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Con le donne al comando si respira un’aria migliore, letteralmente: uno studio rileva una correlazione tra politiche ambientali ed empowerment politico delle donne

Studio dell’Università di Pisa pubblicato sull’European Journal of Political Economy evidenza che la qualità dell’aria è migliore con l’empowerment femminile. L’analisi ha riguardato 230 regioni di 27 paesi UE.

 

La qualità dell’aria è migliore se le donne comandano le istituzioni. La notizia arriva da uno studio condotto all’Università di Pisa e pubblicato sull’European Journal of Political Economy. L’analisi ha riguardato 230 regioni di 27 Paesi dell’Unione europea.

I nostri risultati evidenziano una relazione positiva tra l’empowerment politico delle donne e la qualità dell’aria – spiega una delle autrici dello studio, la professoressa Lisa Gianmoena del dipartimento di Economia e Management dell’Ateneo pisano – Questo suggerisce che le donne, quando occupano posizioni di potere, tendono ad adottare politiche ambientali più rigide e orientate verso la sostenibilità rispetto alle regioni governate da uomini e questo fenomeno può essere attribuito alla loro maggiore sensibilità e al loro impegno sociale”.

In particolare, questa correlazione positiva risulta evidente in numerose regioni del Nord Europa, tra cui Finlandia, Irlanda, Estonia, Svezia e Danimarca, mentre la maglia nera va alla Polonia, Ungheria e Romania. In Italia, la Valle d’Aosta si distingue per la qualità dell’aria migliore, mentre la Lombardia registra i livelli peggiori.

Per realizzare lo studio ricercatori e ricercatrici hanno lavorato alla costruzione di un dataset a livello regionale che integrasse empowerment politico femminile e dati ambientali. Questa impostazione è stata fondamentale anche perché nel contesto europeo le condizioni ambientali e sociali possono variare notevolmente tra le diverse zone e sono poi le autorità sub-nazionali ad essere maggiormente responsabili dell’applicazione di direttive e standard ambientali nazionali e sovranazionali. Per quanto riguarda le donne, è stato utilizzato l’Indice di Empowerment Politico delle Donne (WPEI), considerando la loro presenza a vari livelli di governo (nazionale, regionale e locale).

“Per assicurarci che il rapporto tra empowerment politico femminile e qualità aria non fosse una “correlazione spuria”, cioè puramente casuale – conclude Gianmoena – abbiamo testato altre variabili economiche e non economiche come lo sviluppo economico, il livello di istruzione, le innovazioni in tecnologie verdi, l’ideologia politica e la densità di popolazione. Tuttavia la relazione positiva tra empowerment politico femminile e qualità dell’aria è rimasta significativa, confermando la robustezza del risultato”.

Lisa Gianmoena è autrice dell’articolo insieme al collega Vicente Rios, docente del dipartimento di Economia e management dell’Ateneo pisano. Entrambi collaborano con il centro di ricerca REMARC (Responsible Management Research Center) dell’Università di Pisa. Gli altri autori sono la dottoranda Izaskun Barba e il professore Pedro Pascual entrambi del dipartimento di Economia della Università Pubblica di Navarra (Universidad Pública de Navarra – UPNA), Spagna.

Con le donne al comando si respira un’aria migliore: la correlazione tra politiche ambientali ed empowerment politico delle donne. Foto di JürgenPM 

 

Testo dal Polo Comunicazione CIDIC – Centro per l’innovazione e la diffusione della cultura dell’Università di Pisa.

Il geotermico è la rinnovabile più efficace per diminuire le emissioni di CO2 (seguono idroelettrico e solare)

Lo studio dell’Università di Pisa su 27 paesi OCSE dal 1965 al 2020 pubblicato sul Journal of Cleaner Production

Impianto ad energia geotermica di Nesjavellir in Islanda, che fornisce acqua calda all'area di Reykjavík
Impianto ad energia geotermica di Nesjavellir in Islanda, che fornisce acqua calda all’area di Reykjavík. Foto di Gretar Ívarsson, modificata da Fir0002, in pubblico dominio

Per diminuire le emissioni di CO2 nell’atmosfera, il geotermico è la fonte di energia rinnovabile più efficace, seguito da idroelettrico e solare. La notizia arriva da uno studio su 27 paesi OCSE dal 1965 al 2020 pubblicato sul Journal of Cleaner Production.

La ricerca ha analizzato l’impatto di alcune fonti di energia rinnovabile per la produzione di energia elettrica: geotermico, solare, eolico, biofuel, idroelettrico. Dai risultati è emerso che ognuna di esse contribuisce a ridurre le emissioni di CO2 e dunque è utile agli obiettivi della transizione ecologica. Fra tutte, le migliori sono il geotermico, l’idroelettrico, e il solare, in ordine decrescente di importanza. A livello quantitativo, 10 terawattora di energia elettrica prodotti da geotermico, idroelettrico, e solare, consentono infatti di ridurre le emissioni di CO2 pro capite rispettivamente di 1.17, 0.87, e 0.77 tonnellate.

I 27 paesi OCSE esaminati dal 1965 al 2020 sono stati scelti come campione perché contribuiscono notevolmente al rilascio di emissioni di CO2 nell’atmosfera e rappresentano circa un terzo del totale delle emissioni globali di CO2. Nello specifico si tratta di Australia, Austria, Canada, Cile, Cipro, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Islanda, Irlanda, Israele, Italia, Giappone, Messico, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Norvegia, Polonia, Portogallo, Corea del Sud, Spagna, Svezia, Svizzera, Regno Unito e Stati Uniti.

Per ricavare i dati, la ricerca ha analizzato molteplici fonti, le principali sono: Food and Agriculture Organization (FAO), International Energy Agency (IEA), OECD, Our World in Data (OWID), e World Bank.

“È noto che circa due terzi degli italiani si dichiara appassionato del tema della sostenibilità e ritiene importante l’uso delle rinnovabili per avere città più sostenibili  – dice Gaetano Perone, ricercatore del dipartimento di Economia e Management dell’Università di Pisa e autore dell’articolo – la mia analisi spiega in modo dettagliato l’impatto di ciascuna energia rinnovabile sulle emissioni di CO2, considerando anche altri aspetti legati ai costi di implementazione e costruzione delle centrali e delle opportunità date dalle caratteristiche geografiche e climatiche dei paesi considerati”.

