DIMOSTRATO PER LA PRIMA VOLTA IL LEGAME DIRETTO TRA SONNO E MALATTIA DI ALZHEIMER
UNA SCARSA QUALITÀ DEL SONNO SCATENA LA PATOLOGIA
La ricerca è stata condotta da medici del Centro di Medicina del sonno dell’ospedale Molinette della Città della Salute e ricercatori dell’Università di Torino.
È stata appena pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica internazionale “Acta Neuropathologica Communications” (https://doi.org/10.1186/s40478-022-01498-2) la scoperta che per la prima volta dimostra direttamente il legame tra sonno e malattia di Alzheimer. Il lavoro, frutto della collaborazione tra il Centro di Medicina del sonno dell’ospedale Molinette della Città della Salute di Torino (diretto dal professorAlessandro Cicolin) ed il Neuroscience Institute of Cavalieri Ottolenghi (NICO) (professoressa Michela Guglielmotto) entrambi afferenti al Dipartimento di Neuroscienze “Rita Levi Montalcini” dell’Università di Torino, ha esaminato l’effetto di un sonno disturbato in topi geneticamente predisposti alla deposizione di beta-amiloide.
Nota redazionale al comunicato: trattandosi di un unico studio, per ora solo su un modello animale, ci pare che comunque la cautela sia d’obbligo.
La sola frammentazione del sonno ottenuta inducendo brevi risvegli senza modificare il tempo totale del sonno, per un periodo di 1 mese (approssimativamente corrispondente a 3 anni di vita dell’uomo), compromette il funzionamento del sistema glinfatico, fa aumentare il deposito della proteina beta-amiloide e compromette irreversibilmente le funzioni cognitive dell’animale anche se giovane.
Il riposo notturno nei pazienti affetti dalla malattia di Alzheimer è spesso disturbato fino ad arrivare ad una vera e propria inversione del ritmo sonno-veglia, ma è stato anche osservato che i disturbi del sonno stessi (ad es. deprivazione di sonno, insonnia ed apnee) possono influenzare negativamente il decorso della malattia. Nei pazienti con sonno disturbato, sia in termini di quantità che di qualità, si riscontra un aumento del deposito cerebrale di una proteina (beta-amiloide) implicata nella genesi della malattia di Alzheimer. Lo studio ha dimostrato che tale aumento dipende da una sua ridotta eliminazione da parte del sistema glinfatico (il “sistema di pulizia” del cervello, particolarmente attivo proprio durante il sonno profondo).
La ricerca, oltre a dimostrare il forte legame presente tra disturbi del sonno e malattia di Alzheimer e dimostrarne il meccanismo, porta anche ad ulteriori considerazioni:
in soggetti predisposti alla malattia di Alzheimer, fin dall’età giovanile, un sonno disturbato può favorire l’instaurarsi di processi neurodegenerativi;
i processi neurodegenerativi stessi, caratteristici della malattia, possono a loro volta compromettere la regolazione del sonno, instaurando un vero e proprio circolo vizioso che accelera irrimediabilmente la progressione della malattia;
non è solo la quantità del sonno ad essere rilevante, ma anche la sua “qualità”: infatti è solo nel sonno profondo che il sistema glinfatico può svolgere efficientemente il compito di “pulizia” ed eliminazione delle sostanze neurotossiche che si accumulano in veglia;
anche in assenza di altri fattori (riduzione del tempo di sonno o condizioni ipossiche), la sola frammentazione del sonno a livello cerebrale, ostacolando il mantenimento del sonno profondo, è in grado di innescare e mantenere il processo.
Sempre di più il sonno svela i suoi misteri: da un iniziale concetto di semplice interruzione della veglia (“tempo perso”), si sta sempre più comprendendo come il sonno sia un fenomeno attivo, durante il quale vengono eliminate le sostanze neurotossiche che si accumulano in veglia e regola il nostro metabolismo, il sistema immunitario e circolatorio. È comprensibile quindi come i disturbi del sonno, quali insonnie, apnee nel sonno e sindrome delle gambe senza riposo, per citare solo i più frequenti, costituiscano un significativo fattore di rischio per obesità, ipertensione, diabete, infarto, ictus, cancro e demenze ed in tal senso da includere nelle politiche di prevenzione sanitaria.
Testo dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino
Arrivano i dati della ricerca condotta dall’Istituto IASSC del dipartimento di Sociologia dell’Università di Milano-Bicocca insieme a Ipsos e Istat. Al via la seconda sessione di interviste
Milano, 3 novembre 2021 – Più della metà degli italiani ha difficoltà ad arrivare alla fine del mese. Una famiglia su quattro non può permettersi una settimana di vacanza lontano da casa e una su tre dichiara di ricevere una retribuzione non adeguata ai propri sforzi e al proprio lavoro. E ancora: un italiano su tre non possiede pc né connessione Internet e il 60 per cento degli intervistati non svolge alcuna attività fisica durante la settimana.
Sono alcuni dei dati restituiti da “Ita.Li. – Italian Lives, Indagine sui corsi di vita in Italia”, l’indagine longitudinale quali-quantitativa condotta dall’istituto IASSC (Institute for Advanced Study of Social Change) del dipartimento di Sociologia e ricerca sociale dell’Università di Milano-Bicocca, insieme all’istituto di ricerca Ipsos, e finanziata dal Ministero dell’Università e ricerca mediante i fondi dei Dipartimenti di eccellenza. Una fotografia nitida della società italiana, realizzata tra giugno 2019 e dicembre 2020 attraverso questionari sottoposti a 8.778 soggetti, di età superiore ai 16 anni, appartenenti a 4.900 famiglie, selezionate in oltre 280 comuni italiani attraverso un sistema di campionamento probabilistico sviluppato con l’Istat.
L’obiettivo è la costruzione di una banca dati dinamica sul mutamento sociale intergenerazionale in Italia. L’indagine quantitativa si svilupperà nel tempo in più ondate (“wave”) di rilevazione, attraverso la raccolta di un ampio insieme di informazioni di tipo retrospettivo sui membri delle famiglie coinvolte. La prima wave si è svolta tra giugno 2019 e dicembre 2020 e la seconda è stata avviata a settembre.
Viene così ricostruito il corso di vita di tutti i partecipanti, in relazione alla mobilità geografica o residenziale, all’istruzione, alla carriera lavorativa, allo stato civile, alla composizione della famiglia, con informazioni sulle percezioni e le abitudini dei soggetti coinvolti rispetto a temi quali la salute, la qualità della vita, le risorse, i debiti e i sostegni familiari, l’accesso ad Internet e la partecipazione politica. Un anno fa i ricercatori di Milano-Bicocca avevano reso pubblico un primo focus riguardante un campione selezionato dei partecipanti per fare luce sull’“Italia ai tempi del Covid-19”. Ora vengono resi noti i risultati della prima wave.
Consumi
Il 59 per cento degli intervistati afferma di avere almeno una qualche difficoltà ad arrivare alla fine del mese. Solo l’1,7 per cento vi arriva con facilità. Se il 28 per cento delle famiglie, poco più di una su quattro, non potrebbe permettersi una settimana di vacanza all’anno lontano da casa, il 34 per cento – una su tre – non possiede un pc e il 33 per cento non ha una connessione Internet. Il 26 per cento delle famiglie ritiene che le spese per la casa siano un carico pesante e il 23 per cento dichiara che non sarebbe in grado di fronteggiare spese impreviste di un ammontare pari a circa 800 euro. Se il 14 per cento delle famiglie ha dovuto rinunciare a trattamenti dentistici per motivi economici, l’8 per cento non può permettersi di mangiare carne o pesce almeno una volta ogni due giorni.
