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IL TELESCOPIO SAMM OSSERVA IL SOLE DAL PUNTO PIÙ ALTO DI ROMA

Il telescopio binoculare Solar Activity MOF Monitor è posizionato sulla terrazza della villa di Monte Mario, sede dell’Istituto Nazionale di Astrofisica nella Capitale. Obiettivo: il monitoraggio continuativo dell’attività solare

Si chiama SAMM (acronimo di Solar Activity MOF Monitor) il telescopio binoculare progettato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dalla Avalon Instruments per il monitoraggio continuativo dell’attività solare. Obiettivo: fornire dati che saranno utili alla previsione di eventi di Meteorologia dello Spazio (in inglese Space Weather). Il telescopio osserva il Sole direttamente da una terrazza della Capitale, precisamente da Villa Mellini, situata sulla sommità della Riserva naturale di Monte Mario a Roma. La villa ospita la Sede Centrale dell’INAF, il principale Ente italiano di Ricerca nell’ambito dell’Astronomia e dell’Astrofisica.

SAMM è stato sovvenzionato interamente dalla Avalon Instruments attraverso un bando di finanza agevolata del Ministero dello Sviluppo Economico a favore di progetti di ricerca industriale e di sviluppo sperimentale negli ambiti tecnologici strategici individuati dal programma “Horizon 2020”.  Nel progetto sono coinvolte le sedi di Roma e Napoli dell’INAF.

SAMM è un binocolo, vale a dire uno strumento dotato di due telescopi da 23 cm di diametro, ognuno equipaggiato con un sistema polarimetrico basato su filtri magneto-ottici (MOF) e con un sensore di immagini ad alta velocità. I due telescopi osservano il Sole a lunghezze d’onda diverse: i filtri MOF permettono di osservare il Sole in bande strettissime di soli 0,005 nm di larghezza in modo da poter apprezzare con delle semplici immagini lo spostamento delle righe atomiche di assorbimento di sodio (Na) e potassio (K) normalmente presenti nello spettro della luce solare. Per confronto i filtri ottici a banda più stretta realizzabili sono circa 100 volte più larghi.

“Questa tecnica permette di valutare contemporaneamente sia le velocità che l’intensità del campo magnetico in ogni punto della superficie solare”, spiega Roberto Speziali, ricercatore astronomo presso l’INAF di Roma. “Poiché le righe del sodio e del potassio provengono da quote diverse nell’atmosfera solare, le misure di entrambi i canali permettono per la prima volta in assoluto di osservare la struttura tridimensionale dei campi magnetici che sono responsabili della formazione delle tempeste solari”. E sottolinea: “I dati forniti dal SAMM rappresentano una inedita base scientifica su cui sviluppare algoritmi predittivi utili alla corretta valutazione dei rischi legati all’attività solare”.

“La versione attuale del SAMM è un dimostratore tecnologico, un prototipo, che permette di osservare il Sole dalla mattina presto fino al tramonto. È posizionato sulla terrazza di Villa Mellini, una posizione privilegiata per l’osservazione del Sole, fino alla fine del collaudo”, specifica Speziali.

“La sua realizzazione e il suo utilizzo ci ha permesso di capire i limiti delle soluzioni impiegate per progettare una nuova versione molto più efficiente che è stata recentemente finanziata da INAF attraverso un Tecno-Grant sempre in collaborazione con la Avalon Instruments”,

racconta Andrea Di Paola, ricercatore astronomo dell’INAF di Roma anch’egli coinvolto nel progetto SAMM.

Nello specifico, i ricercatori che lavorano nell’ambito della Meteorologia dello Spazio studiano le perturbazioni dovute all’attività solare, con particolare interesse verso i fenomeni che possono danneggiare le infrastrutture strategiche nello spazio e a terra. “Nei periodi di intensa attività solare, infatti, si posso generare dei brillamenti, eruzioni o emissioni di massa coronale, tutti fenomeni che possono essere genericamente indicati col nome di tempeste solari”, aggiunge Maurizio Oliviero dell’INAF di Napoli che collabora al progetto.

Di Paola prosegue: “L’esistenza di questi fenomeni, e del loro impatto con la Terra, è stato identificato già agli inizi del 1800. Nel 1859, in un mondo tecnologicamente ancora poco sviluppato, la più potente tempesta solare storicamente registrata (evento Carrington) ha prodotto come danno maggiore la distruzione parziale del sistema di linee telegrafiche da poco messo in funzione. I danni subiti alle infrastrutture hanno avuto una dimensione relativamente modesta fino agli anni ’80 del secolo scorso, quando si è verificato un altro evento famoso. Nel 1989 infatti, un evento di space weather ha portato al collasso della rete elettrica nel Quebec, in Canada. L’ultimo evento in ordine di tempo a salire agli onori della cronaca è avvenuto lo scorso febbraio, quando Space-X ha perso in un sol colpo 40 dei 49 satelliti che aveva lanciato per incrementare la costellazione di Starlink”.

INAF, oltre al SAMM, ha una serie di strutture osservative e competenze scientifiche che si occupano di Space Weather. Nel marzo del 2020 l’Istituto Nazionale di Astrofisica  ha siglato un accordo quadro con INGV e Aeronautica Militare per favorire “l’utilizzo comune delle risorse e degli strumenti per sviluppare una capacità autonoma di osservazione e previsione di fenomeni di Space Weather”. Ciò comprende la produzione dei dati, la creazione di algoritmi e modelli per l’interpretazione dei dati e lo studio degli impatti derivanti dalle perturbazioni solari sui sistemi di navigazione e comunicazione, salute degli equipaggi e sulle infrastrutture critiche sia civili sia militari.

telescopio SAMM
Il telescopio SAMM sulla terrazza di Villa Mellini dell’INAF, Roma. Crediti: INAF

Testo e foto dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

LA DOPPIA ANIMA DEL MAGNETISMO STELLARE

L’abbondanza di elementi pesanti all’interno di una stella ha un ruolo importante nei meccanismi che portano alla formazione e riorganizzazione del campo magnetico su grande scala, un fenomeno chiamato “dinamo stellare”. È il risultato dello studio guidato da due ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, che hanno compilato il più grande catalogo ad oggi dei periodi del ciclo di attività e di rotazione stellari, per un campione di 67 stelle

In che modo la rotazione di una stella può influenzare il periodo del suo ciclo di attività? Questa domanda, uno dei grandi quesiti aperti nell’astrofisica stellare, è collegata a una domanda ancor più fondamentale: il Sole è una stella di tipo solare?

LA DOPPIA ANIMA DEL MAGNETISMO STELLARE
Variazioni dell’attività del Sole osservate nel corso di 25 anni dal satellite ESA/NASA SOHO (Solar and Heliospheric Observatory).
Crediti: SOHO (ESA & NASA)

Hanno fatto finalmente chiarezza Alfio Bonanno ed Enrico Corsaro, ricercatori presso l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) a Catania, in un articolo pubblicato questa settimana su The Astrophysical Journal Letters. Il nuovo studio mostra infatti l’esistenza di una dicotomia nella distribuzione di quanto rapidamente varia il ciclo di attività di una stella in funzione della sua rotazione, con stelle la cui frequenza del ciclo di attività aumenta, e altre per cui questa diminuisce, con la rotazione. Il nostro Sole appartiene alla seconda categoria.

“Come spesso capita nella scienza moderna, fenomeni complessi ammettono una pluralità di interpretazioni. Nel caso delle stelle attive, cioè di stelle che presentano variabilità fotometrica e spettroscopica dovuta alla presenza di campi magnetici, la necessità di spiegare le cause della complessa fenomenologia osservativa in maniera consistente e unitaria è tuttavia essenziale per almeno due ragioni”, spiega Bonanno. “La prima è quella di comprendere meglio fenomeni potenzialmente distruttivi come tempeste solari e ‘super flare’, particolarmente importanti nel contesto dello space weather. La seconda è la comprensione della dinamo stellare, ovvero il complesso meccanismo che presiede formazione e riorganizzazione di un campo magnetico coerente su larga scala in un fluido stellare o planetario turbolento. Infatti senza la presenza combinata di campi magnetici stellari o planetari la vita non sarebbe possibile nel Sistema solare”.

Il lavoro si basa su un nuovo approccio statistico, che non trova precedenti nella letteratura scientifica, sviluppato per l’occasione e qui applicato ai dati della terza release del satellite Gaia, la missione dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) che da oltre otto anni scansiona il cielo per realizzare una mappa tridimensionale sempre più ricca e precisa della nostra galassia, la Via Lattea. Questa combinazione ha permesso la compilazione di un catalogo di 67 stelle – il più grande di questo genere finora realizzato – con la misura dei periodi del ciclo di attività e di rotazione stellari.

“Quanti e quali regimi di dinamo stellare sono presenti in stelle di massa simili al Sole? Cosa genera un tipo di dinamo stellare rispetto a un altro? Abbiamo studiato il legame tra la rotazione e i cicli di attività stellare, poiché questo ci permette di comprendere come i cicli di attività si possono distribuire in funzione della velocità di rotazione della stella”, chiarisce Corsaro. “Abbiamo poi analizzato questo legame alla luce di parametri stellari di metallicità, età, luminosità, massa, resi disponibili dai dati della missione ESA Gaia e da spettroscopia ad alta risoluzione, al fine di identificare quale parametro possa realmente influenzare il tipo di dinamo prodotta in stelle simili al Sole”.

Il motivo della distinzione tra le due categorie di stelle si trova nella loro composizione chimica. Lo studio dimostra finalmente che le stelle del primo tipo hanno abbondanze di elementi più pesanti dell’elio (che gli astronomi chiamano, in gergo, “metalli”) significativamente inferiori rispetto alle stelle del secondo tipo, come il Sole. Ciò indica che le proprietà della turbolenza magnetoidrodinamica nei plasmi stellari sono essenzialmente determinate dalla composizione chimica microscopica, e non dalla geometria o dall’estensione della zona convettiva, come si pensava in precedenza. Questa nuova prospettiva potrebbe permettere di interpretare, per la prima volta, il magnetismo stellare in maniera unitaria e coerente, anche in vista di future missioni che osserveranno grandi campioni di stelle, come il futuro satellite PLATO dell’ESA.

“Abbiamo scoperto che il Sole rientra perfettamente in uno dei regimi identificati sui cicli di attività magnetica – a differenza di quanto proposto da alcuni anni a questa parte, in cui il Sole era visto come una stella in una particolare fase di transizione verso un altro regime”, sottolinea Bonanno. “Abbiamo inoltre appreso che la metallicità stellare può essere l’ingrediente responsabile per generare un tipo di dinamo anziché un altro, poiché la metallicità cambia le proprietà microscopiche della zona convettiva della stella, zona all’interno della quale si ritiene che la dinamo stellare venga generata”, aggiunge Corsaro.

L’attività magnetica stellare è tra i fenomeni astrofisici più difficili da affrontare e la sua origine non è ancora compresa del tutto. Migliorare la nostra conoscenza del magnetismo stellare è di fondamentale importanza per il suo impatto sull’evoluzione stellare, e di conseguenza sull’evoluzione e l’abitabilità di potenziali pianeti in orbita intorno alle stelle.

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “On the Origin of the Dichotomy of Stellar Activity Cycles” di Alfio Bonanno ed Enrico Corsaro, è stato pubblicato su The Astrophysical Journal Letters.

 

Testo e foto dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

L’ECLISSI PARZIALE DI SOLE DEL 25 OTTOBRE 2022 IN DIRETTA DALL’INAF

L’appuntamento astronomico dell’autunno è previsto per la mattinata del 25 ottobre, con una attesissima eclissi parziale di Sole visibile dai cieli italiani, che sarà trasmessa in diretta, a partire dalle 11.15, dai telescopi dell’INAF di tutta Italia. Un evento ideale per le scuole.

Locandina eclissi parziale di sole 25 ottobre 2022 diretta INAF
Locandina della diretta EduINAF dedicata all’eclissi solare del 25 ottobre. Crediti: INAF/L. Barbalini

Nella tarda mattinata di martedì 25 ottobre, un’eclissi parziale di Sole sarà visibile dai cieli italiani. Per l’occasione, EduINAF, il magazine di didattica e divulgazione dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) organizza una diretta speciale della serie “Il cielo in salotto” con osservazioni dal vivo dell’eclissi al telescopio da diverse sedi INAF in tutta Italia.

La diretta, in orario eccezionalmente diurno e per questo indirizzata in modo particolare alle scuole, sarà trasmessa sui canali Youtube e Facebook di EduINAF a partire dalle 11.15 per seguire l’inizio del fenomeno celeste attraverso i telescopi INAF di Bologna, Cagliari, Palermo, Roma e Trieste. A Roma, in particolare, le osservazioni saranno effettuate con la Torre solare dell’INAF, situata sulla collina di Monte Mario. Il massimo dell’eclissi in Italia, con un oscuramento del disco solare fino a circa il 20%, è previsto intorno alle ore 12.20 (con piccole variazioni a seconda della località). La diretta in collegamento dalle sedi INAF continuerà fino alle 12.45. La trasmissione vedrà come ospiti gli esperti di fisica solare Alessandro Bemporad e Silvano Fineschi dell’INAF di Torino, Ilaria Ermolli dell’INAF di Roma, Mauro Messerotti dell’INAF di Trieste e Fabio Reale dell’INAF di Palermo, a cui sarà possibile fare domande in diretta.

Grazie a una collaborazione con timeanddate, il principale sito web al mondo per la misura del tempo e dei fusi orari, la diretta EduINAF mostrerà anche immagini dell’eclissi dai luoghi nel mondo in cui questo fenomeno sarà più accentuato: dalla Norvegia alla Lituania, dalla Turchia fino agli Emirati Arabi Uniti. La sede INAF di Napoli parteciperà inoltre alla diretta internazionale di timeanddate con il Celostato di Capodimonte, un particolare strumento per osservare il Sole, operato dagli astronomi solari Luciano Terranegra e Maurizio Oliviero. La diretta EduINAF continuerà fino alle ore 15.00 trasmettendo le immagini dell’eclissi dal resto del mondo, anche dopo il termine dell’evento in Italia.

“Osservare un’eclissi è un evento indimenticabile, non potevamo sperare di meglio per iniziare la terza stagione della serie ‘Il cielo in salotto’. Un’eclissi visibile anche nei nostri cieli, la partecipazione entusiasta di tanti telescopi e colleghi da tutta Italia, la collaborazione di partner d’eccezione che ci mostreranno l’evento da quasi tutto il mondo” commenta Livia Giacomini, direttore responsabile di EduINAF. “Per questo primo appuntamento, abbiamo pensato a una diretta che possa essere usata anche in classe, per regalare a insegnanti e studenti un evento da ricordare per la vita e usare come spunto di approfondimento. E poi, durante l’anno, saremo felici di mostrarvi e raccontarvi le meraviglie che non siamo più abituati a vedere nei nostri cieli: Marte, la Luna, costellazioni, comete. Insomma, il cielo in tutta la sua bellezza, nei nostri salotti”.

Immagine dell’eclissi parziale del 21 giugno 2020 ripresa da Napoli. Crediti: E. Cascone (INAF)
Immagine dell’eclissi parziale del 21 giugno 2020 ripresa da Napoli. Crediti: E. Cascone (INAF)

Il fenomeno dell’eclissi solare si verifica quando la Luna si trova allineata tra la Terra e il Sole e proietta dunque la sua ombra sulla Terra oscurando il Sole. L’eclissi può essere parziale, totale o anulare. In un’eclissi parziale, come quella del prossimo 25 ottobre, solo una parte del Sole viene oscurata dalla Luna e inoltre il centro della nostra stella non risulta perfettamente allineato con quello della Luna, come accade invece nel caso di eclissi totale e anulare. Non si deve mai osservare l’eclissi guardando il Sole a occhio nudo. Per evitare danni alla vista è necessario utilizzare opportuni sistemi di protezione e/o strumenti per l’osservazione sicura del Sole.

L’eclissi di Sole è un fenomeno raro. L’ultima eclissi totale visibile dall’Italia si è verificata nel 1961, e per osservarla di nuovo da alcune porzioni dell’Italia bisognerà attendere il 2081. Nei prossimi anni, sono previste eclissi totali in Spagna e Islanda il 12 agosto 2026 e ancora in Spagna e Africa settentrionale il 2 agosto 2027: questi due eventi saranno visibili dall’Italia sotto forma di eclissi parziale.

 


 

Per ulteriori informazioni:

La diretta dell’eclissi sarà visibile sul canale YouTube di EduINAF al seguente URL: https://www.youtube.com/watch?v=1mqC5a8WjUg

Il programma delle dirette 2022/2023 della serie “Il cielo in salotto” è disponibile sul sito di EduINAF: https://edu.inaf.it/diretta/

Maggiori informazioni sull’eclissi e come costruire un semplice telescopio per osservare in sicurezza l’evento astronomico sono disponibili nel video del Cielo di ottobre 2022 realizzato da Fabrizio Villa: https://youtu.be/YngIcHmQhQY?t=220

Testo, video e foto dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

SOLAR ORBITER RISOLVE IL MISTERO DEGLI “SWITCHBACK”

L’osservatorio spaziale vicino ai segreti del Sole

Hanno partecipato alla ricerca coordinata da Daniele Telloni dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – Osservatorio Astrofisico di Torino ricercatori dell’Università di Padovadell’Istituto Nazionale di Astrofisica, dell’Agenzia Spaziale Italiana, delle Università di Firenze e di Urbino, del Consiglio Nazionale delle Ricerche, dell’Università dell’Alabama a Huntsville e di altri prestigiosi atenei stranieri.

ESA NASA Solar Orbiter Sole switchback

Il 25 marzo 2022 Metis, il coronografo italiano a bordo della sonda ESA/NASA Solar Orbiter, ha osservato per la prima volta nella corona, cioè nello strato più esterno dell’atmosfera del Sole, una struttura magnetica a forma di S, il cosiddetto switchback, che si propaga nello spazio interplanetario. Comprendere l’origine degli switchback è di particolare rilevanza in quanto il meccanismo che li forma potrebbe spiegare anche l’origine dell’accelerazione del vento solare, cioè del flusso di particelle cariche emesse costantemente dal Sole che viaggia verso l’esterno nel Sistema Solare e che, investendo la magnetosfera e l’atmosfera terrestre, dà origine alle bellissime aurore boreali e australi.

«Finora gli switchbacks erano stati misurati solo in situ, cioè da sonde poste a bordo di satelliti che ne sono state attraversate, ma non erano mai stati realmente “visti”, cioè non ne erano mati state scattate delle foto – spiega il Prof. Giampiero Naletto del Dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Padova e che ha avuto il ruolo di experiment manager nella fase di realizzazione di Metis –. Metis è uno strumento a guida italiana molto complesso, la cui realizzazione ha dovuto superare varie difficoltà e che ha richiesto molti anni di lavoro di un team internazionale. Ma questi risultati unici che ci permettono di avanzare significativamente nella conoscenza del mondo che ci circonda e che avranno sicuramente in futuro ricadute nel progresso scientifico, tecnologico e sociale, compensano largamente lo sforzo profuso e stimolano tutti noi e in particolare i giovani ricercatori a perseguire nello sviluppo della ricerca».

Giampiero Naletto
Giampiero Naletto

«È grazie alla qualità dello strumento Metis, alla circostanza che stiamo osservando il Sole da molto vicino e anche ad un po’ di fortuna, che si è potuto ottenere per la prima volta una immagine di questo particolare fenomeno solare – confermano i dottorandi Chiara Casini e Paolo Chioetto del CISAS, il Centro di Ateneo di Studi e Attività Spaziali “G. Colombo” dell’Ateneo».

L’indagine, coordinata da Daniele Telloni dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – Osservatorio Astrofisico di Torino che ha riconosciuto l’evento associandolo a uno studio sugli switchbacks proposto nel 2020 dal Prof. Gary Zank dell’Università dell’Alabama a Huntsville, sarà pubblicata oggi sulla rivista «The Astrophysical Journal Letters» e presentata nel corso dell’8th Solar Orbiter Workshop a Belfast in Irlanda. Hanno firmato l’articolo dal titolo “Observation of a magnetic switchback in the solar corona” ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, dell’Agenzia Spaziale Italiana, delle Università di Firenze, di Padova e di Urbino, del Consiglio Nazionale delle Ricerche, dell’Università dell’Alabama a Huntsville e di altri prestigiosi Atenei stranieri.

Le misure in situ degli switchbacks realizzate negli anni precedenti avevano consentito a un team internazionale di scienziati di interpretarne l’origine sulla base dell’interchange reconnection e di un modello matematico che ne descrive dettagliatamente genesi e sviluppo. Tuttavia questa interpretazione non era mai stata confermata da un’osservazione diretta di uno switchback.

«La prima immagine scattata da Metis che Daniele Telloni mi ha mostrato – racconta Gary Zank – ha suggerito da subito una corrispondenza con il modello matematico che abbiamo sviluppato tempo fa. Ma entrambi abbiamo dovuto frenare il nostro entusiasmo fino a quando la comparazione di analisi più dettagliate prodotte dal coronografo ha confermato l’ipotesi attraverso risultati assolutamente spettacolari!».

 «La prima immagine di uno switchback nella corona solare ha svelato senz’altro il mistero della sua origine – commenta Daniele Telloni –. Continuando a studiare il fenomeno potremmo riuscire a far luce sui processi che accelerano il vento solare e lo riscaldano a grandi distanze dal Sole».

Lo studio del Sole e del vento solare prosegue, quindi, grazie a Solar Orbiter: la prima sonda a portare sia strumenti di telerilevamento, sia in situ a un terzo della distanza Terra-Sole.

«Questo è esattamente il tipo di risultato che speravamo di ottenere con Solar Orbiter – conclude Daniel Müller, ESA Project Scientist per Solar Orbiter –. Grazie ai dieci strumenti che si trovano a bordo della sonda spaziale, raccogliamo una quantità di dati sempre maggiore e, sulla base di risultati come quello appena raggiunto, perfezioniamo le osservazioni pianificate per la sonda. Quello appena effettuato è infatti solo il primo passaggio ravvicinato di Solar Orbiter al Sole, durante i prossimi proveremo a capire in che modo la nostra stella si collega al più ampio ambiente magnetico del Sistema Solare, insomma prevediamo di ottenere molti altri risultati entusiasmanti».

Testo, video e foto dall’Università degli Studi di Padova

PROGETTO SUNDISH: ALLA SCOPERTA DEL SOLE NELLE ONDE RADIO

È stato pubblicato sulla rivista Solar Physics lo studio, guidato da ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), che presenta il nuovo sistema di osservazione del Sole nelle onde radio con i radiotelescopi INAF di Bologna e di Cagliari, realizzato in collaborazione con l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI). Questi dati, attualmente unici nel panorama astrofisico internazionale, integrano le osservazioni solari condotte in altre frequenze e saranno preziose per monitorare e comprendere meglio l’attività della nostra stella in vista del suo massimo, previsto per il 2024.

Progetto Sundish
Progetto Sundish: alla scoperta del Sole nelle onde radio

L’Italia è uno dei pochi Paesi al mondo a poter vantare una rete di radiotelescopi in grado di lavorare in modo coordinato. Distribuita tra Emilia Romagna, Sicilia e Sardegna – e gestita dalle Strutture dell’INAF di Bologna e Cagliari – questa sofisticata rete di antenne ha avviato da qualche anno il progetto Sundish, coordinato dall’astrofisico dell’INAF Alberto Pellizzoni, con una serie di osservazioni congiunte nelle onde radio di una sorgente celeste tanto vicina quanto finora poco  monitorata in questa finestra dello spettro elettromagnetico: il nostro Sole.

Questo nuovo sistema di monitoraggio radio-solare, che vede per ora protagoniste le antenne di Medicina e il Sardinia Radio Telescope (SRT), è l’oggetto dell’articolo appena pubblicato sulla rivista Solar Physics, in cui si svelano i dettagli dei ricevitori e dei software appositamente creati per l’analisi dei dati solari, oltre che un catalogo di 170 immagini prodotte dalle antenne italiane.

Lo studio – che ha coinvolto anche le università di Cagliari, Trieste ed Exeter, in Inghilterra, oltre che l’istituto olandese di radioastronomia ASTRON – ha rafforzato la già intensa collaborazione scientifica tra INAF e ASI, grazie allo sforzo congiunto per lo sviluppo presente e futuro del sistema di osservazione radio-solare. Il sistema, che tra non molto potrebbe arrivare ad osservare fino alla frequenza di ben 100 GHz, consente di mappare e studiare, tramite strumenti dedicati, sia l’emissione del Sole quieto che delle sue regioni attive, sempre più numerose man mano che ci si avvicina al massimo del ciclo solare, previsto per il 2024.

“Ad oggi – spiega Pellizzoni – siamo i primi e per ora gli unici a osservare il Sole alle frequenze radio nell’intervallo tra 18 e 26 GHz, e quindi siamo in grado di poter ottenere informazioni fisiche in una regione dello spettro elettromagnetico cruciale, ma al momento poco utilizzata per gli studi solari per via delle difficoltà osservative in questa particolare banda radio. Per la prima volta è stato possibile misurare la temperatura del Sole in questa banda. Inoltre studiare il Sole a queste frequenze ci fornisce informazioni preziose, non solo per capire meglio come funziona la nostra stella, ma anche per contribuire a sviluppare metodi per prevedere i suoi comportamenti più violenti.”

Le regioni attive sono aree molto luminose del Sole, caratterizzate da intensi campi magnetici locali, che forniscono energia per i brillamenti solari e le espulsioni di massa coronale, eventi che in situazioni estreme possono avere effetti negativi sulle moderne tecnologie, specie in ambito spaziale, come i sistemi satellitari di telecomunicazioni, ormai indispensabili alla nostra vita quotidiana.

“In realtà – continua Pellizzoni – siamo partiti da una curiosità tecnica: si può osservare il Sole con i radiotelescopi INAF? Questa curiosità ha innescato gli studi di fattibilità da parte di tanti tecnologi e ricercatori INAF e ASI. Da qui è nato il progetto SunDish che ho ideato e guidato personalmente, e che ora mi occupa a tempo pieno, insieme a molti altri entusiasti giovani e meno giovani! Abbiamo scoperto non solo che queste osservazioni erano fattibili, ma anche che la comunità scientifica internazionale si dimostrava molto interessata ai risultati che avrebbero prodotto nell’ambito dello Space Weather, ovvero la meteorologia dello spazio”.

La tempesta solare più potente finora registrata è stata il cosiddetto “Evento di Carrington”, il 1° settembre 1859. L’evento produsse i suoi effetti su tutta la Terra dal 28 agosto al 2 settembre, con l’interruzione delle linee telegrafiche per 14 ore, e con la produzione di un’aurora boreale visibile anche a latitudini inusuali, addirittura fino a Roma. Conoscere in anticipo questi fenomeni, aiuterebbe sicuramente a attivare per tempo contromisure in grado di limitare i possibili malfunzionamenti o guasti alle infrastrutture tecnologiche più esposte.

“Una cosa curiosa – aggiunge Simona Righini, ricercatrice INAF e co-Principal Investigator del progetto Sundish – è sicuramente il fatto che le parabole di Medicina ed SRT in principio non sono state concepite per osservare il Sole. Anzi agli astronomi era proibito puntare le antenne verso il Sole per timore che l’intenso calore e la forte radiazione potessero danneggiare gli strumenti. È stato necessario un grande impegno da parte di tanti tecnologi e ricercatori INAF, con la preziosa collaborazione di ASI, per rendere tutto questo possibile”.

“Le osservazioni radio del Sole effettuate nell’ambito del progetto SunDish sono di fondamentale importanza per lo Space Weather, in quanto forniscono diagnostiche chiave sulla fisica delle regioni attive e sulla previsione dei brillamenti solari” conclude Mauro Messerotti, fisico solare e senior advisor dell’INAF per lo Space Weather. “In questo contesto, due nuovi strumenti dedicati al monitoraggio del Sole nelle onde radio saranno operativi a breve all’INAF di Trieste ed alla sezione INAF presso l’Università della Calabria”.

L’articolo “Solar Observations with Single-Dish INAF Radio Telescopes: Continuum Imaging in the 18 – 26 GHz Range”, di A. Pellizzoni, S. Righini, M. N. Iacolina, M. Marongiu, S. Mulas, G. Murtas, G. Valente, E. Egron, M. Bachetti, F. Buffa, R. Concu, G. L. Deiana, S. L. Guglielmino, A. Ladu, S. Loru, A. Maccaferri, P. Marongiu, A. Melis, A. Navarrini, A. Orfei, P. Ortu, M. Pili, T. Pisanu, G. Pupillo, A. Saba, L. Schirru, G. Serra, C. Tiburzi, A. Zanichelli, P. Zucca & M. Messerotti, è stato pubblicato su Solar Physics.

 

Testo e foto dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

LISA e la scoperta di nuovi campi fondamentali 

Su Nature Astronomy lo studio pubblicato da Andrea Maselli, ricercatore del GSSI, associato INFN, e dai colleghi della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati, dell’Università di Nottingham e della Sapienza di Roma, che suggerisce un nuovo approccio per rilevare con grande accuratezza nuovi campi fondamentali e verificare la teoria della relatività generale grazie a LISA, il rivelatore di onde gravitazionali spaziale, che partirà come missione ESA – NASA nel 2037.

LISA campi fondamentali
Foto 1: Rappresentazione artistica della deformazione spazio-tempo di un EMRI. Un piccolo buco nero che ruota intorno ad un buco nero supermassiccio. (Credits: NASA)

La Relatività Generale di Einstein è la teoria corretta per i fenomeni gravitazionali? È possibile sfruttare tali fenomeni per scoprire nuovi campi fondamentali?

Il lavoro uscito oggi su Nature Astronomy, condotto da Andrea Maselli, ricercatore del GSSI, associato INFN, assieme a ricercatori della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati, dell’Università di Nottingham, e della Sapienza Università di Roma, mostra che le osservazioni di onde gravitazionali da parte dell’interferometro spaziale LISA (Laser Interferometer Space Antenna) saranno in grado di rivelare la presenza di nuovi campi fondamentali con grande accuratezza.

Il campo gravitazionale è, secondo la Relatività Generale, espressione della curvatura dello spazio-tempo creata dalla presenza di massa o energia che altera lo spazio circostante.

Nuovi campi fondamentali associati alla gravità, in particolare quelli scalari, sono alla base di modelli teorici sviluppati per spiegare una grande varietà di scenari fisici. Potrebbero ad esempio fornire indizi sull’espansione accelerata dell’Universo o sulla materia oscura, oppure essere manifestazioni a bassa energia di una descrizione consistente e completa della gravità e delle particelle elementari.

Le osservazioni di oggetti astrofisici caratterizzati da campi gravitazionali deboli e piccole curvature spazio-temporali non hanno mostrato finora alcuna indicazione dell’esistenza di questi campi. Tuttavia, diversi modelli suggeriscono che deviazioni dalla Relatività Generale, o interazioni tra la gravità e nuovi campi, siano più rilevanti quando la curvatura dello spazio-tempo è molto grande. Per questa ragione, l’osservazione di onde gravitazionali – che ha aperto una nuova finestra sul regime di campo gravitazionale forte – rappresenta un’opportunità unica per scoprire nuovi campi fondamentali.

LISA campi fondamentali
Foto 2: EMRI: Sezione di un’orbita percorsa da un oggetto stellare attorno a un buco nero massivo (Credits: N. Franchini)

LISA, il rivelatore di onde gravitazionali spaziale sviluppato per osservare onde gravitazionali da sorgenti astrofisiche, permetterà di studiare nuove famiglie di sorgenti astrofisiche, diverse da quelle osservate da Virgo e LIGO, come gli Extreme Mass Ratio Inspirals (EMRI).

“Gli EMRI, sistemi binari in cui un oggetto compatto con massa stellare – un buco nero o una stella di neutroni – orbita attorno ad un buco nero milioni di volte più massivo del nostro Sole, sono infatti tra le sorgenti che ci si aspetta di osservare con LISA, e rappresentano un’arena preziosissima per studiare il regime di campo forte della gravità. – spiega Andrea Maselli, primo autore del paper – Il corpo più piccolo di un EMRI compie decine di migliaia di cicli orbitali prima di cadere nel buco nero supermassivo, emettendo così segnali di lunga durata che permettono di misurare anche le più piccole deviazioni dalle predizioni della teoria di Einstein e del modello standard delle particelle”.

Gli autori dello studio hanno sviluppato uno nuovo approccio per modellizzare il segnale emesso dagli EMRI, studiando per la prima volta in modo rigoroso se e come LISA possa scoprire l’esistenza di campi scalari accoppiati all’interazione gravitazionale, e misurare la carica scalare, una grandezza che quantifica il campo associato al corpo più piccolo del sistema binario.

Il nuovo approccio sviluppato è “agnostico” rispetto alla teoria che predice l’esistenza del campo scalare, poichè non dipende dall’origine della carica o dalla natura dell’oggetto compatto.  L’analisi mostra anche come future misure della carica scalare potranno essere tradotte in vincoli molto stringenti sulle deviazioni della Relatività Generale o del Modello Standard.

LISA, che partirà come missione ESA-NASA nel 2037, opererà in orbita attorno al Sole, in una costellazione di tre satelliti distanti milioni di chilometri l’uno dall’altro, osservando onde gravitazionali emesse a bassa frequenza, in una banda non accessibile agli interferometri terrestri a causa del rumore ambientale. Lo spettro visibile di LISA aprirà una nuova finestra sull’evoluzione degli oggetti compatti in una grande varietà di sistemi astrofisici del nostro Universo.

Riferimenti:

Detecting fundamental fields with LISA observations of gravitational waves from extreme mass-ratio inspirals – Andrea Maselli, Nicola Franchini, Leonardo Gualtieri, Thomas P. Sotiriou, Susanna Barsanti, Paolo Pani – Nature Astronomy DOI: https://doi.org/10.1038/s41550-021-01589-5

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Il primo sorvolo di Mercurio della missione BepiColombo

Il 2 ottobre all’1.35 ora italiana la sonda spaziale passerà a 200 km dalla superficie del pianeta. A bordo un esperimento, il Mercury Orbiter Radioscience Experiment (MORE), sviluppato dal team guidato da Luciano Iess della Sapienza, che permetterà di determinare la gravità e l’orbita del corpo celeste più vicino al sole.

La sonda spaziale BepiColombo, lanciata il 20 ottobre 2018 dal Centro spaziale di Kourou nella Guyana francese, è in viaggio verso Mercurio, la sua destinazione finale. Il primo dei sei sorvoli del pianeta più vicino al Sole avverrà il 2 ottobre 2021 all’1.35 ora italiana (23.15 del primo ottobre, ora di Greenwich), quando la sonda passerà a 200 km dalla superficie.

BepiColombo ha già effettuato con successo un sorvolo della Terra, il 10 aprile 2020, e due sorvoli di Venere, il 20 ottobre 2020 e il 10 agosto 2021. Questi incontri ravvicinati hanno lo scopo primario di modificare la traiettoria della sonda, facendole acquistare velocità sufficiente per la cattura finale da parte della gravità di Mercurio, prevista per la fine del 2025. Ma allo stesso tempo sono anche un primo assaggio di quanto verrà poi osservato con assai maggiore dettaglio nella missione primaria, quando BepiColombo orbiterà attorno al pianeta per due anni.

Mercurio BepiColombo

BepiColombo nasce dalla collaborazione tra l’ESA (Agenzia Spaziale Europea) e la JAXA (Agenzia Spaziale Giapponese). Prende il nome dallo scienziato italiano Giuseppe (da cui Bepi) Colombo, che diede un contributo fondamentale allo studio di Mercurio. La sonda è composta da tre moduli principali: il modulo MPO (Mercury Planetary Orbiter) e il modulo MTM (Mercury Transfer Module) sviluppati dall’ESA, il terzo modulo MMO (Mercury Magnetospheric Orbiter) sviluppato dalla JAXA. Con la sofisticata strumentazione scientifica di bordo, BepiColombo vuole rispondere ad alcune domande fondamentali per comprendere la formazione e l’evoluzione del pianeta: qual è la sua struttura interna, dal nucleo alla superficie? Quali sono gli elementi e i minerali di cui è composto? Qual è l’origine del campo magnetico e come interagisce con il vento solare, un flusso di particelle alla velocità di 400 km/s?

Mercurio BepiColombo

Quattro dei sedici esperimenti scientifici di BepiColombo sono italiani. Tra questi, l’esperimento di radioscienza, MORE (Mercury Orbiter Radioscience Experiment), è guidato dal professor Luciano Iess del Dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale della Sapienza, coadiuvato da un gruppo internazionale di scienziati e ingegneri. In Italia, collaborano le Università di Pisa e Bologna, l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e l’Università d’Annunzio. Gli obiettivi scientifici di MORE sono la determinazione della struttura interna di Mercurio attraverso misure di precisione della gravità del pianeta, la ricerca di violazioni della teoria della relatività generale di Einstein e la dimostrazione in volo di un nuovo e avanzato sistema di navigazione spaziale.

Il primo sorvolo di Mercurio della missione BepiColombo. Immagine ESA

Mercurio è il pianeta più vicino al Sole, dove la curvatura dello spazio-tempo, prevista da Einstein nel 1915, è più accentuata. Tale curvatura produce “anomalie” nell’orbita del pianeta (tra cui la famosa precessione del perielio) e nella propagazione della luce e dei segnali radio (compresa la deflessione osservata durante l’eclisse solare del 1919). Circa un secolo dopo, MORE consentirà di verificare a un livello di precisione mai raggiunto finora se la relatività einsteniana rimane una teoria valida della gravità. I primi esperimenti di fisica fondamentale sono già cominciati nel marzo 2021 e proseguiranno fino alla fine della missione, nel 2027.

Mercurio BepiColombo

MORE si prefigge di raggiungere tali obiettivi scientifici tramite l’utilizzo di segnali radio scambiati tra grandi antenne di terra (34 m di diametro) ubicate in Argentina e California, e uno strumento di bordo, il KaT (Ka-band Transponder), realizzato da Thales Alenia Space Italia con la collaborazione del team di Sapienza e finanziato dall’Agenzia spaziale italiana. L’avanzato sistema radio renderà possibile misurare la distanza della sonda con precisione di pochi centimetri e la sua velocità a livello di alcuni millesimi di millimetro al secondo. I dati di un altro strumento italiano (Italian Spring Accelerometer – ISA) saranno utilizzati per misurare tutte quelle accelerazioni della sonda non riconducibili alla gravità, permettendo di ottenere una determinazione più precisa del moto della sonda.

Il ruolo fondamentale che svolge l’esperimento MORE all’interno della missione BepiColombo conferma Sapienza come un polo centrale della ricerca per le tematiche di struttura ed evoluzione planetaria, fisica fondamentale e sistemi di navigazione interplanetaria.

 

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La NASA sceglie VERITAS: la Sapienza su Venere

La missione spaziale selezionata dalla Nasa per l’esplorazione di Venere vede coinvolto in maniera determinante il gruppo di ricerca della Sapienza guidato da Luciano Iess. VERITAS dovrà rispondere a molte domande sull’evoluzione di questo pianeta ancora misterioso che, da un passato molto simile a quello della Terra, è diventato uno dei luoghi più inospitali del sistema solare.

La missione spaziale VERITAS (Venus Emissivity, Radio Science, INSAR, Topography and Spectroscopy) a cui la Sapienza partecipa con un contributo fondamentale, è risultata vincitrice nella selezione delle missioni planetarie della Nasa. Lo ha comunicato la Nasa stessa il 2 giugno scorso nell’ambito della selezione delle prossime missioni di classe Discovery da 500 milioni di dollari.

VERITAS sarà lanciata tra il 2026 e il 2028 e ospiterà a bordo una strumentazione molto sofisticata finanziata dall’Agenzia spaziale italiana (ASI) a cui ha contribuito il gruppo di ricerca guidato da Luciano Iess, composto da giovani ricercatori della Sapienza.

“La forte presenza italiana nel team scientifico che ha portato alla selezione di VERITAS rappresenta un ulteriore esempio del ruolo della nostra università nella ricerca spaziale e nell’esplorazione del sistema solare – dichiara Luciano Iess, professore del Dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale della Sapienza – Questa missione ci permetterà di dare risposta a interrogativi che sono ormai rimasti aperti troppo a lungo”.

Veritas Venere
Un’immagine radar di quella che appare come una recente colata lavica, ripresa dalla sonda Magellan (NASA) piu’ di 25 anni fa

Venere infatti ha sempre suscitato grande interesse e fascino nella comunità scientifica. Gli unici dati globali sulla sua superficie e struttura interna sono stati forniti dalla sonda Magellan (NASA) più di 25 anni fa (1994-95). Da sempre indicato come il pianeta cugino della Terra per le dimensioni, massa e distanza dal Sole molto simili, Venere ha però intrapreso, per cause ancora ignote, un percorso evolutivo estremamente diverso da quello del nostro pianeta, al punto che oggi è uno dei luoghi più inospitali del sistema solare. La sua densa atmosfera, composta in gran parte di anidride carbonica e nubi di acido solforico, ha una pressione al suolo 90 volte maggiore di quella terrestre e temperature medie di 460 °C. Tuttavia studi recenti indicano per Venere un passato molto diverso e assai più simile a quello della Terra.

Veritas Terra Venere
La Terra e Venere fianco a fianco, viste dallo spazio (quest’ultima attraverso il radar della sonda Magellan)

VERITAS si propone di dare una risposta alle molte domande della comunità scientifica riguardanti non solo l’evoluzione passata, ma anche quella presente e futura, in particolare ricercando la presenza di vulcani attivi e di processi dinamici superficiali, quali la tettonica a placche. VERITAS sarà inoltre in grado di determinare la composizione e struttura interna del pianeta, fornendo ulteriori indizi per la comprensione non solo dei pianeti rocciosi, ma anche di una classe di esopianeti con caratteristiche simili.

La missione sarà coordinata da Suzanne E. Smrekar (Jet Propulsion Laboratory, California Institute of Technology) e costituisce, insieme a DaVinci+, che studierà l’atmosfera del pianeta, una delle due missioni della Nasa a Venere.

Nel team scientifico di VERITAS, il gruppo italiano, coordinato da Luciano Iess (Co-Lead dell’esperimento di gravità), è composto da giovani ricercatori del Centro di Ricerca Aerospaziale Sapienza (CRAS), del Dipartimento di Ingegneria meccanica aerospaziale (DIMA) e del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione, Elettronica e Telecomunicazioni (DIET). I ricercatori del CRAS-DIMA (Gael Cascioli, Fabrizio De Marchi, Paolo Racioppa), hanno condotto, attraverso simulazioni numeriche, la definizione dell’esperimento di gravità, dedicato alla determinazione della struttura interna del pianeta. I ricercatori del DIET (Roberto Seu e Marco Mastrogiuseppe, Co-Lead del radar VISAR) hanno contribuito allo sviluppo di tecniche di elaborazione dei dati del radar ad apertura sintetica, con lo scopo di individuare la presenza di processi geologici superficiali recenti. Gaetano di Achille, dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, completa la partecipazione italiana con le competenze sulla struttura geologica del pianeta.

“Il successo di VERITAS – commenta Gael Cascioli, dottorando in Ingegneria aeronautica e spaziale presso il DIMA – è passato anche attraverso la fiducia che è stata riposta nei giovani ricercatori e ricercatrici che, come me, hanno portato entusiasmo, competenza ed energia nel team scientifico internazionale”.

 

Link:

NASA: https://www.nasa.gov/press-release/nasa-selects-2-missions-to-study-lost-habitable-world-of-venus

ASI: https://www.asi.it/#divSlideshow

 

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

L’inquinamento atmosferico è un problema che occupa spesso le prime pagine dei giornali nel periodo autunno-inverno, quando nelle grandi città i livelli di polveri sottili salgono sopra i limiti di legge e scattano le consuete (e insufficienti) misure di blocco del traffico per cercare di ridurlo.

D’estate non se ne parla più, e sembra quasi che il problema scompaia. E invece no, cambia solo termini. L’osservato speciale dei mesi estivi è un altro, l’ozono. Vediamo quindi di che si tratta, come si forma e quali sono i limiti di legge.

L’ozono stratosferico

Conosciamo l’ozono (O3) come composto fondamentale per la vita sulla Terra, in quanto, in stratosfera, filtra le radiazioni UV del Sole dannose per la vita. Queste radiazioni possono causare tumori della pelle o incidere sul sistema immunitario, così come possono causare alterazione di alcuni ecosistemi, in particolare quelli acquatici, e influire così su catene alimentari e cicli biogeochimici.

ozono stratosferico
L’ozono nella stratosfera è fondamentale per la vita sulla Terra. (Foto di Arek Socha da Pixabay)

L’assottigliamento dello strato di ozono stratosferico (o “ozonosfera”), causato in particolare da composti clorurati e fluorurati derivanti da attività umana (applicazioni industriali e prodotti di consumo come frigoriferi, condizionatori d’aria ed estintori), è stata grande fonte di preoccupazione a livello globale in particolare dalla seconda metà degli anni ’80 e ha portato al bando quasi totale di CFC e di altre sostanze alogenate.

L’ozono troposferico

Lo stesso composto, fondamenta negli strati alti dell’atmosfera, risulta invece dannoso se presente in elevate quantità a livello di troposfera, ovvero, se presente nella parte di atmosfera in cui viviamo e respiriamo.

La molecola di ozono
Struttura della molecola di ozono. Immagine di Ben Mills, generata in Accelrys DS Visualizer, in pubblico dominio

L’ozono è un inquinante secondario, che si forma in presenza di inquinanti precursori (ossidi di azoto NOx e composti organici volatili – COV) e forte radiazione luminosa. Per questo motivo è un inquinante tipicamente estivo, a causa della maggiore luce solare è in questo periodo dell’anno che si forma in quantità maggiori, insieme ad altri inquinanti atmosferici dannosi (formaldeide, nitrato di periossiacetile acido nitrico), e viene spesso chiamato anche “smog fotochimico”. 

I precursori dell’ozono possono essere di origine naturale (come eruzioni vulcaniche o incendi spontanei), ma in modo più prevalente sono di origine antropogenica (traffico veicolare e attività industriali).

L’esposizione ad alte concentrazioni di ozono è potenzialmente pericolosa per la salute umana, in quanto è altamente irritante per le vie respiratorie e può causare malattie polmonari, insufficienza respiratoria e tumori. Sulla vegetazione, provoca effetti visibili alle foglie, e conseguente alterazione della fotosintesi e della crescita della pianta.

Il monitoraggio

L’ozono è uno dei composti principali monitorati costantemente per valutare la qualità dell’aria, insieme a polveri sottili (PM10 e PM2,5) e biossido di azoto. I limiti di concentrazione sono stabiliti dal D.Lgs 155/2010.

Limiti di legge dell'ozono troposferico
Fonte: elaborazione da D. Lgs. 155/2010

Per capire meglio questi valori, ecco le definizioni, così come riportate dal D.Lgs. 155/2010: 

  • soglia di informazione: livello oltre il quale sussiste un rischio per la salute umana in caso di esposizione di breve durata per alcuni gruppi particolarmente sensibili della popolazione nel suo complesso ed il cui raggiungimento impone di assicurare informazioni adeguate e tempestive; 
  • soglia di allarme: livello oltre il quale sussiste un rischio per la salute umana in caso di esposizione di breve durata per la popolazione nel suo complesso e il cui raggiungimento impone di adottare provvedimenti immediati;
  • obiettivo a lungo termine: livello da raggiungere nel lungo periodo mediante misure proporzionate, al fine di assicurare un’efficace protezione della salute umana e dell’ambiente.

Tra questi, il parametro principale da prendere in considerazione è l’obiettivo a lungo termine.  Secondo i dati più recenti forniti dall’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), nel 2018 sulle 312 centraline di monitoraggio sparse sul territorio nazionale, in ben 291 (il 92%) è stato superato il valore limite per questo parametro, e i valori più elevati sono stati riscontrati nel Nord Italia.

Il monitoraggio degli inquinanti atmosferici spetta alle Arpa, ovvero alle Agenzie regionali per la protezione ambientale, che quotidianamente pubblicano sui loro siti Internet i valori riscontrati e emanano così dei bollettini sulla qualità dell’aria. Per esempio, l’Arpa Lombardia riporta i dati in una mappa e consente la ricerca per composto e per comune. Se volete quindi conoscere la situazione dalle vostre parti, sapete dove cercare.  

smog fotochimico inquinamento atmosferico estate
Foto di Albrecht Fietz da Pixabay

 

Accostare la parola “marea” alla Geologia può lasciare perplessi in prima battuta, scavando nella memoria difficilmente si recupera un ricordo che le vede accomunate. Un termine notoriamente associato al movimento di masse liquide e la scienza che studia le masse rocciose: in che modo sono legati?

A partire dalla metà del ventesimo secolo, la teoria della tettonica a placche è entrata a far parte stabilmente del pensiero scientifico: da allora gli esperti dibattono sui processi che governano il moto dei blocchi tettonici. Postulata e dimostrata la teoria della deriva dei continenti, gli scienziati hanno ricercato le sue cause nella struttura interna della Terra ed in particolare nei moti convettivi del mantello superiore, che determinano l’allontanamento o la collisione delle placche.

Secondo i dati raccolti, però, i movimenti relativi dei blocchi non sono governati esclusivamente dalla dinamica del mantello: esiste una componente orizzontale regolata da un processo diverso. Da ricercare fuori e non dentro il pianeta. Ecco che entrano in gioco le “maree solide”, movimenti di blocchi di litosfera dipendenti dai moti solari e lunari con lungo periodo di oscillazione (maggiore di un anno).

Lo studio “Tidal modulation of plate motions” di Davide Zaccagnino (Università Sapienza di Roma), Francesco Vespe (Agenzia Spaziale Italiana) e Carlo Doglioni (Università Sapienza di Roma e INGV) pubblicato su Earth Science Reviews fornisce dati a sostegno di questa teoria, facendo uso di misurazioni satellitari registrate in uno spazio temporale di più di venti anni.

La sezione di Terra oggetto di studio è la litosfera, l’insieme della crosta terrestre e della parte superiore del mantello. Il suo comportamento – se sottoposta a sforzo – è di tipo rigido, a differenza della sottostante astenosfera più fluida e facilmente deformabile. La separazione tra queste due masse è garantita dalla low velocity zone (LVZ), una fascia a basse velocità delle onde sismiche sulla quale la litosfera scorre con poca frizione.

 

maree solide Carlo Doglioni
La struttura della terra: 1) crosta, 2) mantello, 3) nucleo (esterno liquido e interno solido), 4) litosfera, 5) astenosfera. Immagine USGS, vettoriale di Anasofiapaixao, pubblico dominio

La ricerca ha analizzato la distanza relativa di una serie coppie di stazioni GNSS (Global Navigation Satellite Systems) collocate su placche differenti (9) ed una coppia di controllo sulla stessa placca. Lo studio si è focalizzato sui moti ciclici del Sole e della Luna con oscillazioni comprese tra uno e 18,61 anni. Cicli più brevi e quindi più frequenti vengono mascherati da effetti climatici sull’atmosfera e sul sottosuolo (influenzando ad esempio pressione dei fluidi). Inoltre, i cataloghi delle misurazioni satellitari hanno a disposizione dati degli ultimi 15-20 anni.

Il professor Carlo Doglioni ha quindi risposto per noi ad alcune domande relative a questo ultimo, importante studio.

Professor Doglioni, ci sono teorie e/o ricerche riguardo oscillazioni astronomiche con periodo maggiore? Che cataloghi e misurazioni vengono usati in quel caso?

Lo studio pubblicato è un tassello importante di un percorso di ricerca iniziato circa 30 anni fa, quando si è iniziato a vedere che le placche (cioè i frammenti della litosfera, il guscio esterno della Terra) non si muovono a caso, ma seguono un flusso primario, descritto da quello che abbiamo definito ‘equatore tettonico’, che fa un angolo di circa 30° rispetto all’equatore geografico.

Guarda caso, la proiezione del passaggio della Luna sulla Terra descrive un angolo molto simile. Poi però negli anni sono state documentate delle profonde asimmetrie della tettonica in funzione della polarità geografica, per esempio le differenze tra le catene montuose legate a subduzioni verso ‘est’ o verso ‘ovest’.

Infine è stato documentato come il guscio litosferico, circa 100 km di spessore, abbia un ritardo verso ‘ovest’ di alcuni centimetri l’anno rispetto al mantello sottostante. Quindi la tettonica delle placche è polarizzata. Queste osservazioni cruciali sono state in larga parte ignorate o liquidate come effetti secondari della sola dinamica interna di raffreddamento della Terra.

Ora abbiamo invece una prova sperimentale che le maree solide – e quindi le forze astronomiche – hanno invece un effetto cruciale sulla dinamica delle placche, in particolare quelle che hanno frequenze compatibili con le alte viscosità del mantello terrestre. L’equatore tettonico, per esempio, sembra avere una inclinazione controllata dalla precessione dell’asse di rotazione terrestre, cioè circa 26.000 anni.

Quindi sì, dovrebbero esserci effetti importanti anche con frequenze con periodi più lunghi a quelli delle nutazioni (18.6 anni). In questo caso però non ci sono cataloghi né sismici, né geodetici che ci possano aiutare, se non i dati geologici di lungo periodo.

maree solide Carlo Doglioni
Immagine di Arek Socha

Lo studio conferma inoltre la teoria secondo cui l’attività sismica ha un legame con il movimento relativo di Sole e Luna. Che impatto ha questa relazione sullo studio dei terremoti, in particolare sui cataloghi degli eventi sismici passati e sul monitoraggio delle aree attive? Potranno esserci (o esistono già) studi in “tempo reale” (geologicamente parlando) dell’effetto sui diversi tipi di faglia?

La gravità rimane sempre uno dei segreti più straordinari della natura e i suoi effetti sono in parte ancora da scoprire. Basti pensare che pur avendo il Sole il 99% della massa di tutto il sistema solare, il baricentro del sistema solare oscilla continuamente per effetto della massa rimanente inferiore all’1% di cui Giove fa la parte del leone. Le forze mareali, inoltre, vanno con il cubo della distanza, e questo spiega perché la Luna, pur essendo infinitamente più piccola, ha un effetto mareale circa doppio rispetto al Sole.

La tettonica delle placche e quindi la sismicità esistono però perché il mantello terrestre può convettere, e questo è possibile perché la temperatura e la composizione interna della Terra determinano viscosità che permettono questa mobilità. Tuttavia, la domanda è se i moti convettivi sono l’unico motore attivo oppure se esiste un’altra forza che li mette in movimento.

La componente orizzontale della marea solida ora è il candidato ideale per far scivolare la litosfera sul mantello sottostante, per farla sprofondare nelle zone di subduzione o permettere la risalita per isostasia del mantello al di sotto delle dorsali oceaniche che si formano dove i gradienti di viscosità determinano velocità diverse tra le placche a parità di effetto mareale. In sostanza la convezione mantellica viene polarizzata e attivata dalla componente orizzontale della marea solida; una componente che sposta avanti e indietro il suolo di 10-20 cm a ogni passaggio è la miglior candidata a pompare il sistema tettonico.

Vediamo infatti una certa correlazione con la sismicità in funzione dei periodi in cui la componente orizzontale è maggiore. Tuttavia, la sismicità è la liberazione di gradienti di pressione che si formano nei decenni, se non millenni, e la rottura che provoca il terremoto si attua nel momento in cui le rocce non sono più in grado di accumulare energia; viene dunque raggiunta la soglia critica e si attivano le faglie che producono i terremoti.

La faglia di Sant’Andrea. Foto di Ikluft, CC BY-SA 4.0

In sostanza, la correlazione tra maree e terremoti è più subdola, nel senso che c’è una frequenza maggiore di terremoti quando le placche vanno un po’ più veloci, ma i terremoti avvengono anche quando le placche si muovono più lentamente, qualora lo stato limite o condizione critica siano stati raggiunti. La componente orizzontale fornisce l’energia al sistema, mentre la componente verticale della marea modifica e modula continuamente, ogni secondo, la gravità terrestre, alzando e ribassando la litosfera e quindi anche la superficie terrestre di 30-40 cm, e quindi modificando anche il peso delle rocce: questa oscillazione favorisce o sfavorisce i terremoti in funzione della loro natura.

Per esempio, i terremoti estensionali avvengono più frequentemente durante le fasi di bassa marea (quando cioè la gravità terrestre è massima), mentre i terremoti compressivi avvengono più spesso durante le fasi di alta marea perché con una leggera diminuzione della forza di gravità si facilita lo scorrimento contrazionale.

In sostanza, la componente orizzontale carica il sistema, mentre quella verticale può essere il grilletto che innesca i terremoti, ma questi possono avvenire indipendentemente dalla marea quando la ‘misura è colma’. La Terra esercita delle maree solide che innalzano il suolo lunare di circa 10 metri, e la sismicità lunare ha una ciclicità mensile concentrata nell’emisfero rivolto verso la Terra.

La Luna non ha una tettonica delle placche perché evidentemente non ha temperature interne sufficientemente alte da determinare basse viscosità che permettano la convezione e inoltre si trova in tidal-locking, cioè guarda la Terra sempre con la stessa faccia, quindi manca la rotazione del corpo celeste come per il nostro pianeta. Quindi sì, c’è un controllo gravitazionale fondamentale sulla sismicità, ma questo non significa che ora siamo in grado di prevedere i terremoti.

Sismogramma all’Osservatorio di Weston, Massachussetts. Foto di Z22, CC BY-SA 3.0

Abbiamo però una chiave di lettura che ci permetterà di approfondire quei settori delle geoscienze che ci possono dare informazioni deterministiche sull’evoluzione delle aree a maggiore pericolosità sismica: dalla geodesia alla geochimica dei fluidi, dalla statistica all’intelligenza artificiale, discipline che ci permettono di riconoscere dei transienti o anomalie che preludono l’attivazione delle faglie, o meglio il rilascio dell’energia accumulata nei volumi adiacenti alle faglie stesse che sono dei piani passivi di rilascio e canalizzazione di una parte di questa energia.

Che impatto può avere questa ricerca sullo studio degli hotspot, ad esempio quello delle Hawaii? Può aiutare a definire la profondità di origine del magma che alimenta l’apparato vulcanico? Può aiutare a determinare la dinamica dello spostamento dell’hotspot stesso (se lo spostamento esiste)?

Uno studio relativamente recente – grazie alla tecnica sismologica delle receiver functions – ha permesso di ricostruire la profondità a circa 130 km della camera magmatica sotto le Hawaii: questo significa che sì, gli hotspot pacifici sono alimentati da magma che proviene appunto da quel livello sotto la litosfera che si chiama canale a bassa velocità (low-velocity zone, LVZ) che costituisce la parte alta dell’astenosfera che va da circa 100 a 410 km di profondità.

I magmi delle Hawaii inoltre, sulla base dei dati petrologici sappiamo che si sono formati a una temperatura di circa 1500°C, a conferma del dato sismologico, e sono quindi relativamente superficiali, non provenienti cioè dal limite nucleo-mantello a 2900 km, come alcuni ricercatori avevano ipotizzato. Le Hawaii, come varie altre catene magmatiche, ci documentano che la litosfera si muove rispetto all’astenosfera e questo dato ci permette di calcolare la deriva della litosfera verso ‘ovest’ rispetto al mantello.

Carta batimetrica delle isole Hawaii. Immagine USGS in pubblico dominio; credits per Barry W. Eakins, Joel E. Robinson, Japan Marine Science e Technology Center: Toshiya Kanamatsu, Jiro Naka, University of Hawai’i: John R. Smith, Tokyo Institute of Technology: Eiichi Takahashi, e Monterey Bay Aquarium Research Institute: David A. Clague – Bathymetry image PDF, tratta dalla pubblicazione USGS Geologic Investigations Series Map I-2809: Hawaii’s Volcanoes Revealed

Vi sono anche altri tipi di catene magmatiche che venivano etichettate come hotspot, in particolare posizionate sulle dorsali oceaniche come l’Islanda, le Azzorre, Ascencion, ma è stato dimostrato dalle ricerche di scienziati italiani come Enrico Bonatti e Marco Ligi che in realtà sono zone dove il mantello fonde a una temperatura più bassa per il maggiore contenuto di fluidi, a cominciare dall’acqua stessa. Sono chiamati appunto wetspot o punti bagnati e hanno quindi un’origine e una composizione diversa rispetto agli hotspot come le Hawaii. Lo spostamento degli hotspot e wetspot è documentato, ma ha natura e significato geodinamico diverso. Nessun punto o margine di placca sulla Terra è fisso, tutto si muove, a velocità diverse, rispetto al mantello sottostante.

Quali campi altri di ricerca potranno beneficiare delle conclusioni di questo studio?

Il nostro auspicio (con Davide Zaccagnino e Francesco Vespe, coautori della ricerca, ma anche di numerosi altri colleghi che nel corso degli anni hanno contribuito in modo fondamentale a queste ricerche) è che questa scoperta sia l’inizio di un percorso che ci permetterà di capire sempre meglio non solo la sismicità, ma anche i meccanismi fondamentali di funzionamento della Terra e le sue interazioni con la dinamica planetaria e, perché no, anche dell’origine ed evoluzione della vita.

maree solide Carlo Doglioni
Immagine di malith d karunarathne

 

Riferimenti:

Tidal modulation of plate motions – Davide Zaccagnino, Francesco Vespe, Carlo Doglioni – Earth Science Reviews https://doi.org/10.1016/j.earscirev.2020.103179