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Due mutazioni genetiche alla base della straordinaria resistenza al freddo dei Fuegini, gli antichi abitanti della Terra del Fuoco 

L’analisi dei resti scheletrici e l’analisi genomica dei Fuegini, conservati presso il Museo di Antropologia Giuseppe Sergi della Sapienza, ha mostrato che l’adattamento alle basse temperature di questa popolazione era determinato da due particolari varianti genetiche che determinano una attivazione del grasso bruno. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Scientific Reports da un gruppo di ricercatori dei Dipartimenti di Medicina Sperimentale, Biologia ambientale e di Medicina molecolare dell’Ateneo romano.

mutazioni genetiche freddo Fuegini Sapienza
Stampa che ritrae un gruppo di Fuegini nel loro ambiente naturale

Nel 1881 Science pubblicava un articolo sulle testimonianze dei viaggi dei primi esploratori nella Terra del Fuoco, incluse quelle di Charles Darwin che nel 1871 aveva descritto gli abitanti dell’estremo sud della Patagonia nel libro The Descent of Man. Uno dei tratti distintivi degli uomini che vivevano in quella terra lontana e inospitale era una incredibile resistenza al freddo, anche a fronte di sistemi di protezione insufficienti. La peculiarità di questi uomini, detti Fuegini, di essere spesso nudi o al massimo coperti da un pezzo di pelle gettato sopra le spalle, colpì infatti i primi viaggiatori europei.

I Fuegini, decimati dalle malattie e ormai quasi estinti già dai primi decenni del Novecento, hanno lasciato molti interrogativi senza risposta, primo fra tutti come riuscissero a sopportare le basse temperature cui erano esposti, senza una adeguata protezione.

Oggi, grazie a una ricerca internazionale coordinata dai Dipartimenti di Medicina sperimentale, Biologia ambientale e Medicina molecolare della Sapienza e pubblicata sulla rivista Scientific Reports, emergono dati che potrebbero far luce sull’elevata capacità di adattamento al freddo di questi antichi abitanti della Terra del Fuoco.

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Scheletri di Fuegini conservati al Museo di Antropologia Giuseppe Sergi della Sapienza

Il team di scienziati, sotto la guida di Lucio Gnessi e Giorgio Manzi della Sapienza ha analizzato alcuni resti scheletrici dei Fuegini conservati presso il Museo di Antropologia Giuseppe Sergi dell’Ateneo. Dall’analisi dei reperti ci si sarebbe aspettati di rilevare una certa fragilità ossea, data l’esposizione di questi antichi abitanti alle basse temperature; è stata osservata invece una densità minerale ossea simile a quella di coloro che vivono in un clima temperato.

Diverse, le domande che si sono posti i ricercatori in questo studio: che cosa ha protetto, dunque, le ossa dei Fuegini dagli effetti negativi del freddo? Esiste una correlazione tra condizioni dell’osso e resistenza alle basse temperature?

Grazie alla collaborazione con esperti genetisti e bioinformatici, interrogando le banche dati che raccolgono informazioni sul patrimonio genetico di molte popolazioni, i ricercatori hanno individuato due piccole varianti genetiche mai descritte prima, presenti solo nei Fuegini e non in altri popoli esposti anch’essi al freddo estremo. Queste varianti sono collegate a uno dei meccanismi più importanti di adattamento metabolico al freddo, ovvero allo sviluppo e all’attivazione del grasso bruno, un particolare tipo di grasso la cui funzione principale è quella di produrre calore in risposta alle basse temperature, bruciando energia.

Il grasso bruno ha, inoltre, un effetto protettivo sullo scheletro. Nell’uomo, la sua quantità è proporzionale alla densità ossea; è noto, peraltro, che topi privati del grasso bruno perdono massa ossea, se esposti al freddo.

“Oggi è possibile predire gli effetti potenziali di varianti genetiche molto piccole o anche non codificanti, ricorrendo alla cosiddetta analisi in silico – spiega Lucio Gnessi della Sapienza, coordinatore della ricerca – che sfrutta simulazioni matematiche tramite l’utilizzo di software sofisticati e algoritmi complessi”.

“L’analisi in silico ha costantemente mostrato un effetto causale di alta probabilità tra le mutazioni identificate nel genoma dei Fuegini e lo sviluppo, l’accumulo e l’attivazione del grasso bruno” – conclude Giorgio Manzi della Sapienza, altro coordinatore del lavoro.

Dopo oltre un secolo dalle testimonianze degli esploratori dell‘800, questi dati possono finalmente confermare l’ipotesi che lo straordinario adattamento al freddo dei Fuegini sia stato il risultato di varianti genetiche responsabili di un eccezionale accumulo di tessuto adiposo bruno.

La ricerca è stata condotta in collaborazione con altri centri internazionali come il Centre for Neuropsychiatric Genetics and Genomics di Cardiff, l’Unità di Medicina Nucleare dell’IRCCS Regina Elena di Roma, il Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze, l’Unità di Endocrinologia e Diabete dell’Università Campus Biomedico di Roma e il Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell’Università Politecnica delle Marche di Ancona.

Riferimenti:

Bone density and genomic analysis unfold cold adaptation mechanisms of ancient inhabitants of Tierra del Fuego – Mikiko Watanabe, Renata Risi, Mary Anne Tafuri, Valentina Silvestri, Daniel D’Andrea, Domenico Raimondo, Sandra Rea, Fabio Di Vincenzo, Antonio Profico, Dario Tuccinardi, Rosa Sciuto, Sabrina Basciani, Stefania Mariani, Carla Lubrano, Saverio Cinti, Laura Ottini, Giorgio Manzi & Lucio Gnessi – Scientific Reports 2021 DOI: https://doi.org/10.1038/s41598-021-02783-1

 

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

ERCOLANO – Trovare del tessuto cerebrale in resti archeologici dell’antichità è una cosa molto rara. Nel cervello i processi di morte cellulare sono molto rapidi, essendo costituito per l’80% di acqua. La decomposizione, quindi, inizia dopo 36-75 ore e la scheletrizzazione (cioè l’ultima fase della decomposizione) si ha tra circa i 5 e i 10 anni dopo la morte.  Sempre che non sia stato sottoposto a tecniche di mummificazione, come quelle utilizzate in Egitto, è difficile che questo delicato tessuto possa sopravvivere per anni, se non millenni. Trovare, poi, questo tessuto vetrificato, è una cosa ancor più rara.

Collegio degli Augustali. Foto: Pier Paolo Petrone, Università Federico II di Napoli. Copyright 2020

È quello che è accaduto durante alcune indagini paleoforensi nel sito archeologico di Ercolano a opera di un team di studiosi, guidati dall’antropologo forense Pier Paolo Petrone, responsabile del Laboratorio di Osteobiologia Umana e Antropologia Forense presso la sezione dipartimentale di Medicina Legale dell’Università “Federico II” di Napoli. Durante la loro ricerca, i membri del team hanno rinvenuto del materiale vetroso tra le ossa craniche di una vittima dell’eruzione del Vesuvio del 79 a.C. Tale materiale, in parte incrostato sul cranio della vittima, è stato successivamente analizzato, per poter accertare potesse trattarsi realmente di tessuto cerebrale vetrificato.

Frammento di cervello vetrificato. Foto: Università Roma Tre

La vetrificazione è un processo durante il quale un liquido, esposto a un’elevata temperatura, viene velocemente e bruscamente raffreddato, trasformandosi in un materiale simile al vetro. Gli autori dello studio spiegano che il tessuto cerebrale in questione, inizialmente esposto al caldo estremo della nube piroclastica del Vesuvio, ha poi ricevuto uno shock termico, con un abbassamento brusco di temperatura, che ha determinato la sua trasformazione in un materiale vitreo.

tessuto cerebrale Ercolano Pier Paolo Petrone
Collegio degli Augustali, il luogo del ritrovamento. Foto: Pier Paolo Petrone, Università Federico II di Napoli. Copyright 2020

A seguito di questo ritrovamento, si è proceduto a studiare il campione sfruttando un approccio multidisciplinare, coinvolgente esperti specializzati in diversi ambiti. Tramite l’uso del Microscopio elettronico a scansione e specifici strumenti di elaborazione delle immagini, il team è giunto alla  conclusione che non solo il materiale vetrificato apparteneva al sistema nervoso centrale della vittima, ma anche che al suo interno risultano preservate strutture tubulari simili agli assoni neuronali.

In seguito, il campione è stato sottoposto all’analisi proteomica, che consente di individuare specifici tipi di proteine, le quali sono sintetizzate da diversi geni del DNA. Grazie a questa tecnica, il team ha riscontrato una forte espressione di alcuni geni, presenti in abbondanza nel cervello, oltre che in altri distretti.

tessuto cerebrale Ercolano
Pier Paolo Petrone in laboratorio. Pier Paolo Petrone, Università Federico II di Napoli. Copyright 2020

Questa scoperta e future analisi più approfondite del campione, potranno dirci molto più rispetto alle caratteristiche del tessuto e delle proteine al suo interno, oltre che fornirci informazioni utili su proprietà tipiche dell’espressione genica nella popolazione di Ercolano.

Abbiamo intervistato il dott. Pier Paolo Petrone dell’Università “Federico II” di Napoli, e la dott.ssa Maria Giuseppina Miano del CNR di Napoli, che hanno risposto alle domande di ScientifiCult sul tessuto cerebrale da Ercolano.

tessuto cerebrale Ercolano Pier Paolo Petrone
Assoni, tessuto cerebrale dalla vittima di Ercolano. Foto: Università Roma Tre

Vedendo il profilo dell’espressione genica, si nota come tutte le strutture da voi indicate siano molto vicine a cavità cerebrali in cui è presente il liquido cerebrospinale. Come pensate che questo possa aver influito sul processo di vetrificazione? Pensate che la posizione più centrale e, quindi, più protetta, abbia giocato a sua volta qualche ruolo?

Pier Paolo Petrone: Osservazione interessante, ma non abbiamo al momento evidenze in questo senso. Tutto il cervello sembra aver reagito allo stesso modo, dando luogo a questo materiale dalla consistenza e apparenza vetrosa. Qualcosa di assolutamente unico, mai visto prima né negli altri siti sepolti dall’eruzione, né in eruzioni vulcaniche recenti.

Nel vostro studio avete analizzato l’espressione di alcuni geni le cui mutazioni sono presenti in alcune patologie importanti (Disturbo di Alzheimer, disabilità intellettiva, ipoplasia ponto-cerebellare). Pensate che un’analisi più approfondita di queste espressioni geniche possa dirci di più sullo stato del ragazzo vittima del Vesuvio?

Maria Giuseppina Miano: I dati da noi raccolti non ci consentono di avere informazioni di questo tipo. Non abbiamo dati sulle sequenze amminoacidiche delle proteine identificate né della sequenza nucleotidica dei geni corrispondenti. Ma non possiamo escludere che ulteriori studi possano darci altre importanti informazioni.

Il guardiano nel suo letto. Pier Paolo Petrone, Università Federico II di Napoli. Copyright 2020

Con l’analisi proteomica sono emerse espressioni di geni presenti in gran quantità nel cervello. Questi geni, però, si esprimono allo stesso modo in molti altri distretti del nostro organismo (ad esempio nelle ossa, come il MED13L o ATP6V1F). Con quali modalità avete escluso la possibilità che il campione possa essere stato contaminato nei secoli?

Pier Paolo Petrone: La contaminazione in questo caso è da escludere, in quanto il corpo della vittima era immerso nella cenere vulcanica, e così è rimasto per quasi duemila anni, fino alla sua scoperta negli anni ‘60 e quella, più recente, del  tessuto vetrificato nel cranio. Peraltro, le analisi biochimiche hanno mostrato la presenza di acidi grassi dei capelli umani e di sette proteine altamente rappresentate in tutti i distretti cerebrali, confermando l’appartenenza univoca di questo tessuto al cervello della vittima.

Neurone dal midollo spinale. Foto: Università Roma Tre

Come spiegate nell’articolo, il tessuto non è stato alterato in alcun modo dopo la vostra manipolazione. Pensate quindi di ritornare a fare ulteriori analisi biochimiche? Nel caso in cui pensiate di fare ulteriori analisi, quali ulteriori risultati ipotizzate di poter ottenere? (Es. Alterazioni della struttura proteica che suggeriscono un’anomalia genetica).

Maria Giuseppina Miano: Sono varie le linee di ricerca in corso e tutte molto promettenti. Ulteriori indagini sono in programma per poter identificare la sequenza amminoacidica delle proteine sinora rinvenute, e stabilire la presenza di eventuali varianti polimorfiche che potrebbero “raccontarci” qualcosa in più sulle caratteristiche genetiche degli abitanti di Ercolano a quel tempo.

Pier Paolo Petrone: Altre informazioni le stiamo già avendo dalla sperimentazione in corso su questo cervello, con l’obiettivo di stabilire la temperatura cui è stato esposto e i tempi di raffreddamento del deposito di cenere vulcanica. Informazioni, queste, cruciali per la valutazione del rischio vulcanico al Vesuvio, che incombe su Napoli e i suoi tre milioni di abitanti. Lo studio di un cervello di 2000 anni fa in futuro potrebbe salvare vite umane.

 

Riferimenti bibliografici sul tessuto cerebrale da Ercolano:

Petrone, P., Giordano, G., Vezzoli, E., Pensa, A., Castaldo, G., Graziano, V., Sirano, F., Capasso, E., Quaremba, G., Vona, A., Miano, M. G., Savino, S., & Niola, M. (2020). Preservation of neurons in an AD 79 vitrified human brain. PloS one15(10), e0240017. https://doi.org/10.1371/journal.pone.0240017

Petrone, P., Pucci, P., Niola, M., Baxter, P. J., Fontanarosa, C., Giordano, G., Graziano, V., Sirano, F., & Amoresano, A. (2020). Heat-Induced Brain Vitrification from the Vesuvius Eruption in c.e. 79. The New England journal of medicine382(4), 383–384. https://doi.org/10.1056/NEJMc1909867