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STUDIO INTERNAZIONALE GUIDATO DA UNITO: PERCHÉ L’ITALIA È UNA “PENISOLA FELICE” PER RANE E SALAMANDRE

Il lavoro dei paleontologi mette in relazione i cambiamenti climatici avvenuti negli ultimi milioni di anni con la distribuzione di rettili e anfibi nell’Europa meridionale. È necessario monitorare con attenzione la salute degli anfibi italiani e concentrare gli sforzi di conservazione sulla nostra penisola, anche considerata l’elevatissima sensibilità di questi animali al cambiamento climatico in atto.

 

Un lavoro frutto di una collaborazione internazionale che vede coinvolti esperti paleontologi delle Università di Torino e di Firenze, ma anche dell’Università di Helsinki e dell’Istituto Catalano di Paleontologia Miquel Crusafont, ha messo in luce le correlazioni tra gli eventi climatici degli ultimi 3-4 milioni di anni e la distribuzione odierna di rettili e anfibi nell’Europa mediterranea. Secondo il recente studio, pubblicato su Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology, la maggiore umidità relativa avrebbe permesso ad anfibi come le salamandre di trovare nella Penisola Italiana un rifugio accogliente in cui poter sopravvivere. Al contrario, eventi di freddo estremo non hanno permesso la sopravvivenza di alcuni rettili che oggi troviamo ancora nella Penisola Iberica e nei Balcani, ma non più in Italia.

Il gruppo di paleoerpetologi del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino, guidato dal Prof. Massimo Delfino, si occupa da anni di ricostruire la biogeografia del passato delle diverse specie di anfibi e rettili che vivono nel nostro territorio (e non solo).

Una solida conoscenza del record fossile è l’unica base possibile per avere accesso diretto alla storia passata degli organismi che ci circondano – spiega il Prof. Delfino – e di conseguenza indagare le loro reazioni ai cambiamenti climatici già avvenuti sulla Terra”.

Lo studio ha evidenziato come la Penisola Italiana abbia perso nel periodo di tempo considerato numerose specie di rettili che in passato la abitavano e che oggi si ritrovano ancora nelle penisole Balcanica e Iberica. Tra questi, lo pseudopo (Pseudopus apodus) e lo stellione (Stellagama stellio) o un loro parente stretto. Questo è dovuto ad alcuni intervalli di poche decine di migliaia di anni caratterizzati da un clima particolarmente inadatto a questi rettili nella nostra penisola, laddove invece le aree più meridionali di Balcani e Iberia hanno mantenuto condizioni meno avverse.

Diversamente dai rettili, la distribuzione degli anfibi, e in particolare delle salamandre, è maggiormente controllata dai livelli di precipitazioni e quindi di umidità. Il maggior grado di umidità ricostruito dagli autori per il territorio italiano ha, pertanto, determinato la presenza di un rifugio particolarmente ospitale per gli anfibi durante i periodi “difficili” degli ultimi 3 milioni di anni.

Queste condizioni più umide sono testimoniate sia da analisi di modellizzazione della nicchia climatica sia da indagini parallele fondate sull’utilizzo del record fossile di altri gruppi (come i mammiferi e le piante) per ricostruire i livelli di precipitazione del passato.

Quanto si osserva per la distribuzione degli anfibi è valido anche per alcune specifiche piante del passato, che richiedevano la presenza di estati umide”, osservano i paleobotanici Prof. Edoardo Martinetto (Università di Torino) e Prof.ssa Adele Bertini (Università di Firenze). “E non è escluso che pattern simili si possano osservare anche in gruppi diversi, soprattutto di organismi legati ad ambienti di acqua dolce”, aggiunge il Prof. Giorgio Carnevale (Università di Torino).

Ho creduto molto in questo lavoro, perché penso che il record fossile abbia molto da dirci e che guardando al passato possiamo mettere in prospettiva gli eventi che accadono sotto i nostri occhi”, sottolinea la Dott.ssa Loredana Macaluso, prima autrice dell’articolo e attualmente ricercatrice alla Università Martin Luther University Halle-Wittenberg in Germania, che ha svolto il suo dottorato su questo tema presso il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino. “Il contributo di diverse branche della paleontologia e la collaborazione tra diversi esperti sono stati fondamentali per avere il quadro completo, consentendo l’unione di tutti i pezzi del puzzle. Proprio in considerazione della loro particolare storia evolutiva e biogeografica, le salamandre dovrebbero essere fra i nostri simboli e orgogli naturalistici, visto che la loro biodiversità nel nostro paese rappresenta un unicum a livello europeo e mondiale, con molte specie endemiche (e dunque esclusive del nostro territorio). Dovremmo capire che abbiamo una responsabilità molto alta riguardo la loro conservazione e che dovremmo iniziare a preoccuparcene seriamente”.

Italia, “penisola felice” per rane e salamandre. Gallery

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

CIPROMED, IL PROGETTO DI UTILIZZO CIRCOLARE E INCLUSIVO DELLE PROTEINE ALTERNATIVE NELL’AREA MEDITERRANEA

La siccità e i deficit ecologici stanno peggiorando l’autosufficienza delle filiere proteiche tradizionali. L’iniziativa mira a ridurre il rischio per i Paesi del Mediterraneo di dipendere dalle fonti proteiche importate.

Il team del progetto CIPROMED
Il team del progetto CIPROMED

Il 5 e 6 giugno si è svolto il kickoff meeting del progetto “CIPROMED- Circular and Inclusive utilisation of alternative PROteins in the MEDiterranean value chains”, finanziato dal programma di ricerca congiunto PRIMA. Il progetto, di durata triennale (giugno 2023 – giugno 2026), vede la partecipazione di ricercatori italiani dell’Università degli Studi di Torino del Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari (DISAFA) e del Dipartimento di Scienze Veterinarie (DSV).

Il progetto, coordinato dall’Università di Thessaly (Grecia), vede la partecipazione di 17 partner appartenenti a 10 paesi diversi. Il budget totale del progetto è pari a € 4.738.918,81€, di cui 350.354,69€ destinati a UniTo. Il referente scientifico per l’Ateneo torinese è la professoressa Laura Gasco.

Gli attuali sistemi di produzione agricola europei sono fortemente dipendenti dalle importazioni di proteine per coprire il fabbisogno nutrizionale dell’acquacoltura e dell’allevamento, ma anche per il consumo umano. Questa problematica interessa in particolar modo la regione mediterranea, dove la siccità e i deficit ecologici stanno peggiorando l’autosufficienza delle filiere proteiche tradizionali. L’UE ha urgentemente bisogno di fonti proteiche alternative efficienti, praticabili e prodotte localmente.