Il reddito netto mensile familiare è di 2860 euro. Il 36 per cento degli intervistati dichiara di ricevere una retribuzione non adeguata ai propri sforzi e al proprio lavoro. Il 54 per cento degli intervistati ritiene che il proprio lavoro non dia buone prospettive di avanzamento di carriera e il 35 per cento ritiene di non ricevere il giusto riconoscimento per il lavoro svolto. Il 59 per cento ritiene di essere costantemente sotto pressione per il carico pesante di lavoro e il 40 per cento sostiene di avere pochissima libertà nel decidere come svolgere il proprio lavoro. In media il risparmio annuo delle famiglie è di circa 3900 euro e l’ammontare del debito delle famiglie è di 2700 euro.
Social network
Lo smartphone non manca tra le mura degli italiani, solo il 13 per cento degli intervistati dichiara di non possederne uno. ll social/app più in voga è WhatsApp, utilizzato dal 57 per cento degli intervistati. Al secondo posto figura Facebook, utilizzato dal 47 per cento. Seguono nell’ordine Instagram (26 per cento), Twitter (9 per cento), Telegram e LinkedIn (4 per cento). Solo lo 0,4 per cento degli intervistati ha un profilo TikTok. Tuttavia, il 32 per cento attualmente dichiara di non avere un profilo personale su social network o app.
Salute
Il 60 per cento degli intervistati non svolge mai attività fisica (intesa come sport, giardinaggio, ballo, escursioni o camminate veloci). Il 28 per cento circa, invece, svolge attività fisica almeno una volta a settimana. Il 13 per cento del campione dichiara di avere problemi di salute a lungo termine. Il 39 per cento degli intervistati ha sofferto di insonnia o ha avuto difficoltà ad addormentarsi.
Testo dall’Ufficio Stampa Università di Milano-Bicocca sull’indagine Italian Lives.
Ciclo sonno-veglia: a regolarlo anche le cellule immunitarie Un team internazionale di ricercatori coordinati dal Dipartimento di Fisiologia e farmacologia della Sapienza, ha identificato in alcune cellule coinvolte nel sistema immunitario del cervello un ruolo centrale anche nella regolazione del ciclo sonno-veglia. I risultati dello studio, pubblicato sulla rivista Glia, aprono a nuove prospettive di studio sul funzionamento del cervello.
Il sonno è un fenomeno universale nel regno animale che da un lato ha una funzione ristorativa, permettendo il recupero delle energie spese durante la veglia e la rimozione dei prodotti di rifiuto, e dall’altro ha un ruolo fondamentale nei processi cognitivi e nell’elaborazione delle informazioni. Durante il sonno, infatti, si verificano processi computazionali come la formazione e il consolidamento della memoria relativa a eventi avvenuti durante la veglia, così come le alterazioni o la deprivazione di sonno possono comportare disturbi cognitivi.
Sebbene sia stato dimostrato che l’alternanza del ciclo sonno-veglia è regolata sia da stimoli interni (orologio biologico principale, localizzato nel nucleo soprachiasmatico dell’ipotalamo) e da stimoli esterni (come il ciclo buio-luce, l’attività lavorativa o i pasti), i meccanismi cellulari alla base del ciclo sonno-veglia sono in parte ancora sconosciuti.
In questa cornice di ricerca si inserisce un nuovo studio coordinato da ricercatori del Dipartimento di Fisiologia e farmacologia della Sapienza, in collaborazione con il Dipartimento di Medicina molecolare dell’Ateneo, il Consiglio nazionale delle ricerche e altre università e centri di ricerca internazionali, nel quale viene dimostrato per la per la prima volta il ruolo delle cellule della microglia nella regolazione del ciclo sonno-veglia.
Queste cellule si occupano della difesa immunitaria attiva nel sistema nervoso centrale e, secondo il lavoro pubblicato sulla rivista Glia, contribuiscono anche a regolare la durata del sonno, grazie alla loro interazione con le cellule nervose.
“La microglia – spiega Cristina Limatola di Sapienza, coordinatrice dello studio – regola la durata della fase di sonno nei topi anche attraverso il recettore per chemochine CX3CR1, altamente espresso in queste cellule dove svolge importanti ruoli durante sviluppo e maturazione del sistema nervoso centrale”.
“I modelli animali in cui la microglia è stata eliminata attraverso il trattamento con un antagonista del recettore CSF1R, oppure che manchino del recettore CX3CR1 sulla microglia – aggiunge Limatola – mostrano un aumento della fase non-rapid eye movement (NREM) del sonno, durante le ore di veglia associata ad alterazioni della trasmissione sinaptica a livello dell’ippocampo, regione fondamentale per la formazione della memoria a lungo termine”.
Questo lavoro aiuta a svelare i meccanismi alla base della regolazione del ciclo sonno-veglia e apre a nuove prospettive sul ruolo delle cellule della glia nel funzionamento del cervello.
Riferimenti:
Microglia modulate hippocampal synaptic transmission and sleep duration along the light/dark cycle – Giorgio Corsi, Katherine Picard, Maria Amalia di Castro, Stefano Garofalo, Federico Tucci, Giuseppina Chece, Claudio del Percio, Maria Teresa Golia, Marcello Raspa, Ferdinando Scavizzi, Fanny Decoeur, Clotilde Lauro, Mara Rigamonti, Fabio Iannello, Davide Antonio Ragozzino, Eleonora Russo, Giovanni Bernardini, Agnès Nadjar, Maria Eve Tremblay, Claudio Babiloni, Laura Maggi, Cristina Limatola – Glia 2021 Sep 6 DOI: 10.1002/glia.24090
Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
Essere lunatici: le fasi lunari influenzano veramente la nostra psiche?
Qualche tempo fa mi sono trovato ad affrontare un discorso con degli amici su quello che in inglese viene chiamato “Lunar Effect”, ovvero sull’ipotesi che i cicli lunari possano influire sul nostro stato psicofisico. In particolare, si parlava dell’interazione tra le fasi lunari e la crescita dei capelli (quando tagliarli per farli crescere più velocemente) e delle colture agricole (quando seminare per favorire la crescita), per poi virare sul comportamento umano.
Già questa “traversata” (dalle maree ai capelli, alle piante fino al comportamento umano) farebbe storcere il naso, eppure l’idea che i cicli lunari influenzino la nostra psiche è sedimentata in tutto il globo (con le dovute variazioni) ma anche tra la maggior parte dei professionisti della salute mentale (Francis et al., 2017) con delle particolari credenze relative soprattutto alla luna piena. Ma parliamo appunto solo di credenze o c’è qualcosa di vero?
Queste teorie affondano le radici in due discipline che ci appaiono oggi nettamente distinte, ma che per secoli si sono sovrapposte, ovvero l’astrologiae l’astronomia. L’astrologia è un complesso di credenze e tradizioni che si prefiggono di interpretare influenze soprannaturali e quindi anche il futuro di un individuo o, più in generale, della collettività, sulla base di una serie di assunti riguardo le posizioni e i movimenti dei corpi celesti rispetto alla terra. Chi praticava questa disciplina in passato occupava un ruolo di spicco nella società, finché gli assunti sulla quale si fondava l’astrologia sono andati a divergere irrimediabilmente da quelli dell’astronomia, che invece si occupa con metodo scientifico di descrivere gli astri, l’universo e le loro proprietà fisiche.