Riferimenti bibliografici:

Gaetano Perone, The relationship between renewable energy production and CO2 emissions in 27 OECD countries: A panel cointegration and Granger non-causality approach, Journal of Cleaner Production,
Volume 434, 2024, 139655, ISSN 0959-6526, DOI: https://doi.org/10.1016/j.jclepro.2023.139655

Testo dall’Unità Comunicazione Istituzionale dell’Università di Pisa.

LOFAR: LA PIÙ GRANDE RETE DI RADIOTELESCOPI ALLE BASSE FREQUENZE SI RAFFORZA DIVENENDO UN CONSORZIO EUROPEO DI INFRASTRUTTURA DI RICERCA (ERIC)

Il radiotelescopio europeo LOFAR (LOw Frequency ARray) acquisisce la nuova configurazione di European Research Infrastructure Consortium (ERIC). L’avvio di questa entità legale pensata per ottimizzare la gestione dell’infrastruttura e consolidare la leadership mondiale dell’Europa nel campo è stato ufficialmente dato nel corso della prima riunione del Consiglio di LOFAR ERIC svoltasi oggi.

Crediti per l’immagine: ASTRON

L’infrastruttura di ricerca di LOFAR, composta da 70mila antenne distribuite su ben dieci Paesi europei a cui anche l’Italia partecipa con la guida dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, forma il telescopio a bassa frequenza più potente del pianeta ed è il più grande precursore del futuro radiotelescopio SKA alle basse frequenze. LOFAR ha già rivoluzionato la ricerca sulla radioastronomia, dando luogo a una valanga di pubblicazioni scientifiche nell’ultimo decennio. In particolare, la comunità Italiana sta giocando un ruolo fondamentale nell’utilizzo scientifico dei dati LOFAR e ha dato un contributo tecnologico importante nella progettazione e realizzazione dei sistemi che saranno utilizzati nell’aggiornamento della infrastruttura (LOFAR 2.0) prevista per il 2025.

LOFAR ERIC governerà proprio la sfida tecnologica alla base di LOFAR 2.0, che porterà ad un grande potenziamento di LOFAR mettendo a disposizione della comunità astronomica una capacità di osservazione ed elaborazione dei dati ancora più all’avanguardia, producendo un ulteriore balzo in avanti nella sensibilità e risoluzione delle immagini prodotte da LOFAR.

“Siamo fieri di contribuire in modo decisivo al progetto LOFAR” commenta Marco Tavani, Presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica. “L’Italia è infatti uno dei Paesi fondatori di questo ERIC che oggi rafforza la leadership mondiale dell’Europa nel campo della radioastronomia. Il lavoro incessante per migliorare a livello tecnologico e organizzativo questa infrastruttura di ricerca sarà fondamentale per entrare in una nuova era dello studio dell’universo nelle onde radio, quando sarà operativo anche lo Square Kilometre Array Observatory”.

LOFAR ERIC fornirà un accesso trasparente a un’ampia gamma di servizi di ricerca scientifica per la comunità europea e globale, promuovendo collaborazioni e consentendo ai ricercatori di portare avanti progetti innovativi su larga scala in tutti i settori scientifici, tra cui lo studio dell’universo primordiale, la formazione e l’evoluzione delle galassie, la fisica delle pulsar e dei fenomeni radio transitori, la natura delle particelle cosmiche ad altissima energia e la struttura dei campi magnetici cosmici. LOFAR ERIC garantirà l’accesso ad una mole di dati senza precedenti attraverso un archivio distribuito su scala Europea e aperto alla comunità.

I membri fondatori di LOFAR ERIC sono Bulgaria, Germania, Irlanda, Italia, Paesi Bassi e Polonia. Collaborazioni con istituti in Francia, Lettonia, Svezia e Regno Unito garantiscono un’ulteriore partecipazione all’infrastruttura distribuita LOFAR e al programma di ricerca. La sede statutaria di LOFAR ERIC è a Dwingeloo, nei Paesi Bassi, ospitata dal NWO-I/ASTRON (Netherlands Institute for Radio Astronomy, che ha guidato la progettazione di LOFAR).

“L’istituzione di LOFAR ERIC consolida l’eccellenza a livello mondiale per l’Europa in un importante settore di ricerca”, dice René Vermeulen, direttore fondatore di LOFAR ERIC. “Con la sua impareggiabile infrastruttura di ricerca distribuita e il suo solido partenariato paneuropeo, LOFAR ERIC entra nello Spazio europeo della ricerca come una potenza all’avanguardia nella scienza e nella tecnologia dell’astronomia, con il potenziale per contribuire a sfide complesse più ampie”.

Informazioni su LOFAR ERIC

LOFAR ERIC (LOw-Frequency ARray European Research Infrastructure Consortium) assicura il futuro della radioastronomia a bassa frequenza sfruttando l’infrastruttura di ricerca distribuita LOFAR come osservatorio leader mondiale per la ricerca astronomica su larga scala. LOFAR ERIC consolida la leadership mondiale dell’Europa in questo campo. È stato istituito dalla Commissione europea il 20 dicembre 2023. I membri fondatori di LOFAR ERIC sono Bulgaria, Germania, Irlanda, Italia, Paesi Bassi e Polonia. Collaborano a LOFAR ERIC anche istituti in Francia, Lettonia, Svezia e Regno Unito.

LOFAR ERIC
Crediti per l’immagine: ASTRON

Informazioni su LOFAR

LOFAR è il più grande e sensibile radiotelescopio al mondo che opera a basse frequenze radio, tra 10 e 240 MHz. Si tratta di un’infrastruttura di ricerca distribuita che consiste in molteplici stazioni d’antenna, geograficamente distribuite in tutta Europa, tutte gestite via software e dotate di un potente sistema di calcolo e di una massiccia archiviazione di dati in diversi centri dati distribuiti. Il funzionamento congiunto forma un sistema di osservazione ed elaborazione dati unificato, altamente agile e capace. Con una sensibilità cento volte superiore a quella di qualsiasi telescopio precedente a queste frequenze, una risoluzione d’immagine senza precedenti su un ampio campo visivo e la capacità di osservare simultaneamente in più direzioni, LOFAR è di gran lunga il telescopio a bassa frequenza più potente del pianeta e sta rivoluzionando la nostra visione dell’universo radio a bassa frequenza. LOFAR è stato originariamente sviluppato dal NWO-I/ASTRON, l’Istituto olandese di radioastronomia, che ora ospita LOFAR ERIC e fornisce la maggior parte dei servizi operativi di LOFAR ERIC. LOFAR ERIC è finanziato congiuntamente dai suoi membri e partner, che stanno implementando collettivamente un importante aggiornamento (LOFAR2.0) per migliorare e ampliare notevolmente le capacità di ricerca scientifica.

LOFAR ERIC
Crediti per l’immagine: ASTRON

Testo e immagini dall’Ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

UN GEL LUBRIFICANTE A BASE DI MUCO ANIMALE EFFICACE CONTRO LE INFEZIONI VIRALI

La scoperta del KTH Royal Institute of Technology di Stoccolma, in collaborazione con l’Università di Torino, potrebbe essere la risposta alle malattie sessualmente trasmissibili come Herpes e HIV

Una ricerca del KTH Royal Institute of Technology di Stoccolma, condotta in collaborazione con Sonia Visentin e Cosmin Stefan Butnarasu del Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute dell’Università di Torino, ha sviluppato un gel sintetico a base di muco bovino in grado di ridurre in vitro del 70% la virulenza del virus HIV-1 e dell’80% quella dell’HSV-2.

Una mucca - Un gel lubrificante a base di muco animale efficace contro infezioni virali come HIV-1 e HSV-2, lo studio pubblicato su Advanced Science
Un gel lubrificante a base di muco animale efficace contro infezioni virali come HIV-1 e HSV-2, lo studio pubblicato su Advanced Science. Foto di Ulrike Leone

I risultati sono stati pubblicati il 14 settembre su Advanced Science. Oltre a KTH e UniTo, al progetto hanno contribuito anche ricercatori del Technical University of Munich (TUM) e del Karolinska Institutet (KI). Il gel sviluppato dai ricercatori deriva dalla mucina, la principale glicoproteina del muco che riveste tutte le superfici umide del nostro organismo. Le molecole di mucina possono legarsi e formare un gel tridimensionale in grado di intrappolare le particelle virali, eliminandole successivamente attraverso il naturale ricambio del muco.

“Il gel sviluppato – dichiara Hongji Yan, ricercatore del KTH e leader del progetto – replica la funzione di autorigenerazione, proprietà fondamentale del materiale che consente la lubrificazione e la profilassi del muco contro le infezioni. La ragione per cui il gel sintetico è così efficace nel ridurre la virulenza di HIV e HSV, senza il rischio di effetti collaterali o sviluppo di resistenza come con altri composti antivirali, deriva dalla naturale complessità delle mucine. Tali proprietà sarebbero difficili da ottenere con un tipo di polimero diverso dalle mucine. Inoltre, le mucine utilizzate per sintetizzare il gel riducono anche l’attivazione delle cellule immunitarie, le quali, quando attivate, facilitano la replicazione e la diffusione dell’HIV”.

“Da tempo nei nostri laboratori UniTo ci occupiamo di mucine in ambito farmaceutico. Lo studio, condotto in collaborazione con i ricercatori del KTH, è un’ulteriore prova delle potenzialità che le mucine possono avere in ambito biomedico – aggiunge Sonia Visentin, docente del Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute UniTo. Oltre all’applicazione in ambito antivirale, il nostro laboratorio studia anche l’impatto che la mucina esercita sull’attività dei farmaci, ma anche il suo utilizzo come veicolo per principi attivi. Negli ultimi decenni la ricerca globale ha permesso di comprendere meglio la struttura e le funzioni di questa proteina. Solo recentemente però si è capito l’enorme versatilità che la mucina ha in ambito farmaceutico e biotecnologico”.

Dal punto di vista applicativo il gel potrebbe aiutare molte persone a gestire un maggiore controllo sulla propria attività sessuale, salvaguardando la salute ed esponendo a minori rischi. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS)ogni giorno più di 1 milione di malattie sessualmente trasmissibili vengono acquisite in tutto il mondo e la maggior parte di esse sono asintomatiche. L’AIDS, la malattia causata dall’HIV, rimane ad oggi un’epidemia globale contando più di 1.5 milioni di casi nel solo 2021.

 

Testo dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino

UN ANTIVIRALE MADE IN UNITO CONTRO COVID-19 E PER RISPONDERE A FUTURE PANDEMIE: PREMIATO IL PROGETTO ITALO-SVEDESE GUIDATO DA UNITO

Vincitore del bando Nato-Science for Peace and Security, prevede ­– grazie al lavoro di un network internazionale – lo sviluppo di MEDS433: un candidato farmaco efficace contro SARS-Cov2 e un’ampia gamma di virus umani

Il progetto di ricerca italo-svedese VIPER, guidato dall’Università di Torino e che si propone di studiare nuovi antivirali efficaci contro SARS-CoV-2, ha vinto il prestigioso bando NATO – Science for Peace and Security (SPS) Programme. L’obiettivo di VIPER (Learning a lesson: fighting SARS-CoV-2 Infection and get ready for other future PandEmic scenaRios) è rispondere a malattie virali emergenti, attuali e future, attraverso lo sviluppo di antivirali ad ampio spettro.

Il network internazionale coinvolto in VIPER è composto dai partner svedesi del Karolinska Institutet di Stoccolma (Prof. Ali Mirazimi) e dell’Università di Uppsala (Prof.ssa Katarina Edwards) e dai partner italiani dell’Università di Torino (Proff. Marco L. Lolli e Giorgio Gribaudo), Università di Messina (Prof.ssa Anna Piperno) e Università di Padova (Prof.ssa Cristina Parolin). Università ed Enti di ricerca dei due Paesi saranno impegnati nello sviluppo preclinico della molecola MEDS433, un inibitore dell’enzima diidroorotato deidrogenasi (DHODH) di ultima generazione, dalle potenti attività antivirali ad ampio spettro, capace di inibire la replicazione oltre che di SARS-CoV-2 anche di un’ampia gamma di virus umani.

I gruppi di ricerca Italo-Svedesi, che possiedono competenze scientifiche sinergiche, agiranno come un unico esteso gruppo di ricerca europeo. Con il Kick-Off meeting, che si terrà giovedì 30 Giugno, VIPER inizierà ufficialmente il suo percorso attraverso la presentazione dettagliata dei suoi obiettivi progettuali. In tale occasione verrà messa a punto un’agenda di lavoro che vedrà le ricercatrici e i ricercatori coinvolti incontrarsi periodicamente durante i 27 mesi del progetto. Le attività di VIPER prevedono lo sviluppo su larga scala di MEDS433 (Torino) a supporto della sperimentazione in vitro e in vivo, la sua formulazione in innovativi agenti veicolanti (Messina e Uppsala), lo studio in vitro delle proprietà antivirali e del meccanismo molecolare dell’attività antivirale delle molecole formulate (Torino e Padova) e lo studio dell’efficacia delle formulazioni in vivo in un modello murino di SARS-CoV-2 (Stoccolma).

Il programma NATO SPS, attivo da oltre sei decenni, è uno dei più grandi e importanti programmi di partenariato dell’Alleanza che affronta le sfide della sicurezza del XXI secolo. Attivo in scenari quali cyber defence, sicurezza energetica e tecnologie avanzate, in questo caso SPS viene diretto alla difesa antiterroristica da agenti biologici, affrontando di riflesso una tematica di enorme attualità, data dalla pandemia di COVID-19.

Il programma SPS, oltre che sovvenzionare progetti pluriennali di alto impatto tecnologico, promuove la cooperazione scientifica pratica tra ricercatori, lo scambio di competenze e know-how tra le comunità scientifiche della NATO e dei Paesi partner.

Gli effetti devastanti della malattia COronaVIrus (COVID-19) – sottolinea il Prof. Marco L. Lolli, docente del Dipartimento di Scienza e Tecnologia del Farmaco dell’Università di Torino e coordinatore del progetto – hanno insegnato al mondo come, in assenza di farmaci antivirali ad ampio spettro, sia difficile controllare la diffusione iniziale di una pandemia emergente e di riflesso salvare vite umane nell’attesa dello sviluppo di vaccini e farmaci specifici per il virus emergente”.

MEDS433 è un antivirale interamente “made in UniTo”. Infatti è stato inventato e caratterizzato chimicamente dal gruppo di ricerca MedSynth del  Prof. Lolli al Dipartimento di Scienza e Tecnologia del Farmaco e la sua attività antivirale ad ampio spettro, nei confronti di un’estesa varietà di virus umani, sia a DNA che a RNA, compresi i più importanti virus respiratori, è stata definita nel Laboratorio di Microbiologia e Virologia del Dipartimento di Scienza della Vita e Biologia dei Sistemi, diretto dal Prof. Giorgio Gribaudo, sempre all’Università di Torino.

“Data la sua potente attività antivirale a concentrazioni nanomolari e la bassa tossicità, MEDS433 – conclude il Prof. Lolli – può essere considerato un nuovo e promettente antivirale, non solo perché arricchisce il nostro armamentario farmacologico contro SARS-CoV-2, ma anche per affrontare futuri eventi pandemici. Siamo molto orgogliosi che questo consorzio si sia formalizzato perché avremo gli strumenti necessari per portare MEDS433 alla sperimentazione umana, cosi da fornire una soluzione strategica per affrontare le fasi iniziali della diffusione di un nuovo virus emergente”.

coronavirus antivirale COVID-19
Un antivirale contro COVID-19 e per rispondere a future pandemie. Illustrazione, elaborata dai Centers for Disease Control and Prevention, della tipica morfologia di un coronavirus umano

Testo e immagine dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino sul progetto di ricerca italo-svedese per l’antivirale contro COVID-19 e per rispondere a future pandemie.

L’enzima che elimina monossido di carbonio dall’aria, scoperto il segreto del suo funzionamento

Alcuni batteri che si nascondono nel suolo potrebbero essere dei validi alleati nella lotta al cambiamento climatico. Lo studio condotto dall’Università di Milano-Bicocca in collaborazione con altri atenei europei
inquinamento enzima monossido di carbonio
Foto di Steve Buissinne
Milano, 9 giugno 2022 – Scoperto il meccanismo che consente agli enzimi presenti nel suolo in alcuni batteri di eliminare monossido di carbonio (CO) dall’atmosfera. Lo studio condotto dai ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca in collaborazione con i colleghi dell’Università della Calabria e dell’Università di Lund, in Svezia, ha consentito di comprendere nel dettaglio in che modo questi enzimi trasformino il CO in biossido di carbonio (CO2). Un risultato che apre nuove prospettive per quanto riguarda la mitigazione delle emissioni di monossido di carbonio, con effetti benefici sia sulla qualità dell’aria che sul clima dato che questo gas, altamente tossico, contribuisce ad aumentare l’effetto serra.

 

Negli ultimi vent’anni, diversi studi sperimentali e teorici sono stati dedicati alla comprensione del processo di ossidazione del CO da parte di un particolare enzima contenente molibdeno e rame, chiamato MoCu CO deidrogenasi. I meccanismi fin qui ipotizzati, tuttavia, riportavano alcune difficoltà nell’evoluzione del prodotto. Grazie all’esperienza maturata in precedenti attività di studio del sistema mediante modelli computazionali, il gruppo di ricercatori formato dal professor Claudio Greco, vicedirettore del Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra, dal professor Ugo Consentino e dalla ricercatrice Anna Rovaletti dello stesso Dipartimento, dal professor Giorgio Moro del Dipartimento di Biotecnologie e Bioscienze, nonché dalla professoressa Emilia Sicilia e dalla dottoressa Alessandra Gilda Ritacca del Dipartimento di Chimica e Tecnologie Chimiche dell’Università della Calabria e dal professor Ulf Ryde del Dipartimento di Chimica Teorica dell’Università della Lund University, è riuscito a riprodurre per la prima volta un meccanismo di reazione che concorda con i dati sperimentali riportati ad oggi. In particolare, è stato spiegato in che modo l’enzima MoCu CO deidrogenasi trasferisce dall’acqua un atomo di ossigeno trasformando il monossido in biossido di carbonio. La CO2 prodotta viene utilizzata dagli stessi batteri e, quindi, non viene rilasciata nell’atmosfera.

 

Lo studio, dal titolo “Unraveling the Reaction Mechanism of Mo/Cu CO Dehydrogenase Using QM/MM Calculations” è stato pubblicato su ACS Catalysis (DOI: 10.1021/acscatal.2c01408)

 «L’atmosfera contiene, in piccole proporzioni, vari gas dovuti sia a fonti naturali che a emissioni antropiche, come ad esempio proprio il CO – spiega il professor Greco –. Gli enzimi in grado di trasformare CO in CO2 sono presenti in diversi microrganismi del suolo e riescono a “consumare” circa il 15% del monossido di carbonio dell’atmosfera. La scoperta di dettagli fondamentali del funzionamento di questi enzimi segna il passaggio verso la possibilità di progettare composti che funzionano nello stesso modo e che potrebbero essere impiegati sia in sensori di nuova generazione per la rilevazione del CO sia per la riduzione delle emissioni di questo gas in processi industriali».

 

Testo dall’Ufficio Stampa Università di Milano-Bicocca

L’abete rosso in Scandinavia: una colonizzazione che ha avuto inizio più di 10.000 anni fa 

La recente scoperta di antichi resti di DNA antico, presenti nei sedimenti lacustri al margine meridionale della calotta glaciale scandinava e attribuibili all’abete rosso, porta nuova luce sulle dinamiche di risposta delle foreste ai cambiamenti climatici del passato. Lo studio internazionale, coordinato dalla Sapienza, è stato pubblicato su Nature Communications.

Härjehågna

L’abete rosso è oggi la specie arborea più comune in Fennoscandia, la parte d’Europa che comprende la Finlandia e la penisola scandinava. Diversi studi, basati su ritrovamenti di polline fossile di abete in antichi sedimenti lacustri, hanno dimostrato che ci sono volute diverse migliaia di anni prima che questa specie giungesse in Svezia dopo l’ultima glaciazione e diventasse la specie dominante delle foreste scandinave. Secondo tali analisi l’abete sarebbe giunto in Svezia dal nord-est solo 2.000 anni fa.

abete rosso in Scandinavia

Oggi, un nuovo studio che utilizza il DNA ambientale antico conservato negli stessi sedimenti dimostra che l’abete rosso era invece presente in Svezia meridionale già dopo l’ultima glaciazione, circa 14.000 anni fa. Il lavoro, coordinato dal Dipartimento di Biologia ambientale della Sapienza e dall’Università di Uppsala in Svezia, in collaborazione con gruppi di ricerca di Università europee e giapponesi, è stato pubblicato sulla rivista Nature Communications.

abete rosso in Scandinavia

Contrariamente a quanto sempre creduto, infatti l’abete rosso sembra essere uno dei primi alberi che ha colonizzato la Svezia, sebbene riuscì a diffondersi in larga misura solo 2.000 anni fa. Cosa abbia trattenuto l’abete per le successive migliaia di anni però non è ancora del tutto chiaro.

Questi ultimi risultati hanno evidenziato una somiglianza genetica fra i gruppi di abeti solitari che oggi crescono e si riproducono vegetativamente (cloni) in alto sui pendii montuosi nella Svezia centrale e quelli che arrivarono successivamente dal nord-est, dimostrando il ruolo delle piccole popolazioni arboree locali superstiti nella ricolonizzazione delle foreste del nord Europa dopo l’ultima glaciazione.

L’abete rosso in Scandinavia: una colonizzazione che ha avuto inizio più di 10.000 anni fa

“Le analisi genetiche mostrano che l’abete svedese è sopravvissuto molto vicino alla calotta glaciale – spiega Laura Parducci della Sapienza, coordinatrice del lavoro – e abbia dunque sperimentato diversi tentativi per impossessarsi delle foreste scandinave, ma che solo l’ultima espansione abbia avuto successo”.

Gli studi sulla conservazione e il ripristino delle foreste sono strumenti importanti per contrastare le minacce causate dalla frammentazione degli habitat e dai cambiamenti climatici. Tuttavia, per favorire la diversificazione e la resilienza delle foreste è necessario prima comprendere le dinamiche della risposta delle foreste ai cambiamenti climatici del passato. Pertanto, l’utilizzo del DNA antico per la comprensione della velocità con cui l’abete ha ricolonizzato la Fennoscandia è di grande importanza per prevedere le risposte ecologiche al futuro riscaldamento climatico.

abete rosso in Scandinavia

Riferimenti:

Norway spruce postglacial recolonization of Fennoscandia – Kevin Nota, Jonatan Klaminder, Pascal Milesi, Richard Bindler, Alessandro Nobile, Tamara van Steijn, Stefan Bertilsson, Brita Svensson, Shun K. Hirota, Ayumi Matsuo, Urban Gunnarsson, Heikki Seppä, Minna M. Väliranta, Barbara Wohlfarth, Yoshihisa Suyama & Laura Parducci – Nature Communications DOI https://doi.org/10.1038/s41467-022-28976-4

abete rosso in Scandinavia

 

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

L’IMPATTO DEL PRECARIATO SUI PROGETTI DI VITA DEI GIOVANI IN EUROPA

Presentazione del volume “Social exclusion of youth in Europe”, pubblicato nel 2021, che raccoglie dati, statistiche ed esperienze dei giovani europei.

precariato giovani Europa
L’impatto del precariato sui progetti di vita dei giovani in Europa. Foto di Gerd Altmann

Mercoledì 16 febbraio 2022dalle 9 alle 13, in diretta streaming dal Campus Luigi Einaudi dell’Università di Torino, si tiene la presentazione del volume Social exclusion of youth in Europethe multifaceted consequences of labour market insecurity, a cura di Sonia Bertolini, docente di sociologia dei processi economici e del lavoro al Dipartimento di Culture, Politica e Società UniTo, Michael Gebel (Università di Bamberg), Vasiliki Deliyanni-Kouimtzis (Università di Salonicco) e Dirk Hofäcker (Università di Duisburg-Essen). Modera il giornalista Paolo Volpato.

Il volume raccoglie dati, statistiche ed esperienze dei giovani europei raccolti attraverso Horizon Except, il progetto che dal 2016 ha cercato risposte a una serie di interrogativi: Cosa significa diventare autonomi in un mondo precario? Come si vive la progettualità e il percorso del divenire adulti in questo contesto? Quali sono le conseguenze dell’insicurezza sul benessere e sulla scelta di uscire dalla famiglia di origine? Che ruolo ha il significato del lavoro, in questo processo, e come si declinano questi aspetti in paesi diversi, quando diverso è il mercato del lavoro, il sistema di welfare, la cultura?

Social exclusion of youth in Europe rende conto di un lavoro interdisciplinare, comparativo e multi-metodo, fatto di analisi e lettura delle dinamiche tra lavoro e progetti di vita che riguardano i giovani in Europa. Un’iniziativa che ha coinvolto 9 paesi (Bulgaria, Estonia, Germania, Grecia, Italia, Polonia, Svezia, Ucraina e Regno Unito), con 386 interviste e 117 fotografie in tema di “divenire adulti oggi”.

In alcuni paesi come Italia, Polonia e Bulgaria emerge una doppia esclusione dei giovani: si può parlare di una sorta di “insicurezza istituzionalizzata” per indicare quando la precarietà lavorativa produce una serie di esclusioni a catena, ad esempio dal sostegno al reddito (in Italia fino allo scorso anno) o dall’accesso al credito bancario, che in questo Paesi è impossibile da ottenere senza un contratto fisso o la garanzia dei genitori, indipendentemente dal reddito.

In Italia l’insicurezza istituzionalizzata riguarda numeri considerevoli, se pensiamo che il 30% della popolazione giovanile è disoccupata e il 50% ha un contratto precario. La ricerca mette in luce le conseguenze negative sul benessere psicosociale e sull’autonomia psicologica, economica e abitativa: far fronte a questa insicurezza è un compito arduo, perché le strategie individuali e sociali non sono sufficienti per contrastare un sistema fortemente strutturato sull’insicurezza.

I dati degli ultimi anni ci dicono che la pandemia da Covid-19 ha avuto conseguenze sproporzionate su giovani e donne. Questo libro, fornendo una fotografia articolata e comparata della situazione prepandemica, aiuta a comprendere su quali premesse e su quali meccanismi abbia trovato terreno fertile quest’ultima ondata di precarietà ed esclusione.

Il team italiano di Horizon Except all’Università di Torino è composto da Sonia BertoliniMagda BolzoniChiara GhislieriValentina GoglioAntonella MeoValentina MoisoRosy MusumeciRoberta Ricucci e Paola Torrioni.

Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Torino

COVID-19, DISTANZIAMENTO E DROPLET TRANSMISSION CON E SENZA MASCHERINA 

Pubblicato sul «Journal of the Royal Society Interface» lo studio del team internazionale di ricerca dell’Università di Padova, Udine, Vienna e Chalmers: si può quantificare il rischio di contagio in funzione della distanza interpersonale, temperatura, umidità e tipo di evento respiratorio considerato. Quando si parla senza mascherina le goccioline infette emesse possono raggiungere oltre un metro, fino a 3 metri per un colpo di tosse mentre starnutendo raggiungono i 7 metri, con le mascherine chirurgiche e FFP2 il rischio di contagio diventa praticamente trascurabile sia che si parli, che si tossisca o starnutisca.

COVID-19 distanziamento mascherina
Dinamica di gocce e aerosol, vettori della trasmissione virale

Il gruppo di ricerca del professor Francesco Picano del Dipartimento di Ingegneria Industriale dell’Università di Padova – costituito dai dottori Federico Dalla Barba e Jietuo Wang, in collaborazione con il professor Alfredo Soldati, il dottor Alessio Roccon della Technische Universität Wien e Università di Udine, e il prof. Gaetano Sardina della svedese Chalmers University of Technology) – sul «Journal of the Royal Society Interface» propone un modello di quantificazione del rischio di contagio da COVID-19 in funzione della distanza interpersonale, condizioni ambientali di temperatura e umidità e tipo di evento respiratorio considerato (parlare, tossire o starnutire) con o senza l’utilizzo di mascherine.

Le strategie per combattere il COVID – 19, oltre al fondamentale utilizzo del vaccino, si basano su lockdown più o meno totali, distanziamento interpersonale (1-2 metri, three/six-feet rule), sanificazione di superfici e mani o areazione degli ambienti. La puntuale revisione di queste modalità di profilassi è fondamentale per contenere la diffusione di questa e altre future pandemie simili. È bene ricordare che la scienza ha fatto sempre tesoro delle esperienze passate: negli anni successivi alla pandemia di influenza spagnola del 1918 la comunità scientifica studiò le strategie per evitare la propagazione dei virus tanto che nel 1934 in una ricerca dell’americano William Firth Wells furono definite le basi per lo studio della trasmissione aerea dei virus e del distanziamento sociale.

I virus, come il SARS-COV-2, passano da un individuo infetto a uno sano tramite la trasmissione di goccioline salivari emesse parlando, tossendo o starnutendo. Le goccioline in sospensione si possono depositare sulle superfici che diventano quindi il terreno di contagio una volta toccate dall’individuo sano. In questo caso si può contrastare la catena del contagio sanificando superfici e mani.

Più articolata è la questione della trasmissione aerea: le regole fin qui usate per evitare la propagazione sono state il distanziamento interpersonale, la capienza ridotta degli ambienti e le mascherine.  Wells, come si è detto, distinse la trasmissione aerea in droplet o airborne/aerosol.

L’emissione di goccioline salivari avviene tramite la formazione di uno spray di goccioline spinto dall’aria espirata: le gocce nel loro moto evaporano, si depositano o restano sospese. Quelle più grandi e pesanti cadono prima di evaporare mostrando un moto balistico (droplet), mentre le più piccole evaporano prima di cadere e tendono ad essere trasportate dal fluido (airborne).

Wells, utilizzando le conoscenze dell’epoca sulla dinamica delle goccioline e sull’evaporazione di spray, propose la cosiddetta evaporation-falling curve in cui quantificò i tempi necessari per l’evaporazione completa o la caduta a terra delle goccioline respiratorie in funzione della loro dimensione iniziale. Dal punto di vista pratico: la distanza di 1,8 metri (six-feet) è quella in cui le goccioline più grandi arrivano prima di cadere su terreno (droplet transmission), mentre quelle più piccole, una volta evaporate, diventano minuscoli residui di materiale non-volatile capaci di rimanere sospesi nell’aria ed essere infettivi a lungo in ambienti chiusi non ventilati (aerosol/droplet-nuclei).

Nel tempo la comunità scientifica ha approfondito nuovamente la caratterizzazione degli spray respiratori, le distanze raggiunte dalle goccioline salivari e l’efficacia del distanziamento. È assodato che: le goccioline mostrano tempi di evaporazione molto più lunghi rispetto a quanto atteso dal modello del 1934 e che parte delle goccioline più grandi (airborne-droplet) sono trasportate dal getto d’aria emesso durante gli atti respiratori, raggiungendo distanze maggiori di quanto si pensasse.

La ricerca

Dallo studio pubblicato sul «Journal of the Royal Society Interface» emerge che senza mascherina le goccioline infette emesse quando si parla posso raggiungere la distanza di poco più d’un metro mentre starnutendo arrivano fino 7 metri in condizioni di elevata umidità. Tali distanze, stimate dal modello, mostrano un pieno accordo con le più recenti evidenze sperimentali. Dall’applicazione del modello per la stima del rischio di contagio si capisce che non esiste una distanza di sicurezza “universale” in quanto essa dipende dalle condizioni ambientali, dalla carica virale e dal tipo di evento respiratorio. Ad esempio, considerando un colpo di tosse (con media carica virale) si può avere un alto rischio di contagio entro i 2 metri in condizioni di umidità relativa media mentre diventano 3 con alta umidità relativa, sempre senza mascherina.

«La pandemia di COVID-19 ha evidenziato l’importanza di modellare accuratamente la trasmissione virale operata da goccioline salivari emesse da individui infetti durante eventi respiratori come parlare, tossire e starnutire. Le regole del distanziamento interpersonale usualmente utilizzate si basano principalmente sullo studio proposto da Wells nel 1934. Nel nostro lavoro – dice Francesco Picano – abbiamo revisionato tale teoria utilizzando le più recenti conoscenze sugli spray respiratori arrivando a definire un nuovo modello per quantificare il rischio di contagio respiratorio diretto. L’applicazione del modello fornisce una valutazione sistematica degli effetti del distanziamento e delle mascherine sul rischio d’infezione. I risultati indicano che il rischio è fortemente influenzato dalle condizioni ambientali come l’umidità, dalla carica virale e dal tipo di attività respiratoria, suggerendo l’inesistenza di una distanza di sicurezza “universale”. Di contro – sottolinea Picano – indossare le mascherine fornisce un’eccellente protezione, limitando efficacemente la trasmissione di agenti patogeni anche a brevi distanze interpersonali e in ogni condizione ambientale».

Francesco Picano, uno degli autori dello studio relativo a COVID-19, distanziamento e droplet transmission con e senza mascherina

La ricerca, utilizzando i più recenti dati sperimentali sulla riduzione dell’emissione di goccioline ad opera delle mascherine, ha testato il modello per quantificare come i dispositivi di protezione individuale abbattano il rischio di contagio: l’utilizzo della mascherina, chirurgica e ancor di più se FFP2, si dimostra essere un eccellente strumento di protezione abbattendo il rischio di contagio che diventa trascurabile già a brevi distanze (circa 1m), indipendentemente dalle condizioni ambientali o dall’evento respiratorio considerato.

«Sappiamo che il Virus richiede un vettore per essere trasmesso da una persona ad un’altra. Sappiamo anche che il vettore sono le goccioline di saliva emesse mentre respiriamo, parliamo starnutiamo, cantiamo. Le indicazioni mediche che stiamo seguendo sono basate su studi di fluidodinamica del 1940: Noi stiamo chiudendo le scuole, limitando le capienze dei locali, limitando le distanze tra le persone sulla base di studi del 1940. È importante – conclude Alfredo Soldati ordinario di fluidodinamica dell’Università di Udine e direttore dell’Institute of Fluid Mechanics and Heat Transfer della Technische Universität di Vienna – che ingegneri e fisici si cimentino nello studio di questi fenomeni insieme a biologi e virologi per fornire indicazioni precise che consentano di rilassare le norme quando si può e di rinforzarle quando si deve. Dall’inizio della pandemia la comunità internazionale si è messa al lavoro e ha prodotto in soli due anni un bagaglio di conoscenze basate su sofisticati esperimenti e accurate simulazioni sui moderni supercomputer. La gestione di questa pandemia richiede un continuo e razionale impegno da parte delle amministrazioni pubbliche, della comunità medica e di quella scientifica al fine di identificare misure sostenibili e accettabili dalla società. Il mio auspicio è che la comunità sanitaria che identifica le misure di sicurezza accolga volentieri i nostri suggerimenti e il nostro aiuto».

COVID-19, distanziamento e droplet transmission con e senza mascherina

Link alla pubblicazione: https://doi.org/10.1098/rsif.2021.0819

Titolo: “Modelling the direct virus exposure risk associated with respiratory events” – «Journal of the Royal Society Interface» – 2022; Autori: J. Wang, F. Dalla Barba, A. Roccon, G. Sardina, A. Soldati & F. Picano

 

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Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Padova sullo studio relativo a COVID-19, distanziamento e droplet transmission con e senza mascherina.

CONDIZIONATORE GONFIA LA BOLLETTA DEL 42%,

AUMENTA IL RISCHIO DI POVERTÀ ENERGETICA

 

Studio di Ca’ Foscari e CMCC combina dati Ocse e Nasa di 8 paesi scoprendo una incidenza del raffrescamento sulle spese familiari superiore a quanto previsto da studi precedenti

condizionatore povertà
Immagine di Mohamed Hassan

VENEZIA, 03/06/2020 – L’uso del condizionatore gonfia notevolmente le bollette elettriche delle famiglie, con importanti conseguenze sulla loro “povertà energetica”. Lo rivela uno studio condotto da un gruppo di ricerca dell’Università Ca’ Foscari Venezia e del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (CMCC), appena pubblicato sulla rivista scientifica Economic Modeling.

Studi precedenti realizzati negli Stati Uniti stimano un incremento della spesa familiare per l’energia elettrica legata ai condizionatori intorno all’11%. Analizzando i dati socio-economici di famiglie residenti in altri paesi OCSE (Australia, Canada, Francia, Giappone, Olanda, Spagna, Svezia e Svizzera) e dati climatici della NASA, gli autori di questo nuovo studio hanno calcolato che, in media, l’uso del condizionatore porta a spendere fino al 42% in più per l’energia elettrica, rispetto a chi non ha il condizionatore.

Gli aumenti effettivi dipenderanno da quanti gradi centigradi in più le famiglie dovranno affrontare per via del cambiamento climatico. I consumi elettrici per raffrescamento saranno quindi un nuovo fattore destinato ad aumentare la povertà energetica legata all’elettricità, condizione in cui si trovano le famiglie che spendono più del 5% del loro reddito annuale in bollette elettriche.

Secondo il Buildings Performance Institute Europe, nel 2014 la povertà energetica toccava già il 10-15% delle famiglie europee. Lo studio appena pubblicato delinea invece una situazione ancor più preoccupante.

“Il concetto di povertà energetica, già oggetto di attenzione in Europa, è di norma legato alla possibilità di assicurarsi un livello adeguato di riscaldamento durante i mesi più freddi – spiega Enrica De Cian, professoressa di Economia ambientale a Ca’ Foscari e responsabile del team di ricerca del progetto ERC Energya che ha svolto lo studio. – I nostri dati, tuttavia, suggeriscono di allargare il concetto includendo il ruolo sempre più determinante del raffrescamento estivo. I nuclei familiari più poveri spendono già di norma una porzione ampia del loro budget in beni essenziali, come il cibo e l’elettricità. Quest’ultima voce dovrà aumentare per proteggere i più vulnerabili dal rischio di mortalità o da altri gravi problemi di salute durante le ondate di calore”.

Possedere l’aria condizionata comporta importanti conseguenze sia per la spesa energetica delle famiglie che dei Paesi, anche se permangono grandi differenze: negli Stati Uniti rappresenta l’11% del consumo energetico negli edifici mentre in Europa è solo l’1,2%.

“I dati che abbiamo analizzato rivelano che in Spagna il 18.5% delle famiglie spende più del 5% del proprio budget in elettricità – afferma l’economista cafoscarina. Queste percentuali sono generalmente più alte nei paesi freddi, arrivando al 24.2% in Svezia. In Francia e Svizzera troviamo numeri più bassi: 8% e 5% rispettivamente”. L’Italia non è stata analizzata perché non compresa nel dataset OCSE considerato in questo studio, ma “ci aspettiamo un andamento simile a Francia e Spagna, e lo stiamo verificando negli studi che stiamo svolgendo”.

Chi usa il condizionatore e perché

“L’elemento innovativo di questo lavoro – afferma l’economista Teresa Randazzo, prima autrice dello studio – è che la nostra analisi empirica permette di tenere conto di fattori di scelta che sono di norma difficili da osservare e misurare, come la percezione personale del comfort termico, l’avversione al rischio o la consapevolezza ambientale”.

Lo studio evidenzia in effetti come varie caratteristiche degli individui e dei nuclei familiari portino – o meno – all’adozione dell’aria condizionata nelle case. Ad esempio, la presenza di minori in casa induce ad adottare e ad usare di più i condizionatori.

Ancora, gli individui più istruiti tendono a usare meno i condizionatori, suggerendo che sono più consapevoli dell’impatto dei loro consumi sull’ambiente. Allo stesso modo, le famiglie che sono più inclini al risparmio energetico tendono ad usare meno l’aria condizionata. Viceversa, le famiglie che posseggono numerosi elettrodomestici tendono ad usare di più i condizionatori.

Vivere in aree urbane aumenta la probabilità che si adotti un condizionatore di 9 punti percentuali, un contributo importante, se paragonato al ruolo del clima o del reddito familiare, probabilmente dovuto al fenomeno delle isole di calore urbane”, spiega Malcolm Mistry, responsabile dei dati climatici per il progetto Energy-a, e coautore della ricerca.

L’analisi dei dati su famiglie e clima

Per capire meglio le dinamiche di adozione dell’aria condizionata nei paesi industrializzati e il suo impatto sul bilancio delle famiglie, anche alla luce dei cambiamenti climatici, i ricercatori di Energya hanno esaminato otto paesi OCSE di diverse latitudine: Australia, Canada, Francia, Giappone, Paesi Bassi, Spagna, Svezia e Svizzera.

I ricercatori hanno combinato le informazioni geo-codificate su 3.615 famiglie provenienti da dati dell’OCSE raccolti nel 2011, con dati storici sul clima. “La nostra rielaborazione dei dati climatici NASA-GLDAS calcola i cosiddetti Cooling Degree Days per gli ultimi 49 anni, un indicatore comunemente usato in letteratura per catturare l’intensità e la durata dei periodi particolarmente caldi e i corrispondenti bisogni di raffreddamento”, spiega Malcolm Mistry.

I trend nel mercato dei condizionatori

Spinte in gran parte dal settore residenziale, dal 1990 le vendite annuali dei condizionatori d’aria  sono più che triplicate a livello mondiale, raggiungendo 135 milioni unità nel 2016, secondo gli ultimi dati dell’Agenzia Internazionale per l’Energia. La Cina è in testa, con 41 milioni di condizionatori nelle case private, seguita da 16 milioni negli Stati Uniti e circa 9 milioni sia in Giappone che in Europa. “Secondo il nostro studio, oltre al ruolo determinante del miglioramento del tenore di vita, i cambiamenti climatici aumenteranno i tassi di adozione dell’aria condizionata anche in Europa, con incrementi fino al 21% in Spagna e al 35% in Francia tra soli 20 anni” conclude la professoressa De Cian.

 

Riferimenti

Link all’articolo su Economic Modeling: https://doi.org/10.1016/j.econmod.2020.05.001

 

Testo e grafico dall’Ufficio Comunicazione e Promozione di Ateneo Università Ca’ Foscari Venezia