La maggior parte dei sistemi agricoli produce un’enorme quantità di sottoprodotti e scarti agroalimentari. Si stima che ogni anno vada perso il 27% della nostra produzione agricola, che corrisponde a 1,6 miliardi di tonnellate su base globale, per un valore di 750 miliardi di dollari all’anno. Allo stesso modo, un terzo di tutto il cibo prodotto per il consumo umano va perso o sprecato. Queste perdite rappresentano un grande risorse non sfruttate e sottovalutate.

L’obiettivo principale del progetto CIPROMED è quello di aumentare la stabilità e la resilienza dei sistemi di produzione agroalimentare del Mediterraneo attraverso lo sfruttamento diretto delle colture tradizionali prodotte localmente, nonché valorizzando le proteine dei prodotti secondari agroindustriali generati a livello locale (ad esempio, i cereali esausti dei produttori di birra o i panelli di semi oleosi), l’upcycling e la bioconversione dei loro residui di estrazione in proteine prodotte da insetti, legumi e microrganismi da utilizzare ulteriormente nei settori agroalimentare e dei mangimi.

CIPROMED utilizzerà un approccio multi-soggettivo, in cui insetti e microalghe saranno prodotti sfruttando i residui agroindustriali e i flussi secondari di estrazione come substrati, applicando tecniche di allevamento e coltivazione innovative per ottenere rese proteiche più elevate. Per chiudere il cerchio, gli scarti di allevamento (denominati “frass”) degli insetti saranno utilizzate come fertilizzante per la produzione di legumi (lupini e fave). Ingredienti proteici di alta qualità da residui agroindustriali, insetti, legumi e microalghe saranno estratti per applicazioni alimentari e mangimistiche attraverso processi di estrazione sostenibili dal punto di vista economico e ambientale.

Per raggiungere la circolarità, i residui generati dai processi di estrazione saranno integrati nelle diete formulate per l’allevamento degli insetti e la coltivazione eterotrofa delle microalghe, riducendo al minimo le quantità residue. La fermentazione microbica sarà utilizzata per migliorare la gamma, la stabilità e la funzionalità salutistica delle nuove proteine. Tutti gli ingredienti proteici saranno completamente caratterizzati, in termini di valore nutrizionale, proprietà funzionali, biologiche e di sicurezza. Sulla base dei risultati ottenuti, verranno formulati e convalidati nuovi prototipi di alimenti e mangimi contenenti i nuovi ingredienti proteici, utilizzando tecnologie di lavorazione avanzate e ottimizzate.

CIPROMED mira a ridurre il rischio per i Paesi del Mediterraneo di dipendere dalle fonti proteiche importate e aiuterà i Paesi partecipanti a fare maggiore affidamento sulle fonti di nutrimento prodotte localmente. La sfida sarà adattare la produzione di nuove proteine alle condizioni uniche del Mediterraneo, creando un nuovo sistema di produzione di proteine socio-economicamente fattibile e sostenibile dal punto di vista ambientale.

CIPROMED cercherà di raccogliere le percezioni/preferenze dei consumatori sui nuovi tipi di alimenti e mangimi nella regione mediterranea, tenendo conto anche delle peculiarità religiose e delle differenze demografiche di ciascun Paese partecipante. A differenza dell’agricoltura convenzionale, la produzione delle più comuni specie di insetti e di microalghe eterotrofe allevate a livello commerciale su mangimi di sottoprodotti è caratterizzata da emissioni di gas a effetto serra notevolmente ridotte (30-50% in meno), avendo quindi un minore impatto ambientale e un contributo al riscaldamento globale.

CIPROMED si concentrerà sul miglioramento della salute umana attraverso la progettazione e la valutazione di diete alternative a base di proteine che mireranno ai sistemi metabolici e immunitari e promuoveranno la salute umana. I Paesi mediterranei dovranno passare a sistemi agricoli con un uso più efficiente delle risorse naturali.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

INTUBAZIONE VIDEO-ASSISTITA DEL PAZIENTE CRITICO: NUOVO STUDIO DI RICERCATORI UNITO DIMOSTRA L’EFFICACIA DEL VIDEOLARINGOSCOPIO

Il lavoro del team di Anestesia Rianimazione del San Luigi – Università di Torino pubblicato sul British Journal of Anesthesia, la più importante rivista di settore. I risultati sono di grande importanza perché aprono la strada a un utilizzo sistematico della videolaringoscopia, non solo in anestesia ma anche nel paziente critico.

videolaringoscopio intubazione tracheale paziente critico
Un videolaringoscopio. Foto di DiverDave, CC BY 3.0

L’intubazione tracheale è una delle più frequenti manovre eseguite sia in anestesia che in rianimazione per assicurare le vie aeree e consentire l’avvio della ventilazione artificiale. Nel paziente critico, a causa delle compromissioni delle condizioni di base (shock, insufficienza respiratoria) questa manovra può associarsi a gravi complicanze.

Un team di ricercatori, coordinato dal dott. Vincenzo Russotto, ricercatore del Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino e rianimatore presso l’AOU San Luigi Gonzaga, e dal prof. Pietro Caironi, Direttore dell’UOC di Anestesia e Rianimazione del San Luigi e docente dello stesso Ateneo, ha appena messo in luce il ruolo del videolaringoscopio per l’intubazione del paziente critico attraverso una analisi di quasi 3.000 pazienti inclusi nello studio INTUBE, che ha valutato la pratica della gestione delle vie aeree nel mondo.

Il videolaringoscopio è un device già utilizzato da diversi anni in anestesia. A differenza del laringoscopio tradizionale, consente di visualizzare le vie aeree attraverso la visione indiretta fornita da una telecamera. Attraverso tale metodo, la visione è più agevole, consentendo di concludere l’intubazione in sicurezza anche nelle situazioni di maggior difficoltà anatomiche o quando la visione per via tradizionale è estremamente difficile (edema, sanguinamenti, presenza di neoformazioni).

In anestesia, diversi studi hanno dimostrato l’efficacia di questa nuova metodica. Nel paziente critico (terapia intensiva o pronto soccorso) l’evidenza scientifica a supporto del suo utilizzo è stata finora conflittuale, evidenziando originalmente una maggiore probabilità di complicanze quali ipotensione e desaturazione, verosimilmente associate al coinvolgimento di operatori non esperti nell’utilizzo della metodica video-assistita, la cui curva di apprendimento è differente rispetto alla metodica tradizionale.

