Biodiversità, ai vertebrati l’83% dei fondi globali destinati alla conservazione; discriminati gli animali “brutti” o pericolosi. Poche risorse anche per le piante
Lo rivela per la prima volta uno studio su PNAS delle Università di Firenze e Hong Kong
I finanziamenti mondiali per la conservazione della biodiversità animale e vegetale sono indirizzati solo ad un piccolo numero di grandi specie, mentre quasi il 94% delle specie a diretto rischio di estinzione non ha ricevuto alcun sostegno.
Ad attirare più attenzione sono gli animali più iconici: gli elefanti o le tartarughe marine. A spese, però, di specie fondamentali per il funzionamento degli ecosistemi, tra cui anfibi, invertebrati, piante e funghi.
È quanto rivela uno studio internazionale, il primo di questo genere, pubblicato su PNAS a cura delle Università di Hong Kong e Firenze che denuncia una distribuzione squilibrata dei fondi globali, sia pubblici che privati, destinati a salvaguardare l’esistenza delle varie specie (“Limited and biased global conservation funding means most threatened species remain unsupported”, DOI: https://doi.org/10.1073/pnas.2412479122).
I finanziamenti mondiali per la conservazione della biodiversità animale e vegetale sono indirizzati solo ad un piccolo numero di grandi specie. Gallery
Boophis blommersae, a Betampona
Boophis bottae, a Betampona
Paroedura gracilis, a Betampona
Paroedura gracilis Betampona
Furcifer campani, ad Ankaratra
La ricerca è stata in parte sostenuta dal centro nazionale National Biodiversity Future Center (NBFC), finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca con fondi dell’Unione Europea nell’ambito del programma #NextGenerationEU (PNRR – Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza).
“Abbiamo analizzato – spiega Stefano Cannicci, docente di Zoologia dell’Università di Firenze – 14.566 progetti di conservazione che abbracciano un periodo di 25 anni, dal 1992 al 2016, confrontando l’importo dei finanziamenti per specie con il loro status nella «lista rossa» delle specie minacciate stilata dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN), istituzione che valuta i livelli di rischio di estinzione e di cui faccio parte”.
“Per la prima volta – prosegue lo zoologo dell’Ateneo fiorentino – si è analizzato lo sforzo mondiale di conservazione delle specie e degli ambienti andando a studiare la distribuzione dei fondi dedicati alla conservazione, e non contando il numero di articoli pubblicati: dei 1.963 miliardi di dollari assegnati complessivamente dai progetti, l’82,9% è stato destinato a vertebrati. Piante e invertebrati hanno rappresentato ciascuno il 6,6% dei finanziamenti, mentre funghi e alghe sono appena rappresentati, con meno dello 0,2% per ciascuna delle specie”.
Anche all’interno di molti dei gruppi maggiormente finanziati esistono grosse disparità: i mammiferi di grossa taglia, che rappresentano solo un terzo dei mammiferi minacciati, secondo l’IUCN, hanno ricevuto l’86% dei finanziamenti.
Una grossa percentuale dei fondi analizzati riguarda il più ricco e importante programma di fondi per la conservazione europeo, quello dei progetti LIFE, che in realtà sono la spina dorsale dei fondi per la conservazione delle specie italiane, e che quindi ci riguarda direttamente.
“I dati dicono, per esempio – prosegue Cannicci – che tra i vertebrati più a rischio di estinzione ci sono gli anfibi (salamandre e rane), ma i fondi a loro dedicati sono meno del 2% del totale. In generale, gli animali che noi consideriamo ‘brutti’ o pericolosi (pipistrelli, serpenti, lucertole, e moltissimi insetti escluse le farfalle) sono scarsissimamente finanziati in termine di conservazione”.
“Investire i fondi sulla conservazione di poche specie non preserva gli ecosistemi che li supportano: che senso ha conservare un animale ma non gli animali o le piante che mangiano?” si domanda il ricercatore, che conclude: “Per affrontare in modo efficace la sfida della tutela della biodiversità gli autori dello studio propongono che siano destinate complessivamente più risorse alla conservazione, ma anche che le organizzazioni governative e non governative lavorino per riallineare, sulla base delle conoscenze scientifiche, le priorità di finanziamento verso le specie a reale rischio di estinzione e attualmente trascurate”.
Testo e foto dall’Ufficio Stampa Unità funzionale comunicazione esterna dell’Università degli Studi di Firenze
Biosentinelle a due passi dalla Torre pendente: trovati 57 licheni (più un fungo non-lichenizzato) nell’Orto Botanico dell’Università di Pisa
Lo studio pubblicato sulla rivista Italian Botanist rivela una insolita concentrazione di questi organismi su una superficie ridotta, fra cui specie rare e a rischio estinzione
1. Arthopyrenia platypyrenia
2. Lecidella elaeochroma (il lichene crostoso con corpi fruttiferi neri), Physcia adscendens (il lichene frondoso celestino) e Xanthoria parietina (il lichene frondoso giallo)
3. Chrysothrix candelaris
4. Ginkgo biloba vistosamente colonizzato alla base del tronco da Diploicia canescens
Sentinelle che monitorano la qualità dell’aria, purificandola dai metalli pesanti, sono i licheni, organismi simbiotici composti da almeno due partner diversi che traggono vantaggio l’uno dall’altro, in questo caso un fungo e un’alga. Nell’Orto Botanico dell’Università di Pisa, a due passi dalla Torre pendente, un gruppo di ricerca dell’Università di Pisa ha trovato una concentrazione inusuale di questi organismi, ben 57 licheni “epifiti”, che crescono cioè sulla corteccia degli alberi, più un fungo non-lichenizzato. Fra essi, ci sono anche specie rare e a rischio estinzione, alcune delle quali rinvenute per la prima volta in Toscana, mentre la presenza diffusa di licheni tolleranti all’azoto è probabilmente associata alle condizioni ambientali urbane.
Lo studio dell’Ateneo di Pisa, in collaborazione con l’Accademia delle Scienze Slovacca, è stato pubblicato sulla rivista Italian Botanist ed è partito da una tesi di laurea triennale in Scienze Naturali e Ambientali condotta da Giorgia Spagli, con la supervisione dei professori Luca Paoli e Lorenzo Peruzzi, botanici del Dipartimento di Biologia, e la collaborazione di Marco D’Antraccoli e Francesco Roma-Marzio, rispettivamente curatore dell’Orto Botanico e curatore dell’Erbario del Museo Botanico.
“In un recente studio è stato calcolato che nelle aree protette italiane ci si possono attendere circa 59 specie di licheni epifiti per km², mentre nel nostro caso, in contesto urbano e su una superficie di soli 0,02 km², ne sono state censite ben 57 – racconta Peruzzi – I giardini botanici nei centri urbani sono infatti isole verdi che offrono rifugio a diversi organismi animali e vegetali, compresi i licheni, che compaiono spontaneamente grazie alla diversità di micro habitat presenti e alla ricchezza di specie arboree”.
“I licheni sono fra i primi colonizzatori degli habitat anche se spesso passano inosservati – aggiunge Paoli – e tuttavia il ruolo che rivestono è molto importante: si tratta di organismi che possono fra l’altro essere utilizzati come biomonitor, una soluzione economica che può integrare le tradizionali centraline di rilevamento per valutare la qualità dell’aria e degli ecosistemi in generale”.
Fra le specie trovate, Arthopyrenia platypyrenia e Coenogonium tavaresianum sono nuove segnalazioni per la Toscana.Il primo è un fungo non-lichenizzato di ridottissime dimensioni, poco noto e poco segnalato a livello europeo, in Italia questa specie era nota sinora solo in Calabria. A Pisa cresce sulla scorza di un esemplare di pittosporo (Pittosporum tobira). Coenogonium tavaresianum colonizza tipicamente boschi umidi della costa tirrenica, è una specie a rischio di estinzione, ma nell’Orto Botanico cresce abbondantemente sulla scorza di un esemplare di cedro della California (Calocedrus decurrens). Lecania cyrtellina, infine, è segnalato per la Toscana solo nell’Orto Botanico di Pisa, dove cresce sulla scorza di un vetusto esemplare di palma del Cile (Jubaea chilensis).
Riferimenti bibliografici:
Fačkovcová Z, Spagli G, D’Antraccoli M, Roma-Marzio F, Peruzzi L, Paoli L, Guttová A (2024) Islands of lichen diversity in urban environments: a hidden richness in botanical gardens, Italian Botanist 18: 245-258, DOI: https://doi.org/10.3897/italianbotanist.18.144373
Testo e foto dall’Ufficio stampa dell’Università di Pisa.
Riscaldamento globale: entro 2100 pericolo estinzione per alghe e foreste marine
L’Università di Pisa partner dello studio pubblicato sulla rivista Nature Communications, secondo il team di ricerca le regioni polari potrebbero essere l’ultimo rifugio per queste specie
Se non ci saranno interventi per mitigare subito le emissioni di gas serra, le foreste macroalgali e le fanerogame (fra cui Posidonia oceanica, una pianta superiore endemica del Mediterraneo) sono a rischio estinzione entro il 2100. Il riscaldamento globale rischia di provocare a livello mondiale una riduzione fra l’80 e il 90% degli ambienti adatti alla sopravvivenza di queste specie che potranno trovare rifugio solo nelle regioni polari. Lo scenario emerge da uno studio pubblicato sulla rivista Nature Communications e condotto dalle Università di Helsinki e di Pisa, dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA) e dal Centro di eccellenza australiano per la Biodiversità e il patrimonio naturale (CABAH).
Attraverso modelli statistici, la ricerca ha mappato la distribuzione di 207 specie, 185 macroalghe brune e 22 fanerogame, a partire dal 2015 con proiezioni annuali sino alla fine del secolo. Questi organismi, presenti attualmente in grande quantità sulle coste (le macroalghe occupano 2,63 milioni di km2 e le fanerogame 1,65), sono essenziali per la vita marina in quanto producono ossigeno attraverso la fotosintesi, immagazzinano anidride carbonica, contribuiscono a mantenere una elevata biodiversità, fanno da ‘nursery’ a numerose specie di pesci e crostacei di interesse commerciale e proteggono dall’erosione costiera.
“La questione è globale, le foreste macroalgali popolano le coste rocciose di tutto il mondo, dalla battigia ad alcune decine di metri di profondità – spiega il professore Lisandro Benedetti-Cecchi del dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa – Nel Mediterraneo queste sono costituite prevalentemente da alghe brune arborescenti del genere Cystoseira, piante le cui “chiome” si innalzano dal fondo per alcune decine di centimetri formando delle vere e proprie foreste in miniatura. Insieme a Posidonia oceanica, le alghe arborescenti sono una riserva di energia che alimenta il funzionamento dell’intero sistema marino costiero e in ultima analisi la nostra vita sulla terraferma”.
L’impatto del cambiamento climatico non sarà comunque uniforme a livello globale, con zone che potranno perdere o guadagnare in termini di biodiversità, in un bilancio complessivo comunque negativo. Secondo la stime, le foreste di macroalghe e le fanerogame diminuiranno soprattutto in Europa, nel Mar Baltico, nel Mar Nero, nella costa pacifica del Sud America, nella penisola coreana e nelle coste nord-occidentali e sud-orientali dell’Australia.
“Gli studi sul cambiamento climatico di solito riguardano l’ambiente terrestre, mentre il mare resta di solito relativamente inesplorato – conclude il professore Lisandro Benedetti-Cecchi – questo lavoro vuole ribaltare la prospettiva, e quantificare i cambiamenti globali che riguardano l’ecosistema marino”.
Riferimenti bibliografici:
Manca, F., Benedetti-Cecchi, L., Bradshaw, C.J.A. et al. Projected loss of brown macroalgae and seagrasses with global environmental change, Nat Commun15, 5344 (2024), DOI: https://www.nature.com/articles/s41467-024-48273-6
Riscaldamento globale: entro 2100 pericolo estinzione per alghe e foreste marine; lo studio è pubblicato sulla rivista Nature Communications. Nell’immagine, Posidonia oceanica. Foto di Frédéric Ducarme, CC BY-SA 4.0
Testo e foto (ove non indicato diversamente) dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa
Dalla curcuma una soluzione per salvare i coralli dai cambiamenti climatici
L’Istituto Italiano di Tecnologia – IIT e l’Università di Milano-Bicocca hanno dimostrato l’efficacia di una sostanza estratta dalla curcuma nella protezione dei coralli dai danni dei cambiamenti climatici. La molecola viene somministrata attraverso un biomateriale biodegradabile, sviluppato dagli stessi partner, e nei test svolti all’Acquario di Genova si è dimostrata efficace nel proteggere i coralli dallo sbiancamento.
Milano, 19 luglio 2023 – L’Istituto Italiano di Tecnologia – IIT e l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, in collaborazione con l’Acquario di Genova, hanno recentemente pubblicato su ACS Applied Materials and Interfaces, uno studio (“Biodegradable Zein-Based Biocomposite Films for Underwater Delivery of Curcumin Reduce Thermal Stress Effects in Corals”, DOI: 10.1021/acsami.3c01166) dove è stata dimostrata l’efficacia della curcumina, una sostanza antiossidante estratta dalla curcuma, nel ridurre lo sbiancamento dei coralli, fenomeno causato principalmente dai cambiamenti climatici. I due partner coinvolti hanno sviluppato un biomateriale biodegradabile per somministrare la molecola senza provocare danni all’ambiente marino circostante. I test eseguiti all’Acquario di Genova hanno dimostrato un’efficacia significativa nel prevenire lo sbiancamento dei coralli.
Scogliera corallina in fase di recupero nei pressi del MaRHE center, isola di Magoodhoo, Atollo di Faafu, Maldive. Crediti: Università Milano-Bicocca
Lo sbiancamento dei coralli è un fenomeno che, negli eventi estremi, determina la morte di questi organismi con conseguenze devastanti per le barriere coralline, queste ultime fondamentali per l’economia globale, la protezione delle coste dai disastri naturali e la biodiversità marina. La maggior parte dei coralli vive in simbiosi con alghe microscopiche, indispensabili per la loro sopravvivenza e responsabili dei loro colori brillanti. A causa dei cambiamenti climatici le temperature di mari e oceani sono in aumento, condizione che interrompe il rapporto tra questi due organismi. Quando ciò accade, il corallo, ormai bianco per la perdita delle alghe, rischia letteralmente di morire di fame.
Negli ultimi anni, a seguito dei cambiamenti climatici, questa condizione ha colpito la maggior parte delle barriere scogliere coralline più importanti del mondo, inclusa la Grande Barriera Corallina australiana. Tuttavia, a oggi non esistono interventi di mitigazione efficaci per prevenire lo sbiancamento dei coralli senza mettere in serio pericolo l’integrità di questi habitat e l’eccezionale biodiversità associata.
Corallo Stylophora pistillata ricoperto del biomateriale durante le prove di stress termico. Crediti: Acquario di Genova
I ricercatori e le ricercatrici dell’Istituto Italiano di Tecnologia e dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, in collaborazione con l’Acquario di Genova, hanno dimostrato l’efficacia di una molecola, la curcumina, nel bloccare lo sbiancamento dei coralli provocato dai cambiamenti climatici. La curcumina viene somministrata in maniera controllata sul corallo applicando un biomateriale a base di zeina, una proteina derivata dal mais, che è stato sviluppato dagli stessi partner per essere sicuro per l’ambiente.
Durante i test, svolti nell’Acquario di Genova, si sono simulate le condizioni di surriscaldamento dei mari tropicali alzando la temperatura dell’acqua fino a 33°C. In questa condizione tutti i coralli non trattati sono risultati colpiti dal fenomeno dello sbiancamento come succederebbe in natura mentre, al contrario, tutti gli esemplari trattati con la curcumina non hanno mostrato segni di tale fenomeno, risultati che rendono questo metodo efficace nel ridurre la suscettibilità dei coralli allo stress termico. Per questo studio è stata utilizzata una specie di corallo (Stylophora pistillata) tipica dell’oceano Indiano tropicale e inserita nella Lista rossa IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura) tra le specie minacciate dal rischio di estinzione.
«Questa tecnologia è oggetto di una domanda di brevetto depositata, infatti i prossimi passi di questa ricerca si focalizzeranno sull’applicazione in natura e su larga scala – afferma il primo autore dello studio Marco Contardi, ricercatore affiliato del gruppo Smart Materials dell’Istituto Italiano di Tecnologia e ricercatore del DISAT (Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra) dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca – allo stesso tempo, esamineremo l’utilizzo di altre sostanze antiossidanti di origine naturale per bloccare il processo di sbiancamento e prevenire così la distruzione delle barriere coralline».
«L’utilizzo di nuovi materiali biodegradabili e biocompatibili capaci di rilasciare sostanze naturali in grado di ridurre lo sbiancamento dei coralli rappresenta una novità assoluta – dichiara Simone Montano ricercatore del DISAT e vice direttore del MaRHE Center (Marine Research and High Education Center) dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca – credo fortemente che questo approccio innovativo rappresenterà una trasformazione significativa nello sviluppo di strategie per il recupero degli ecosistemi marini».
Testo e foto dall’Ufficio stampa Università di Milano-Bicocca
Uomo e orso: una convivenza possibile? Un nuovo studio coordinato dalla Sapienza sull’orso bruno marsicano svela le caratteristiche che rendono possibile la coesistenza e le riflessioni per migliorare le azioni future.
Uomo e orso: una convivenza possibile? L’esempio positivo dell’orso bruno marsicano nel Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise. Angelina Iannarelli – PNALM
Le comunità locali dell’Appennino centrale coabitano da millenni con una preziosissima quanto unica popolazione di orso bruno marsicano.
Studi precedenti avevano già messo in luce come i residenti del Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise (PNALM), la storica roccaforte di questa particolare specie di orso, mostrino un atteggiamento molto positivo nei confronti del plantigrado e una tolleranza nei suoi confronti che non ha pari, né in Italia né altrove in Europa.
Una nuova ricerca condotta da Sapienza Università di Roma in collaborazione con l’Istituto spagnolo di studi sociali avanzati e con il Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise (PNALM) e pubblicata sulla rivista scientifica Journal for Nature Conservation, ha analizzato gli elementi che rendono possibile la coesistenza funzionale di uomini e orsi per la realizzazione sostenibile delle necessità di entrambe le parti.
L’orso bruno marsicano soffre di scarsissima variabilità genetica ed è soggetto a elevato rischio di estinzione. Per questo motivo è fondamentale ridurre al minimo qualsiasi fonte di impatto con l’uomo, a partire dai livelli di mortalità accidentale e illegale, che sono incompatibili per una così esigua popolazione di orso.
Dall’altra parte ci sono gli interessi dei principali attori sociali come forestali, guardia parco, allevatori e cacciatori e altre categorie che insistono sul territorio.
“La divergenza di vedute – spiega Jenny Anne Glikman, ricercatrice presso dell’Istituto spagnolo di studi sociali svanzati, prima autrice dello studio – aumenta in relazione alla percezione di come i costi e i benefici della coesistenza con l’orso siano distribuiti tra categorie sociali, nonostante tutte sostengono la causa della sua conservazione”.
È proprio su questo fronte, suggeriscono gli autori, che bisogna focalizzare la futura attenzione gestionale.
“Nonostante il Parco abbia una lunga storia alle spalle di interventi per la conservazione dell’orso bruno marsicano – sottolinea Daniela D’Amico, responsabile dell’Ufficio Promozione e Comunicazione del PNALM e coautrice dello studio – quello che ci interessava in modo particolare era capire come migliorare ulteriormente le condizioni di coesistenza tra uomo e orso, alla luce dei cambiamenti sociali ed economici in atto e tenendo conto dei diversi punti di vista delle persone che condividono quotidianamente il territorio con l’orso”.
Tra le implicazioni pratiche dello studio gli autori sottolineano la necessità di ricorrere a forme di collaborazione, pianificazione e condivisione gestionale più strette con i vari portatori di interesse, al fine di promuovere maggiore coinvolgimento e senso di responsabilità sociale.
“In virtù del lunghissimo periodo di coabitazione, dell’elevata tolleranza e dell’atteggiamento positivo nei confronti dell’orso, i tempi sono maturi per promuovere un senso di responsabilità collettiva nei confronti della specie che non può più essere vista come una prerogativa esclusivamente istituzionale e un vincolo per le comunità locali – sottolinea Paolo Ciucci della Sapienza, coordinatore dello studio – Attraverso i suoi rappresentanti, l’intera comunità deve poter essere coinvolta nella gestione e condividere l’orgoglio e la soddisfazione di una conservazione di successo di una specie localmente considerata di elevato valore. Solo attraverso una responsabilità socialmente condivisa i comportamenti individuali che mettono a rischio l’incolumità dell’orso (velocità eccessive sulle strade, pratiche zootecniche incompatibili, l’uso illegale del veleno) verrebbero considerati moralmente inaccettabili”.
Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
SU UNA DELLE 15 SPECIE AL MONDO A RISCHIO ESTINZIONE
SU SKY NATURE SABATO 24 SETTEMBRE ALLE 21.15
DISPONIBILE ANCHE IN STREAMING SU NOW E ON DEMAND
Con la sua programmazione spettacolare, Sky Nature ha aperto una finestra sul mondo della natura, cercando di sensibilizzare il pubblico su tematiche ambientali e continuando a valorizzare il territorio del nostro Paese attraverso produzioni originali.
Dopo La Via Incantata, il documentario alla scoperta della Val Grande in Lombardia, Sky Nature ci porta nel cuore verde dell’Italia, nel Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise, per puntare i riflettori su una delle 15 specie animali del pianeta a rischio estinzione.
Il Marsicano. L’ultimo Orso è un documentario Sky Original – da sabato 24 settembre su Sky Nature e disponibile in streaming su NOW e on demand – su un tesoro naturalistico d’importanza mondiale che viene protetto ogni giorno, da 100 anni, dagli uomini e dalle donne del Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise (PNALM), uno dei parchi più antichi del nostro Paese e considerato lo Yellowstone italiano. In Abruzzo vive l’Orso Bruno Marsicano, tra le 15 specie animali del pianeta a rischio estinzione e di cui sono rimasti solo 60 esemplari. Una gestione incredibilmente complessa, che deve fare i conti con la scarsità di risorse, umane e finanziarie, e l’antropizzazione del territorio. Tecnici, guardiaparco, scienziati e forestali sono infatti chiamati a confrontarsi costantemente con i cittadini di questo lembo d’appennino, che hanno atteggiamenti contrastanti nei confronti dell’orso e degli altri animali selvatici che abitano questi luoghi da secoli. Alcuni sono abituati a convivere con questi grandi mammiferi – cervi, lupi, volpi, camosci e per l’appunto orsi. Per altri, invece, sono solo una minaccia o un disturbo.
Da tempo l’Orso Marsicano è inserito dall’UICN – l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura – nella categoria “pericolo critico di estinzione”. A tutti gli effetti può essere considerato come la tigre in India e l’elefante in Africa. La missione, quindi, è di toglierlo definitivamente dall’elenco delle specie minacciate.
Amarena coi cuccioli
A fare da sfondo a Il Marsicano. L’ultimo orso è l’incredibile vicenda di Juan Carrito, l’orsetto nato assieme ad altri 3 cuccioli da mamma Amarena in pieno lockdown. Una storia eccezionale che ha tenuto, per oltre un anno, Parco e cittadini impegnati nella sua salvaguardia. E che ha messo in luce tutte le contraddizioni legate alla convivenza.
Il racconto segue per un anno la vita del Parco e delle specie che protegge da un secolo con immagini sul campo, le attività di monitoraggio e controllo dei biologi, attraverso censimenti e il controllo GPS di alcuni esemplari, le interviste alle guide del PNALM, gli incontri dei tecnici del parco con le comunità interessate dalla presenza dell’orso e i racconti dei cittadini che quotidianamente si trovano a tu per tu con l’orso e che testimoniano l’unicità dello Yellowstone Italiano.
L’Orso Marsicano è davvero una minaccia per l’uomo o è l’uomo a essere una minaccia per questa specie?
Il Presidente del Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise, Giovanni Cannata, ha raccontato: “Juan Carrito è stata una sfida incredibile che ha messo a dura prova il personale del Parco, nelle sue molteplici professionalità, tutte impegnate ad assicurare la conservazione dell’orso. Ma è stata anche la messa a sistema di tutte le istituzioni impegnate per assicurare che territori potenzialmente idonei alla vita dell’orso marsicano siano effettivamente a misura d’orso”.
“Un film che svela i retroscena della vicenda dell’Orso Juan Carrito, il cucciolo che ha tenuto col fiato sospeso un’intera regione. Un anno di riprese – ha spiegato il regista Massimiliano Sbrolla – per raccontare il complesso lavoro che ogni giorno tiene impegnate decine di persone nella salvaguardia di una specie unica e affascinante. Patrimonio di tutti noi”.
Così Dino Vannini, Head of Documentary & Factual Channels di Sky, ha concluso: “Ci fa particolarmente piacere poter presentare Il Marsicano. L’ultimo Orso in un contesto così adatto, cioè proprio all’interno del territorio del Parco Nazionale di Abruzzo, Lazio e Molise. Il progetto è nato infatti a braccetto con questa Istituzione alla nascita, un anno fa, di Sky Nature, un canale che ha fatto dell’attenzione all’ambiente e all’ecologia una missione dichiarata. Poter affrontare una tematica così complessa come la storia di Juan Carrito, in una chiave così inedita e con accessi tanto privilegiati, ci rende davvero fieri di questo contenuto”.
Il Marsicano. L’ultimo orso è un documentario Sky Original diretto da Massimiliano Sbrolla e realizzato da Zoofactory, in collaborazione con il Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise.
Cellule staminali pluripotenti di rinoceronte bianco del nord: il consorzio BioRescue fa un passo avanti verso le cellule uovo artificiali
Il consorzio BioRescue sta sviluppando metodi avanzati di riproduzione assistita per salvare il rinoceronte bianco del nord dall’estinzione. In questa missione gli ovociti delle ultime femmine rimaste giocano un ruolo chiave poiché da essi, tramite la fecondazione in vitro con lo sperma di maschi ormai deceduti, vengono creati embrioni. Il Max Delbrück Center for Molecular Medicine (MDC) di Berlino, che fa parte del consorzio BioRescue, sta lavorando con i partner di Monaco e di Kyushu (Giappone) su una seconda strategia: ottenere ovociti a partire da cellule staminali. Il team è riuscito a creare cellule staminali pluripotenti indotte (iPSC) da Nabire, un rinoceronte bianco del Nord. Questo rappresenta un significativo avanzamento nel processo di creazione di iPSC e della loro differenziazione in cellule staminali allo stadio di pluripotenza di tipo primed e naïve. Questo importante avanzamento verso la creazione di ovociti artificiali da cellule staminali è stato pubblicato nella rivista “Scientific Reports”.
Nabiré presso il Safari Park Dvur Kralove. Foto di Hynek Glos
Gli scienziati del MDC Technology Platform “Pluripotent Stem Cells” e dell’Helmholtz Zentrum München sono stati in grado di produrre cellule staminali pluripotenti indotte (iPSC) a partire da cellule cutanee conservate di Nabire, un rinoceronte bianco del Nord che viveva nel Safari Park Dvůr Králové (Repubblica Ceca) dove è morta, nel 2015, all’età di 31 anni. Il giorno stesso della sua morte, gli scienziati hanno prelevato dei campioni di pelle e altri tessuti e li hanno crioconservati per un successivo utilizzo. Il Dr. Micha Drukker, scienziato che si occupa di cellule staminali, e il suo team dell’Helmholtz Zentrum München e del Leiden Academic Centre for Drug Research dell’Università di Leiden sono riusciti a produrre cellule iPSC da questi tessuti utilizzando il metodo della riprogrammazione con vettori episomali. A tale scopo il Dr. Drukker e il suo team hanno introdotto nel genoma delle cellule della pelle del rinoceronte delle molecole di DNA esogeno, i cosiddetti plasmidi. Questi plasmidi contengono dei geni che riprogrammano le cellule della pelle in cellule iPS. È la prima volta che la creazione di cellule iPS a partire da campioni ottenuti da un rinoceronte di questa età ha avuto successo. Questo migliora significativamente le possibilità di creare ovociti artificiali, da usare per la riproduzione assistita avanzata, a partire da cellule staminali dato che i rinoceronti bianchi del nord donatori di tessuto sono o erano soggetti di età piuttosto avanzata.
Nabiré presso il Safari Park Dvur Kralove. Foto di Khalil Baalbaki
Un secondo, ma non meno importante, progresso nel processo e nei protocolli di produzione di cellule staminali di rinoceronte si è avuto grazie alle intuizioni del team sui diversi stadi di differenziazione delle cellule staminali. Le cellule iPS, infatti, hanno diversi stati di differenziazione: possono essere allo stadio di pluripotenza di tipo naïve – lo “stato base” della pluripotenza – o primed. Si pensa che cellule in quest’ultimo stadio abbiano raggiunto una fase dello sviluppo embrionale leggermente più avanzata. Gli esperimenti su cellule staminali di topo mostrano che queste sono particolarmente efficienti a produrre cellule germinali quando passano dallo stato primed a quello naïve. Quando, però, gli scienziati hanno tentato per la prima volta di convertire le cellule di rinoceronte in uno stadio di tipo naïve le cellule sono morte. Il team ha quindi introdotto un gene nelle cellule di rinoceronte che impedisce la morte cellulare e con questo hanno avuto successo nella produzione di cellule iPS naïve.
La dott.ssa Vera Zywitza presso il MDC lab. Foto di Jan Zwilling
“Abbiamo caratterizzato le cellule in dettaglio anche analizzando i dati del trascrittoma”, spiega il primo autore Dr.ssa Vera Zywitza che fa parte del team guidato dal Dr. Sebastian Diecke della Technology Platform “Pluripotent Stem Cells”del MDC. “Il successo della conversione a uno stato di pluripotenza simile a quello naïve è un punto di partenza promettente per la generazione di cellule germinali”.
Lo scienziato Norman Krüger presso il MDC lab- Foto di Jan Zwilling
Tuttavia, la Dr.ssa Vera Zywitza e i suoi colleghi non possono ancora passare alla fase successiva.
“Le cellule iPS che abbiamo coltivato contengono ancora del materiale genetico esogeno rappresentato dai fattori di riprogrammazione e dal gene che impedisce la morte cellulare”, spiega la Dr.ssa Zywitza. “Questo significa che non possiamo usarle per creare cellule germinali, perché c’è il rischio che queste vengano alterate patologicamente”.
La dott.ssa Vera Zywitza presso il MDC lab. Foto di Jan Zwilling
Nel frattempo, il team di Diecke ha creato altre cellule iPS usando un virus a RNA per introdurre i fattori di riprogrammazione invece dei plasmidi. Queste nuove cellule iPS non contengono nulla di estraneo e, ora, gli scienziati stanno cercando di produrre da esse cellule germinali primordiali.
“Questo lavoro contribuisce significativamente alla comprensione della pluripotenza, ossia della capacità delle cellule staminali di differenziarsi in qualsiasi tipo di cellula del corpo”, dice la Dr.ssa Zywitza. “Questo segna un inizio promettente per la coltivazione di cellule germinali e, quindi, rappresenta una importante pietra miliare sulla via verso gli ovociti di rinoceronte generati artificialmente”.
Cellule staminali pluripotenti di rinoceronte bianco del nord. Il dott. Sebastian Diecke e la dott.ssa Vera Zywitza presso il MDC lab. Foto di Jan ZwillingCellule staminali pluripotenti di rinoceronte bianco del nord. Il dott. Sebastian Diecke e la dott.ssa Vera Zywitza presso il MDC lab. Foto di Jan Zwilling
Per il rinoceronte bianco del nord la riproduzione naturale non è più possibile dato che la popolazione rimanente è di soli due animali e sono entrambe femmine. Tuttavia, il consorzio BioRescue guidato dal Leibniz Institute for Zoo and Wildlife Research (Leibniz-IZW) sta sviluppando metodi che potrebbero rendere possibile la riproduzione nonostante queste circostanze avverse. Gli scienziati del team stanno prelevando ovociti (cellule uovo immature) dalle femmine, li fecondano in laboratorio con sperma scongelato da maschi ormai deceduti per creare degli embrioni, di cui 14 sono stati già crioconservati in azoto liquido. Usando una tecnologia ed un metodo completamente nuovi per i rinoceronti, attualmente in fase di ottimizzazione da parte del team di BioRescue, gli embrioni possono essere impiantati in femmine di rinoceronte bianco del sud che fungono da madri surrogate per dare alla luce la tanto desiderata prole dei rinoceronti più rari del mondo, quelli del nord.
“Ogni passo di questa missione è un territorio scientifico inesplorato. La disponibilità di un numero limitato di ovociti e la bassa variabilità genetica della popolazione rappresentata sono aspetti particolarmente impegnativi da risolvere”, dice il leader del progetto BioRescue, il Prof Thomas Hildebrandt, capo del Dipartimento di Gestione della Riproduzione al Leibniz-IZW. Gli ovociti possono essere prelevati e fecondati con successo solo da un individuo, ed è per questo che si stanno cercando strategie per ottenere un maggior numero di ovociti da soggetti diversi non imparentati tra loro.
Colture di cellule staminali al microscopio presso il MDC lab, Foto di Jan Zwilling
Come parte del consorzio BioRescue, l’MDC e l’Università di Kyushu, insieme ad altri partner come l’Helmholtz Zentrum München, stanno sviluppando metodi per produrre gameti (uova e sperma) da cellule della pelle. Nel 2016, il Prof Katsuhiko Hayashi (Kyushu University) è riuscito a generare ovociti dalla pelle dei topi, fecondarli artificialmente ed impiantarli in femmine di topo e i topi nati con questo metodo erano sani e fertili. “Se riuscissimo a fare lo stesso per il rinoceronte bianco del nord, potremmo smettere il difficoltoso prelievo di cellule uova da animali vivi e produrre, comunque, embrioni e anche in un numero maggiore”, afferma il Dr. Hildebrandt. “Questa strategia aumenterebbe anche significativamente il numero di animali che potremmo usare per produrre gli embrioni”. Finora, questo è limitato alle due femmine viventi, utilizzabili come donatrici di ovociti e ai quattro maschi di cui è stato crioconservato lo sperma. Sono, però, disponibili colture cellulari non solo di questi sei individui, ma anche di altri sei rinoceronti bianchi settentrionali, come ad esempio quello di Nabire.
Cellule staminali di rinoceronte, foto di Sebastian Diecke MDC
Tutte le procedure del Consorzio BioRescue sono sottoposte a un’approfondita valutazione etica al fine di valutare sistematicamente l’equilibrio tra il benessere degli animali ed il valore conservazionistico delle procedure. Poiché questo è particolarmente importante quando si sviluppano nuove tecnologie innovative per la conservazione, fa parte del team di BioRescue anche un team di specialisti di etica della fauna selvatica guidato dalla Prof.ssa Barbara de Mori dell’Università di Padova. Questo team sta valutando anche la dimensione etica delle procedure legate alle cellule staminali all’interno del BioRescue e continuerà ad accompagnare da vicino ogni ulteriore passo di questa missione.
Fatu e Najin presso l’Ol Pejeta Conservancy. Foto di Jan Zwilling
Nei prossimi mesi e anni gli scienziati del BioRescue affronteranno la sfida di riprogrammare le cellule iPS in modo tale che da esse sia effettivamente possibile produrre ovociti e spermatozoi. Se questo riuscisse, la procedura successiva sarebbe la stessa dell’approccio effettuato finora dal BioRescue. Gli ovociti artificiali verrebbero maturati e fecondati in laboratorio tramite iniezione intracitoplasmatica di sperma (ICSI) per dare origine ad embrioni di rinoceronte bianco del nord. Questi embrioni sarebbero crioconservati in azoto liquido per poi essere scongelati e trasferiti in una madre surrogata della specie affine del rinoceronte bianco del Sud.
“L’approccio delle cellule staminali è un pezzo fondamentale del puzzle della nostra missione, ma non ci esime dal dover affrontare anche altri passi impegnativi come il trasferimento degli embrioni in una madre recipiente per dare inizio alla gravidanza”, conclude Hildebrandt.
Fatu e Najin presso l’Ol Pejeta Conservancy. Foto di Jan Zwilling
Il progetto BioRescue può essere sostenuto finanziariamente su www.biorescue.org.
Lo scienziato Norman Krüger presso il MDC lab- Foto di Jan Zwilling
Pubblicazione
Zywitza V, Rusha E, Shaposhnikov D, Ruiz‑Orera J, Telugu N, Rishko V, Hayashi M, Michel G, Wittler L, Stejskal J, Holtze S, Göritz F, Hermes R, Wang J, Izsvak Z, Colleoni S, Lazzari G, Galli C, Hildebrandt TB, Hayashi K, Diecke S & Drukker M (2022): Naïve-like pluripotency to pave the way for saving the northern white rhinoceros from extinction. Sci Rep 12, 3100 (2022). https://doi.org/10.1038/s41598-022-07059-w
Comunicato Leibniz Institute for Zoo and Wildlife Research (Leibniz-IZW), Max Delbrück Center for Molecular Medicine in the Helmholtz Association (MDC), Avantea, Safari Park Dvůr Králové, Università di Padova.
Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Padova.
BioRescue crea due nuovi embrioni in una corsa contro il tempo per prevenire l’estinzione del rinoceronte bianco del nord
Fatu dopo la raccolta degli ovociti. BioRescue /Jan Zwilling
In due serie di procedure, tra ottobre 2021 e febbraio 2022, il consorzio BioRescue ha creato due nuovi embrioni di rinoceronte bianco del nord, portando il totale a 14. Gli ovociti (cellule uovo) sono stati raccolti dalla femmina Fatu in ottobre e gennaio presso Ol Pejeta Conservancy, Kenya, e sono stati maturati e fecondati nei laboratori Avantea, in Italia. Gli embrioni sono stati poi crioconservati a novembre 2021 e febbraio 2022, e attendono di essere impiantati in una o più femmine di rinoceronte bianco del sud in un prossimo futuro.
Fatu e Najin presso l’Ol Pejeta Conservancy. BioRescue /Jan Zwilling
Le procedure che si sono svolte ad ottobre 2021 e a gennaio 2022 a Ol Pejeta segnano il successo della settima e ottava raccolta di ovociti condotta dal team di scienziati e conservazionisti del Leibniz Institute for Zoo and Wildlife Research (Leibniz-IZW), Safari Park Dvůr Králové, Kenya Wildlife Service, Wildlife Research and Training Institute, Ol Pejeta Conservancy, Avantea e Università degli Studi di Padova. Dal 2019, grazie alle otto procedure effettuate, il team ha recuperato un totale di 119 ovociti da Fatu e da sua madre Nájin—ottenendo 14 embrioni. Nel corso del 2021 il consorzio ha deciso di cessare la raccolta di ovociti su Najin dopo aver condotto una valutazione etica dei rischi.
Julia Bohner e Frank Göritz supervisionano mentre Fatu viene sedata per la raccolta degli ovociti. BioRescue /Jan Zwilling
Gli ovociti raccolti sono stati trasportati per via aerea ai laboratori Avantea di Cremona, in Italia, per la maturazione, la fecondazione, lo sviluppo embrionale e la crioconservazione. Entrambi gli embrioni prodotti sono stati fecondati usando il seme del rinoceronte bianco del nord Angalifu. In totale, ci sono ora 11 embrioni di Fatu e Suni e 3 embrioni di Fatu e Angalifu conservati in azoto liquido.
Ricerca degli ovociti al microscopio. BioRescue /Jan Zwilling
Un numero maggiore di embrioni aumenta le possibilità di vedere in futuro nascere nuovi rinoceronti bianco del nord. Il consorzio mira a ripetere la procedura di raccolta di ovociti da Fatu e lo sviluppo embrionale su base regolare, finché—considerando il benessere di Fatu e le possibilità di successo— ciò è fattibile e responsabile. Questo sarà determinato da regolari valutazioni etiche dei rischi che sono condotte prima di ogni procedura dal BioRescue sotto la guida del Laboratorio di Etica per la Medicina Veterinaria, Conservazione e Benessere Animale dell’Università di Padova.
Analisi all’ultrasuono durante la raccolta degli ovociti. BioRescue /Jan Zwilling
Istituto Leibniz per la ricerca su zoo e fauna selvatica (Leibniz-IZW)
Il Leibniz-IZW è un istituto di ricerca tedesco di fama internazionale del Forschungsverbund Berlin e.V. e membro dell’Associazione Leibniz. La nostra missione è quella di esaminare gli adattamenti evolutivi della fauna selvatica al cambiamento globale e sviluppare nuovi concetti e misure per la conservazione della biodiversità. Per raggiungere questo obiettivo, i nostri scienziati usano la loro vasta esperienza interdisciplinare che va dalla biologia e alla medicina veterinaria per condurre ricerche fondamentali ed applicate – dal livello molecolare al paesaggio – in stretto dialogo con il pubblico e le parti interessate. Inoltre, siamo impegnati in servizi unici e di alta qualità per la comunità scientifica.
Il Safari Park Dvůr Králové è un parco safari nella Repubblica Ceca. È uno dei migliori allevatori di rinoceronti fuori dall’Africa e l’unico posto dove il rinoceronte bianco del Nord è stato allevato in cattività; infatti, entrambe le femmine rimaste, Najin e Fatu, sono nate qui. Il Safari Park Dvůr Králové coordina gli sforzi per salvare i rinoceronti bianchi del Nord.
Il Kenya Wildlife Service è la principale istituzione governativa che conserva e gestisce la fauna selvatica per i kenioti e per il mondo. Fa anche rispettare le leggi e i regolamenti relativi.
Istituto di ricerca e formazione sulla fauna selvatica
Il Wildlife Research and Training Institute è una società statale istituita ai sensi del Wildlife Conservation and Management Act No. 47 del 2013 per intraprendere e coordinare la ricerca e la formazione sulla fauna selvatica attraverso approcci innovativi per consentire la fornitura di dati e informazioni accurate e affidabili per informare la formulazione delle politiche e il processo decisionale.
Ol Pejeta Conservancy
Ol Pejeta Conservancy è il più grande santuario di rinoceronti neri dell’Africa orientale, ed è l’unico posto in Kenya per vedere gli scimpanzé. È anche la casa degli ultimi due rinoceronti bianchi del nord del pianeta. La sicurezza all’avanguardia di Ol Pejeta include un’unità K-9 specializzata, telecamere con sensori di movimento lungo la recinzione elettrica a energia solare e un’unità dedicata alla protezione dei rinoceronti.
L’Università di Padova in Italia è una delle più antiche del mondo e festeggia 800 anni. Il suo Dipartimento di Biomedicina Comparata e Scienza dell’Alimentazione sta sviluppando una ricerca ed un’istruzione all’avanguardia nel campo della conservazione e del benessere della fauna selvatica, con un’attenzione particolare alla valutazione etica ed alla valutazione dei progetti di ricerca e dei programmi educativi sviluppati dal Laboratorio di Etica per la Medicina Veterinaria, la Conservazione e il Benessere degli Animali.
BioRescue crea due nuovi embrioni in una corsa contro il tempo per prevenire l’estinzione del rinoceronte bianco del nord. Frank Göritz, Isaac Lekolool, Thomas Hildebrand, Raffaella Simone, Susanne Holtze e Jan Stejskal (da sinistra verso destra). BioRescue /Jan Zwilling
Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Padova.
I CAMBIAMENTI CLIMATICI POTREBBERO CAUSARE L’ESTINZIONE DELLE SALAMANDRINE
Foto di G. Bruni
Uno studio appena pubblicato su Scientific Reports di Nature dai paleontologi dell’Università di Torino e dell’Istituto Catalano di Paleontologia Miquel Crusafont ha messo in luce le potenziali connessioni tra i cambiamenti climatici del passato e le cause della scomparsa in gran parte d’Europa delle salamandrine, che oggi rappresentano l’unico genere di vertebrato esclusivo della Penisola Italiana. I cambiamenti climatici previsti per i prossimi decenni a causa delle crescenti emissioni di CO2 e altri gas serra potrebbero causarne l’estinzione definitiva.
Un gruppo di paleontologi del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino e dell’Istituto Catalano di Paleontologia Miquel Crusafont, in un recente studio pubblicato su Scientific Reports di Nature, ha indagato le variabili climatiche in cui vivono le salamandrine e come queste si possano relazionare alle condizioni del passato e del futuro. I fossili sono l’unico strumento a disposizione dei ricercatori e delle ricercatrici per avere accesso diretto al passato e capire come gli organismi abbiano reagito ai diversi cambiamenti a cui è andata incontro la Terra. Il gruppo di ricerca di paleontologia dell’Università di Torino si occupa da molti anni di capire ciò che il record fossile del passato ci può insegnare sugli organismi attuali. Nel caso delle salamandrine, i fossili ci raccontano che questi animali, che oggi si trovano esclusivamente nell’Italia appenninica con due specie, in un periodo compreso tra circa 20 e 5 milioni di anni fa abitavano molte altre aree d’Europa, sparse tra Germania, Grecia, Spagna e Ungheria.
Le analisi effettuate dal gruppo di lavoro, basate su metodi di modellizzazione della nicchia ecologica, hanno evidenziato che durante i cicli di glaciazione degli ultimi milioni di anni, il clima della maggior parte dell’Europa non era adatto alle salamandrine, ed è plausibile che i cambiamenti climatici avvenuti in questo intervallo di tempo ne abbiano causato l’estinzione da tutta l’Europa a esclusione dell’Italia peninsulare. Nello stesso tempo, le proiezioni sui modelli climatici futuri, sotto diversi scenari di riduzione di emissioni di CO2, hanno messo in luce una drastica riduzione dell’idoneità climatica per le salamandrine anche all’interno della nostra penisola nei prossimi 50 anni.
“Sebbene le salamandrine non siano ancora inserite tra gli organismi a rischio di estinzione, dovremmo avere un particolare occhio di riguardo per questo piccolo anfibio che rappresenta un’inestimabile ricchezza del patrimonio naturalistico italiano” sottolinea Loredana Macaluso, attualmente ricercatrice al Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino e primo autore dell’articolo.
“Non solo questa salamandra rappresenta l’unico genere di vertebrato endemico della Penisola Italiana, ma è anche un animale unico a livello mondiale sia per quanto riguarda il suo aspetto colorato, sia per quanto riguarda il suo particolare comportamento. Ricordiamoci che questo abitante del sottobosco italiano è una delle poche salamandre del mondo a mostrare il cosiddetto unkenreflex, un comportamento con cui mostra l’accesa colorazione di ventre, zampe e coda per intimorire i predatori, ed è l’unica al mondo attualmente nota per essere in grado di alzarsi sulle zampe posteriori e assumere una posizione bipede in determinate circostanze”.
Questo contributo alla paleobiologia della conservazione rappresenta uno dei primi tentativi di collegare in modo diretto ciò che il record fossile ci testimonia e il futuro degli anfibi viventi, che sono in grave pericolo a causa dei cambiamenti climatici che stiamo inducendo tramite un utilizzo sconsiderato delle tecnologie a nostra disposizione, mostrando ancora una volta l’importanza di provvedimenti su larga scala per ridurre in modo più rapido possibile le emissioni di CO2.
Foto di G. Bruni
Gli altri autori dell’articolo sono Andrea Villa, attualmente ricercatore post-doc presso l’Istituto Catalano di Paleontologia Miquel Crusafont di Barcellona, il Prof. Giorgio Carnevale e il Prof. Massimo Delfino, coordinatore del progetto, entrambi afferenti all’Università di Torino.
Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Torino
COME GLI ESSERI UMANI, ANCHE I PINGUINI RICONOSCONO I LORO SIMILI ATTRAVERSO I SENSI
Uno studio dei ricercatori UniTo ha svelato l’interazione multisensoriale dei pinguini africani, aprendo nuove strade per la conservazione di questa specie a rischio estinzione
Pinguini africani
Oggi, mercoledì 13 ottobre, sulla rivista scientifica Proceeding of the Royal Society B, è stato pubblicato uno studio dei ricercatori dell’Università di Torino, dal titolo “Cross-modal individual recognition in the African penguin and the effect of partnership”, chemostra come i pinguini africani riconoscano i loro compagni di colonia attraverso i sensi. Gli autori della ricerca, Dott. Luigi Baciadonna, Dott. Cwyn Solvi, Sara La Cava, Dott.ssa Cristina Pilenga, Prof. Marco Gamba e Dott. Livio Favaro, hanno scoperto che la capacità di riconoscere i propri simili utilizzando diversi sensi, caratteristica tipica dell’essere umano, è presente anche in questa specie di volatili a rischio estinzione.
Il cervello umano è in grado di memorizzare le informazioni in modo tale che possano essere recuperate da diversi sensi. Questa integrazione multisensoriale ci permette di formare immagini mentali del mondo ed è alla base della nostra consapevolezza cosciente e della nostra comunicazione sociale, fondamentale per l’interazione con i nostri simili. Le stesse modalità di interazione sono state osservate nei comportamenti dei pinguini africani.
Dopo che coppie di pinguini hanno trascorso del tempo insieme in una zona isolata, uno è stato rilasciato dalla zona, lasciando l’altro, pinguino focale, da solo. Una chiamata vocale è stata immediatamente riprodotta dalla direzione in cui il pinguino ha lasciato. Il pinguino focale ha risposto più velocemente alla chiamata se non corrispondeva all’identità del pinguino che aveva appena visto uscire. Questo comportamento dimostra che la chiamata ha violato le loro aspettative e indica che possono immaginare l’altro individuo nella loro mente e accedere a questa immagine attraverso diversi sensi.
Pinguini africani
“Questa forma di riconoscimento individuale – dichiarail Dott.Luigi Baciadonna, ricercatore del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi UniTo e autore principale dell’articolo – è stata precedentemente descritta solo in pochi mammiferi e nei corvi. Il fatto che un uccello filogeneticamente così distante, il pinguino africano, possa formare immagini mentali di altri individui suggerisce che questo complesso sistema di riconoscimento sociale possa essere molto più diffuso di quanto avessimo immaginato”.
“I nostri risultati – afferma il Dott.Livio Favaro, coautore senior della ricerca per l’Università di Torino – mostrano che questi pinguini non si affidano, come si pensava in precedenza, solo alle informazioni vocali per la comunicazione. Il nostro lavoro apre anche nuove strade per indagare la cognizione complessa in una specie di uccelli non precedentemente nota per la loro intelligenza”.
“I pinguini africani – prosegue la Dott.ssa Cristina Pilenga, coautrice della ricerca con sede allo ZooMarine di Roma, dove si è svolto lo studio – sono classificati come specie in pericolo dalla IUCN, e quindi la conoscenza delle loro capacità cognitive può essere particolarmente preziosa per aumentare la consapevolezza del loro stato di conservazione”.
“Estendere lo studio della cognizione a specie comportamentalmente distinte – conclude il Prof. Marco Gamba, docente di Zoologia all’Università di Torino – ha il potenziale di rivelare come i sistemi sociali e le pressioni ambientali in cui vivono gli animali abbiano modellato le differenze nella cognizione attraverso l’evoluzione”.
Testo e foto dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino