Bagnolo e, più recentemente, a quelli che hanno colpito la Valdera e la provincia di Livorno” spiega Monica Bini, professoressa del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa che ha coordinato la ricerca.

I modelli predittivi basati sull’intelligenza artificiale sono stati addestrati a partire dalla banca dati pluviometrica e idrometrica fornita del Servizio Idrologico Regionale della Toscana. Il passo successivo sarà quindi di sviluppare software semplici e facili da usare per anticipare le criticità dei corsi d’acqua e di mitigare i danni.

“L’intelligenza artificiale si è rivelata uno strumento prezioso per dare preallerta in piccoli bacini anche con sei ore di anticipo, ma resta fondamentale che le decisioni operative siano sempre supervisionate da esperti,” ha sottolineato il dottor Marco Luppichini, primo autore dell’articolo e assegnista di ricerca del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Ateneo pisano.

“La disponibilità di dati pluviometrici forniti dal Servizio Idrologico Regionale e il finanziamento del Consorzio di Bonifica, per cui ringraziamo il presidente Ismaele Ridolfi, sono stati fondamentali per il successo della ricerca a cui  ha collaborato sempre per il Consorzio l’ingegnere Lorenzo Fontana – dice Monica Bini  – è per me inoltre motivo di orgoglio la partecipazione al lavoro di Giada Vailati, studentessa del corso di laurea magistrale in Scienze Ambientali del quale sono presidente, credo sia l’esempio tangibile di come il corso affronti tematiche di estrema attualità e come i nostri studenti possano da subito diventare protagonisti di ricerche internazionali e incidere sulla gestione del territorio”.

“È un risultato che ci rende orgogliosi del lavoro fatto e della collaborazione stretta in questi anni con un’eccellenza come il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa – sottolinea il presidente del Consorzio di Bonifica Toscana Nord, Ismaele Ridolfi – In queste settimane, l’emergenza climatica in atto ha dato una terribile dimostrazione degli effetti disastrosi che può avere sulle nostre vite con i casi di Emilia-Romagna, Marche, la stessa Toscana fino ad arrivare alle più recenti alluvioni che hanno colpito la Spagna e in particolare il territorio di Valencia. Oltre alle necessarie manutenzioni ordinarie e alle opere straordinarie per ridurre il rischio, abbiamo il dovere di sfruttare al meglio i nuovi strumenti in grado di prevedere il prima possibile eventi pericolosi e gli eventuali effetti sui nostri territori. La collaborazione continuerà – conclude Ridolfi -, grazie alla nuova convenzione sottoscritta nei mesi scorsi, per approfondire il tema ed estendere gli studi ad altri corsi d’acqua”.

Monica Bini e Ismaele Ridolfi
Monica Bini e Ismaele Ridolfi

Riferimenti bibliografici:

Luppichini, M., Vailati, G., Fontana, L. et al. Machine learning models for river flow forecasting in small catchments, Sci Rep 14, 26740 (2024), DOI: https://doi.org/10.1038/s41598-024-78012-2

Testo e foto dall’Ufficio stampa dell’Università di Pisa.

Progetto Encompass: Italia e Cina insieme per studiare la contaminazione da microplastiche nei terreni agricoli e nelle acque sotterranee

Il progetto Encompass è coordinato dall’Università di Pisa e finanziato Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, la sperimentazione sul campo in provincia di Pisa

La contaminazione da microplastiche nei terreni agricoli e nelle acque sotterranee è un problema nuovo e relativamente poco studiato, con effetti ancora non del tutto chiari dal punto di vista dell’ambiente e della salute. Definire nuovi protocolli per affrontare il fenomeno è la sfida del progetto Encompass che unisce nell’impegno Italia e Cina con l’Università di Pisa come capofila e fra i partner l’Università tecnologica di Shenzhen e l’Istituto Orientale di Tecnologia (Eastern Institute of Technology) di Ningbo. La sperimentazione sul campo avverrà sia in Cina che in Italia, precisamente nella zona della bonifica di Massaciuccoli, nel comune di Vecchiano (Pisa).

“La contaminazione da microplastiche nei suoli agricoli ha potenzialmente conseguenze molto serie per le produzioni alimentari, la biodiversità e il benessere degli ecosistemi terrestri in generale – spiega il professore Valter Castelvetro del dipartimento di Chimica e Chimica Industriale dell’Ateneo pisano – A tutt’oggi non esistono protocolli analitici validati e condivisi per gestire il fenomeno, anche a perché è molto difficile isolare le microplastiche dai suoli”.

L’obiettivo di Encompass è dunque condividere e sviluppare nuovi protocolli analitici per determinare quantità e tipologia di microplastica presente nei suoli e nelle acque sotterranee. Le metodologie riguarderanno sia la quantificazione numerica, cioè il numero e la natura delle particelle polimeriche, sia la massa per tipologia di polimero, calcolata quest’ultima secondo una procedura ideata e validata all’Università di Pisa. L’ambizione è inoltre di mettere a punto modelli su scala per studiare in laboratorio il processo di trasporto delle microplastiche dalla superficie alle falde acquifere attraverso le diverse tipologie di suolo.

L’impatto che deriva dal crescente inquinamento da materie plastiche, e conseguentemente da microplastiche, sulla produttività dei suoli agricoli, sul benessere degli ecosistemi naturali e sulla biodiversità potrebbe essere molto grave nei prossimi anni, anche in considerazione dei possibili effetti sinergici con le alterazioni climatiche, lo sfruttamento intensivo dei suoli e la depauperazione delle importantissime riserve di acqua sotterranea – sottolinea Castelvestro – Conoscere il problema è un passo fondamentale per poterne comprendere le conseguenze e studiare possibili soluzioni o mitigarne gli effetti”.

Progetto Encompass:Italia e Cina insieme per studiare la contaminazione da microplastiche nei terreni agricoli e nelle acque sotterranee. Nella gallery, le immagini del primo campionamento nella zona della bonifica di Massaciuccoli, nel comune di Vecchiano (Pisa)

Encompass è stato finanziato fra i Progetti di Grande Rilevanza del Programma esecutivo di Cooperazione scientifica e tecnologica bilaterale tra Italia (MAECI, Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale) e Cina (MOST, Ministry of Science and Technology).

Per l’Università di Pisa, il progetto è gestito tramite il Centro per l’Integrazione della Strumentazione scientifica (CISUP) e vede coinvolti ricercatori del Dipartimento di Chimica e Chimica Industriale e del Dipartimento di Scienze della Terra. Collaborano a Encompass: Valter Castelvetro, Andrea Corti, Stefania Giannarelli, Antonella Manariti, Jacopo La Nasa, Laura Pacilio, Riccardo Gherardini, Alessio Monnanni, Riccardo Petrini, Roberto Giannecchini, Viviana Re e Stefano Viaroli.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa

Perché e come giocano i puledri? Studio su cavalli semi-bradi del Parco Migliarino-San Rossore-Massaciuccoli in Toscana

La ricerca del Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa fa luce sul comportamento dei cavalli allo stato naturale, condizione di cui si sa molto poco

Un branco di cavalli allo stato semi-brado del Parco Migliarino-San Rossore-Massaciuccoli in Toscana è stato al centro di una ricerca dell’Università di Pisa. L’obiettivo era di capire la funzione e le strategie di gioco nei puledri allo stato naturale, una condizione molto poco studiata in questi animali. La ricerca pubblicata sulla rivista Applied Animal Behaviour Science è stata coordinata dalla professoressa Elisabetta Palagi del Dipartimento di Biologia.

“Le prime prove di domesticazione dei cavalli risalgono a circa 6.000 anni fa. Da allora, i cavalli sono stati principalmente utilizzati come animali da lavoro e, in tempi più recenti, sono diventati anche uno dei nostri animali domestici preferiti con i quali molte persone riescono a stabilire legami speciali – ha detto Elisabetta Palagi – Nonostante l’impatto economico e sociale che questo animale ha per tutti noi, si sa poco circa il suo comportamento allo stato naturale. La maggior parte degli studi riguarda cavalli in stalla e spesso sono rivolti a risolvere i problemi del cavaliere più che del cavallo”.

Le ricercatrici Veronica Maglieri e Giuliana Modica dell’Università di Pisa e Chiara Scopa dell’Università di Parma, guidate da Elisabetta Palagi, hanno registrato e analizzato i comportamenti di 13 puledri dalla nascita fino a sei mesi di età. Dai risultati è emerso che i diversi tipi di gioco dipendono non solo dalle diverse fasi di sviluppo del puledro, ma anche dall’ambiente sociale in cui questo cresce.

Così come accade anche nei nostri bambini, il gioco si fa sempre più complesso con il passare del tempo – spiega Palagi – I giochi solitari, come mordere e lanciare oggetti o saltare, scalciare e girare su sé stessi, e quelli rivolti alla madre (che spesso fa molta fatica a rispondere!) compaiono e si affermano molto precocemente, suggerendo come esplorazione ed esercizio fisico già nei primi giorni di vita siano cruciali per raggiungere un certo livello di maturazione psicomotoria”.

Attraverso il gioco, i puledri mettono alla prova le proprie capacità e saggiano quelle dei loro coetanei, utilizzando tecniche di autocontrollo e riduzione della tensione quando necessario. I puledri di madri di alto rango, cioè con una posizione dominante all’interno del branco, erano inoltre più coinvolti nel gioco sociale ed erano capaci di migliore autocontrollo quando giocavano con puledri di madri di basso rango. Questa capacità migliorava la reciproca partecipazione al gioco, creando le premesse per sessioni più appaganti ed efficaci. Inoltre, i giochi erano spesso intervallati da reciproche toelettature del pelo (grooming) che contribuivano a prolungare le interazioni ludiche. Sembra quindi che il gioco nei puledri non sia legato alla necessità di migliorare la propria posizione gerarchica nel gruppo, peraltro già ereditata dalle madri.

“Negli esseri umani e nelle grandi scimmie non esiteremmo ad attribuire tali tattiche a competenze cognitive complesse – conclude Palagi – Sebbene siamo lontani dall’essere in grado di comprendere appieno il ruolo della cognizione nel gioco sociale, è giunto il momento di considerare altre specie modello, come il cavallo appunto, se vogliamo ipotizzare nuovi scenari sull’evoluzione del comportamento ludico nei mammiferi. Questa tipologia di studio aiuta a capire meglio le tappe naturali di sviluppo e di complessità di questi meravigliosi animali e le informazioni che ne derivano possono essere utilizzate per migliorarne la gestione anche nelle scuderie”.

cavalli a San Rossore
Perché e come giocano i puledri? In foto, cavalli a San Rossore

Elisabetta Palagi è professoressa associata al dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa. I suoi interessi di studio riguardano il comportamento sociale in varie specie animali, uomo incluso, in particolare la comprensione dell’evoluzione di alcuni comportamenti come il gioco, i meccanismi di risoluzione dei conflitti e le capacità empatiche alla base della vita sociale. Nel 2020, ha ricevuto il premio dall’Animal Behavior Society per i risultati conseguiti grazie ai suoi studi sul comportamento animale. Veronica Maglieri è assegnista di ricerca del dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa. Studia il comportamento sociale in numerose specie di mammiferi, uomo incluso. Nel 2021 si aggiudica il Pineapple Science Awards per la PsicologiaChiara Scopa è dottoranda dell’Università di Parma, esperta di meccanismi di mimica facciale nei primati (uomo incluso) e cultrice della materia presso il dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa. Collabora da numerosi anni con il gruppo di ricerca di Elisabetta Palagi. Giuliana Modica, studentessa presso l’Università di Pisa, ha conseguito la laurea in Conservazione ed Evoluzione al Dipartimento di Biologia con una tesi sul comportamento di gioco nel cavallo.

gruppo di ricerca
il gruppo di ricerca: da sinistra a destra Veronica Maglieri, Giuliana Modica, Elisabetta Palagi, Chiara Scopa nel giorno della laurea di Giuliana

Testo e foto dall’Unità Comunicazione Istituzionale dell’Università di Pisa.

Coste toscane, studio sulla presenza di microplastiche nelle telline

La ricerca coordinata dall’Università di Pisa in collaborazione con l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Lazio e della Toscana, Università degli Studi di Messina, Istituto per i Processi Chimico-Fisici (IPCF) del CNR.

Strumentazione per analisi microplastiche
Strumentazione per analisi microplastiche

Pisa, 28 maggio 2024 – Il FishLab dell’Università di Pisa ha condotto uno studio sulla presenza di microplastiche nelle telline (specie Donax trunculus) sulle coste toscane da cui non emergono rischi legati al consumo di questo alimento. La ricerca è stata realizzata in collaborazione con l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Lazio e della Toscana, l’Università degli Studi di Messina e l’Istituto per i Processi Chimico-Fisici (IPCF) del CNR di Messina.

I ricercatori hanno esaminato cinque siti lungo la costa toscana, da Viareggio a Tirrenia, da febbraio a dicembre 2021. Nei campioni analizzati, sono stati trovati 85 frammenti riconducibili a microplastiche. Successivamente, un’analisi più approfondita ha confermato la natura plastica solo per una parte di essi. In base a questa stima, i consumatori di telline potrebbero essere esposti ad una quantità molto esigua rispetto a quella che ingerirebbero consumando altre tipologie di alimenti; ad esempio, è stato dimostrato che il sale e l’acqua stessa  ne contengono una quantità decisamente più elevata.

Le microplastiche sono ubiquitarie in ogni ambiente, per assumerle basta lasciare un bicchiere su un tavolo prima di berlo – spiega il professore Andrea Armani del dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università di Pisa – in base ai dati emersi e alle conoscenze attualmente disponibili, non ci sono rischi legati al consumo di telline, anche per le basse quantità di consumo di questo alimento”.

La presenza di microplastiche è stata documentata a tutti in tutti gli habitat marini, dagli oceani aperti ai mari chiusi, dalle spiagge, alle acque superficiali, in tutta la colonna d’acqua fino ai fondali più profondi. Le dimensioni ridotte che le caratterizzano facilitano il loro trasporto a lunga distanza attraverso le correnti. Si tratta infatti di particelle di polimeri plastici di dimensioni comprese tra 0,1 µm e 5 mm, prodotte tal quali a livello industriale (microplastiche primarie) o derivate dalla frammentazione di oggetti in plastica più grandi (microplastiche secondarie) a seguito del loro utilizzo (es. tessuti, vernici, pneumatici) o per opera di agenti atmosferici (raggi UV, temperature). Una volta fatto il loro ingresso nell’ecosistema marino possono essere facilmente ingerite da molti organismi, entrando così nella catena alimentare, sino agli esseri umani. I molluschi bivalvi (come mitili, ostriche, vongole e capesante), essendo filtratori, sono spesso utilizzati per valutare l’inquinamento da microplastiche negli ambienti marini. Se consumati come alimenti, possono pertanto rappresentare una fonte di esposizione alle microplastiche per l’uomo.

“L’esposizione umana alle microplastiche è molto diversa tra paese e paese a causa delle differenze geografiche e culturali legate al consumo dei molluschi bivalvi – conclude Armani – Un rischio elevato, calcolato sulla base del consumo annuo di molluschi bivalvi e della quantità media di microplastiche per grammo, è stato riscontrato in Cina e Corea del Sud, mentre a livello europeo sono stati riscontrati rischi maggiori in Francia e Grecia”.

La ricerca pubblicata sulla rivista Animals è stata finanziata dal Ministero della Salute italiano, dall’Unione Europea grazie al fondo NextGeneration EU e attraverso il progetto SAMOTHRACE del Ministero dell’Università e della Ricerca.

Il FishLab dell’Ateneo pisano è impegnato da anni in attività di ricerca che affrontano problematiche inerenti la sicurezza e la tracciabilità dei prodotti della pesca. La ricerca si inserisce nella visione One Health che vede uomo, animali e ambiente strettamente interconessi.

Foto di gruppo:da sinistra Gabriele Spatola, Andrea Armani, Giusti Alice e Tinacci Lara
Foto di gruppo:da sinistra Gabriele Spatola, Andrea Armani, Giusti Alice e Tinacci Lara

 

Testo e immagine dall’Unità Comunicazione Istituzionale dell’Università di Pisa.

Arriva la prima membrana bio-ispirata che rende potabili le acque contaminate da arsenico

Lo studio dell’Università di Pisa in collaborazione con l’Università della Calabria e l’Istituto per la Tecnologia delle Membrane del CNR pubblicato sulla rivista Nature Water

Per la prima volta sarà possibile rendere potabile l’acqua contaminata da arsenico grazie ad una innovativa membrana. La notizia arriva da una ricerca pubblicata sulla rivista Nature Water (della collana Nature Portfolio) e realizzata dall’ateneo pisano in collaborazione con l’Università della Calabria e l’Istituto per la Tecnologia delle Membrane del CNR.

La chiave di tutto è in un “monomero”, cioè una molecola che può essere incorporata in un polimero, che è stato sintetizzato nel gruppo “Liquidi Ionici” del Dipartimento di Farmacia dell’Ateneo pisano formato dai professori Christian Silvio Pomelli Lorenzo Guazzelli. In particolare, la struttura del monomero è stata ispirata dal modo in cui l’arsenico interagisce con le proteine negli esseri viventi.

“Abbiamo incorporato il monomero all’interno di una membrana polimerica con cui sono stati realizzati i filtri che, a livello di laboratorio, si presentano come dei dischetti porosi attraverso i quali viene filtrata l’acqua – dice Lorenzo Guazzelli – Rispetto ad ogni altro sistema esistente, questa particolare membrana è in grado di rimuovere selettivamente l’arsenico senza privare l’acqua di altri sali fondamentali. L’acqua così filtrata non viene demineralizzata e diventa quindi potabile e direttamente adatta per il consumo umano”.

Lorenzo Guazzelli
Lorenzo Guazzelli

L’arsenico è uno degli elementi più tossici presenti in natura ed è stato classificato cancerogeno di classe 1 dall’OMS, che ne ha anche stabilito il limite massimo accettabile nelle acque potabili in 10 microgrammi per litro (μg/L).

La contaminazione di fiumi e laghi può dipendere dall’inquinamento o avere cause naturali, specie nelle aree vulcaniche dove le acque passano su rocce che rilasciano questo elemento chimico. I bacini del Gange e del Brahmaputra in India sono fra le regioni più vaste del pianeta interessate da questo problema. Ma l’acqua contaminata da arsenico è un problema anche in Italia e, per esempio, riguarda quasi un milione di persone fra Toscana e Lazio.

“Dal punto di vista chimico l’arsenico si presenta in diverse forme – dice Christian Silvio Pomelli – la membrana sviluppata nell’ambito del nostro studio si è dimostrata particolarmente efficace anche nei confronti dell’arsenico III o arsenito, che in generale è anche la forma più difficile da rimuovere e la più tossica”.

Christian Silvio Pomelli
Christian Silvio Pomelli

L’arsenico è uno dei dieci contaminanti con il maggior impatto ambientale secondo la World Health Organization. La disponibilità di acqua potabile di buona qualità è sempre di più un tema all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale. La ricerca che ha portato alla realizzazione della membrana è iniziata nel 2017 ed è andata estendendosi negli anni anche per la necessità di coordinare i tanti ricercatori sparsi in diversi continenti. Per affrontare la questione a livello globale, la collaborazione è stata infatti estesa in campo internazionale arrivando ad assemblare un gruppo di lavoro di dimensione planetaria. Per l’Italia, oltre all’Università di Pisa, hanno collaborato il professore Bartolo Gabriele e la professoressa Raffaella Mancuso del Dipartimento di Chimica e Tecnologie Chimiche dell’Università della Calabria, e il gruppo di ricerca di Alberto Figoli Francesco Galiano dell’Istituto per la Tecnologia delle Membrane del CNR di Rende (CS).

L’articolo sulla prima membrana bio-ispirata che rende potabili le acque contaminate da arsenico, pubblicato su Nature Water, è dedicato alla memoria della professoressa Cinzia Chiappe (1960-2019), fondatrice del gruppo “Liquidi Ionici” e figura importante nel campo della Green Chemistry in campo italiano ed internazionale.

 

Testo e foto dall’Unità Comunicazione Istituzionale dell’Università di Pisa.