Lo studio pubblicato dai ricercatori UniTo sulla più importante rivista del settore, British Journal of Anesthesia, ha studiato l’efficacia della videolaringoscopia nella popolazione inclusa nello studio INTUBE dimostrando che, a fronte di pazienti con condizioni cliniche predittive di una maggior difficoltà di intubazione, i pazienti sottoposti a tecnica video assistita con videolaringoscopia venivano più frequentemente intubati con successo al primo tentativo. Inoltre, pur trattandosi di pazienti critici in gravi condizioni, non si è osservata una maggior incidenza di eventi avversi. Questi risultati inattesi ed estremamente importanti sono stati confermati, tramite metodiche di statistica avanzata (inverse probability of treatment weighting) considerando anche tutti i possibili fattori di confondimento, inclusa l’esperienza degli operatori. È possibile che, negli anni, la crescente disponibilità di questo importante device abbia consentito agli operatori di acquisire maggiore competenza con la metodica video-assistita.

I risultati di questo studio sono di grande importanza perché aprono la strada ad un utilizzo sistematico della videolaringoscopianon solo in anestesia ma anche nel paziente critico, dove l’importanza dell’intubazione al primo tentativo è di fondamentale importanza, visto l’incremento notevole dei rischi qualora siano necessari più tentativi, garantendo così una maggior sicurezza nella cura di tali pazienti.

L’attività di ricerca del gruppo continua con due ulteriori studi multicentrici internazionali attualmente in corso, lo studio PREVENTION e lo studio STARGATE, entrambi coordinati ancora dal dott. Russotto e dal prof. Caironi. Il primo studio valuterà l’utilizzo della noradrenalina, un farmaco in grado di incrementare la pressione arteriosa, nella prevenzione del collasso cardiocircolatorio dopo intubazione nel paziente critico e il secondo si pone l’obiettivo ambizioso di descrivere lo stato dell’arte della gestione delle vie aeree durante anestesia nel mondo.

 

Link dello studio: https://www.bjanaesthesia.org/article/S0007-0912(23)00198-8/fulltext

 

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

L’INQUINAMENTO MARINO DA PLASTICA AL CENTRO DEL REPORTAGE E MOSTRA FOTOGRAFICA ESPLORAZIONI NELLA PLATISFERA 

Domanigiovedì 25 maggio, alle ore 17.00, presso l’Orto della Scuola di Management ed Economia (C.so Unione Sovietica n. 218 bis) si terrà l’inaugurazione di “Esplorazioni nella plastisfera”, la nuova mostra fotografica promossa dal Dipartimento di Economia, Studi Sociali, Matematica Applicata e Statistica dell’Università di Torino.

Esplorazioni nella platisfera Locandina
la locandina del reportage e mostra fotografica Esplorazioni nella platisfera

Organizzata dal team di ricerca della Prof.ssa Chiara Certomà, la mostra propone una prospettiva non convenzionale su uno dei temi più cogenti del nostro tempo, ovvero l’inquinamento marino da plastica, indagando visivamente le nuove ecologie ibride che emergono sulla “plastisfera”, un insieme di organismi che colonizzano la plastica (biofilm, organismi che si attaccano tra loro e altre cose), inclusi batteri e funghi ed ecosistemi complessi, che si sono evoluti per vivere su microplastiche, e vari detriti antropici in ambienti marini (tra cui relitti, reti fantasma, infrastrutture e siti inquinati).

Esplorazioni nella platisfera

Durante una spedizione fotografica subacquea, il fotografo Giuseppe Lupinacci/Raw News, con il supporto tecnico del video-maker indipendente Federico Fornaro, direttore della Lega Navale Italiana-Anzio e dell’agenzia di stampa Raw-News, e Davide Rinaldi, direttore del diving center “Capo D’Anzio”, ha prodotto un reportage fotografico in 16 sorprendenti scatti che documenta le ecologie emergenti e le biologie ricombinanti della plastifera nel Mediterraneo, un bacino semichiuso circondato da sorgenti di plastica con concentrazioni di plastica e paragonabile alle più grandi zone di accumulo del mondo.

La documentazione visiva supporta il lavoro emergente dei geografi critici su come nuovi assemblaggi ibridi stiano rimodellando e risignificando i sistemi ecologici di supporto alla vita costruendo sulla semiotica materiale di assemblaggi più che umani.

Gli scatti di Lupinacci saranno esposti in sedi nazionali e internazionali, in concomitanza con la presentazione del lavoro di ricerca della Prof.ssa Certomà condotto presso l’Università di Torino.

La mostra infatti si trasferirà a Palma de Mallorca, Milano, Londra, Anzio per poi ritornare nel 2024 nella sede del Dipartimento di Economia, Studi Sociali, Matematica Applicata e Statistica di UniTo.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

Come i soggetti in invecchiamento sano e attivo hanno risposto positivamente alla pandemia; la ricerca UniTO pubblicata su Scientific Reports

Per la popolazione in healthy aging le funzioni cognitive sono rimaste pienamente preservate (memoria e attenzione) mentre altre, come la cognitività globale, le funzioni esecutive e il linguaggio, sono addirittura migliorate.

Il gruppo di ricerca coordinato dalla Prof.ssa Martina Amanzio del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Torino, in collaborazione con prestigiosi centri di ricerca (Scuola Universitaria Superiore – IUSS e Istituti Clinici Scientifici Maugeri – IRCCS di Pavia, Dipartimento di Psicologia Università Cattolica del Sacro Cuore e Istituto Auxologico Italiano – IRCCS di Milano) ha recentemente pubblicato uno studio scientifico sull’autorevole rivista Scientific Reports, del gruppo Nature. Nonostante la popolazione anziana risultasse essere quella maggiormente a rischio per quanto riguarda la salute fisica e mentale, la ricerca ha dimostrato come alcuni soggetti in “healthy aging” – in assenza di declino cognitivo o fisico oggettivabile – abbiano risposto anche positivamente alla situazione emergenziale tipica della pandemia.

Il gruppo di ricerca ha potuto sfruttare la preziosa disponibilità di dati sullo status cognitivo, fisico e comportamentale di alcuni partecipanti iscritti all’Università della Terza Età (UNITRE) di Torino, che hanno preso parte alle iniziative di apprendimento e di ricerca avviate dal gruppo coordinato dalla Prof.ssa Amanzio per promuovere l’invecchiamento sano e attivo. Si è quindi concretizzata l’opportunità unica di confrontare direttamente i dati neuropsicologici raccolti prima e durante la pandemia, indagandone così i possibili cambiamenti a livello fisico/cognitivo, di deflessione del tono dell’umore (ad esempio in termini di apatia e ansia). Inoltre, durante la pandemia, per esaminare i possibili segni di (dis)regolazione emotiva, sono state mostrate ai soggetti immagini della prima fase più drammatica del COVID-19, mentre veniva registrata l’heart rate variability.

Grazie a questo studio longitudinale, sebbene sia emersa una deflessione del tono dell’umore, in particolar modo sul versante dell’apatia e dell’ansia, anche in seguito alle misure restrittive del lockdown, si è potuto osservare come i partecipanti abbiano risposto positivamente allo stress e all’isolamento sia in termini di performance cognitiva sia in termini di buona salute fisica.

In particolare, i risultati hanno mostrato prestazioni stabili nel tempo per quanto riguarda la memoria, sia immediata che differita, e l’attenzione, unitamente ad un miglioramento nelle abilità cognitive globali, della funzione esecutiva e della comprensione linguistica.

Lo studio ha evidenziato come la riserva cognitiva, intesa come una combinazione di esperienze di vita positive, quali ad esempio le attività sociali ed educative offerte dall’UNITRE, abbia costituito un importante fattore protettivo contro gli effetti negativi ‘COVID-related’, consentendo il mantenimento del benessere individuale nonostante la criticità della pandemia.

Lo studio ha dimostrato per la prima volta in letteratura come lo sviluppo di programmi e strategie volti a prevenire il declino cognitivo e fisico siano stati fondamentali per mantenere l’healthy aging durante la pandemia COVID-19. A questo proposito, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha specificato come le UNITRE, in quanto luoghi di attività e di apprendimento informali in tutto il mondo, abbiano avuto un impatto positivo sul benessere psicologico e sulla qualità della vita della popolazione anziana prima della pandemia e durante il COVID-19.

A tal riguardo, la ricerca ha infatti potuto sottolineare come il funzionamento cognitivo possa essere stimolato e persino migliorato mediante un’adeguata interazione con un contesto positivo, anche in un momento critico come una pandemia, come sperimentato dai partecipanti UNITRE di Torino che hanno continuato a frequentare i corsi di formazione a distanza e a condividere esperienze comuni anche tramite i social media.

L’emergenza sanitaria che abbiamo vissuto a causa del COVID-19 ha senza dubbio innescato una grande preoccupazione – spiega la Prof.ssa Martina Amanzio – in particolar modo per le persone maggiormente vulnerabili, tra cui la popolazione anziana. Tuttavia, il nostro studio ha dimostrato per la prima volta in letteratura “the bright side of the moon”, ovvero come alcuni soggetti anziani abbiano risposto anche positivamente alla pandemia, confermando UNITRE come un buon modello per promuovere uno stile di vita sano e attivoLe previsioni circa l’aumento della popolazione anziana globale rendono pertanto urgente pianificare e attuare strategie di intervento coerenti con i nostri risultati al fine di promuovere un invecchiamento di successo che possa superare le avversità di potenziali future emergenze sanitarie”.

Soggetti in invecchiamento sano e attivo rispondono positivamente alla pandemia
Soggetti in invecchiamento sano e attivo rispondono positivamente alla pandemia. Foto di Gerd Altmann

 

Lo studio pubblicato su Scientific Reports:

Amanzio, M., Cipriani, G.E., Bartoli, M. et al. The neuropsychology of healthy aging: the positive context of the University of the Third Age during the COVID-19 pandemic, Sci Rep 13, 6355 (2023). DOI:  https://doi.org/10.1038/s41598-023-33513-4

 

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

TUMORE AL SENO: IDENTIFICATO UN NUOVO MECCANISMO MOLECOLARE ALLA BASE DELLE FORME PIÙ AGGRESSIVE

Pubblicati sulla prestigiosa rivista Nature Communications i risultati di una ricerca coordinata da Università di Torino, Università Statale di Milano, Istituto Europeo di Oncologia (IEO) e sostenuta da Fondazione AIRC. Il meccanismo molecolare riguarda la proteina p140Cap che inibisce a monte l’attività della beta-Catenina, una potente proteina coinvolta nella crescita tumorale.

MilanoTorino, 11 maggio 2023. Una nuova chiave di lettura per comprendere i tumori della mammella più aggressivi nasce dagli studi condotti in collaborazione tra due gruppi di scienziati di Milano e Torino. Hanno coordinato la ricerca la professoressa Paola Defilippi, ordinario di Biologia applicata e Responsabile del Laboratorio di ricerca “Piattaforme di segnalazione nei tumori” presso il Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute dell’Università di Torino, e il professor Salvatore Pece, ordinario di Patologia generale all’Università Statale di Milano e Direttore del Laboratorio “Tumori Ormono-Dipendenti e Patobiologia delle Cellule Staminali” dell’Istituto Europeo di Oncologia (IEO). I risultati dello studio, sostenuto da Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro, sono appena stati pubblicati sulla rivista Nature Communications.

La ricerca ha portato alla scoperta di un meccanismo molecolare con cui i tumori mammari si arricchiscono in cellule staminali tumorali. A loro volta queste cellule, da un lato, funzionano da forza motrice della crescita della massa tumorale e, dall’altro lato, sopprimono la risposta immunitaria naturale che, a livello del microambiente circostante il tumore, dovrebbe invece contrastare la crescita del cancro.

All’origine dell’intero processo c’è verosimilmente p140Cap, una proteina in grado di inibire la crescita tumorale. La sua assenza, che caratterizza almeno il 40-50% di tutti i casi di tumori mammari umani, determina una cascata di eventi che portano all’attivazione incontrollata del gene responsabile della sintesi di beta-Catenina, una potente proteina coinvolta nella crescita tumorale. Una volta attivata, la beta-Catenina provoca l’espansione del compartimento delle cellule staminali tumorali. A loro volta queste cellule rilasciano citochine anti-infiammatorie, inibendo così direttamente la risposta immunitaria anti-tumorale e creando un ambiente favorevole all’ulteriore crescita del tumore.

“Dunque p140Cap – sottolinea la professoressa Paola Defilippi – si comporta come una specie di interruttore molecolare che, tramite l’inibizione di beta-Catenina e la conseguente riduzione del compartimento delle cellule staminali tumorali, esercita una duplice funzione anti-tumorale: inibisce l’espansione della massa tumorale e sostiene una efficiente risposta immunitaria anti-tumorale nel microambiente circostante”.

“Attraverso studi clinici retrospettivi in coorti di pazienti – continua il professor Salvatore Pece – abbiamo dimostrato una chiara correlazione tra bassi livelli della proteina p140Cap nei tumori mammari più aggressivi e ridotta presenza di cellule del sistema immunitario, in particolare linfociti, nelle aree circostanti il tumore. Questi dati suggeriscono che p140Cap potrebbe essere utilizzato come un utile biomarcatore nella pratica clinica, per identificare i tumori mammari con alterazioni della risposta immunitaria anti-tumorale”.

Spiega Vincenzo Salemme, ricercatore del Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute dell’Università di Torino e primo autore dell’articolo:

“Il meccanismo molecolare con cui p140Cap inibisce a monte l’attività della beta-Catenina dipende dal fatto che la prima proteina è parte di un complesso macchinario multi-proteico deputato a distruggere la stessa beta-Catenina, che così non si accumula eccessivamente all’interno della cellula. In assenza di p140Cap questa funzione è alterata, come accade in alcuni tumori mammari, dove aumentano di conseguenza sia i livelli di beta-Catenina, sia la sua azione capace di influire sull’espansione delle cellule staminali tumorali”.

Continua la professoressa Paola Defilippi“Nel corso degli ultimi anni è emerso in modo chiaro che tra i principali responsabili all’origine della formazione e della continua crescita dei tumori ci sono le cellule staminali tumorali. Si tratta di cellule dotate di capacità illimitata di auto-rinnovamento e in grado di sostenere nel tempo la crescita della massa tumorale. In nostri precedenti studi avevamo già messo in luce il ruolo inibitore di p140Cap sulla crescita tumorale e stabilito che la perdita di questa proteina è legata a una maggiore aggressività biologica e a un decorso clinico più sfavorevole di alcuni tipi di tumori mammari. Non avevamo però ancora una completa comprensione del meccanismo d’azione specifico e della varietà di conseguenze funzionali legate alla perdita di p140Cap sulla crescita tumorale. Ora, attraverso questi studi sappiamo che questa funzione dipende da un’azione diretta di p140Cap sull’attività di beta-Catenina. Inoltre, grazie ai risultati ottenuti sia in topi di laboratorio con tumore mammario, sia in campioni ottenuti da pazienti, abbiamo compreso che la presenza di p140Cap è fondamentale. Infatti questa proteina, inibendo le cellule staminali tumorali, da un lato blocca direttamente la crescita del tumore e dall’altro lato permette una efficiente risposta immune anti-tumorale nel microambiente circostante il tumore stesso”.

“Sappiamo inoltre – aggiunge la professoressa Defilippi – che possiamo inibire l’azione tumorigenica delle cellule staminali tumorali e, al contempo, ripristinare una efficiente risposta immunitaria anti-tumorale nei tessuti circostanti la neoplasia. Ciò è possibile simulando la funzione di p140Cap all’interno del macchinario di distruzione della beta-Catenina, attraverso l’utilizzo di farmaci al momento disponibili solo per uso sperimentale”.

“I risultati dei nostri studi – sottolinea il professor Pece – si collocano nella prospettiva di alcuni tra i più importanti concetti emersi nella ricerca oncologica degli ultimi anni, nel tentativo di spiegare l’aggressività biologica e clinica dei tumori, in particolare di quelli mammari. Sappiamo oggi che i tumori più aggressivi e con decorso clinico più sfavorevole sono quelli arricchiti in cellule staminali tumorali, oppure quelli in grado di sfuggire alla risposta immunitaria naturale, rendendo inefficienti i meccanismi di barriera anti-tumorale esercitati dalle cellule del sistema immunitario. La nostra scoperta, dell’esistenza di un nuovo circuito molecolare p140Cap/beta-Catenina, apre a una prospettiva concreta per la stratificazione a fini terapeutici delle pazienti con tumore mammario che hanno perduto p140Cap. Tale perdita è infatti alla base dell’acquisizione contemporanea di entrambe queste caratteristiche aggressive della biologia dei tumori mammari. Grazie a questi risultati le pazienti potrebbero beneficiare in futuro di nuove terapie per colpire le cellule staminali tumorali e ripristinare una efficiente risposta immunitaria contro il cancro. Terapie di questo tipo sono oggi l’obiettivo delle principali linee di ricerca per lo sviluppo di nuovi farmaci in oncologia”.

“Questo studio rappresenta per noi motivo di grande soddisfazione – conclude il professor Pece – non solo per la sua valenza scientifica ma anche perché dimostra l’importanza dello sforzo cooperativo tra gruppi di ricerca che fondono differenti competenze scientifiche e piattaforme tecnologiche per far avanzare la conoscenza della biologia dei tumori mammari e aprire nuove prospettive terapeutiche per le pazienti”.

tumore al seno meccanismo molecolare p140Cap beta-Catenina
Identificato nuovo meccanismo molecolare alla base delle forme più aggressive di tumore al seno. Foto di Pexels

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

Identificata la causa della malattia genetica rara della piccola Bea nel gene ARHGAP36

La prestigiosa rivista Nature Communications ha pubblicato il lavoro internazionale che ha studiato la malattia rara relativa al caso della piccola Bea.

Nel 2010 Bea venne visitata nell’Ambulatorio di Genetica Clinica Pediatrica dell’Ospedale Infantile Regina Margherita di Torino perché presenta delle tumefazioni alle articolazioni. Le radiografie e la TAC rilevarono rapidamente una situazione molto particolare, una serie di “calcificazioni” che stavano progressivamente trasformando la cartilagine in osso. Bea era una bimba vivace ed intelligente, ma ben presto le articolazioni si bloccarono, rendendo impossibili i movimenti di braccia e gambe. Gli esami radiologici mostrarono un quadro sempre più grave: nessuno specialista aveva mai visto un caso come quello di Bea in tutto il mondo. La famiglia creò una Onlus, si adoperò per far conoscere il caso e la zia pubblicò #Leggera come una piuma – Il Mondo di Bea (Pathos edizioni) per far conoscere la malattia. I mezzi di comunicazione si interessarono al caso e Bea venne conosciuta da molte persone che accompagnarono la famiglia nel lungo percorso di malattia della bambina.

Dopo 13 anni e centinaia di esperimenti, un gruppo internazionale di ricercatori, coordinati dalla dott.ssa Elisa Giorgio ricercatrice dell’Università di Pavia e di Fondazione Mondino IRCCS, è riuscito ad identificare la causa della malattia di Bea, chiarendo come questa sia una malattia genetica non solo rarissima, ma semplicemente unica. La ricerca è iniziata attraverso la collaborazione tra i Pediatri che hanno inizialmente approfondito il quadro clinico (Prof. Giovanni Battista Ferrero, Prof.ssa Margherita SilengoUniversità di Torino) ed il laboratorio di Genetica Medica e malattie rare del prof. Alfredo Brusco (Dipartimento di Scienze MedicheUniversità di TorinoCittà della Salute e della Scienza, Torino). Per capire il complesso meccanismo alla base della malattia è stata necessaria una collaborazione con diversi centri italiani (Dott. Marco Tartaglia, Ospedale Pediatrico Bambin Gesù, Roma; Prof. Massimo Delledonne, Università di Verona) ed esteri (Prof. Malte Spielmann, Università di Lubecca e Kiel, Germania).