L’astronomia ci ha permesso di capire la relazione tra le fasi lunari e i cicli delle maree, alimentando così, l’idea che la luna possa avere effetti anche sulla fisiologia animale (Andreatta & Tessmar-Raible, 2020). Anche la psicologia ha contribuito (involontariamente) a queste tesi, soprattutto mediante le osservazioni che hanno evidenziato l’importanza dell’esposizione alla luce sull’umore e in generale sullo sviluppo neuropsicologico (Bodrosian & Nelson, 2017).
Dunque, partiamo da lontano. La fisiologia animale (e dunque anche quella umana) è soggetta a ritmi stagionali e circadiani (Raible et al., 2017). Questo vuol dire che diverse funzioni fisiologiche si sono evolute in modo da “settarsi” con l’alternarsi delle stagioni e soprattutto con l’alternarsi del giorno e della notte (ad esempio il rilascio di melatonina, il principale ormone implicato nella regolazione del sonno, è massimo alla sera e raggiunge livelli minimi al mattino). Mentre questi ritmi biologici sono stati descritti abbastanza bene nell’uomo, poco si sa circa gli effetti del ciclo lunare sul nostro comportamento e sulla nostra fisiologia. In effetti, molti credono che non sia un caso che il ciclo mestruale duri esattamente (o meglio, mediamente) come un ciclo lunare. Ma a guardare bene sappiamo che questi cicli non sono sincronizzati (ogni donna ha un ciclo con durate specifiche e che iniziano e finiscono in giorni diversi), e non è chiaro perché debba essere proprio il ciclo mestruale dell’essere umano l’”eletto” della luna e non quello di altri animali, ben meno complessi a livello biologico.
Eppure, alcuni studi hanno sostenuto che i cicli lunari abbiano un impatto sulla fertilità degli esseri umani, sulle mestruazioni e sul tasso di natalità (alcuni medici tutt’ora cercano di sincronizzare le nascite con le fasi lunari; Criss & Marcum, 1981; Cutler et al., 1987). In effetti la luce lunare potrebbe influire sui livelli di melatonina, a loro volta implicati nel ciclo mestruale. Altri studi si sono spinti più avanti, ipotizzando una relazione tra ricoveri in ospedale/pronto soccorso dovuti a cause accidentali (eventi cardiovascolari o coronarici, emorragie, diarrea, ritenzione urinaria, incidenti stradali) e fasi lunari o tra queste ultime e il manifestarsi di comportamenti violenti (aggressioni, omicidi o suicidi, Zimecky, 2006).
Tuttavia, questi studi sono sporadici e mostrano diversi limiti metodologici. In realtà, le ricerche più rigorose hanno trovato ben poche correlazioni tra i cicli lunari e gli aspetti precedentemente citati (Campbell & Beets, 1978; Kelly, 1981). Quanto agli studi sugli animali, invece (come prevedibile) un certo effetto dei cicli lunari sulla produzione degli ormoni è stato trovato, soprattutto negli insetti. Anche nei pesci l’”orologio lunare” sembra influire sulle dinamiche riproduttive e sull’attività dell’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi che ne è alla base.
Negli uccelli, le variazioni giornaliere di melatonina e corticosterone (un ormone steroideo prodotto dalle ghiandole surrenali principalmente in condizioni di stress) si riducono durante i giorni di luna piena. I cicli lunari influenzano anche la sensibilità al gusto e la struttura di organuli cellulari della ghiandola pineale in topi studiati in laboratorio. Sono state infine descritte variazioni cicliche relative alle fasi lunari nell’ampiezza della risposta immunitaria in diversi animali. È verosimile che alla base di queste variazioni fisiologiche ci siano modulazioni nel rilascio di melatonina e steroidi endogeni, che possono essere innescate dalle radiazioni elettromagnetiche e/o dall’attrazione gravitazionale della luna (Zimecky, 2006). Ma da qui come si arriva alla psicologia dell’essere umano?
Iniziamo l’indagine approfondendo un comportamento di base come il sonno, su cui la luna (o quantomeno la quantità di luce che riflette) è verosimile abbia una qualche influenza. In un’analisi del 2014 (Turányi et al., 2014) fatta da un centro del sonno su 319 persone, i ricercatori hanno scoperto che la luna piena era associata a un sonno meno profondo o comunque ad una maggiore latenza prima di addormentarsi profondamente. Studi successivi hanno anche riportato differenze di genere (Della Monica et al., 2015) con le donne che dormono meno e hanno una fase REM più breve nei periodi vicini alla luna piena, rispetto ai maschi che presentano una più lunga fase REM. Anche i bambini sembrano dormire leggermente meno nelle fasi di luna piena (Chaput et al., 2016). Questi risultati sono però stati messi in dubbio da uno studio avente un campione molto esteso (oltre 2000 partecipanti), che non ha trovato alcuna relazione tra fasi lunari e qualità/quantità del sonno (Haba-Rubio et al., 2015).
I dati contrastanti sul ciclo-sonno veglia portano a interrogarci sulla possibilità che la qualità del sonno possa avere, a sua volta, delle ricadute sui processi psicologici più complessi, partendo dalla considerazione che l’invenzione dell’energia elettrica ha comunque edulcorato gli effetti della luce naturale. In effetti l’oscillazione dei ritmi circadiani ha effetti significativi sui sintomi ansiosi, dell’umore e psicotici dei pazienti psichiatrici. Ma la luce lunare contribuisce a queste variazioni? Partiamo col dire che il contributo che dà la luna all’illuminazione del nostro ambiente è veramente scarso, visto che l’intensità luminosa della luna è minima rispetto, ad esempio, alla luce emessa dai nostri smartphone (considerato poi che la gran parte delle ore notturne siamo chiusi in casa). Ed in effetti la maggior parte delle ricerche è concorde con l’affermare che le fasi lunari non abbiano alcun effetto sulla sintomatologia psichiatrica. Nel 2017 Francis e collaboratori hanno dimostrato che gli accessi in pronto soccorso per sintomatologie psichiatriche erano del tutto comparabili indipendentemente dalle fasi lunari. Risultati simili sono stati ottenuti da altri studi con campioni enormi (McLay et al., 2006) o da revisioni di letteratura (Raison et al., 1999) che non hanno riscontrato alcuna relazione tra fasi lunari e variazione della sintomatologia psichiatrica.
Un discorso a parte deve essere fatto per il disturbo bipolare, quello che più di tutti i disturbi psichiatrici sembra risentire dei ritmi circadiani. Due studi recenti hanno mostrato, infatti, una correlazione tra fasi lunari e umore. Il sonno dei pazienti bipolari risultava influenzato dalla luce emessa dalla luna (come osservato dagli studi precedentemente citati), e la minor quantità di sonno nelle fasi di luna piena favoriva la transizione dalla fase depressiva a quella maniacale (Wher, 2018). Questi cambiamenti potevano essere attutiti modificando la terapia farmacologica o mediante la terapia della luce (o fototerapia), ancora poco diffusa in Italia, ma ampiamente utilizzata all’estero per trattare i disturbi dell’umore (Avery et al., 2019). I pazienti presi in esame sono comunque molto pochi per trarre conclusioni definitive, ma di certo questi dati meritano di essere approfonditi.
E per quanto riguarda i tratti di personalità non patologici? Le nostre disposizioni emotivo-comportamentali e relazionali sono influenzate dalle fasi lunari? Le credenze popolari dicono di sì, ed esiste addirittura un termine coniato appositamente: “Lunatico/a” che indica una persona “che ha carattere strano, estroso, incostante, umore instabile e facile ad alterarsi” (https://www.treccani.it/vocabolario/lunatico/).
Nella realtà non vi è alcuna prova dell’influsso della luna sui nostri tratti di personalità. La maggior parte degli studi sul tema sono abbastanza vecchiotti, poiché ad oggi è data per assodata una mancanza di correlazione tra fasi lunari e personalità. Ciononostante, a fine anni ’70, Davenhill e Johnson (1979) pubblicarono un articolo in cui chiedevano a 12 maschi e 12 femmine di compilare l’Eysenck Personality Inventory (EPI) che misura i livelli di estroversione-introversione e neuroticismo-stabilità, e il 16PF di Cattell che misura 16 tratti di personalità identificati dal suo autore come “tratti originari”. Questi test venivano compilati da ogni individuo in diversi momenti, in modo tale da ottenere 4 punteggi per ogni questionario (e relativi fattori), uno per ogni quarto del ciclo sinodico lunare (novilunio, primo quarto, plenilunio e ultimo quarto). I ricercatori trovarono diverse interazioni abbastanza inspiegabili. Quei risultati si “spiegavano” col campione irrisorio (24 soggetti), ed erano con ogni probabilità casuali. Infatti, qualche anno più tardi, Startup e Russell (1984) replicarono lo studio con un campione molto più grande (circa 900 partecipanti). I ricercatori non osservarono alcuna interazione tra i tratti di personalità misurati con l’EPI e le 4 fasi lunari prese in esame. D’altra parte, qualche labile interazione significativa con le fasi lunari è stata riscontrata con alcuni fattori del 16PF (il risultato più interessante riguardava il fattore dell’ “l’intelligenza”), ma questi risultati non concordavano con quelli trovati nello studio precedente, confermando, di fatto, che fossero poco attendibili se non del tutto casuali.
Infine, parliamo dell’aggressività, visto che la parola “lunatico/a” tende anche a sottolineare la scontrosità di una persona che magari si è svegliata anche “con la luna storta”. L’idea che la luna piena renda (metaforicamente parlando) dei lupi mannari, per cui l’incidenza di traumi e lesioni o peggio di omicidi e suicidi possano aumentare durante questa fase, è stata ampiamente smentita dalla scienza (Coates et al., 1989), con qualche studio che riporta anche leggere diminuzioni di questi eventi (Näyhä, 2019; Stomp et al., 2009). Al contrario, la luna piena sembra aumentare il numero di incidenti fatali per i motociclisti (Redelmeier & Shafir, 2017). Quest’ultima osservazione controintuitiva (la luce dovrebbe aiutare alla guida) potrebbe essere spiegata dal fatto che la luna piena ben visibile in cielo, potrebbe essere una fonte di distrazione per il centauro, quando magari “spunta” nel suo campo visivo prima di un ostacolo o durante la percorrenza di una curva.
Insomma, da un punto di vista psicologico, le fasi lunari non sembrano avere alcuna influenza sugli esseri umani. Solo il disturbo bipolare sembra risentire di un’influenza indiretta della luna piena sulla sintomatologia, causata dalla sua interazione col sonno. Sì, ma noi eravamo partiti dai capelli e dall’agricoltura! Vero, ma questo non è il mio campo. Ciononostante ho provato a fare delle ricerche. Per quanto riguarda la crescita delle piante in base alle fasi lunari, gli studi sono tanti e ve ne sono anche di antichi. Tutte le prove negano l’esistenza di queste relazioni (Mayoral et al., 2020).
E il taglio dei capelli? Di certo l’argomento è meno rilevante rispetto alla crescita delle colture, ma non meno diffuso. Eppure, non mi è parso di trovare alcuno studio sul tema. Il problema fondamentale è che sarebbe molto complicato stabilire un qualsivoglia meccanismo che possa spiegare perché è meglio tagliare i capelli durante una fase lunare piuttosto che un altra. Così come per le piante, un nostro capello ha una massa infinitamente minore dell’oceano per poter pensare che qualche tipo di forza gravitazionale, determinata dal ciclo lunare, possa influenzarne la crescita. Ma se per le piante una mezza influenza della luce emessa dalla luna nei primi giorni di “vita” poteva essere sensata, per i capelli degli esseri umani dei paesi industrializzati del XXI anche questa ipotesi appare quantomeno anacronistica.
Se è vero che la luna ha qualche ruolo nella fisiologia del mondo animale (per cause elettromagnetiche o gravitazionali), è anche vero che noi esseri umani occidentali viviamo molto meno a contatto con la natura, la sua luce e i suoi ritmi (rispetto agli animali) e siamo continuamente circondati da stimoli, oggetti e ambienti artificiali (come le nostre stesse abitazioni) che “sporcano” gran parte dell’energia proveniente dal nostro ecosistema. Di certo astronomi e fisiologi potrebbero dirci qualcosa di più. Da parte mia penso che le credenze condivise (comprese quelle religiose) non di rado conservino una base normativa sociale e a volte scientifica implicita. Altre volte invece le credenze sono sole delle credenze, dei modi per illuderci di poter controllare o conoscere cose molto complesse che dipendono da un numero di variabili potenzialmente infinite e a volte sconosciute. In generale, per quanto fondata o no, una credenza popolare, nonostante qualsiasi smentita, rimane una culla ben più calda e comoda della scienza che offre ben poche risposte definitive, spesso costellate da sempre nuove e più complesse domande.
Le fasi lunari influenzano veramente la nostra psiche?
Bibliografia:
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Le alterazioni dell’attività elettroencefalografica (EEG) durante la veglia e il sonno nella malattia di Alzheimer
Uno studio coordinato da ricercatori della Sapienza e dell’IRCCS San Raffaele Roma, in collaborazione con l’IRCCS Fondazione Policlinico Universitario Gemelli e dell’Università dell’Aquila ha evidenziato per la prima volta specifiche differenze nell’attività elettrica cerebrale durante il sonno che discriminano la malattia di Alzheimer dal decadimento cognitivo lieve (Mild Cognitive Impairment o MCI degli anglosassoni, uno stadio intermedio tra demenza ed invecchiamento normale) e dagli anziani sani.
È oramai evidente che le relazioni tra malattia di Alzheimer e caratteristiche del sonno vanno ben al di là del riscontro assai comune di disturbi del sonno in questi pazienti sia perchè le alterazioni del sonno sembrano costituire un fattore di rischio per la malattia, sia perchè un ‘buon sonno’ svolge un ruolo centrale nell’eliminazione dei metaboliti ‘cattivi’ della proteina b-amiloide facilitandone l’aggregazione ed il deposito tipico dell’Alzheimer.
Mancava però nella letteratura scientifica una descrizione delle alterazioni elettroencefalografiche (EEG) del sonno in questi pazienti e la loro relazione con le già descritte alterazioni dell’EEG durante lo stato di veglia. In quasi 10 anni di lavoro, un gruppo di ricercatori della Sapienza e dell’IRCCS San Raffaele Roma, in collaborazione con l’IRCCS Fondazione Policlinico Universitario Gemelli e l’Università dell’Aquila ha portato avanti uno studio per colmare questa carenza. Ne è risultato il primo e più esteso studio mai pubblicato sinora al mondo in cui si sono confrontate le attività regionali e di frequenza dell’EEG con quelle dell’EEG di veglia registrate in diverse occasioni nel corso del giorno (per controllare l’influenza di fattori circadiani). I risultati di questo ampio progetto sono stati appena pubblicati sulla rivista Open Access di Science (IScience).
“Tutto è iniziato una decina di anni fa – spiegano Luigi De Gennaro e Paolo M. Rossini, coordinatori della ricerca – quando ci siamo posti l’obiettivo di studiare congiuntamente le specifiche alterazioni diurne e notturne dell’attività elettrica cerebrale in un ampio gruppo di pazienti con malattia di Alzheimer. L’idea di base – si potrebbe semplificare – era di verificare se esistessero specifiche alterazioni nel sonno di questi pazienti e se queste presentassero una relazione con quelle già note durante la veglia. Come risultati principali dello studio abbiamo identificato: (1) in entrambi i gruppi clinici (Alzheimer ed MCI) un rallentamento dei ritmi cerebrali nel sonno REM (quello in cui si sogna) paragonabile a quello già descritto in veglia; (2) questo fenomeno del sonno REM correla con il decadimento cognitivo dei pazienti; (3) una drastica diminuzione nell’attività sigma del sonno NREM, sempre in entrambi i gruppi clinici; (4) una consistente riduzione della funzione del sonno nel consentire processi di recupero cerebrale conseguenti alle attività di veglia”.
GLI EFFETTI DELLA SCOPERTA – Le implicazioni di tale studio possono aprono nuovi orizzonti per specifici trattamenti delle alterazioni del sonno in generale nel soggetto anziano e nello specifico nella malattia di Alzheimer e, ancora più, per lo specifico quadro MCI che in moltissimi casi rappresenta l’anticamera dell’Alzheimer.
Riferimenti:
EEG alterations during wake and sleep in mild cognitive impairment and Alzheimer’s disease – Aurora D’Atri, Serena Scarpelli, Maurizio Gorgoni, Camillo Marra, Paolo Maria Rossini, Luigi De Gennaro – IScience. DOI https://doi.org/10.1016/j.isci.2021.102386
Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma sulle alterazioni dell’attività elettroencefalografica (EEG) durante la veglia e il sonno nella malattia di Alzheimer.
Posticipare l’ingresso a scuola migliora il rendimento scolastico
Intervista al professor Luigi De Gennaro
Articolo a cura di Valentina Mastrorilli e Giulia Nania
I vincoli sociali spesso ci impongono di seguire delle regole che non vanno di pari passo con il nostro ritmo biologico. Fare tardi la sera e far suonare la sveglia molto presto la mattina può avere conseguenze negative non solo sulla salute fisica e mentale, ma anche sulla sonnolenza diurna e sui processi attentivi. Negli ultimi anni si è posta molta attenzione sulle abitudini di vita degli adolescenti e sulla loro tendenza a rimanere attivi fino a tarda notte, nonostante il giorno dopo debbano entrare a scuola al suono della campanella (Louzada, 2019).
Non si tratta solo di un cambio di abitudini comportamentali, ma piuttosto di un vero e proprio cambiamento fisiologico di alcuni dei meccanismi che regolano il sonno. Nei ragazzi in età adolescenziale, infatti, è stato osservata una variazione di due di questi meccanismi: la regolazione omeostatica del sonno (Jenni et al., 2005) e l’orologio circadiano (Wright et al., 2005). Mentre il primo fa riferimento alla stretta dipendenza tra il bisogno di sonno e il numero di ore trascorse da svegli, il secondo si riferisce al nostro comportamento in risposta all’alternanza delle ore di luce e di buio.
Nel complesso, fattori biologici e sociali spingono i ragazzi a rimanere sempre più spesso svegli fino a tardi. Eppure, la campanella suona sempre alle 8:00. La conseguenza è che molto spesso i ragazzi dormono meno delle 8 ore consigliate dall’American Academy of Sleep Medicine, spesso saltano la scuola e si distraggono durante le lezioni. Quali sarebbero le conseguenze sul rendimento scolastico se si provassero ad adattare gli obblighi scolastici alle esigenze fisiologiche degli adolescenti, facendo suonare la campanella un’ora dopo?
Questo è ciò che si è domandato il gruppo di ricerca del Professor De Gennaro della Sapienza Università di Roma in uno studio della durata di un intero anno scolastico. Il loro lavoro è volto a documentare se, il posticipare quotidianamente l’orario delle lezioni, potesse avere dei benefici sul funzionamento cognitivo degli studenti. Alla ricerca hanno partecipato alcuni ragazzi e ragazze dell’istituto secondario “Ettore Majorana” di Brindisi, suddivisi in due gruppi sperimentali: per uno la campanella suonava alle 8.00, mentre per il secondo gruppo le lezioni iniziavano alle 9.00.
Dai risultati di questa ricerca recentemente pubblicata sulla rivista Nature and Science of Sleep è emerso che, al termine dell’anno scolastico, gli studenti che avevano scelto di inserirsi nel gruppo che iniziava le lezioni alle 9:00 mostravano un notevole miglioramento nel rendimento, una migliore attenzione sostenuta, un minor assenteismo e un minor numero di ritardi. Quindi, è stato dimostrato che il posticipo di un’ora dell’orario delle lezioni può portare ad effetti benefici sulla prestazione accademica.
Abbiamo intervistato il professor Luigi De Gennaro, ordinario di Psicobiologia e Psicologia Fisiologica della Sapienza Università di Roma, che ha risposto alle domande di ScientifiCult.
Dal vostro lavoro è emerso che gli studenti che hanno posticipato l’orario dell’inizio delle lezioni hanno beneficiato di questo ritardo. Questo è stato osservato non solo attraverso il miglioramento del rendimento scolastico e una migliore attenzione sostenuta, ma anche in termini di minor assenteismo e ritardi. Quali sono i meccanismi alla base del sonno che potrebbero aver generato questo miglioramento?
La storia inizia negli anni ’20 con lo studio dei due psicologi Jenkins e Dallenbach. Il loro studio, con soltanto due soggetti partecipanti, prevedeva un compito di memorizzazione di composizioni di tre lettere. Le composizioni dovevano essere memorizzate durante la sera per poi essere recuperate la mattina successiva in due diverse condizioni: dopo una normale notte di sonno e dopo una deprivazione di sonno. Venne osservato che, il mattino successivo alla notte di deprivazione, la prestazione dei due soggetti era enormemente più bassa.
Nacque così il cosiddetto “sleep effect”. L’aspetto più recente, invece, nasce negli anni ’80. In particolare, venne dimostrato come alterazioni del sonno, causate da vari disturbi del sonno oppure da decurtazioni del sonno, andassero a impattare negativamente sul rendimento scolastico. Inoltre, a partire dagli anni ’90 un movimento internazionale ha visto partire degli esperimenti pilota paragonabili al nostro. In conclusione, si può affermare che il posticipo dell’orario scolastico dovrebbe portare a un aumento della durata del sonno e questo dovrebbe impattare su tutte le misure che poi sono oggetto di valutazione.
In questo periodo storico, molti studenti stanno vivendo l’esperienza della didattica a distanza, durante la quale i ragazzi e le ragazze possono seguire le lezioni da casa. Questo implica, dunque, che molti studenti riescono a dormire un po’ di più. Nonostante i limiti e le difficoltà di questo tipo di insegnamento, lei ritiene che questo cambio di abitudini possa influire positivamente sulla rendita scolastica e l’attenzione degli studenti?
A questa domanda non c’è purtroppo una risposta univoca. Diversi team di ricerca nazionali e internazionali hanno condotto e stanno ancora conducendo diverse indagini volte a monitorare le eventuali alterazioni del sonno durante il periodo del confinamento (che ha riguardato l’Italia nei periodi di Marzo-Maggio 2020).
Sintetizzando, potremmo dire che ne è emerso un fenomeno bimodale: una parte della popolazione oggetto degli studi ha mostrato un consistente aumento dei disturbi del sonno e variazioni di fattori associati alla depressione o allo stress; un’altra parte, invece, ne ha per così dire “beneficiato”, ovvero ha dormito di più e ha mostrato meno sonnolenza diurna rispetto ai periodi precedenti. Tra queste persone vi sono sicuramente gli studenti e le studentesse, che hanno beneficiato della generale ristrutturazione dei ritmi sonno-veglia. Non mi riferisco quindi specificatamente agli effetti della didattica a distanza, ma piuttosto alla diversa gestione del ritmo sonno-veglia che è diventato più coerente con i bisogni biologici.
Ricordiamoci che la specie umana, a seguito della rivoluzione industriale e dell’introduzione dell’illuminazione artificiale, ha collettivamente perso all’incirca due ore di sonno, tanto da delineare negli ultimi 150 anni una forma di insoddisfazione cronica del bisogno di sonno. Di conseguenza è evidente che una gestione diversa della giornata, più svincolata dai classici limitatori sociali (quali ad esempio esigenze scolastiche o lavorative) possa portare benefici almeno alla seconda categoria di persone cui prima facevo riferimento. In conclusione, indipendentemente dal fatto che quello della didattica a distanza sia un fenomeno molto complesso, per quanto riguarda l’aspetto del sonno e del ritmo sonno-veglia, in linea generale possiamo dire che molti studenti hanno beneficiato di questo riassetto dei ritmi giornalieri.
Ipotizzando di poter seguire le performance degli studenti nel corso dei vari anni scolastici, lei pensa che questi benefici che voi avete osservato al termine di un anno scolastico possano essere riscontrati anche dopo vari anni? Oppure l’organismo si abitua a questi cambi di ritmi e nel corso del tempo verrebbero persi gli effetti benefici dell’ora di sonno in più?
Non saprei darle una risposta precisa. L’anno successivo a quello della sperimentazione che è stata pubblicata mi sarebbe piaciuto condurre uno studio longitudinale, quindi documentare come il rendimento che noi fotografiamo alla fine di un anno scolastico fosse capitalizzato alla fine di un intero ciclo di studi.
Avrei voluto seguire gli studenti dal primo al quinto anno di scuola e magari seguirli fino all’Università per vedere se in qualche modo la coorte di studenti che iniziava le lezioni alle 9 avrebbe poi avuto in futuro una carriera più brillante. Tuttavia, stiamo parlando di aspettative che non siamo riusciti ad implementare per diverse ragioni. La prima è che l’allora dirigente scolastico dell’Istituto Majorana Salvatore Giuliano, innovatore e rivoluzionario, è stato catapultato nell’empireo del governo italiano diventando sottosegretario di Stato al Ministero dell’Istruzione. L’Istituto Majorana continua ad avere nuove classi sperimentali dove, su base volontaria, gli studenti iniziano le lezioni alle 9 piuttosto che alle 8 ma non c’è più la complessa macchina organizzativa della valutazione. Probabilmente, con la presenza di Salvatore Giuliano a Brindisi le cose sarebbero potute andare diversamente.
Bisogna però tener conto di altri due aspetti. Il primo, è che stiamo parlando di uno studio geograficamente anomalo in quanto chi programmava lo studio e analizzava i dati si trovava all’Università La Sapienza di Roma, mentre l’acquisizione dei dati, l’organizzazione dei diari settimanali e lo svolgimento dei compiti al computer era a carico degli insegnanti dell’Istituto Majorana. Gli insegnanti, quindi, si sono trovati nei panni di sperimentatori succedanei che, in maniera volontaria, hanno dovuto fare un grande lavoro spesso al di là delle loro competenze. Il secondo aspetto è che questa ricerca non è stata supportata da alcuna risorsa economica. Tutta questa macchina ha avuto un costo che probabilmente l’organizzazione locale non poteva più tollerare.
Nel vostro studio sono state utilizzate misure soggettive, ovvero domande a cui erano i soggetti stessi a rispondere, per analizzare alcuni aspetti come la latenza del sonno, il numero dei risvegli e la durata dei risvegli. Come pensa che sarebbero stati i risultati, se fossero state utilizzate misure oggettive e dunque strumenti che indagano questi stessi aspetti attraverso indici psicofisiologici?
La misura oggettiva più ovvia da utilizzare sarebbe la polisonnografia, ma essa risultava inattuabile in termini di costi e di fattibilità. Inizialmente erano state considerate due possibilità di compromesso tra misure oggettive e soggettive. La prima era far diventare gli studenti ricercatori di loro stessi, affidandogli il carico gestionale e organizzativo. Poteva rappresentare una modalità peculiare di fare scuola-lavoro, ma non è stato possibile realizzarlo.
La seconda opzione sarebbe stata quella di utilizzare l’actigrafia, ovvero uno strumento non invasivo che, indossato al polso come un orologio, va a registrare l’attività motoria del polso stesso. Quest’ultima risulta essere rappresentativa dell’attività motoria dell’individuo. Considerando che movimento presente corrisponde alla veglia e che la quiescenza motoria corrisponde ad uno stato di sonno, l’actigrafia riesce a stimare in maniera consolidata alcune caratteristiche del sonno come la durata e la sua eventuale frammentazione. Essa ha, inoltre, il pregio di avere un’ottima risoluzione temporale e una memoria di uno o due mesi. Anche in questo caso non è stato possibile utilizzare questo strumento.
Ad ogni modo, la misura oggettiva non necessariamente avrebbe aggiunto qualcosa in più. In tanti contesti diagnostici dei disturbi del sonno la misura di eccellenza è il diario e, dunque, è il soggetto stesso che risponde a una specifica griglia di domande nei successivi minuti al risveglio. Il vantaggio di uno strumento così è l’assenza di costo e di essere anche facilmente attuabile. Anche se avessimo utilizzato misure oggettive, i risultati non sarebbero stati verosimilmente molto diversi. Infatti, tra misure self report e l’actigrafia vi è un accordo molto elevato.
Come spiegherebbe l’assenza di significatività dei risultati nel Pittsburgh Sleep Quality Index?
Il Pittsburgh Sleep Quality Index è una misura retrospettiva in cui viene chiesto ai soggetti di stimare alcune caratteristiche del sonno nel mese che precede la valutazione. È una misura che quantifica l’alterazione della qualità del sonno. Non ci aspettavamo un dato molto particolare, poiché non abbiamo inciso sui disturbi del sonno. Quello che abbiamo fatto è stato incidere sulla durata del sonno. Anche se i risultati non si sono mostrati significativi da un punto di vista statistico, questi sono comunque andati nella direzione attesa di un relativo miglioramento anche nella qualità del sonno.
Per eventuali ricerche future, ritiene sia utile poter differenziare gli studenti che riposano il pomeriggio da coloro che non lo fanno?
In questo studio la presenza di sonnellini diurni è stata valutata, ma non in maniera longitudinale, ovvero non per tutto il corso dello studio. Ogni studio futuro dovrebbe, ad ogni modo, meglio monitorare eventuali recuperi pomeridiani di sonno. Riguardo al come farlo, un fattore da tenere in considerazione sarebbe il cronotipo. Per quanto riguarda l’adesione dei nostri ritmi biologici e psicologici al modello circadiano la maggior parte di noi è sincronizzata su una tipologia intermedia in cui abbiamo adattato i nostri picchi di attività certi momenti del giorno.
Ma esistono due code della distribuzione: i mattutini e i serotini. Questi individui hanno una serie di variabili fisiologiche, ormonali e prestazionali spostate in maniera coerente alla loro tipologia. Nello specifico, il mattutino ha dei picchi legati alle prime ore del mattino e il serotino nella parte serale. Questo è un aspetto può essere manipolato. Un progetto quando viene costruito potrebbe prendere in considerazione non solo le singole classi, ma anche i cronotipi estremi e indagare su come rispondono al posticipo dell’orario.
Naturalmente ci si aspetta che siano i serotini a beneficiarne di più e i mattutini o ne beneficiano meno o non ne beneficiano affatto. Questo sarebbe da un punto di vista di pianificazione un aspetto molto facile da valutare e considerare. Infatti, nell’idea di un futuro in cui ipoteticamente l’organizzazione scolastica comincia a tener conto di queste conoscenze, è quella che è più facile da realizzare. Si potrebbero, in questo modo, comporre le classi in maniera oculata così da rispettare il cronotipo preferenziale dei singoli studenti. I mattutini verranno messi in classi tradizionali e i serotini in classi che posticipano l’orario di inizio delle lezioni.
Lei pensa che i risultati ottenuti dal vostro lavoro possano essere estesi anche a contesti non scolastici?
Assolutamente si. Prima però di muoverci ad altri contesti lavorativi rimaniamo ancora in quello scolastico. Nella scuola non ci sono solo gli studenti, ma anche gli insegnanti. Spesso noi insegnanti universitari ci troviamo a dover alternare anni accademici in cui si insegna la mattina ed anni in cui si insegna il pomeriggio. Parlando a titolo personale, essendo io un serotino, l’anno accademico in cui devo insegnare la mattina non mi rende particolarmente felice e se possibile cerco di farmi sempre posticipare un po’ la lezione nella composizione dei calendari delle lezioni.
Questo per dire che tutto ciò di cui abbiamo parlato nella prima parte, vale tanto per gli studenti quanto per gli insegnanti. Tuttavia, per quanto strano, mi sembra di ricordare che in tutti gli studi pubblicati finora hanno sempre guardato gli studenti e mai gli insegnanti, che avrebbero meritato anche loro di essere oggetto di studio. Per rispondere più specificatamente alla sua domanda, negli ultimi anni si è osservato un aumento di diverse organizzazioni professionali che rimangono attive 24h su 24: mentre fino a qualche decennio fa il turnismo era limitato al pronto soccorso ed ai mestieri di emergenza, ora sempre più categorie professionali ne sono interessate. Dunque, una parte sempre più cospicua della popolazione lavora in momenti cronobiologicamente non adatti. Non a caso, si parla proprio di “sindrome dei turnisti” riferendosi ad una costellazione di disturbi che sono conseguenze di questo drammatico sfasamento tra le attività lavorative e il proprio ritmo biologico.
Di conseguenza, la politica e le organizzazioni lavorative dovrebbero iniziare a considerare seriamente tutti quei fattori che minimizzano le conseguenze delle “sindromi dei turnisti”. Io stesso ho aperto un filone di ricerca sui turnisti in ambito infermieristico per documentare quanto l’errore in medicina del personale medico e paramedico (soprattutto durante i turni notturni) sia conseguente a questa desincronizzazione circadiana (Di Muzio et al., 2020; Di Muzio et al., 2019). Si tenga conto, per esempio, che qualche anno fa il British Medical Journal (Macary & Daniel, 2016), un autorevole giornale scientifico, ha pubblicato una drammatica statistica epidemiologica sulle cause di morte nel mondo: dopo i disturbi cardiocircolatori e le malattie oncologiche, la terza causa di morte nel mondo è la morte in contesti ospedalieri.
Non si può banalizzare questa osservazione perché si tratta di un fenomeno complesso ma una larga parte dei decessi dovuta agli errori in medicina è legato alle conseguenze del lavoro a turni. Quindi certamente queste osservazioni valgono anche per tutti gli altri contesti lavorativi, soprattutto quelli in cui le attività si svolgono in momenti cronobiologicamente non adatti. C’è da tener conto che la branca della cronobiologia ha numerose declinazioni, tra cui quella della cronofarmacologia, in cui si studiano quali sono i momenti dell’intero ciclo giornaliero in cui l’efficacia di certi principi attivi viene minimizzata o massimizzata. In definitiva, il ritmo cronobiologico è qualcosa che in futuro dovrebbe sempre più orientare certe scelte di carattere non solo farmacologico ma anche lavorativo e sociale.
Bibliografia
Alfonsi, V., Palmizio, R., Rubino, A., Scarpelli, S., Gorgoni, M., D’Atri, A., Pazzaglia, M., Ferrara, M., Giuliano, S., & De Gennaro, L. (2020). The association between school start time and sleep duration, sustained attention, and academic performance. Nature and Science of Sleep, 12, 1161–1172.
Di Muzio, M., Diella, G., Di Simone, E., Novelli, L., Alfonsi, V., Scarpelli, S., Annarumma, L., Salfi, F., Pazzaglia, M., Giannini, A. M., & De Gennaro, L. (2020). Nurses and Night Shifts: Poor Sleep Quality Exacerbates Psychomotor Performance. Frontiers in neuroscience, 14, 579938.
Di Muzio, M., Reda, F., Diella, G., Di Simone, E., Novelli, L., D’Atri, A., Giannini, A., & De Gennaro, L. (2019). Not only a Problem of Fatigue and Sleepiness: Changes in Psychomotor Performance in Italian Nurses across 8-h Rapidly Rotating Shifts. Journal of clinical medicine, 8(1), 47.
Jenni, O. G., Achermann, P., & Carskadon, M. A. (2005). Homeostatic sleep regulation in adolescents. Sleep, 28(11), 1446–1454.
Louzada, F. (2019). Adolescent sleep: a major public health issue. Sleep science, 12(1), 1.
Makary, M. A., & Daniel, M. (2016). Medical error-the third leading cause of death in the US. British Medical Journal,353, i2139.
Wright, K. P., Jr, Gronfier, C., Duffy, J. F., & Czeisler, C. A. (2005). Intrinsic period and light intensity determine the phase relationship between melatonin and sleep in humans. Journal of biological rhythms, 20(2), 168–177.
Posticipare l’orario di ingresso a scuola: il rendimento degli studenti ci guadagna
Dormire di più aumenta il livello di attenzione e migliora le prestazioni scolastiche. È quanto ha dimostrato lo studio pilota coordinato dal Dipartimento di Psicologia della Sapienza Università di Roma e pubblicato sulla rivista Nature and Science of Sleep. I risultati della ricerca, condotta su studenti del primo anno delle superiori dell’istituto “Ettore Majorana” di Brindisi, suggeriscono che posticipare l’orario d’ingresso alle lezioni, inciderebbe positivamente sul rendimento a scuola.
“Se solo avessi dormito un’ora in più!”, una affermazione molto ricorrente, quanto vera secondo la scienza: il sonno, infatti, oltre a essere una attività naturale, è strettamente correlato con il potenziamento di altre funzioni cognitive come l’apprendimento, la concentrazione e l’attenzione, ma anche con il mantenimento dell’equilibrio psico-emotivo e relazionale. Ciò vale tanto per gli adulti, quanto per gli adolescenti, nei quali l’obbligo di alzarsi presto la mattina è associato spesso a un ritardo dell’addormentamento notturno.
Da diversi anni e in ogni parte del mondo, si studiano gli effetti di un ingresso in aula più tardivo, rispetto all’orario tradizionale, sulla salute e sulla capacità di apprendimento dei giovani. Il primo progetto italiano è stato sviluppato dal team di ricercatori guidato da Luigi De Gennaro del Dipartimento di Psicologia della Sapienza e dal dirigente scolastico Salvatore Giuliano, ex sottosegretario al MIUR, e ha coinvolto gli studenti dell’Istituto Ettore Majorana di Brindisi. I risultati dello studio pilota, durato un intero anno scolastico, sono stati pubblicati sulla rivista Nature and Science of Sleep.
“L’idea di base dello studio era che posticipando l’entrata a scuola avremmo consentito una maggiore durata del sonno, che a sua volta avrebbe influito sui livelli di vigilanza e quindi migliorato l’attenzione – spiega Luigi De Gennaro. Grazie al supporto dell’Istituto Majorana, nell’anno scolastico 2018-2019 abbiamo coinvolto nello studio sperimentale gli studenti del primo anno delle superiori e li abbiamo divisi in due gruppi: per tutto l’anno una parte degli studenti entrava all’orario tradizionale, alle 8.00 del mattino, e il secondo entrava un’ora dopo (alle 9.00). In entrambi i gruppi abbiamo monitorato con cadenza mensile le caratteristiche del sonno e le prestazioni raggiunte durante il giorno attraverso specifici test di attenzione”.
I risultati del lavoro hanno confermato le aspettative dei ricercatori sul rendimento degli studenti e sugli effetti del posticipo dell’orario sulla salute. In particolare, è stato osservato un aumento del tempo di sonno, con diminuzione delle sue alterazioni, associato a un costante miglioramento dell’attenzione durante le ore scolastiche e a un marcato incremento del rendimento.
“Un aspetto importante – aggiunge De Gennaro – è che nei giorni festivi non venivano registrate fra i due gruppi differenze relative al sonno, confermando che gli effetti dell’aumento di sonno sono strettamente dipendenti dal tardivo inizio delle lezioni. Inoltre, il fatto che l’ora di addormentamento non differisse ci ha permesso di demolire i limiti del programma, come la possibilità, spesso avanzata come critica, che un ingresso posticipato a scuola possa essere associato a un ritardo anche nell’addormentamento serale”.
Le implicazioni di questo lavoro aprono a nuove prospettive per rinnovare l’organizzazione scolastica in particolare in questo periodo di pandemia da COVID-19, nell’ottica di sviluppare strategie di contrasto alla sua diffusione.
“Si pensi ai trasporti, questi rimangono un punto fondamentale per evitare assembramenti negli orari di entrata e uscita dalle scuole – conclude De Gennaro. Usando dei facili test si potrebbe individuare il cronotipo, il ritmo biologico degli studenti, e dividerli in diverse fasce con orari differenziati, facendo entrare prima chi al mattino rende meglio. Sarebbe razionale e utile sia alle scuole medie che alle superiori”.
Riferimenti:
The Association Between School Start Time and Sleep Duration, Sustained Attention, and Academic Performance – Valentina Alfonsi, Rossella Palmizio, Annalisa Rubino, Serena Scarpelli, Maurizio Gorgoni,Aurora D’Atri, Mariella Pazzaglia, Michele Ferrara, Salvatore Giuliano and Luigi De Gennaro – Nature and Science of Sleep, 2020. https://doi.org/10.2147/NSS.S273875
Testo e immagini dalla Sapienza Università di Roma sul rendimento degli studenti con un orario di ingresso a scuola posticipato.
Effetti del lockdown: sintomi depressivi o ansiosi per un italiano su quattro, oltre il 40% ha avuto disturbi del sonno
Sono stati pubblicati sull’International Journal of Environmental Research and Public Health i risultati del progetto COCOS (Covid Collateral ImpactS),ideato e condotto dalla Prof.ssa Maria Rosaria Gualano e dal Dr. Gianluca Voglino. Il Gruppo di Ricerca – guidato dalla Prof.ssa Roberta Siliquini – della Sezione di Igiene del Dipartimento di Scienze della Sanità Pubblica e Pediatriche, si occupa da anni di approfondire il tema del benessere mentale in un’ottica di sanità pubblica. Lo studio è stato realizzato nelle ultime due settimane della Fase 1 (19 aprile – 3 maggio 2020), valutando l’impatto del lockdown sui comportamenti e sul benessere degli italiani.
Dalle interviste condotte su un campione di oltre 1500 soggetti, tutti maggiori di 18 anni d’età, la salute mentale sembra essere un problema significativo. Si possono evidenziare profili di fragilità tra le donne, i più giovani e tra coloro i quali hanno subito difficoltà economiche legate al lockdown. I dati mostrano che il 23,2% degli intervistati ha avuto disturbi di tipo ansioso, il 24,7% sintomi depressivi,il 42,4% disturbi del sonno e, per quest’ultima patologia, la probabilità di essere colpiti risulta doppia tra le donne. Ulteriori dati circa l’accesso alle cure, l’uso della mascherina e la paura di uscire e svolgere attività indotta dalle pressioni sociali saranno pubblicati dai ricercatori nelle prossime settimane e presentati al Congresso Mondiale di Sanità Pubblica che si terrà ad ottobre 2020.
“Bisogna mettere al centro dell’agenda di sanità pubblica la cura della salute mentale del cittadino – dichiara la Prof.ssa Maria Rosaria Gualano – in quanto la sofferenza mentale potrebbe rappresentare un’ennesima pandemia di cui occuparsi a livello globale, soprattutto per i soggetti più a rischio come i giovani, le persone sole e chi ha perso o rischia di perdere il lavoro”. “L’alto interesse che lo studio ha suscitato tra gli intervistati – prosegue il Dr. Gianluca Voglino – testimonia la necessità di ascoltare i bisogni dei cittadini. Serve farsi carico delle persone in modo globale, ancor di più in momenti difficili come quello che stiamo vivendo”.
Testo sui sintomi depressivi e ansiosi legati al lockdown dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino