News
Ad
Ad
Ad
Tag

telescopio spaziale James Webb

Browsing

JWST CATTURA IL QUASAR DEL SISTEMA PJ308–21 E GALASSIE IN RAPIDA CRESCITA NELL’UNIVERSO LONTANO

Un gruppo internazionale di ricerca guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha utilizzato lo spettrografo nel vicino infrarosso NIRSpec a bordo del James Webb Space Telescope (JWST di NASA, ESA e CSA) per osservare la drammatica interazione tra un quasar all’interno del sistema PJ308–21 e due galassie satelliti massicce nell’universo lontano. Le osservazioni, realizzate a settembre 2022, hanno rivelato dettagli senza precedenti fornendo nuove informazioni sulla crescita delle galassie nell’universo primordiale. I risultati sono stati riportati in un recente articolo in pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics e presentati oggi durante il meeting della Società Astronomica Europea (European Astronomical Society – EAS) a Padova.

Il quasar in questione (già descritto dagli stessi autori in un altro studio pubblicato lo scorso maggio), uno dei primi osservati con il Near Infrared Spectrograph (NIRSpec) quando l’universo aveva meno di un miliardo di anni (redshift z = 6,2342), ha rivelato dati di una qualità sensazionale: lo strumento ha “catturato” il suo spettro con un’incertezza inferiore all’1% per pixel. La galassia ospite del quasar PJ308–21 mostra un’alta metallicità e condizioni di fotoionizzazione tipiche di un nucleo galattico attivo (AGN), mentre una delle galassie satelliti presenta una bassa metallicità e fotoionizzazione indotta dalla formazione stellare; la seconda galassia satellite è caratterizzata invece da una metallicità più elevata ed è parzialmente fotoionizzata dal quasar. Per metallicità si intende l’abbondanza di elementi chimici più pesanti di idrogeno ed elio. La scoperta ha permesso di determinare la massa del buco nero supermassiccio al centro del sistema (circa 2 miliardi di masse solari) e di confermare che sia il quasar che le galassie circostanti sono altamente evolute, in termini di massa e di arricchimento metallico, e in costante crescita.

 Mappa delle emissioni di riga dell'idrogeno (in rosso e blu) e ossigeno (in verde), nel sistema PJ308-21, mostrato dopo aver mascherato la luce del quasar centrale ("QSO"). I diversi colori della galassia ospite del quasar e delle galassie compagne in questa mappa rivelano condizioni e proprietà fisiche del gas al loro interno. Crediti: Decarli et. al / INAF / A&A 2024
Mappa delle emissioni di riga dell’idrogeno (in rosso e blu) e ossigeno (in verde), nel sistema PJ308-21, mostrato dopo aver mascherato la luce del quasar centrale (“QSO”). I diversi colori della galassia ospite del quasar e delle galassie compagne in questa mappa rivelano condizioni e proprietà fisiche del gas al loro interno. Crediti: Decarli et. al / INAF / A&A 2024

Roberto Decarli, ricercatore presso l’INAF di Bologna e primo autore dell’articolo, spiega:

“Il nostro studio rivela che sia i buchi neri al centro di quasar ad alto redshift, sia le galassie che li ospitano, attraversano una crescita estremamente efficiente e tumultuosa già nel primo miliardo di anni di storia cosmica, coadiuvata dal ricco ambiente galattico in cui queste sorgenti si formano”.

I dati sono stati ottenuti a settembre 2022 nell’ambito del Programma 1554, uno dei nove progetti a guida italiana del primo ciclo osservativo di JWST. Decarli è alla guida di questo programma che ha come obiettivo osservare proprio la fusione fra la galassia che ospita il quasar (PJ308-21) e due sue galassie satelliti.

Le osservazioni sono state realizzate in modalità di spettroscopia a campo integrale: per ogni pixel dell’immagine si ottiene l’intero spettro della banda ottica nel sistema di riferimento delle sorgenti osservate, che a causa dell’espansione dell’universo viene osservato nell’infrarosso. Ciò consente di studiare vari traccianti del gas (righe di emissione) con un approccio 3D. Grazie a questa tecnica il team (formato da 34 istituti di ricerca e università di tutto il mondo) ha rilevato emissioni spazialmente estese di diverse righe di emissione, che sono state utilizzate per studiare le proprietà del mezzo interstellare ionizzato, comprese la fonte e la durezza del campo di radiazione fotoionizzante, la metallicità, l’oscuramento della polvere, la densità elettronica e la temperatura, e il tasso di formazione stellare. Inoltre, è stata rilevata marginalmente l’emissione di luce stellare continua associata alle sorgenti compagne.