Nella foto da sinistra: Palazzo del Lavoro (edificio coperto con il tricolore), Pala Vela (dietro al CTO), Ospedali CTO (grattacielo) e Regina Margherita (edificio ai piedi del CTO) e il Tetto di Torino Esposizioni (tetto ad arco tra gli alberi). Foto Flickr di Simone Graziano Panetto, CC BY 2.0

Inizialmente erano state approfondite le cause note di malattie genetiche associate alle calcificazioni ectopiche, quadri clinici caratterizzati da formazione di osso in tessuti normalmente non ossificati, come muscoli, tendini e legamenti. Questi disturbi sono solitamente causati da una mutazione genetica, come nella Fibrodisplasia ossificante progressiva (FOP), una rara malattia genetica in cui i muscoli e i tessuti molli vengono gradualmente sostituiti dalle ossa. La FOP è causata da una mutazione nel gene ACVR1, responsabile dell’informazione necessaria per formare tessuto osseo nei vari distretti scheletrici. Quando questo gene è mutato, invia un segnale anomalo a vari tessuti che progressivamente calcificano e si trasformano in osso

 

LA RICERCA

La malattia di Bea aveva molte similitudini con la FOP, ma si era presentata nelle prime settimane di vita con un’evoluzione molto rapida ed invalidante. Le analisi genetiche avevano da subito escluso questa malattia.

Nel frattempo il gruppo di ricerca aveva identificato, con una serie di approfondimenti, un’anomalia cromosomica unica, mai descritta in letteratura caratterizzata dalla presenza di un segmento del cromosoma 2 doppio, inserito sul cromosoma X della bambina.

Questa anomalia dei cromosomi, ovvero l’inserzione di una regione di un cromosoma su un altro, può portare a un’espressione genica alterata. Questi eventi sono rari, molto eterogenei tra loro, ed è assai complesso capirne le conseguenze biologiche. Solo negli ultimi anni la tecnologia ha messo a disposizione dei ricercatori degli approcci estremamente complessi per poter studiare queste anomalie cromosomiche.

L’attività di ricerca ha permesso di capire che il pezzo di cromosoma 2 in più conteneva delle regioni in grado di attivare i geni sul cromosoma X nei tessuti sbagliati. In particolare, si è dimostrato che il gene ARHGAP36 produce una proteina in quantità molto più elevate dell’atteso, ma soprattutto nel tessuto sbagliato, la cartilagine. Proprio questo gene induce la formazione si tessuto osseo dove non dovrebbe essere presente.

“Questo studio è la dimostrazione di come la collaborazione tra gruppi di ricerca con competenze diverse sia la chiave per ottenere successi scientifici” spiega la dott.ssa Giorgio. “La ricerca ha bisogno di tempo e si costruisce sulle conoscenze che a mano a mano gli scienziati accumulano; nel 2010 non avevamo i mezzi tecnologici, né le conoscenze di base per capire la malattia di Bea”. Proprio la Dott.ssa Giorgio nel 2015 aveva scoperto un meccanismo simile a quello che causa la malattia di Bea (chiamato in gergo tecnico “adozione di un enhancer”) come causa di una rara forma di malattia neurodegenerativa, l’ADLD, adesso uno dei filoni di ricerca del suo laboratorio a Pavia.

La definizione del meccanismo biologico alla base del quadro clinico ha permesso di dare alla famiglia della bambina una risposta attesa da molti anni, una risposta che permette, come in tutte le malattie rare, di porre fine all’odissea diagnostica, complessa e dolorosa che caratterizza queste patologie.

LE PROSPETTIVE 

Studiando le malattie rare come quella di Bea, gli scienziati possono trovare percorsi e meccanismi che potrebbero essere coinvolti anche in malattie più comuni. Lo studio identifica un gene ARHGAP36 come implicato nella formazione ossea, un’informazione del tutto sconosciuta fino ad ora. Studiando questo gene e la sua funzione è possibile che capiremo meglio le malattie ossee nella popolazione generale. Al momento è troppo presto per pensare ad un utilizzo pratico della ricerca fatta, ma i ricercatori coinvolti sono entusiasti di aver contribuito a risolvere uno dei casi più difficili di malattia genetica rara conosciuta, quello della piccola Bea.

 

Nature Communications, Nat Commun. 2023 Apr 11;14(1):2034. doi: 10.1038/s41467-023-37585-8. PMID: 37041138

Enhancer hijacking at the ARHGAP36 locus is associated with connective tissue to bone transformation.

Melo US, Jatzlau J, Prada-Medina CA, Flex E, Hartmann S, Ali S, Schöpflin R , Bernardini L, Ciolfi A, Moeinzadeh M-H, Klever M-K, Altay A, Vallecillo-Garcia P, Carpentieri G, Delledonne M, Ort M-J, Schwestka M, Ferrero GB, Tartaglia M, Brusco A, Gossen M, Strunk D, Geißler S, Mundlos S, Stricker S, Knaus P, Giorgio E, Spielmann M. –  https://www.nature.com/articles/s41467-023-37585-8

 

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

PiQuET – Piemonte Quantum Enabling Technology: INAUGURATA L’INFRASTRUTTURA DI RICERCA APPLICATA, IL FRUTTO DELLA COLLABORAZIONE TRA ISTITUTO NAZIONALE DI RICERCA METROLOGICA, POLITECNICO DI TORINO E UNIVERSITÀ DI TORINO

L’infrastruttura con sede a Torino sarà la base per lo sviluppo di molti progetti di ricerca innovativi nel campo dei dispositivi quantum, micro e nano, alcuni anche finanziati con i fondi del PNRR, a favore sia della comunità scientifica che dell’innovazione industriale.

PiQuET – Piemonte Quantum Enabling Technology 

PiQuET – Piemonte Quantum Enabling Technology – è un’infrastruttura di ricerca applicata, una facility innovativa, competitiva, all’avanguardia e a servizio del mondo industriale e accademico per lo sviluppo di nuove linee di ricerca e per affrontare sfide scientifiche e problemi ingegneristici nel campo dei dispositivi micro, nano e quantum. PiQuET – inaugurata oggi presso la sede dell’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica alla presenza del professor Pietro Asinari, Direttore scientifico dell’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica, della professoressa Giuliana MattiazzoVice Rettrice per il Trasferimento Tecnologico del Politecnico di Torino e della professoressa Cristina PrandiVice Rettrice alla ricerca dell’Università degli Studi di Torino – si pone come centro di riferimento per le tecnologie di micro e nano-fabbricazione, anche grazie alla sinergia tra un ambiente in grado di favorire lo scambio e il confronto del know-how di scienziati, ingegneri e partner industriali.

L’infrastruttura nasce da un progetto finanziato dal POR FESR 2014-2020 della Regione Piemonte, con la partecipazione dell’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica, del Politecnico di Torino e dell’Università degli Studi di Torino.

L’obiettivo di PiQuET è quello di porsi come strumento abilitante per lo sviluppo di linee di ricerca ambiziose a favore sia della comunità scientifica che dell’innovazione industriale.

Tra le dotazioni di PiQuET spicca una clean room di 400m2 in classe ISO5 e ISO6 con sei aree tecnologiche: litografia ottica/elettronica/ionica, etching e deposizione di film sottili, packaging e processi chimici wet, caratterizzazione dispositivi micro, nano e quantumInoltre sono presenti alcuni laboratori con macchinari all’avanguardia per la ricerca nel campo della Metrologia e della Comunicazione quantistica, della Microfluidica, di Additive manufacturing e di NanoBioFotonica.

L’infrastruttura – che è anche partner di It-FAB, il network italiano delle infrastrutture di ricerca nel campo delle micro e nanotecnologie – si presenta come un’eccellenza nella progettazione, fabbricazione e caratterizzazione di dispositivi di metrologia quantistica, oltre che nella crescita, caratterizzazione e lavorazione dei materiali alla micro e nanoscala per la fabbricazione di MEMS (acronimo di micro electro-mechanical systems, ovvero la tecnologia dei dispositivi microscopici che incorporano parti sia elettroniche che mobili), microsensori e Lab-On-Chip. Tutto questo grazie alla presenza costante di personale qualificato dell’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica, del Politecnico di Torino e dell’Università di Torino.

Le capacità tecnologiche dell’infrastruttura e del personale sono applicate e sviluppate nel campo della metrologia, della comunicazione, del sensing, del monitoraggio biomedico, energetico e ambientale, dei sistemi industriali e dell’additive manufacturing.

Le strutture e i macchinari di PiQuET saranno accessibili alle imprese per ricevere formazione, supporto allo sviluppo di nuovi materiali micro e nanostrutturali, alla misura e alla caratterizzazione di dispositivi per applicazioni on demand e per la progettazione e la fabbricazione di dispositivi e componenti funzionali.

L’infrastruttura di ricerca PiQuET si basa sulla sinergia strategica con il Politecnico e con l’Università di Torino e mette al centro di un progetto articolato l’eccellenza della ricerca e la capacità di fare innovazione a beneficio del territorio, dell’industria e del posizionamento internazionale delle istituzioni coinvolte –commenta il professor Pietro Asinari, Direttore scientifico dell’INRiM –  Mettiamo a fattor comune le nostre risorse, soprattutto i talenti, per creare la casa comune delle tecnologie quantistiche, della nanofabbricazione, della scienza delle misure di domani, con l’obiettivo di essere sempre più incisivi nell’innovazione e dare le risposte che le comunità di riferimento ci chiedono, siano esse locali, nazionali o europee. Questa infrastruttura è fondamentale anche per promuovere la competitività del Paese nel programma Next Generation EU (PNRR), in cui ritroviamo la visione e i valori che ci hanno guidato fin qui”.

“L’inaugurazione di PiQuET è la conclusione positiva di un percorso nato anni fa insieme a INRiM e all’Università, ma si pone anche come punto di partenza per le sfide presenti e future della ricerca e del rapporto con le imprese – commenta la professoressa Giuliana Mattiazzo, Vice Rettrice per il Trasferimento tecnologico del Politecnico di Torino – L’infrastruttura all’avanguardia infatti è a disposizione dei progetti finanziati dal PNRR per portare avanti linee di ricerca innovative e dare una mano all’evoluzione del Paese, ma è a disposizione anche del territorio per aiutare le aziende a rinnovarsi e a formare personale qualificato, in un’ottica di amplificazione dell’impatto della comunità scientifica sul tessuto imprenditoriale”.

“La realizzazione dell’infrastruttura PiQuET – dichiara la professoressa Cristina PrandiVice Rettrice per la ricerca delle scienze naturali e agrarie dell’Università di Torino – rappresenta un ottimo esempio di sinergia e di utilizzo virtuoso di fondi pubblici, e di condivisione di visione tra UNITO, POLITO e INRiM. L’investimento in infrastrutture di eccellenza consente di valorizzare il potenziale di ricerca e di innovazione di un territorio, di rafforzare i rapporti con il settore privato, di acquisire una valenza nazionale ed internazionale, attraverso l’integrazione di tali infrastrutture nelle reti paneuropee di ricerca e sviluppo. PiQuET verrà integrata e valorizzata nell’ambito delle innumerevoli attività di ricerca e trasferimento tecnologico previste nei progetti finanziati nell’ambito PNRR, realizzando così, attraverso le sinergie tra fondi, percorsi di valorizzazione di competenze, di formazione, di innovazione e di ricerca di eccellenza che contribuiranno a collocare il nostro Paese tra i più tecnologicamente avanzati a livello internazionale”.

Testo, video e immagini dall’Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino.

GLI EFFETTI DELLE VALANGHE NELLE ALPI OCCIDENTALI: CREANO HABITAT DIVERSIFICATI E INCREMENTANO LE SPECIE DI UCCELLI

Uno studio dell’Università di Torino appena pubblicato sul Journal of Ornithology evidenzia le conseguenze delle perturbazioni sulla flora e sulla fauna alpina.

valanghe Alpi Occidentali uccelli

Le valanghe nelle Alpi occidentali italiane contribuiscono a eliminare le aree boschive dense e a creare habitat più aperti e eterogenei che attraggono una maggiore diversità di specie di uccelli. Lo afferma lo studio intitolato “Avalanches create unique habitats for birds in the European Alps” pubblicato oggi, 14 febbraio, sul Journal of Ornithology.

Gli autori, guidati dal Dott. Riccardo Alba, dottorando del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi UniTo, hanno esaminato 240 siti nelle Alpi occidentali italiane (120 tracciati di valanga e 120 siti vicini usati come controllo) durante il periodo di riproduzione degli uccelli nella primavera del 2021. In questo lasso di tempo, nei siti interessati dalle valanghe, è stata riscontrata una percentuale significativamente più elevata di specie di uccelli rispetto ai siti di controllo vicini.

Stiaccino
Stiaccino

Nei tracciati delle valanghe presi in esame è stata riscontrata una maggiore diversità della vegetazione e una maggiore proporzione di specie di uccelli rispetto ai siti di controllo, in particolare quelli a quote più basse. I siti interessati dalle valanghe presentavano inoltre una maggiore copertura di rocce e arbusti e un numero più elevato di piccoli alberi, mentre i siti di controllo erano tipicamente foreste ad alta copertura.

Prispolone
Prispolone

Nello specifico, i tracciati delle valanghe presentavano percentuali più elevate di uccelli che nidificano in habitat aperti e di specie migratrici, come lo stiaccino  o il prispolone, che sono tra le categorie di uccelli più minacciate. Nei siti di controllo è stata osservata una percentuale maggiore di specie che nidificano in habitat forestali, come la cincia alpestre, il tordo bottaccio e il picchio rosso maggiore.

In futuro la frequenza delle valanghe potrebbe essere influenzata dai cambiamenti climatici, ma non è ancora chiaro se le valanghe diminuiranno a causa della minore copertura nevosa o se aumenteranno a causa di inverni più caldi e precipitazioni nevose in primavera. Gli autori concludono che questa potenziale perturbazione può avere implicazioni per la biodiversità montana, sia per gli habitat che per le specie di uccelli che vi fanno affidamento.

valanghe Alpi Occidentali uccelli

Testo e foto dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino

MODIFICARE L’ECOSISTEMA DEI TUMORI DEL COLON RETTO PER AUMENTARE LA RISPOSTA ALL’IMMUNOTERAPIA

Ricercatori dell’IFOM di Milano e dell’Università degli Studi di Torino hanno individuato, grazie a esperimenti condotti in cellule in coltura e animali di laboratorio, una potenziale strategia terapeutica per convertire i tumori eterogenei al colon-retto. La terapia potrebbe convertire tali tumori, oggi difficili da curare, in malattie trattabili con immunoterapia, aumentando potenzialmente la percentuale di pazienti che potrebbero beneficiare di questa opzione, per ora applicabile solo nel 5% dei casi con questo tipo di tumori. I risultati dello studio sostenuto da Fondazione AIRC sono stati pubblicati sull’autorevole testata scientifica Cancer Cell, che all’articolo ha anche dedicato la copertina.

L’immunoterapia è un’opzione terapeutica estremamente promettente per molte patologie tumorali. Tuttavia nel tumore del colon-retto, che rappresenta la seconda causa di morte per motivi oncologici a livello mondiale, il suo impiego è oggi fortemente limitato. Questo perché in gran parte dei casi – pari a circa il 95% dei pazienti metastatici – i tumori del colon sono immunologicamente “freddi”, ovvero refrattari all’immunoterapia, e solo il 5% sono invece tumori “caldi” in grado di trarre beneficio da questi trattamenti innovativi. La differenza è verosimilmente dovuta ai meccanismi di riparazione del DNA e più precisamente a quello che gli scienziati chiamano mismatch repair (MMR).

Nel 95% circa dei pazienti con cancro del colon retto metastatico – illustra il professor Alberto Bardelli, Direttore del programma di ricerca IFOM Genomica dei tumori e terapie anticancro mirate e Professore Ordinario all’Università degli Studi di Torino – questo meccanismo di riparazione è integro e funzionante. Pertanto questi tumori risultano immunologicamente freddi e refrattari all’immunoterapia con gli inibitori dei checkpoint immunitari. Solo nel restante 5% circa dei pazienti il tumore ha perso questo meccanismo di riparazione del DNA e, di conseguenza, è caratterizzato da un’elevata produzione di proteine alterate che in gergo si chiamano neoantigeni. Tali proteine attraggono le cellule del sistema immunitario rendendo il tumore efficacemente trattabile con l’immunoterapia”.

Due anni fa, spiega Vito Amodio, ricercatore di IFOM, Università degli Studi di Torino e Istituto di Candiolo IRCCS – ci siamo chiesti se fosse possibile aumentare la percentuale dei pazienti che possono beneficiare dell’immunoterapia identificando quei tumori freddi che al loro interno nascondono una componente calda”. Proprio in questa direzione è andato questo studio, condotto sempre da Bardelli e dal suo gruppo all’IFOM di Milano e all’Università degli Studi di Torino con il sostegno di Fondazione AIRC. “Abbiamo scoperto che nel piccolo gruppo di tumori eterogenei per lo status del MMR – prosegue Amodio, primo autore dell’articolo e titolare di una borsa di studio AIRC – coesistono aree tumorali potenzialmente fredde e calde da un punto di vista immunologico. Ci siamo chiesti se ci fossero terapie già disponibili in grado di aumentare l’efficacia dell‘immunoterapia per i tumori del colon-retto che al momento non ne beneficiano”.

I ricercatori hanno studiato in laboratorio questa condizione di eterogeneità molecolare quale potenziale bersaglio su cui agire per trasformare i tumori freddi e refrattari al sistema immunitario in tumori caldi e in grado di rispondere all’immunoterapia. Gli incoraggianti risultati ottenuti sono stati pubblicati sull’autorevole rivista scientifica Cancer Cell, che ha dedicato allo studio anche la copertina del giornale.

“Abbiamo progettato esperimenti appositi, in topi di laboratorio nei quali è stato possibile riprodurre almeno in parte la malattia osservata nei pazienti – racconta Giovanni Germano, ricercatore di IFOM, Università degli Studi di Torino e Istituto di Candiolo IRCCS e co-ultimo autore dell’articolo accanto a Bardelli –. Grazie all’utilizzo di tecniche di biologia molecolare e di analisi bioinformatiche abbiamo scoperto come la porzione di cellule con un MMR alterato possa attivare una risposta immunitaria efficace anche contro la controparte caratterizzata da un MMR funzionante”Seguendo questa intuizione – prosegue il ricercatore – abbiamo valutato l’efficacia della 6-Tioguanina, un farmaco già utilizzato nel trattamento di alcune leucemie, che è tossico solo per le cellule provviste di MMR funzionante. Con soddisfazione abbiamo notato che il trattamento con 6-Tioguanina aumenta la frazione di cellule deficienti per MMR e allo stesso tempo interferisce con la crescita di tumori eterogenei”.

I dati emersi dallo studio pongono ora le basi per sfruttare l’eterogeneità tumorale allo scopo di incrementare la frazione di pazienti affetti da cancro del colon retto che possono potenzialmente beneficiare dell’immunoterapia.

“La frazione di CRC che presenta eterogeneità – precisa Amodio – è al momento ancora oggetto di studio, ma si ritiene che riguardi un ridotto numero di pazienti. Questa frazione è destinata a crescere se si tengono in considerazione anche tumori la cui eterogeneità è dovuta agli effetti di terapie farmacologiche precedenti, come dimostrato di recente in uno studio clinico condotto dal nostro gruppo, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Cancer Discovery“.

“Questo studio, che è stato possibile grazie all’essenziale sostegno di Fondazione AIRC, sottolinea l’importanza di comprendere a fondo l’ecosistema di ogni singolo tumore – conclude Bardelli – per poter comprendere quali siano le migliori opzioni terapeutiche utilizzabili. Seppur incoraggianti – avverte lo scienziato – i risultati ottenuti sono stati generati in animali di laboratorio e stiamo al momento verificando se possano essere trasferiti a breve in clinica”.

Tumore del colon-retto bloccare la riparazione DNA uccide cellule tumoraliFoto di valelopardo

Testo dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino