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Biotecnologie e malattie neurologiche: un parassita opportunamente ingegnerizzato, Toxoplasma gondii, per trasportare proteine al sistema nervoso centrale a fini terapeutici

Un gruppo di scienziati internazionali dell’Università degli Studi di Milano e di Human Technopole ha studiato un metodo per l’ingegnerizzazione del parassita Toxoplasma gondii come veicolo per il trasporto di proteine terapeutiche al sistema nervoso centrale, offrendo una potenziale soluzione alle difficoltà del trattamento delle malattie neurologiche.

La pubblicazione su Nature Microbiology.

Milano, 29 luglio 2024 – Ingegnerizzare un parassita, il Toxoplasma gondii, naturalmente adatto ad attraversare la barriera emato-encefalica ed entrare nelle cellule neuronali, in modo che possa fornire proteine ​terapeutiche al sistema nervoso centrale: ecco il risultato dello studio di un gruppo di scienziati internazionali di cui fanno parte anche gli studiosi dell’Università degli Studi di Milano e di Human Technopole, appena pubblicata su Nature Microbiology.

Le proteine ​​possono infatti essere utilizzate come terapie o come strumenti per studiare i processi biologici, ma il loro trasferimento alle cellule e ai tessuti bersaglio è reso complesso dalle loro grandi dimensioni, dalle interazioni con il sistema immunitario ospite e dalla necessità di aggirare diverse barriere, come la barriera ematoencefalica. Gli scienziati sono partiti da studi precedenti sul Toxoplasma gondii, un parassita che viaggia naturalmente dall’intestino umano al sistema nervoso centrale, e che, grazie alla sua naturale capacità di attraversare la barriera emato-encefalica ed entrare nelle cellule neuronali, è un potenziale strumento trasformativo per il trattamento dei disturbi cerebrali.

Il gruppo di ricerca italiano è coordinato da Giuseppe Testa, docente di Biologia Molecolare presso il Dipartimento di Oncologia ed Emato-Oncologia della Statale di Milano, Head of Neurogenomics presso Human Technopole e Direttore del Laboratorio di Epigenetica delle Cellule Staminali presso IEO – Istituto Europeo di Oncologia.

 Attraverso una strategia di ingegnerizzazione per trasportare varie proteine umane ai neuroni sfruttando due organelli secretori (strutture specializzate che svolgono specifiche funzioni all’interno di una cellula) di Toxoplasma gondii gli autori hanno dimostrato con successo che le proteine potevano essere trasferite ai neuroni di topo e anche ai neuroni umani, grazie a esperimenti di laboratorio e analisi computazionali a risoluzione di singola cellula in organoidi cerebrali infettati dal parassita ingegnerizzato.

Diverse proteine di fusione, tra cui GDNF, PARK2, TFEB, SMN1 e MeCP2, sono state trasportate con successo nelle cellule ospiti. In particolare, MeCP2, una proteina implicata nella sindrome di Rett, un disordine del neurosviluppo, è stata trasportata con successo nei neuroni, e ha mostrato un’associazione funzionale con lacromatina, il complesso ecosistema di DNA, RNA, proteine e metaboliti nel nucleo delle cellule in cui si svolge l’espressione dei nostri geni. Lo studio ha dimostrato la somministrazione di MeCP2 agli organoidi cerebrali corticali differenziati da cellule staminali pluripotenti umane” spiega il professor Testa.

“Possono adesso prendere il via i prossimi passi per ottimizzare ulteriormente l’efficienza del sistema e affrontare i potenziali problemi di sicurezza associati all’utilizzo di un parassita come vettore. Siamo molto felici che una collaborazione internazionale così proficua fornisca un promettente nuovo approccio per il rilascio di proteine al sistema nervoso centrale mediante Toxoplasma gondii, offrendo una potenziale soluzione alle sfide poste dal trattamento delle malattie neuropsichiatriche, specialmente quelle dell’età evolutiva”, conclude Giuseppe Testa.

Toxoplasma gondii
Toxoplasma gondii. Foto di Danny S., CC BY-SA 4.0

Testo, video e foto dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.

Formazione della memoria e sviluppo di comportamenti ansiosi: alla base un meccanismo comune 

Un nuovo studio coordinato dal Dipartimento di Fisiologia e Farmacologia Vittorio Erspamer della Sapienza ha osservato i meccanismi con cui il sistema immunitario e il sistema nervoso centrale comunicano per regolare importanti funzioni cerebrali come l’apprendimento e i comportamenti ansiosi. I risultati, pubblicati sulla rivista Nature Communications, aprono nuovi scenari per la prevenzione o il trattamento di patologie come il morbo di Alzheimer, patologie psichiatriche o del neurosviluppo.

Un nuovo studio coordinato dal Dipartimento di Fisiologia e Farmacologia Vittorio Erspamer della Sapienza ha indagato i meccanismi con cui il sistema immunitario e il sistema nervoso comunicano per regolare importanti funzioni cerebrali come l’apprendimento e come questa comunicazione sia importante per modulare i comportamenti ansiosi.

Utilizzando un modello sperimentale animale, il gruppo di ricerca guidato da Cristina Limatola ha scoperto che alcune popolazioni di cellule immunitarie risiedono stabilmente nelle meningi cerebrali (nello specifico sono stati caratterizzati i linfociti Natural Killer e le cellule linfoidi innate di tipo 1).

“Abbiamo visto – spiega Limatola – che l’eliminazione selettiva di queste popolazioni cellulari dalle meningi del topo, attraverso la somministrazione di specifici farmaci, modifica alcuni comportamenti legati alla formazione della memoria non spaziale e all’ansia. Abbiamo descritto i meccanismi responsabili di questi effetti, identificando due diverse vie di segnalazione: una mediata dall’interferone gamma e l’altra dall’acetilcolina. Queste due molecole mediano la comunicazione tra cellule neuronali e i livelli di alcuni neurotrasmettitori nel cervello. In particolare, l’interferone-γ è coinvolto nella formazione della memoria non spaziale, modulando la trasmissione di tipo inibitorio a livello della corteccia cerebrale, mentre l’acetilcolina regola i circuiti cerebrali coinvolti nell’ansia”.

I risultati del lavoro, pubblicati sulla rivista Nature Communications, aprono nuovi scenari nello studio delle vie di comunicazione tra sistema immunitario e sistema nervoso centrale. Ma non solo, una conoscenza approfondita dei meccanismi con cui si formano le memorie o si sviluppano comportamenti ansiosi è di fondamentale importanza per la prevenzione o il trattamento di patologie come il morbo di Alzheimer, patologie psichiatriche o del neurosviluppo.

Riferimenti:

Natural killer cells and innate lymphoid cells 1 tune anxiety and memory in mice via interferon-γ and acetylcholine – Stefano Garofalo, Germana Cocozza, Alessandro Mormino, Giovanni Bernardini, Eleonora Russo, Donald Ielpo, Diego Andolina, Rossella Ventura, Katiuscia Martinello, Massimiliano Renzi, Sergio Fucile, Mattia Laffranchi, Eva Piano Mortari, Rita Carsetti, Giuseppe Sciume, Silvano Sozzani, Angela Santoni, Marie-Ève Tremblay, Richard Ransohoff e Cristina Limatola – Nature Communications 2023

Formazione della memoria e sviluppo di comportamenti ansiosi
Formazione della memoria e sviluppo di comportamenti ansiosi: alla base un meccanismo comune. Foto di Sam Williams

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

L’EREDITÀ NASCOSTA DELLE CELLULE DIVERSI ALLA NASCITA E NELLA RISPOSTA AL DANNO: NUOVA LUCE SUI PROGENITORI DEGLI OLIGODENDROCITI
Uno studio guidato da ricercatori del NICO – Università di Torino chiarisce la relazione fra l’eterogeneità di queste cellule del Sistema Nervoso Centrale e la loro risposta al danno al DNA, responsabile dell’invecchiamento delle cellule e coinvolto in molte patologie che colpiscono il cervello.
progenitori degli oligodendrociti OPC
Progenitori degli oligodendrociti (OPC) in coltura. La marcatura verde identifica gli OPC di origine dorsale, più vulnerabili al danno al DNA. ImageJ=1.52i
unit=micron
Il cervello è un organo complesso e per questo affascinante. Parte di questa complessità risiede nella diversità delle cellule che lo compongono. Da diversi anni ormai si è capito che i neuroni non sono tutti uguali, ma presentano differenze che li fanno contribuire in modo diverso e specifico al funzionamento del sistema nervoso, e che li rendono più o meno vulnerabili durante l’invecchiamento o in caso di patologia. Non è ancora chiaro invece se e quanto le cellule gliali – oligodendrociti, astrociti e microglia, cioè le cellule non neuronali del sistema nervoso – siano eterogenee e quanto questo possa avere impatto sulla fisiologia o sulla patologia del sistema nervoso centrale (SNC).

In un recente lavoro pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature Communications, i ricercatori del NICO, Neuroscience Institute Cavalieri Ottolenghi – Università di Torino Enrica Boda, Martina Lorenzati, Roberta Parolisi, Gianmarco Pallavicini, Ferdinando di Cunto, Annalisa Buffo (Dipartimento di Neuroscienze e NICO) e Luca Bonfanti (Dipartimento di Scienze Veterinarie e NICO), in collaborazione con il gruppo di ricerca della Dr.ssa Stephanie Bielas (University of Michigan, USA) e con il Dr. Brian Harding (University of Pennsylvania and Children’s Hospital of Philadelphia, USA), hanno cercato di rispondere a questa domanda concentrandosi sui progenitori degli oligodendrociti, anche detti OPC.

I ricercatori del NICO-UNITO coinvolti nella ricerca, da sinistra: Roberta Parolisi, Gianmarco Pallavicini, Martina Lorenzati, Annalisa Buffo, Ferdinando di Cunto, Enrica Boda e Luca Bonfanti

Gli OPC sono le cellule che danno origine agli oligodendrociticioè le cellule che producono la mielina necessaria per assicurare la conduzione fedele e veloce dei segnali fra i neuroni.

«Uno degli aspetti di eterogeneità degli OPC è la loro diversa “origine di nascita”: durante lo sviluppo del SNC, diverse popolazioni di OPC vengono generate a partire da “nicchie” diverse e in tempi diversi. A dispetto di questa diversa origine, nel cervello adulto, le popolazioni di OPC non presentano differenze evidenti. Se e quanto la diversa origine di nascita degli OPC possa invece condizionare il loro funzionamento o destino in condizioni patologiche non era stato mai studiato, sebbene questa sia una questione rilevante, essendo gli OPC e gli oligodendrociti il bersaglio specifico di alcune fra le più diffuse patologie del SNC» riferisce la prof.ssa Enrica Boda, primo autore del lavoro.

In questo contesto, i ricercatori hanno scoperto che, in base alla loro diversa origine di nascita, gli OPC “ereditano” una diversità nascosta, latente fino al momento in cui queste cellule non si trovino in presenza di una lesione, e nello specifico di un danno al loro DNAQuesta eredità nascosta consiste in una diversa capacità di attivare risposte antiossidanti e quindi di sopravvivere in caso di danno. «

Poiché il danno al DNA contribuisce all’invecchiamento di tutte cellule e, in modo primario o secondario, alla maggior parte delle patologie del SNC, questa scoperta rappresenta un importante passo in avanti per la comprensione del comportamento degli OPC nel cervello dell’anziano e in condizioni patologiche e, auspicabilmente, per il disegno di nuovi approcci di terapia» conclude la prof.ssa Boda.

 

Nature Communications. First published: 28 April 2022, Molecular and functional heterogeneity in dorsal and ventral oligodendrocyte progenitor cells of the mouse forebrain in response to DNA damage, link: www.nature.com/articles/s41467-022-30010-6

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Torino

PFAS E DANNI NEURONALI POSSONO ESSERE COINVOLTI NELL’INSORGERE DELLE ANOMALIE DEL SISTEMA NERVOSO CENTRALE E NEL PARKINSON 

Studio Università di Padova-VIMM pubblicato sulla prestigiosa rivista «Environment International». I PFAS si integrano con le membrane neuronali e il sistema nervoso è a rischio durante la fase dello sviluppo embrionale. I dati preliminari suggeriscono anche un coinvolgimento delle cellule implicate nel processo degenerativo del Parkinson.

Carlo Foresta PFAS danni neuronali Parkinson sistema nervoso centrlae
Il professor Carlo Foresta

Un gruppo di ricerca guidato dal professor Carlo Foresta dell’Università di Padova ha recentemente pubblicato sulla rivista «Environment International» – con il titolo “Impairment of human dopaminergic neurons at different developmental stages by perfluoro-octanoic acid (PFOA) and differential human brain areas accumulation of perfluoroalkyl chemicals” – l’ultimo studio sugli gli effetti dei PFAS sul sistema nervoso.

Lo studio, iniziato dalle relazioni tra inquinamento da PFAS e anomalie congenite del sistema nervoso o disturbi comportamentali e neurologici come l’Alzheimer, l’autismo e i disturbi dell’attenzione e iperattività, è stato sviluppato per indagare se in cellule neuronali di specifiche aree del cervello si riscontrasse un accumulo di PFAS.

In collaborazione con il Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Padova – nell’ambito del “Programma di donazione del corpo alla scienza” coordinato dal professor Raffaele De Caro e dal professor Andrea Porzionato – sono stati effettuati prelievi di diverse aree del tessuto cerebrale. In presenza di significative concentrazioni plasmatiche di PFOA, PFOS e PFHxS sono stati riscontrati importanti segni di accumulo di queste sostanze soprattutto in aree costituite da particolari neuroni detti dopaminergici, come l’ipotalamo.

I risultati dello studio sono giunti da uno studio impegnativo e metodico, che ha coinvolto diversi Dipartimenti dell’Università di Padova e del Veneto Institute of Molecular Medicine (VIMM) per verificare gli effetti biologici di queste sostanze sui neuroni dopaminergici attraverso la coltivazione in laboratorio di cellule staminali neuronali a diversi stadi di differenziamento, fino al neurone dopaminergico maturo.

In particolare, è stato osservato che i PFAS a concentrazioni simili a quelle ritrovate nelle aree cerebrali si integrano con le membrane neuronali, modificandone la struttura e la stabilità. L’effetto dei PFAS è più evidente quanto più precoce è lo stadio di maturazione.

Sono ora in corso studi per determinare quali sono le conseguenze funzionali di queste osservazioni.

«Per la prima volta si è dimostrato che nell’uomo queste sostanze chimiche possono modificare la funzione delle cellule nervose – commenta il professor Carlo Foresta – Ulteriori studi sono necessari per quantificare le conseguenze sulla salute delle persone. Le osservazioni che dimostrano una maggior sensibilità delle cellule neuronali non ancora mature fanno pensare che gli effetti dei PFAS possano essere più evidenti durante le fasi più sensibili dello sviluppo del sistema nervoso come nell’embrione».

«I dati preliminari suggeriscono un coinvolgimento delle cellule implicate nel processo degenerativo del Parkinson – dice il Professor Angelo Antonini, Responsabile dell’Unità Parkinson e Malattie Rare Neurologiche della Clinica Neurologica dell’Università di Padova – Ancora non sappiamo se i PFAS possono poi determinare un’alterazione nei processi di degradazione della proteina alfa-sinucleina alla base di questa malattia. Tuttavia confermano una vulnerabilità di questi nuclei cerebrali e che i fattori ambientali insieme al profilo genetico giocano un ruolo importante probabilmente come fattore scatenante nel processo degenerativo».

«Si tratta di una collaborazione fra più gruppi universitari e team di ricerca, tra cui il mio gruppo al VIMM, che ha messo a punto la coltura di cellule staminali umane differenziate in neuroni dopaminergici che sono stati utilizzati nello studio per dimostrare l’effetto nocivo dei PFAS – conclude il Principal Investigator del VIMM Mario Bortolozzi-. La nostra expertise biofisica ed elettrofisiologica ci ha permesso di verificare che tali colture fossero funzionali, cioè in grado di “sparare” i cosiddetti potenziali d’azione, una sorta di firma autografa del neurone».

Link alla ricerca: https://doi.org/10.1016/j.envint.2021.106982

Autori: Andrea Di Nisio, Micaela Pannella, Stefania Vogatisi, Stefania Sut, Stefano Dall’Acqua, Maria Santa Rocca, Angelo Antonini, Andrea Porzionato, Raffaele De Caro, Mario Bortolozzi, Luca De Toni, Carlo Foresta

TitoloImpairment of human dopaminergic neurons at different developmental stages by perfluoro-octanoic acid (PFOA) and differential human brain areas accumulation of perfluoroalkyl chemicals – «Environment International» 2021 

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università di Padova, circa lo studio pubblicato su Environment International che spiega come PFAS e danni neuronali possano essere coinvolti nell’insorgere di anomalie del sistema nervoso centrale e Parkinson

Ciclo sonno-veglia: a regolarlo anche le cellule immunitarie
Un team internazionale di ricercatori coordinati dal Dipartimento di Fisiologia e farmacologia della Sapienza, ha identificato in alcune cellule coinvolte nel sistema immunitario del cervello un ruolo centrale anche nella regolazione del ciclo sonno-veglia. I risultati dello studio, pubblicato sulla rivista Glia, aprono a nuove prospettive di studio sul funzionamento del cervello.

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Ciclo sonno-veglia: a regolarlo anche le cellule immunitarie. Foto di Free-Photos

Il sonno è un fenomeno universale nel regno animale che da un lato ha una funzione ristorativa, permettendo il recupero delle energie spese durante la veglia e la rimozione dei prodotti di rifiuto, e dall’altro ha un ruolo fondamentale nei processi cognitivi e nell’elaborazione delle informazioni. Durante il sonno, infatti, si verificano processi computazionali come la formazione e il consolidamento della memoria relativa a eventi avvenuti durante la veglia, così come le alterazioni o la deprivazione di sonno possono comportare disturbi cognitivi.

Sebbene sia stato dimostrato che l’alternanza del ciclo sonno-veglia è regolata sia da stimoli interni (orologio biologico principale, localizzato nel nucleo soprachiasmatico dell’ipotalamo) e da stimoli esterni (come il ciclo buio-luce, l’attività lavorativa o i pasti), i meccanismi cellulari alla base del ciclo sonno-veglia sono in parte ancora sconosciuti.

In questa cornice di ricerca si inserisce un nuovo studio coordinato da ricercatori del Dipartimento di Fisiologia e farmacologia della Sapienza, in collaborazione con il Dipartimento di Medicina molecolare dell’Ateneo, il Consiglio nazionale delle ricerche e altre università e centri di ricerca internazionali, nel quale viene dimostrato per la per la prima volta il ruolo delle cellule della microglia nella regolazione del ciclo sonno-veglia.

Queste cellule si occupano della difesa immunitaria attiva nel sistema nervoso centrale e, secondo il lavoro pubblicato sulla rivista Glia, contribuiscono anche a regolare la durata del sonno, grazie alla loro interazione con le cellule nervose.

“La microglia – spiega Cristina Limatola di Sapienza, coordinatrice dello studio – regola la durata della fase di sonno nei topi anche attraverso il recettore per chemochine CX3CR1, altamente espresso in queste cellule dove svolge importanti ruoli durante sviluppo e maturazione del sistema nervoso centrale”.

“I modelli animali in cui la microglia è stata eliminata attraverso il trattamento con un antagonista del recettore CSF1R, oppure che manchino del recettore CX3CR1 sulla microglia – aggiunge Limatola – mostrano un aumento della fase non-rapid eye movement (NREM) del sonno, durante le ore di veglia associata ad alterazioni della trasmissione sinaptica a livello dell’ippocampo, regione fondamentale per la formazione della memoria a lungo termine”.

Questo lavoro aiuta a svelare i meccanismi alla base della regolazione del ciclo sonno-veglia e apre a nuove prospettive sul ruolo delle cellule della glia nel funzionamento del cervello.

Riferimenti: 

Microglia modulate hippocampal synaptic transmission and sleep duration along the light/dark cycle – Giorgio Corsi, Katherine Picard, Maria Amalia di Castro, Stefano Garofalo, Federico Tucci, Giuseppina Chece, Claudio del Percio, Maria Teresa Golia, Marcello Raspa, Ferdinando Scavizzi, Fanny Decoeur, Clotilde Lauro, Mara Rigamonti, Fabio Iannello, Davide Antonio Ragozzino, Eleonora Russo, Giovanni Bernardini, Agnès Nadjar, Maria Eve Tremblay, Claudio Babiloni, Laura Maggi, Cristina Limatola – Glia 2021 Sep 6 DOI: 10.1002/glia.24090

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

I risultati dello studio su Neurochemistry International

POLVERI SOTTILI E SCLEROSI MULTIPLA: DIMOSTRATO L’EFFETTO SU NEUROINFIAMMAZIONE E RIPARAZIONE DELLA MIELINA

I ricercatori del NICO – Università di Torino hanno dimostrato per la prima volta gli effetti negativi dell’esposizione al PM sulle capacità rigenerative del tessuto nervoso

polveri sottili sclerosi multipla mielina
Foto di JuergenPM

Secondo l’OMS causa la morte prematura di circa 4 milioni di persone nel mondo ogni anno. Ma l’esposizione cronica ad alti livelli di polveri sottili – il famoso PM (particulate matter) – è anche associata a una prevalenza della Sclerosi Multipla in alcune popolazioni. In particolare nei grandi centri urbani, dove i picchi di PM precedono sistematicamente i ricoveri ospedalieri dovuti all’esordio o alla recidiva di patologie croniche autoimmuni, tra cui la Sclerosi Multipla, come dimostrano numerosi studi epidemiologici. A oggi restano tuttavia da chiarire i meccanismi con cui l’esposizione al PM eserciti un effetto sul sistema nervoso centrale.

Grazie a un progetto pilota finanziato da AISM e la sua Fondazione FISM – Fondazione Italiana Sclerosi Multipla, le ricercatrici del NICO – Neuroscience Institute Cavalieri Ottolenghi dell’Università di Torino hanno chiarito per la prima volta che l’esposizione al PM ha effetti negativi sulle capacità rigenerative del tessuto nervoso, e in particolare della mielina, il rivestimento degli assoni che – se danneggiato, come avviene nella SM – compromette la trasmissione delle informazioni fra i neuroni.

 

Lo studio è nato grazie alla collaborazione tra i ricercatori del NICO Enrica Boda, Roberta Parolisi, Annalisa Buffo (Gruppo Fisiopatologia delle Cellule Staminali Cerebrali), Francesca Montarolo e Antonio Bertolotto (Gruppo Neurobiologia Clinica – CRESM, Centro di Riferimento Regionale SM dell’Ospedale San Luigi Gonzaga di Orbassano, TO) con il gruppo di ricerca di Valentina Bollati dell’Università di Milano e Andrea Cattaneo dell’Università dell’Insubria.

I risultati della ricerca – pubblicati sulla rivista Neurochemistry International – dimostrano in un modello animale che l’esposizione al PM2.5 ostacola la riparazione della mielina, inibisce il differenziamento degli oligodendrociti e promuove l’attivazione degli astrociti e della microglia, cellule che di norma svolgono funzioni di sostegno per i neuroni ma che – quando attivate dal sistema immunitario come accade nella Sclerosi Multipla – contribuiscono alla neuroinfiammazione.

Nelle prime fasi di malattia, la mielina può comunque essere riparata da cellule gliali presenti nel tessuto nervoso, chiamate oligodendrociti, il che contribuisce alla remissione – purtroppo spesso solo temporanea – dei sintomi. Le ricerche in corso nei nostri laboratori sono importanti perché permettono di capire quali fattori possono ostacolarne la riparazione – sottolinea la prof.ssa Enrica Boda del NICO, Università di Torino –  aggiungendo un tassello nella comprensione dei meccanismi di neurotossicità del PM. I nostri studi – continua – ora si focalizzano nell’identificare i meccanismi cellulari e molecolari che mediano il trasferimento del ‘danno’ dovuto all’inalazione del PM2.5 dai polmoni al sistema nervoso centraleRiconoscere fattori di rischio ambientali modificabili – come l’inquinamento dell’aria – e i meccanismi che mediano le loro azioni può fornire informazioni importanti per prevenire le recidive della Sclerosi Multipla agendo su politiche ambientali, stile di vita e possibilmente, progettazione di nuovi strumenti di prevenzione e interventi terapeutici”.

 

Neurochemistry International, maggio 2021

Exposure to fine particulatematter (PM2.5) hampers myelin repair in a mouse model of white matter demyelination.
Parolisi R, Montarolo F, Pini A, Rovelli S, Cattaneo A, Bertolotto A, Buffo A, Bollati V, Boda E

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Torino

Biomarcatori nel sangue e nel liquido cerebrospinale per individuare nuove terapie delle malattie del sistema nervoso centrale

Lo studio, realizzato dal gruppo coordinato dalla Professoressa Lucilla Parnetti e pubblicato su Trends in Pharmacological Sciencesriguarda la possibilità di utilizzare biomarcatori misurabili nel liquido cerebrospinale e nel sangue per la ricerca su nuove terapie delle principali malattie del sistema nervoso centrale, quali sclerosi multipla, malattia di Alzheimer e malattia di Parkinson.

biomarcatori malattie sistema nervoso centrale
Il Team della professoressa Parnetti

Il gruppo di ricerca diretto dalla Professoressa Lucilla Parnetti, responsabile della Sezione di Neurologia, Laboratorio di Neurochimica Clinica dell’Università degli Studi di Perugia, ha realizzato un innovativo studio sull’utilizzo di biomarcatori misurabili nel liquido cerebrospinale e nel sangue per ottimizzare l’individuazione di nuove terapie per le principali malattie del sistema nervoso centrale. Il lavoro è stato pubblicato sulla rivista internazionale Trends in Pharmacological Sciences (Impact Factor: 12).

“Malattie neurologiche croniche e altamente disabilitanti, come la sclerosi multipla, la malattia di Alzheimer e la malattia di Parkinson, sono sostenute dall’interazione di complessi meccanismi biologici che possono essere misurati in maniera affidabile nel liquido cerebrospinale e nel sangue – spiega la Professoressa Parnetti, docente del Dipartimento di Medicina e Chirurgia -. Nell’ultimo decennio la ricerca sui biomarcatori nelle malattie neurologiche, ambito nel quale il Laboratorio di Neurochimica Clinica dell’Università degli Studi di Perugia è particolarmente attivo e parte di una rete di collaborazione a livello europeo, ha portato a rivoluzionare il modo di porre la diagnosi di queste malattie, rendendola più precoce e accurata”.

“La ricerca pubblicata da Trends in Pharmacological Sciences analizza in dettaglio il ruolo che diversi biomarcatori misurabili su liquido cerebrospinale e su sangue possono avere nella ricerca sulle terapie per le malattie neurologiche – continua la Professoressa Parnetti -. Questi test permettono di identificare i pazienti con le caratteristiche ideali per poter avere beneficio dal trattamento con i nuovi farmaci che bloccano i meccanismi delle diverse patologie neurologiche. Ad esempio, se si vuole testare l’efficacia di un nuovo trattamento rivolto a bloccare uno specifico meccanismo alla base di una malattia neurologica, si possono utilizzare questi marcatori per identificare i soggetti in cui quel dato meccanismo è particolarmente alterato. Inoltre, la misurazione delle variazioni di questi marcatori nel tempo può aiutare a capire se quel trattamento ha raggiunto l’effetto atteso. Questa visione innovativa avrà, sperabilmente, delle ripercussioni in futuro anche nella pratica clinica, migliorando sia la nostra possibilità di porre una diagnosi precoce, che di verificare con maggiore precisione ed oggettività la risposta alle terapie”, conclude la Professoressa Parnetti.

La pubblicazione di tali concetti innovativi su Trends in Pharmacological Sciences testimonia la rilevanza degli studi condotti presso l’Università degli Studi di Perugia e sottolinea la necessità di attenzione alla ricerca su biomarcatori liquorali ed ematici nelle malattie neurologiche.

 

Gaetani L, Paolini Paoletti F, Bellomo G, Mancini A, Simoni S, Di Filippo M, Parnetti L. “CSF and Blood Biomarkers in Neuroinflammatory and Neurodegenerative Diseases: Implications for Treatment.” Trends Pharmacol Sci. 2020 Oct 27:S0165-6147(20)30218-2. doi: 10.1016/j.tips.2020.09.011. Online ahead of print. PMID: 33127098. Link: https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0165614720302182?via%3Dihub

 

Testo e foto dall’Università degli Studi di Perugia