Federica Loiacono, astrofisica, assegnista di ricerca in forze all’INAF di Bologna, commenta entusiasta i risultati:

“Grazie a NIRSpec, possiamo per la prima volta studiare, nel sistema PJ308-21, la banda ottica ricca di preziosi dati diagnostici sulle proprietà del gas vicino al buco nero nella galassia che ospita il quasar e nelle galassie circostanti. Possiamo vedere, per esempio, l’emissione degli atomi di idrogeno e confrontarla con quella degli elementi chimici prodotti dalle stelle, per stabilire quanto sia ricco di metalli il gas nelle galassie. L’esperienza ottenuta nella riduzione e calibrazione di questi dati, alcuni dei primi collezionati con NIRSpec in modalità di spettroscopia a campo integrale, ha assicurato un vantaggio strategico per la comunità italiana rispetto alla gestione di dati simili”.

Loiacono è la referente italiana per la riduzione dei dati NIRSpec al JWST Support Centre dell’INAF, che assiste la comunità astronomica italiana nell’uso dei dati provenienti dal potente osservatorio spaziale.

Loiacono aggiunge: “Grazie alla sensibilità del James Webb Space Telescope nel vicino e medio infrarosso, è stato possibile studiare lo spettro del quasar e delle galassie compagne con una precisione senza precedenti nell’universo lontano. Solo l’eccellente ‘vista’ offerta da JWST è in grado di assicurare queste osservazioni”. Il lavoro ha rappresentato un vero e proprio “rollercoaster emotivo”, continua Decarli, “con la necessità di sviluppare soluzioni innovative per superare le difficoltà iniziali nella riduzione dei dati”.

Decarli conclude sottolineando la straordinaria importanza degli strumenti a bordo del telescopio Webb:

“Fino a un paio di anni fa, dati sull’arricchimento dei metalli (indispensabile per capire l’evoluzione chimica delle galassie) erano quasi al di là della nostra portata, soprattutto a queste distanze. Ora possiamo mappare in dettaglio con poche ore di osservazione anche in galassie osservate quando l’universo era agli albori”.


 

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “A quasar-galaxy merger at z ∼ 6.2: rapid host growth via accretion of two massive satellite galaxies“, di Roberto Decarli, Federica Loiacono, Emanuele Paolo Farina, Massimo Dotti, Alessandro Lupi, Romain A. Meyer, Marco Mignoli, Antonio Pensabene, Michael A. Strauss, Bram Venemans, Jinyi Yang, Fabian Walter, Julien Wolf, Eduardo Bañados, Laura Blecha, Sarah Bosman, Chris L. Carilli, Andrea Comastri, Thomas Connor, Tiago Costa, Anna-Christina Eilers, Xiaohui Fan, Roberto Gilli, Hyunsung D. Jun, Weizhe Liu, Madeline A. Marshall, Chiara Mazzucchelli, Marcel Neeleman, Masafusa Onoue, Roderik Overzier, Maria Anne Pudoka, Dominik A. Riechers, Hans-Walter Rix, Jan-Torge Schindler, Benny Trakhtenbrot, Maxime Trebitsch, Marianne Vestergaard, Marta Volonteri, Feige Wang, Huanian Zhang, Siwei Zou, in pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

 

 

Testo, video e immagini dall’Ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.

JWST OSSERVA AMMASSI STELLARI NELL’UNIVERSO PRIMORDIALE: IL COSMIC GEMS ARC, UNA GALASSIA CHE VEDIAMO COM’ERA APPENA 460 MILIONI DI ANNI DOPO IL BIG BANG

Gli ammassi stellari osservati con il telescopio spaziale James Webb in una galassia a soli 460 milioni di anni dopo il Big Bang, nota come Cosmic Gems Arc, potrebbero essere i progenitori degli ammassi globulari che popolano le galassie odierne. È il risultato di un gruppo di ricerca internazionale a cui partecipano anche Eros Vanzella e Matteo Messa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, pubblicato oggi su Nature.

Lo studio delle galassie giovani, a poche centinaia di milioni di anni dal Big Bang, è una finestra per comprendere i processi che hanno modellato le galassie nell’universo primordiale. Galassie così distanti possono essere difficili da osservare, ma per fortuna l’universo stesso offre un assist attraverso le lenti gravitazionali: distribuzioni di materia così dense che curvano lo spaziotempo e deviano il percorso dei raggi luminosi, amplificando la luce proveniente dalle galassie più lontane.

This image shows two panels. On the right is field of many galaxies on the black background of space, known as the galaxy cluster SPT-CL J0615−5746. On the left is a callout image from a portion of this galaxy cluster showing two distinct lensed galaxies. The Cosmic Gems arc is shown with several galaxy clusters.
A destra, un’immagine dell’ammasso di galassie SPT-CL J0615−5746. A sinistra, lo zoom mostra due galassie di sfondo, molto più lontane rispetto alle galassie dell’ammasso, le cui immagini sono state distorte e amplificate dall’effetto di lente gravitazionale dell’ammasso stesso. La galassia Cosmic Gems Arc è la lunga striscia elongata al centro, all’interno della quale si possono riconoscere una serie di puntini luminosi: si tratta di ammassi stellari, progenitori degli odierni ammassi globulari.
Crediti: ESA/Webb, NASA & CSA, L. Bradley (STScI), A. Adamo (Stockholm University) and the Cosmic Spring collaboration

È così che si è scoperto il Cosmic Gems Arc, una giovanissima galassia che vediamo com’era appena 460 milioni di anni dopo il Big Bang. La sua forma appare distorta in forma di arco e la sua luminosità è fortemente amplificata grazie all’effetto di lente gravitazionale. Osservata per la prima volta dal telescopio spaziale Hubble nel 2018, si mostra in tutta la sua gloria in una nuova immagine del telescopio spaziale James Webb (JWST) che rivela ben cinque ammassi stellari al suo interno.

Ciascuno degli ammassi ha una dimensione di circa 3-4 anni luce: questo indica che si tratta di ammassi molto densi, mille volte di più rispetto ai tipici ammassi di stelle giovani che si possono osservare nell’universo locale. La scoperta implica che la formazione degli ammassi stellari e il feedback relativo potrebbero aver contribuito a scolpire le proprietà delle galassie durante le primissime epoche della storia cosmica. I risultati dello studio, guidato dalla ricercatrice italiana Angela Adamo dell’Università di Stoccolma e Oskar Klein Centre, in Svezia, sono stati pubblicati oggi su Nature.

“Riteniamo che queste galassie siano la fonte principale dell’intensa radiazione che ha reionizzato l’universo primordiale”, commenta Angela Adamo, prima autrice del lavoro. “La particolarità del Cosmic Gems Arc è che, grazie alla lente gravitazionale, possiamo effettivamente risolvere la galassia fino a una scala di pochi anni luce!”

Le osservazioni ad altissima risoluzione realizzate da JWST nell’infrarosso, insieme all’ampificazione fornita dalla lente gravitazionale, hanno mostrato dettagli senza precedenti: è la prima volta che si osservano le proprietà interne di una galassia così lontana. Solo così è stato possibile dimostrare il ruolo chiave degli ammassi stellari nelle galassie primordiali, sia nel contesto della formazione degli ammassi globulari e nel processo di reionizzazione dell’idrogeno dell’Universo.

“Quando vidi le immagini del Cosmic Gems Arc, la sequenza di “pallini” che replicavano in modo speculare richiamando proprio l’effetto di lente gravitazionale, rimasi sbalordito”, racconta Eros Vanzella, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) a Bologna e terzo autore dell’articolo. “Scrissi subito alla collega di Stoccolma Angela Adamo e a Larry Bradley, principal investigator delle osservazioni di JWST: ma allora gli ammassi stellari sono il modo dominante nella formazione stellare nell’Universo iniziale! Come fuochi d’artificio sconquassano la galassia ospite, la rendono un potenziale ionizzatore, per poi proseguire come ammassi globulari”.

La presenza di ammassi stellari così densi e massicci è rilevante per due aspetti. Innanzitutto, sono i precursori degli ammassi globulari che vediamo oggi, i quali sono quasi tanto antichi quanto l’Universo. Inoltre, ammassi stellari così giovani, durante la loro formazione, possono “distruggere” il mezzo interstellare della galassia ospite e, con le loro stelle giovani e massicce, giocare un ruolo chiave nel processo di reionizzazione dell’Universo. È probabile che le galassie in formazione nell’universo primordiale ospitino normalmente oggetti di questo tipo.

“Il messaggio generale, a mio parere, è che stiamo finalmente “smascherando” le origini delle prime galassie con la qualità e potenza del telescopio JWST e, grazie al lensing gravitazionale, stiamo vedendo dettagli senza precedenti”, aggiunge Vanzella. “L’Universo a quell’epoca non era come quello odierno e questo ci appare adesso come un dato di fatto”.

Nel frattempo, il team si sta preparando per ulteriori osservazioni con JWST, in programma per l’inizio del 2025; il principal investigator è lo stesso Vanzella, che conclude:

“Nel prossimo ciclo, studieremo il Cosmic Gems Arc con due strumenti, NIRSpec e MIRI: così avremo la conferma del redshift della galassia e, tramite misure con spettroscopia integrata, andremo più a fondo riguardo le proprietà fisiche degli ammassi stellari trovati, del gas ionizzato, oltre a eseguire una mappa bidimensionale del tasso di formazione stellare sull’intero arco gravitazionale”.

This image shows two panels. On the right is a field of many galaxies on the black background of space, known as the galaxy cluster SPT-CL J0615−5746. On the left is a callout image from a portion of this galaxy cluster showing two distinct lensed galaxies. The Cosmic Gems arc is shown with several galaxy clusters.
A destra, un’immagine dell’ammasso di galassie SPT-CL J0615−5746. A sinistra, lo zoom mostra due galassie di sfondo, molto più lontane rispetto alle galassie dell’ammasso, le cui immagini sono state distorte e amplificate dall’effetto di lente gravitazionale dell’ammasso stesso. La galassia Cosmic Gems Arc è la lunga striscia elongata al centro, all’interno della quale si possono riconoscere una serie di puntini luminosi: si tratta di ammassi stellari, progenitori degli odierni ammassi globulari.
Crediti: ESA/Webb, NASA & CSA, L. Bradley (STScI), A. Adamo (Stockholm University) and the Cosmic Spring collaboration

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “Bound star clusters observed in a lensed galaxy 460 Myr after the Big Bang”, di Angela Adamo, Larry D. Bradley, Eros Vanzella, Adélaïde Claeyssens, Brian Welch4, Jose M Diego, Guillaume Mahler, Masamune Oguri, Keren Sharon, Abdurro’uf, Tiger Yu-Yang Hsiao, Xinfeng Xu, Matteo Messa, Augusto E. Lassen, Erik Zackrisson, Gabriel Brammer, Dan Coe, Vasily Kokorev, Massimo Ricotti, Adi Zitrin, Seiji Fujimoto, Akio K. Inoue, Tom Resseguier, Jane R. Rigby, Yolanda Jiménez-Teja, Rogier A. Windhorst, Takuya Hashimoto e Yoichi Tamura, è stato pubblicato online sulla rivista Nature.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza
Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.

VLT E ALMA CATTURANO RAFFICHE DI VENTO RELATIVISTICO DAL QUASAR DELLA GALASSIA J0923+0402, IN PIENA ATTIVITÀ

Un team di ricerca guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dall’Università degli studi di Trieste ha di nuovo imbrigliato i lontanissimi ed energici venti relativistici generati da un quasar lontano ma decisamente attivo (uno dei più luminosi finora scoperti). In uno studio pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal viene riportata la prima osservazione a diverse lunghezze d’onda dell’interazione tra buco nero e il quasar della galassia ospite durante le fasi iniziali dell’Universo, circa 13 miliardi di anni fa. Oltre all’evidenza di una tempesta di gas generata dal buco nero, gli esperti hanno scoperto per la prima volta un alone di gas che si estende ben oltre la galassia, suggerendo la presenza di materiale espulso dalla galassia stessa tramite i venti generati dal buco nero.

alone quasar della galassia J0923+0402 Alone gigante di gas freddo, esteso quasi 50 mila anni luce, rivelato attorno ad una galassia dell’Universo di circa 13 miliardi di anni fa tramite osservazioni multibanda. Questa scoperta fornisce informazioni chiave su come il gas venga espulso o catturato dalle galassie dell’Universo giovane. Crediti: International Gemini Observatory/NOIRLab/NSF/AURA/M. Zamani, J. da Silva & M. Bischetti
Alone gigante di gas freddo, esteso quasi 50 mila anni luce, rivelato attorno ad una galassia dell’Universo di circa 13 miliardi di anni fa tramite osservazioni multibanda. Questa scoperta fornisce informazioni chiave su come il gas venga espulso o catturato dalle galassie dell’Universo giovane. Crediti: International Gemini Observatory/NOIRLab/NSF/AURA/M. Zamani, J. da Silva & M. Bischetti

La galassia protagonista dello studio è J0923+0402, un oggetto lontanissimo da noi, per la precisione a redshift z = 6.632 (ossia la sua radiazione che osserviamo è stata emessa quando l’Universo aveva meno di un miliardo di anni) con al centro un quasar. La luce dei quasar (o quasi-stellar radio source) viene prodotta quando il materiale galattico che circonda il buco nero supermassiccio si raccoglie in un disco di accrescimento. Infatti, nell’avvicinarsi al buco nero per poi esserne inghiottita, la materia si scalda emettendo grandi quantità di radiazione brillante nella luce visibile e ultravioletta.

“L’utilizzo congiunto di osservazioni multibanda ha permesso di studiare, in un range di scale spaziali molto ampio e dalle regioni più nucleari fino al mezzo circumgalatico, il quasar più lontano con misura di vento nucleare e l’alone di gas più esteso rilevato in epoche remote (circa 50 mila anni luce)”, spiega Manuela Bischetti, prima autrice dello studio e ricercatrice presso l’INAF e l’Università degli studi di Trieste.

I dati descritti nell’articolo sono frutto della collaborazione di gruppi di ricerca che lavorano su frequenze diverse dello spettro elettromagnetico. In primis lo spettrografo X-Shooter, installato sul Very Large Telescope (VLT) dell’ESO, ha captato raffiche di materia, in gergo BAL winds (dall’inglese venti con righe di assorbimento larghe o broad absorption line), in grado di raggiungere velocità relativistiche fino a decine di migliaia di chilometri al secondo, misurandone e calcolandone le caratteristiche. Le potenti antenne cilene di ALMA (l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array sempre dell’ESO), ricevendo frequenze dai 242 ai 257 GHz provenienti dall’alba del Cosmo, sono state attivate per cercare la controparte nel gas freddo dei venti BAL e capire se si estendesse oltre la scala della galassia.

La ricercatrice sottolinea: “I BAL sono venti che si osservano nello spettro ultravioletto del quasar che, data la grande distanza da noi, osserviamo a lunghezze d’onda dell’ottico e vicino infrarosso. Per fare queste osservazioni abbiamo usato lo spettrografo X-Shooter del Very Large Telescope. Avevamo già scoperto il BAL di questo quasar due anni fa. Il problema è che non sapevamo quantificare quanto fosse energetico. Questo vento BAL è un vento di gas caldo (decine di migliaia di gradi) che si muove a decine di migliaia di km/s. Allo stesso tempo le osservazioni in banda millimetrica di ALMA ci hanno permesso di capire cosa stia succedendo nella galassia e attorno a essa andando a vedere cosa succede al gas freddo (qualche centinaio di gradi). Abbiamo trovato che il vento si estende anche sulla scala della galassia (ma ha delle velocità più basse, 500 km/s. Questa è una cosa aspettata, il vento decelera man mano che si espande), il che ci ha fatto pensare che questo mega alone di gas sia stato creato dal materiale che i venti hanno espulso dalla galassia”.

La posizione della sorgente energetica è stata poi “immortalata” dapprima dalla Hyper Suprime-Cam (HSC), una gigantesca fotocamera installata sul telescopio Subaru e sviluppata dall’Osservatorio Astronomico Nazionale del Giappone (National Astronomical Observatory of Japan – NAOJ), e – con una misura molto più accurata – dalla NIRCam, una fotocamera a raggi infrarossi installata sul telescopio spaziale James Webb (JWST delle agenzie spaziali NASA, ESA e CSA).

“Questo quasar verrà osservato nuovamente dal JWST in futuro per studiare meglio sia il vento che l’alone”, annuncia Bischetti.

La ricercatrice prosegue spiegando il perché di questa survey: “Ci siamo chiesti se l’attività del buco nero potesse avere un impatto sulle fasi iniziali di evoluzione delle galassie, e tramite quali meccanismi questo avvenga. Vincente è stata la combinazione di dati multibanda che vanno dall’ottico e vicino infrarosso – per misurare le proprietà del buco nero, e cosa avviene nel nucleo della galassia – fino alle osservazioni in banda millimetrica – per studiare cosa avviene all’interno e attorno alla galassia”. Le misure effettuate “sono di routine nell’Universo locale, ma questi risultati non erano mai stati ottenuti prima a redshift z>6”, aggiunge.

“Il nostro studio ci aiuta a capire come il gas venga espulso o catturato dalle galassie dell’Universo giovane e come i buchi neri crescono e possono avere un impatto sull’evoluzione delle galassie. Sappiamo che il fato delle galassie come la Via Lattea è strettamente legato a quello dei buchi neri, poiché questi possono generare tempeste galattiche in grado di spegnere la formazione di nuove stelle. Studiare le epoche primordiali ci permette di capire le condizioni iniziali dell’Universo che vediamo oggi”, conclude Bischetti.


 

Per altre informazioni:

L’articolo “Multi-phase black-hole feedback and a bright [CII] halo in a Lo-BAL quasar at z∼6.6”, di Manuela Bischetti, Hyunseop Choi, Fabrizio Fiore, Chiara Feruglio, Stefano Carniani, Valentina D’Odorico, Eduardo Bañados, Huanqing Chen, Roberto Decarli, Simona Gallerani, Julie Hlavacek-Larrondo, Samuel Lai, Karen M. Leighly, Chiara Mazzucchelli, Laurence Perreault-Levasseur, Roberta Tripodi, Fabian Walter, Feige Wang, Jinyi Yang, Maria Vittoria Zanchettin, Yongda Zhu, è stato pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal.

 

 

Testo e immagine dall’Ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

NANE BIANCHE E PIANETI DISTRUTTI: GLI INDIZI TROVATI DAL JAMES WEBB SPACE TELESCOPE

Il telescopio spaziale James Webb (JWST) delle agenzie spaziali NASA, ESA e CSA ci regala nuove immagini mozzafiato del nostro vicinato galattico. Un gruppo di ricerca guidato dall’Istituto nazionale di astrofisica (INAF) ha sfruttato le enormi potenzialità di JWST per osservare, per la prima volta all’infrarosso, l’intera sequenza di raffreddamento delle nane bianche in un vicino ammasso globulare, rivelando un eccesso di emissione infrarossa, potenziale indizio di antichi sistemi planetari distrutti. L’articolo è stato pubblicato di recente nella rivista Astronomische Nachrichten (Astronomical Notes).

La maggior parte delle stelle, soprattutto quelle di massa simile al Sole (da 8 fino a 0.07-0.08 masse solari), terminano la loro evoluzione come nane bianche, cosa che alla nostra stella madre accadrà fra circa 5 miliardi di anni. Dopo aver esaurito il “combustibile” stellare (idrogeno ed elio), questi oggetti non sono in grado di innescare reazioni termonucleari e collassano sotto il proprio peso raffreddandosi fino al loro definitivo spegnimento, perdendo lo strato più esterno della loro atmosfera.

I dati utilizzati nella survey, estrapolati dall’archivio ventennale di Hubble e da recenti osservazioni con il telescopio spaziale Webb, hanno permesso al gruppo di ricerca di sondare le proprietà fondamentali delle nane bianche e di cercare indizi della possibile esistenza di antichi sistemi planetari attorno a esse. Luigi Bedin, ricercatore presso l’INAF di Padova e primo autore dello studio, spiega:

«Abbiamo scoperto che le osservazioni in infrarosso delle nane bianche ci hanno permesso di ricavare informazioni preziose sulle proprietà delle loro dense atmosfere di idrogeno. Dai dati si evince, inaspettatamente, un numero sorprendente di nane bianche con un relativo eccesso di emissione infrarossa. I risultati andranno confermati, ma lasciano intendere che queste nane bianche presentano le tracce di antichi sistemi planetari ormai estinti».

Il team di ricerca ha osservato, in diverse nane bianche, anomalie nella distribuzione spettrale dell’energia. Bedin si riferisce agli eccessi di emissioni nella banda di radiazione infrarossa:

«Questi possono essere dovuti a compagni di taglia sub-stellare o a residui di sistemi planetari distrutti durante l’evoluzione della stella da nane a gigante. Cosa accade? Durante la combustione dell’idrogeno dal nucleo, il guscio della stella si gonfia fino a inglobare i pianeti più interni del suo sistema».

Le osservazioni si riferiscono al vicino ammasso globulare Ngc 6397 (noto anche come C 86), un oggetto abbastanza luminoso e visibile anche a occhio nudo in direzione della costellazione dell’Altare, a 7200 anni luce dal Sole. La survey guidata da Bedin e colleghi con il JWST prevede l’osservazione di stelle intrinsecamente deboli e poco luminose, quindi la vicinanza alla sorgente è fondamentale anche se si utilizza lo strumento operativo nell’infrarosso attualmente più potente in orbita. «In questo ammasso abbiamo osservato circa il 20% di nane bianche con questo eccesso infrarosso, mentre nel campo galattico solo poche sorgenti mostrano un tal anomalo alto flusso nell’infrarosso», aggiunge Bedin.

Il gruppo di ricerca ha in programma una seconda campagna osservativa con la camera/spettrografo Miri del James Webb, uno strumento che – osservando nel medio infrarosso – riesce a caratterizzare l’energia emessa dalle nane bianche con eccesso di infrarosso, discriminando fra la presenza di compagni sub-stellari, dischi di sistemi planetari estinti, residui della fase di gigante rossa. «Queste nuove osservazioni che mapperanno lo spettro fra 2 e 20 micron ci permetteranno di risolvere il mistero», conclude il ricercatore.


immagine somma in tre colori del campo studiato con la camera NIRCam al fuoco del JWST. Crediti per l'immagine: NASA/ESA/CSA/JWST/INAF - L. R. Bedin et al. 2024
Nane bianche e pianeti distrutti: gli indizi trovati da Webb. Immagine somma in tre colori del campo studiato con la camera NIRCam al fuoco del JWST. Crediti per l’immagine: NASA/ESA/CSA/JWST/INAF – L. R. Bedin et al. 2024

Per altre informazioni:

L’articolo “JWST Imaging of the Closest Globular Clusters — I. Possible Infrared Excess Among White Dwarfs in NGC 6397”, di L. R. Bedin, D. Nardiello, M. Salaris, M. Libralato, P. Bergeron, A. J. Burgasser, D. Apai, M. Griggio, M. Scalco, J. Anderson, R. Gerasimov, A. Bellini, è stato pubblicato sulla rivista Astronomische Nachrichten.

 

 

Testo e immagine dall’Ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

GALASSIE ALL’ALBA DEL COSMO CATTURATE DA JWST

Una delle prime osservazioni realizzate con il telescopio spaziale James Webb lo scorso giugno ritrae due galassie tra le più antiche mai osservate, che popolavano l’universo quando aveva solo 350 e 450 milioni di anni, rispettivamente. Lo conferma lo studio di un team internazionale, guidato da ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica e pubblicato su The Astrophysical Journal Letters.

Appena pochi giorni dall’inizio delle operazioni scientifiche, il James Webb Space Telescope (JWST) è stato in grado di rivelare la luce proveniente da due galassie tra le primissime dell’universo primordiale, tra 350 e 450 milioni di anni dopo il Big Bang. Sono i risultati dell’analisi di osservazioni del lontanissimo ammasso di galassie Abell 2744 e di due regioni del cielo ad esso adiacenti, realizzate dal potente telescopio spaziale tra il 28 e il 29 giugno 2022 nell’ambito del progetto GLASS-JWST Early Release Science Program.

“Questo lavoro mostra innanzitutto la capacità di JWST di selezionare sorgenti nell’epoca della cosiddetta ‘alba cosmica’. Non meno importante il fatto di avere trovato, tra le altre, due sorgenti brillanti in un’area relativamente piccola”, afferma Marco Castellano, ricercatore INAF a Roma e primo autore dell’articolo che descrive la ricerca di queste due lontanissime galassie, pubblicato recentemente su The Astrophysical Journal Letters. “Sulla base di tutte le previsioni, pensavamo che avremmo dovuto sondare un volume di spazio molto più grande per trovare tali galassie. I risultati invece sembrano indicare che il numero di galassie brillanti sia molto maggiore di quanto ci si aspettasse, forse per effetto di una maggiore efficienza di formazione stellare”.

Il gruppo di ricerca guidato da Castellano è stato tra i primi a usare i dati di JWST, pubblicando un preprint sulla piattaforma open-access arXiv a luglio, solo 5 giorni dopo che i dati erano stati resi disponibili.

“C’era molta curiosità nel vedere finalmente cosa JWST poteva dirci sull’alba cosmica, oltre naturalmente al desiderio e all’ambizione di essere i primi a mostrare alla comunità scientifica i risultati ottenuti dalla nostra survey GLASS”, aggiunge il ricercatore.

“Non è stato facile analizzare dei dati così nuovi in breve tempo: la collaborazione ha lavorato 7 giorni su 7 e in pratica 24 ore su 24 anche grazie al fatto di avere una partecipazione che copre tutti i fusi orari”.

Alla collaborazione internazionale, che vede numerosi ricercatori e ricercatrici dell’INAF coinvolti sin dalla presentazione della proposta osservativa, hanno partecipato anche colleghi dello Space Science Data Center dell’Agenzia Spaziale Italiana e delle università di Ferrara e Statale di Milano.

galassie cosmo JWST
Due delle galassie più lontane mai osservate, catturate dal telescopio spaziale JWST nelle regioni esterne del gigantesco ammasso di galassie Abell 2744. Le galassie, evidenziate da due piccoli quadrati indicati con i numeri 1 e 2, e in maggior dettaglio nei due riquadri centrali, non fanno parte dell’ammasso, ma si trovano a molti miliardi di anni luce al di là di esso. Oggi osserviamo queste galassie come apparivano rispettivamente 450 (nel riquadro 1, a sinistra nell’immagine) e 350 milioni di anni (nel riquadro 2, a destra) dopo il big bang.
Crediti: Analisi scientifica: NASA, ESA, CSA, Tommaso Treu (UCLA); elaborazione delle immagini: Zolt G. Levay (STScI)

La distanza delle due galassie in questione dovrà essere confermata con maggior precisione mediante osservazioni spettroscopiche, ma si tratta già dei candidati più robusti selezionati ad oggi con dati JWST. A confermare l’affidabilità dei risultati è proprio l’accordo con quanto riscontrato anche in altri studi, tra cui il lavoro guidato da Rohan Naidu dell’Harvard Center for Astrophysics, negli Stati Uniti, che analizza gli stessi dati del progetto GLASS, apparso lo stesso giorno su arXiv e attualmente in corso di pubblicazione, anch’esso su The Astrophysical Journal Letters.

“Queste osservazioni sono rivoluzionarie: si è aperto un nuovo capitolo dell’astronomia” commenta Paola Santini, ricercatrice INAF a Roma e coautrice del nuovo articolo. “Già dopo i primissimi giorni dall’inizio della raccolta dati, JWST ha mostrato di essere in grado di svelare sorgenti astrofisiche in epoche ancora inesplorate”.

A differenza degli strumenti usati in precedenza – dal telescopio spaziale Hubble ai più grandi osservatori disponibili a terra – JWST ha una sensibilità e risoluzione nell’infrarosso che permettono di cercare oggetti così distanti.

“Stiamo esplorando un’epoca a poche centinaia di anni dal Big Bang che in parte era sconosciuta e in parte a malapena esplorata, con molte incertezze al limite delle possibilità dei telescopi precedenti”, ricorda Castellano.

Come e quando si sono formate le prime galassie e la primissima generazione di stelle – la cosiddetta popolazione III – è una delle grandi domande ancora aperte dell’astrofisica.

“Queste galassie sono molto diverse dalla Via Lattea o altre grandi galassie che vediamo oggi intorno a noi”, spiega Tommaso Treu, professore all’Università della California a Los Angeles e principal investigator del progetto GLASS-JWST. “La domanda era: quando vedi le stelle più rosse e più vecchie con Webb, vedi che in realtà la galassia è molto più grande di quello che sembrava dalle osservazioni nell’ultravioletto?”

Le nuove osservazioni di JWST sembrano indicare che le galassie nell’universo primordiale fossero molto più luminose, anche se più compatte del previsto. Se ciò fosse vero, potrebbe rendere più facile per il potente osservatorio trovare un numero ancor maggiore di queste galassie precoci nelle sue prossime osservazioni del cielo profondo.

“La sorgente più lontana è effettivamente molto compatta”, sottolinea Adriano Fontana, responsabile della divisione nazionale abilitante dell’astronomia ottica ed infrarossa dell’INAF e coautore dello studio. “I colori di questa galassia sembrano indicare che la sua popolazione stellare sia particolarmente priva di elementi pesanti, e potrebbe contenere anche alcune stelle di popolazione III. La conferma verrà dai dati spettroscopici di JWST”.

Osservare le galassie più distanti, come quelle rivelate in queste osservazioni di JWST, è un passo fondamentale per iniziare a capire come si sono formate le primissime sorgenti luminose nella storia del cosmo e comprendere le prime fasi della lunghissima evoluzione che ha portato l’universo a essere così come lo vediamo oggi, con la nostra galassia, il Sole, la Terra e noi umani che la abitiamo. Occorreranno ulteriori sforzi sia osservativi, per confermare e caratterizzare il risultato, che teorici, per comprenderne la fisica sottostante.


 

Per ulteriori informazioni: L’articolo “Early results from GLASS-JWST. III: Galaxy candidates at z~9-15” di Marco Castellano, Adriano Fontana, Tommaso Treu, Paola Santini, Emiliano Merlin, Nicha Leethochawalit, Michele Trenti, Uros Mestric, Eros Vanzella, Andrea Bonchi, Davide Belfiori, Mario Nonino, Diego Paris, Gianluca Polenta, Guido Roberts-Borsani, Kristan Boyett, Marusa Bradac, Antonello Calabro, Karl Glazebrook, Claudio Grillo, Sara Mascia, Charlotte Mason, Amata Mercurio, Takahiro Morishita, Themiya Nanayakkara, Laura Pentericci, Piero Rosati, Benedetta Vulcani, Xin Wang, Lilan Yang, è stato pubblicato online su The Astrophysical Journal Letters.

Testo e foto dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) sulle due galassie all’alba del cosmo osservate con JWST.