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I fossili raccontano la fine dell’era glaciale del tardo Paleozoico, 294 milioni di anni fa

Un team internazionale di scienziati di cui fanno parte l’Università degli Studi di Milano e l’Università Sapienza di Roma, analizzando fossili di brachiopodi ha dimostrato come nel Paleozoico l’incremento di anidride carbonica (CO2), dovuto a un’intensa attività vulcanica, sia risultato concomitante alla riduzione dei ghiacciai e a un incremento della temperatura superficiale media degli oceani fino a 4 gradi centigradi. Questo studio pubblicato su Nature Geoscience ci può aiutare a comprendere meglio i cambiamenti climatici attualmente in atto e le loro conseguenze.

1. Ricostruzione artistica della deglaciazione avvenuta nel Permiano Inferiore causata da un rapido incremento della CO2, avvenuta circa 294 milioni di anni fa (realizzato da Dawid Adam Iurino)
1. Ricostruzione artistica della deglaciazione avvenuta nel Permiano Inferiore causata da un rapido incremento della CO2, avvenuta circa 294 milioni di anni fa (realizzato da Dawid Adam Iurino)

Studiare il riscaldamento globale del passato per capire i cambiamenti climatici del presente. Durante la sua lunga storia, la Terra ha sperimentato condizioni climatiche molto diverse, alternando fasi glaciali a periodi di riscaldamento globale che hanno plasmato il pianeta e influenzato l’evoluzione degli organismi. Ancor prima della comparsa dei dinosauri, durante il tardo Paleozoico (circa 300 milioni di anni fa) ebbe luogo una delle glaciazioni più estese, terminata con una fase di riscaldamento che portò alla scomparsa quasi completa dei ghiacciai e delle calotte polari con importanti conseguenze sulla biodiversità.

2. Variazioni della concentrazione di CO2 in atmosfera prima, durante e dopo la deglaciazione di fine Paleozoico
2. Variazioni della concentrazione di CO2 in atmosfera prima, durante e dopo la deglaciazione di fine Paleozoico

Un team internazionale di scienziati, tra cui ricercatori dell’Università Statale di Milano, dell’Università la Sapienza di Roma e dell’Università di St. Andrews in Scozia, ha preso in esame la glaciazione del tardo Paleozoico e il suo declino, seguito da un considerevole aumento delle temperature, per comprendere meglio l’attuale emergenza climatica.

I risultati di questo studio, pubblicati sulla rivista internazionale Nature Geoscience, ricostruiscono per la prima volta i livelli atmosferici di CO2 lungo un arco temporale di 80 milioni di anni.

L’atmosfera del passato viene spesso studiata attraverso l’analisi di piccole bolle d’aria inglobate nelle calotte polari, grazie alle quali siamo capaci di ricostruire con precisione le variazioni climatiche fino a circa 800 mila anni fa. Ma la sfida affrontata da questo studio è stata quella di sviluppare metodologie in grado di risalire a un intervallo compreso tra 340 e 260 milioni di anni fa. Sono stati così presi in oggetto i fossili brachiopodi, invertebrati marini con una conchiglia costituita da carbonato di calcio, molto abbondanti durante il Paleozoico e tuttora rappresentati da alcune specie viventi. Dalle analisi è emerso come i livelli di CO2 fossero intimamente connessi all’evoluzione della glaciazione e alla sua fine. I ricercatori hanno infatti misurato bassi livelli di anidride carbonica concomitanti alla formazione di estese calotte polari. Viceversa, l’incremento di CO2, che fu il prodotto di un’intensa attività vulcanica, è risultato contemporaneo a una riduzione globale dei ghiacciai e a un incremento della temperatura superficiale media degli oceani fino a 4 gradi centigradi. E oggi, proprio come è avvenuto 300 milioni di anni fa, il riscaldamento dell’atmosfera, causato dall’aumento della presenza di CO2 e di gas metano, ha innescato una evidente riduzione dei ghiacciai e delle calotte polari.

“I fossili e le caratteristiche geochimiche dei loro resti sono una preziosa fonte di informazioni, che ci permette di ricostruire il clima e gli ambienti in cui questi organismi sono vissuti, anche nel tempo profondo, e confrontare questi dati con i cambiamenti attualmente in atto” afferma Lucia Angiolini, docente del Dipartimento di Scienze della Terra Ardito Desio dell’Università degli Studi di Milano.

3. La prof. Lucia Angiolini osserva e campiona materiale fossile da alcuni affioramenti rocciosi del Carbonifero in Scozia
3. La prof. Lucia Angiolini osserva e campiona materiale fossile da alcuni affioramenti rocciosi del Carbonifero in Scozia

“Mentre l’organismo cresce, la sua conchiglia si espande ed incorpora numerosi elementi e composti chimici che vanno a costituire una sorta di archivio per tutto il suo ciclo vitale. Infatti è noto come le conchiglie siano legate alla composizione dell’acqua marina e alla variazione di molteplici parametri tra cui la temperatura e l’acidità (pH)”, sottolinea Claudio Garbelli, docente dell’Università Sapienza di Roma.

“Alcuni elementi presenti nel carbonato di calcio delle conchiglie sono determinati dai valori di pH dell’acqua marina che, a sua volta, dipende dalla quantità di CO2 atmosferica”, aggiunge Hana Jurikova, ricercatrice dell’Università di St. Andrews in Scozia e prima autrice dello studio. “Misurando alcuni degli elementi contenuti nelle conchiglie fossili (quali ad esempio il boro e lo stronzio) e con l’ausilio di sofisticati modelli matematici, siamo stati in grado di ricostruire con una certa precisione la quantità di CO2 presente in atmosfera lungo un arco temporale di 80 milioni di anni, tra 340 e 260 milioni di anni fa”, conclude Jurikova.

Studi come questo, oltre ad evidenziare l’importanza dei fossili come archivi di informazioni utili per comprendere le dinamiche dei cambiamenti climatici e ambientali avvenuti nel passato, rappresentano una fonte di dati indispensabile per sviluppare modelli predittivi dei fenomeni attualmente in atto e del loro impatto sulla biodiversità.

4. Un brachiopode fossile del Permiano, chiamato Pachycyrtella, proveniente dal Permiano inferiore dell’Oman
4. I fossili raccontano la fine dell’era glaciale del tardo Paleozoico: un brachiopode fossile del Permiano, chiamato Pachycyrtella, proveniente dal Permiano inferiore dell’Oman

 

Riferimenti bibliografici:

Jurikova, H., Garbelli, C., Whiteford, R. et al. Rapid rise in atmospheric CO2 marked the end of the Late Palaeozoic Ice Age, Nat. Geosci. (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41561-024-01610-2

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma e dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.

Cambiamento climatico, l’Artico sta perdendo la “memoria”

Lo scioglimento causato dal riscaldamento globale sta deteriorando rapidamente il segnale climatico contenuto nei ghiacciai delle isole Svalbard. Questo è quanto scoperto da un gruppo di ricerca internazionale coordinato dall’Istituto di scienze polari del CNR e dall’Università Ca’ Foscari Venezia. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista The Cryosphere.

VENEZIA – In tutto il Mondo i ghiacciai si stanno ritirando a una velocità senza precedenti, e questo sta comportando la perdita delle informazioni riguardanti la storia del clima e dell’ambiente in essi contenute. A perdere la memoria sono anche i ghiacciai dell’arcipelago delle Svalbard, nel Circolo polare artico: lo dimostra per la prima volta uno studio internazionale pubblicato sulla rivista The Cryosphere, guidato da ricercatori dell’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR-ISP) e dell’Università Ca’ Foscari Venezia.

“Dobbiamo pensare agli strati di ghiaccio come a pagine di un manoscritto antico che gli scienziati sono in grado di interpretare. Anche se le evidenze del riscaldamento atmosferico sono ancora conservate nel ghiaccio, il segnale climatico stagionale è andato perduto”, spiega Andrea Spolaor, ricercatore del CNR-ISP. “I ghiacciai a queste quote – con l’attuale tasso di riscaldamento e l’aumento della fusione in estate – rischiano di perdere le informazioni climatiche registrate al loro interno, compromettendo la ricostruzione del cambiamento climatico affrontato dalla Terra nel corso del tempo”.

Dal 2012 al 2019, il team di ricerca ha studiato l’evoluzione del ghiacciaio dell’Holtedahlfonna, uno dei più elevati dell’arcipelago delle Svalbard, scoprendo che il segnale climatico, visibile nel 2012, era completamente scomparso nel 2019.

“L’arcipelago delle Svalbard è particolarmente sensibile ai cambiamenti del clima, a causa dell’altitudine relativamente bassa delle sue principali calotte glaciali”, spiega Carlo Barbante, direttore del CNR-ISP e professore all’Università Ca’ Foscari. “Inoltre, la posizione geografica enfatizza il fenomeno dell‘amplificazione artica, ossia l’aumento delle temperature più rapido rispetto alla media globale, causato da processi come la riduzione del ghiaccio marino e dell’albedo, che è la capacità di rifrazione dei raggi solari. Quest’ultima, tipica delle superfici chiare, contribuisce a mantenere le temperature più basse”.

Proprio per mettere in salvo questi archivi, nel 2023 i ricercatori impegnati nei progetti Ice Memory e Sentinel hanno portato a termine una complessa campagna di perforazione del ghiacciaio dell’Holthedalfonna, riuscendo ad estrarre tre carote di ghiaccio profonde. La speranza della comunità scientifica è che questi campioni contengano ancora informazioni climatiche rappresentative della regione.

“I risultati di questa ricerca, evidenziando la minaccia che gli effetti del cambiamento climatico rappresentano, sottolineano la necessità di preservare gli archivi glaciali e le relative informazioni climatiche, ora a rischio a causa del riscaldamento globale”, conclude Jacopo Gabrieli,

 

13 febbraio 2024

La scheda

Chi: Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche di Venezia (CNR-ISP), Università Ca’ Foscari Venezia

Che cosa: Studio sulla perdita del segnale climatico dei ghiacciai dell’arcipelago delle Svalbard, pubblicato su The Cryosphere https://doi.org/10.5194/tc-18-307-2024

Spolaor A., Scoto F., Larose C., Barbaro E., Burgay F., Bjorkman M. P., Cappelletti D., Dallo F., De Blasi F., Divine D., Dreossi G., Gabrieli J., Isaksson E., Kohler J., Martma T., Schmidt L. S., Schuler T. V., Stenni B., Turetta C., Luks B., Casado M., and Gallet J.-C. (2023) Climate change is rapidly deteriorating the climatic signal in Svalbard glaciers, «The Cryosphere» 18, 307–320

 

Testo e immagini dall’Ufficio Comunicazione e Promozione di Ateneo Università Ca’ Foscari Venezia

IL GENOMA “IMMENSO” DEL KRILL (EUPHASIA SUPERBA) – Sequenziato il genoma del krill antartico: è 15 volte quello umano ed è il più grande di tutto il mondo animale mai sequenziato fino ad ora. Su «Cell» lo studio internazionale firmato anche da un team di ricercatori dell’Università di Padova che aiuta a comprendere meglio gli effetti del riscaldamento globale.

Il krill antartico (Euphausia superba) è l’organismo animale più abbondante sul pianeta, con una biomassa totale compresa tra i 300 e i 500 milioni di tonnellate. Questo piccolo gamberetto riveste un ruolo vitale per l’ecosistema antartico poiché rappresenta il principale collegamento tra i produttori primari che compongono il fitoplancton e i livelli più alti della catena alimentare come uccelli marini, foche, pinguini e balene. Grazie alla sua enorme biomassa, il krill incide in modo significativo su fondamentali processi biogeochimici globali quali i cicli del carbonio e il riciclo del ferro: studiarne la biologia e comprenderne le potenzialità di adattamento a un ambiente in continua evoluzione a causa degli effetti del riscaldamento globale risulta, quindi, fondamentale. Fino ad ora, l’impossibilità di ricostruire la sequenza del genoma di krill – ben 15 volte più grande di quello umano – ha rappresentato un ostacolo tecnico insormontabile per l’approfondimento degli aspetti fisiologici, molecolari e genetici del krill.

Nella ricerca dal titolo The enormous repetitive Antarctic krill genome reveals environmental adaptations and population insights, pubblicata su «Cell» e firmata da Changwei Shao del Yellow Sea Fisheries Research Institute di Qingdao in collaborazione con un team di ricercatori del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova – composto da Cristiano De Pittà, Gabriele Sales e Alberto Biscontin (ora all’Università di Udine) –, grazie alle più innovative tecnologie di sequenziamento e ai più aggiornati metodi di analisi è stato possibile ricostruire per la prima volta l’intero genoma di krill che risulta essere il più grande di tutto il mondo animale mai sequenziato fino ad ora.

Le sue enormi dimensioni sembrano essere il risultato della duplicazione e spostamento di numerosi segmenti di DNA – gli elementi trasponibili – in posizioni diverse del genoma, e non di duplicazioni dell’intero genoma, come osservato in altre specie. In particolare, sono stati identificati due eventi recenti di accumulo degli elementi trasponibili, collegati entrambi a cambiamenti climatici, che potrebbero essere responsabili delle attuali grandi dimensioni del genoma.

«Il krill si estende dal circolo polare antartico fino alle coste meridionali dell’America latina e dell’Australia: questi ambienti sono caratterizzati da condizioni ambientali molto diverse, soprattutto in termini di temperatura, fotoperiodo e disponibilità di cibo. Questa elevata distribuzione geografica è dovuta alle grandi capacità adattative che il krill ha sviluppato per vivere in un ecosistema, quello antartico, soggetto a variazioni estreme nel corso dell’anno; si pensi ad esempio al ciclo stagionale della banchisa o alla notte polare» spiega Cristiano De Pittà, co-autore dello studio dell’Università di Padova.

Cristiano De Pittà
Cristiano De Pittà

«In tal senso, un ruolo fondamentale è svolto dall’orologio circadiano che controlla a livello molecolare l’espressione ritmica giornaliera e stagionale di numerosi geni – continua Alberto Biscontin, co-autore dello studio e ricercatore dell’Università di Padova al momento della ricerca –. Il sequenziamento del genoma ha permesso di identificare 625 geni la cui espressione risulta essere sotto il controllo diretto dell’orologio endogeno e potrebbero, quindi, rappresentare il fulcro del processo di adattamento fisiologico e comportamentale di questo organismo alle estreme variazioni stagionali a cui è sottoposto».

Alberto Biscontin
Alberto Biscontin

La presenza della corrente circumpolare antartica (ACC), inoltre, è responsabile di altissimi livelli di connettività tra le diverse aree geografiche. Per anni la popolazione di krill antartico è stata ritenuta geneticamente omogenea: il sequenziamento del genoma ha portato all’identificazione di milioni di nuovi marcatori genetici (Single Nucleotide Polymorphisms) che hanno permesso, per la prima volta, di eseguire una completa analisi della struttura della popolazione di krill antartico mettendo in luce le tracce genetiche di quattro diverse popolazioni ancestrali ancora presenti in krill provenienti da altrettante regioni geografiche.

«Il genoma di Euphausia superba, oltre ad essere una sfida tecnologica vinta, riapre il dibattito sul significato biologico dei grandi genomi e rappresenta una preziosissima risorsa che fornirà nuovi e importanti elementi per una comprensione sempre maggiore della biologia e del ruolo ecologico di questa specie» conclude Gabriele Sales, anche lui co-autore dello studio dell’ateneo patavino.

Gabriele Sales
Gabriele Sales

Link alla ricerca: https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0092867423001071

Titolo: The enormous repetitive Antarctic krill genome reveals environmental adaptations and population insights – «Cell» – 2023

Autori: Changwei Shao, Shuai Sun, Kaiqiang Liu, Jiahao Wang, Shuo Li, Qun Liu, Bruce E. Deagle, Inge Seim, Alberto Biscontin, Qian Wang, Xin Liu, So Kawaguchi, Yalin Liu, Simon Jarman, Yue Wang, Hong-Yan Wang, Guodong Huang, Jiang Hu, Bo Feng, Cristiano De Pittà, Shanshan Liu, Rui Wang, Kailong Ma, Yiping Ying, Gabriele Sales, Tao Sun, Xinliang Wang, Yaolei Zhang, Yunxia Zhao, Shanshan Pan, Xiancai Hao, Yang Wang, Jiakun Xu, Bowen Yue, Yanxu Sun, He Zhang, Mengyang Xu, Yuyan Liu, Xiaodong Jia, Jiancheng Zhu, Shufang Liu, Jue Ruan, Guojie Zhang, Huanming Yang, Xun Xu, Jun Wang, Xianyong Zhao, Bettina Meyer, Guangyi Fan

Krill antartico genoma

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Padova.

CAMBIAMENTI CLIMATICI ED EVOLUZIONE DEI FIUMI ARTICI UNA “SORPRESA” DAL DISGELO DEL PERMAFROST 

Dalla ricerca pubblicata su «Nature Climate Change» emerge che una temperatura più alta modifica la vegetazione e l’infiltrazione d’acqua nelle pianure fluviali artiche, portando ad un rallentamento dell’erosione dei fiumi.

Il riscaldamento globale sta cambiando i paesaggi artici a causa del disgelo del permafrost, lo strato di terreno perennemente ghiacciato che ha ricoperto la tundra artica per millenni. Il disgelo del permafrost causa frane e smottamenti e, in casi estremi, può persino portare al prosciugamento di interi laghi. L’aspetto più allarmante però è il potenziale rilascio in atmosfera di enormi quantità di gas serra – tra cui metano, anidride carbonica e protossido di azoto – rimaste intrappolate nel permafrost per secoli. Si stima infatti che nel permafrost siano congelati 1400 miliardi di tonnellate di carbonio – una quantità quattro volte superiore a quella emessa dall’uomo dalla rivoluzione industriale ad oggi – e quasi il doppio di quella attualmente contenuta nell’atmosfera.

Emissioni significative di gas serra nelle regioni artiche sono generate dall’azione dei fiumi che, spostandosi lateralmente con velocità che possono arrivare a decine di metri all’anno, erodono terreni ricchi di permafrost. Infatti, l’acqua che scorre lungo un fiume tende a erodere sedimenti lungo le sponde concave e ri-depositarli lungo le sponde convesse, determinando così una migrazione laterale del fiume nel corso degli anni. L’indebolimento delle sponde dei fiumi a causa del disgelo del permafrost, nonché l’aumento dei flussi di acqua e sedimenti dovuti al degrado della criosfera, potrebbe favorire l’erosione delle sponde, aumentando la mobilità laterale dei fiumi e modificando ulteriormente le emissioni in atmosfera.

Ma l’aumento delle temperature e dell’umidità atmosferica che favoriscono lo scioglimento del permafrost hanno solo effetti negativi sul paesaggio artico? Per rispondere a questa domanda, un team di ricerca internazionale ha monitorato l’evoluzione dei grandi fiumi dell’Alaska e del Canada e svelato come, a seguito del forte riscaldamento della regione, i fiumi non si muovano come gli scienziati si aspettavano.

Lo studio, dal titolo “Large sinuous rivers are slowing down in a warming Arctic” e pubblicato su «Nature Climate Change», ha analizzato l’evoluzione dei 10 maggiori fiumi artici in Alaska (Stati Uniti), nello Yukon e nei Territori del Nord-Ovest (Canada) durante gli ultimi 50 anni. La ricerca, coordinata da Alessandro Ielpi dell’Università della British Columbia e frutto della collaborazione tra il Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova, l’Università della British Columbia (Canada), l’Università di Stanford (USA) e l’Università Laval (Canada), rivela che una temperatura più alta modifica anche la vegetazione e i flussi d’acqua superficiali nelle pianure fluviali artiche: ciò rallenterebbe l’erosione dei fiumi e potrebbe influenzare il rilascio di gas serra causato dal disgelo del permafrost.

«Abbiamo testato l’ipotesi, ampiamente accettata dalla comunità scientifica, che il riscaldamento atmosferico e il conseguente disgelo del permafrost indeboliscano le sponde e provochino un aumento dei tassi di migrazione laterale dei fiumi artici. Per fare ciò – dice Alvise Finotello, ricercatore del Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova e autore della pubblicazione – abbiamo utilizzato sequenze di immagini satellitari ad alta risoluzione che coprono un periodo temporale di circa mezzo secolo. In totale, abbiamo analizzato più di mille chilometri di sponde distribuiti lungo 10 corsi d’acqua, tutti caratterizzati da larghezze comprese tra 100 e 1000 metri, così da poter essere facilmente identificabili anche nelle immagini satellitari più datate e risalenti agli anni Settanta. Lo studio è stato possibile grazie alle metodologie di analisi da remoto che il nostro gruppo di ricerca ha sviluppato nel corso degli anni, e che possono essere applicate a sistemi fluviali in diversi contesti climatici, dalle foreste tropicali ai deserti, fino appunto agli ambienti artici. Contrariamente a quanto ci aspettavamo di osservare, i nostri risultati mostrano una sorprendente riduzione dei tassi di migrazione laterale di dei fiumi nell’ordine del 20% negli ultimi 50 anni, una stima che potrebbe addirittura essere conservativa date le metodologie di analisi che abbiamo utilizzato».

Alvise Finotello
Alvise Finotello

«Tale rallentamento è con ogni probabilità dovuto ad una serie di effetti indiretti legati al riscaldamento atmosferico e al conseguente scioglimento del permafrost. Temperature più alte favoriscono lo sviluppo della vegetazione grazie a stagioni di crescita più calde e lunghe, un processo noto come inverdimento artico. Inoltre – spiega Alessandro Ielpi dell’Università della British Columbia e già visiting scientist al Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova nel 2019 – lo scioglimento del permafrost permette alle radici delle specie arbustive di penetrare più in profondità nel terreno rispetto a quanto accadeva nel passato. Radici più profonde aumentano la resistenza delle sponde e la capacità di ritenzione idrica delle piane alluvionali, riducendo così i tassi di erosione e la velocità di migrazione laterale dei fiumi».

Alessandro Ielpi
Cambiamenti climatici ed evoluzione dei fiumi artici, una “sorpresa” dal disgelo del permafrost. In foto, Alessandro Ielpi

Poiché una ridotta mobilità dei fiumi ha un impatto diretto sui flussi di gas serra rilasciati dall’erosione di terreni ricchi di permafrost, i risultati dello studio avranno importanti ramificazioni per quanto riguarda i bilanci delle emissioni globali e i cambiamenti climatici futuri ad essi connessi.

Link alla ricerca: https://doi.org/10.1038/s41558-023-01620-9

Titolo: “Large sinuous rivers are slowing downin a warming Arctic” – «Nature Climate Change» – 2023

Autori: Alessandro Ielpi, Mathieu G.A. Lapôtre, Alvise Finotello, Pascale Roy-Léveillée

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Padova.

OLTRE IL 2% DELLE EMISSIONI GLOBALI DI GAS SERRA SONO CAUSATE DAI FERTILIZZANTI SINTETICI

Lo studio internazionale condotto dal team di ricerca dell’Università di Torino, dell’Università di Exeter e di Greenpeace

fertilizzanti azotati sintetici gas serra

I fertilizzanti azotati sintetici sono responsabili del 2,1% delle emissioni globali di gas serra, secondo una nuova ricerca pubblicata sulla rivista Scientific Reports e intitolata “Greenhouse gas emissions from global production and use of nitrogen synthetic fertilisers in agriculture”. A differenza dei fertilizzanti organici, che provengono da materiale vegetale o animale, i fertilizzanti sintetici sono prodotti dall’uomo con processi chimici. La produzione e il trasporto causano emissioni di carbonio, mentre l’uso agricolo di questi fertilizzanti porta al rilascio di protossido di azoto (N₂O), un gas serra 265 volte più potente dell’anidride carbonica (CO₂) nell’arco di un secolo.

Il team di ricerca – dei Laboratori di Ricerca dell’Università di Torino, dell’Università di Exeter e di Greenpeace – ha scoperto che la filiera dei fertilizzanti azotati sintetici è stata responsabile dell’emissione dell’equivalente di 1,13 gigatonnellate di CO₂ nel 2018. Si tratta di oltre il 10% delle emissioni globali prodotte dall’agricoltura e di una quantità superiore alle emissioni dell’aviazione commerciale nello stesso anno. I primi quattro emettitori – Cina, India, Stati Uniti e UE28 (Paesi dell’Unione Europea più il Regno Unito) – hanno rappresentato il 62% del totale.

“Non c’è dubbio che le emissioni di fertilizzanti azotati sintetici debbano essere ridotte, invece di aumentare, come attualmente previsto”, ha dichiarato la Dott.ssa Reyes Tirado, dei Laboratori di ricerca di Greenpeace. “Il sistema agroalimentare globale si affida all’azoto sintetico per aumentare la resa dei raccolti, ma l’uso di questi fertilizzanti è insostenibileLe emissioni potrebbero essere ridotte senza compromettere la sicurezza alimentare. In un momento in cui i prezzi dei fertilizzanti sintetici stanno salendo alle stelle, riflettendo la crisi energetica, ridurne l’uso potrebbe giovare agli agricoltori e aiutarci ad affrontare la crisi climatica”.

Quando i fertilizzanti azotati vengono applicati al suolo, una parte viene assorbita dalle piante e una parte viene utilizzata dai microrganismi del suolo, che producono N₂O come sottoprodotto del loro metabolismo. L’azoto può anche finire per lisciviare dal sito. Secondo i ricercatori, la strategia più efficace per ridurre le emissioni è quella di ridurre l’eccesso di fertilizzazione, che attualmente si verifica nella maggior parte dei casi.  

“Abbiamo bisogno di un programma globale per ridurre l’uso complessivo dei fertilizzanti e aumentare l’efficienza del riciclo dell’azoto nei sistemi agricoli e alimentari”, ha dichiarato il Dott. Stefano Menegat, dell’Università di Torino. “Possiamo produrre cibo a sufficienza per una popolazione in crescita con un contributo molto minore alle emissioni globali di gas serra, senza compromettere le rese”.

Il cambiamento dei modelli alimentari verso una riduzione della carne e dei prodotti lattiero-caseari potrebbe svolgere un ruolo centrale. Tre quarti dell’azoto della produzione vegetale (espresso in termini di proteine e compresi i sottoprodotti della bioenergia) sono attualmente destinati alla produzione di mangimi per il bestiame a livello globale.

I dati dello studio, relativi al 2018, mostrano che il Nord America ha il più alto utilizzo annuale di fertilizzanti azotati per persona (40 kg), seguito dall’Europa (25-30 kg). L’Africa ha registrato il consumo più basso (2-3 kg). Il team di ricerca ha sviluppato il più grande set di dati disponibili a livello di campo sulle emissioni di N₂O nel suolo. Sulla base di questi dati, ha stimato i fattori di emissione diretta di N₂O a livello nazionale, regionale e globale, mentre ha utilizzato la letteratura esistente per trovare i fattori di emissione per le emissioni indirette di N₂O nel suolo e per la produzione e il trasporto di fertilizzanti azotati.

 

Testo e foto dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino

Clima: equilibrio artico sempre più a rischio

Il cambiamento climatico modifica i delicati ecosistemi lacustri artici. Una ricerca di Sapienza e Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) alle Isole Svalbard studia i cambiamenti in corso. I risultati sono pubblicati su Scientific Reports.

clima equilibrio artico
Clima: equilibrio artico sempre più a rischio. In foto, il rifugio Papphytta, Brøggerhalvøya presso le isole Svalbard. Foto di Superchilum, CC BY-SA 3.0

Uno nuovo studio coordinato dal gruppo di Ecologia trofica del Dipartimento di biologia ambientale della Sapienza fa luce sulle relazioni che legano il clima al funzionamento dei delicati ecosistemi lacustri artici, considerati hotspot di biodiversità e sink di carbonio alle più elevate latitudini.

La ricerca, pubblicata sulla rivista Scientific Reports, fortemente interdisciplinare, è stata realizzata in collaborazione con l’Istituto di scienze polari e l’Istituto di ricerca sulle acque del Cnr, combinando l’analisi elementare e degli isotopi stabili di campioni animali e vegetali con l’analisi di immagini satellitari e la ricostruzione dell’idrodinamica di 18 laghi in 3D alle Isole Svalbard.

I ricercatori hanno studiato le fonti di nutrienti nei laghi e tracciato il loro trasferimento attraverso la rete alimentare, mettendo in relazione i modelli osservati con gli aspetti climatici e idrodinamici dei laghi artici, la copertura nevosa e vegetazionale e la presenza di specie migratrici caratteristiche dell’area. I risultati chiariscono gli effetti diretti e indiretti che queste variabili legate al clima hanno sulle interazioni tra le specie e sul ciclo dei nutrienti (carbonio e azoto) in questi ambienti estremi. Le evidenze ottenute permettono di prevedere che l’aumento della temperatura comporterà un aumento del carico di nutrienti in questi ecosistemi, con conseguenze sulla loro produttività e sui tassi di rilascio di carbonio in atmosfera, entrambi ad oggi limitati dalla carenza di azoto e altri elementi.

“Lo studio, che fa parte di una linea di ricerca più ampia coordinata da Sapienza nell’ambito del Programma di ricerche in Artico e del Programma nazionale di ricerche in Antartide, – evidenzia Edoardo Calizza della Sapienza – aiuta a comprendere meglio come l’aumento delle temperature potrebbe incidere sulla biodiversità e sul funzionamento degli ecosistemi polari, e sui servizi cruciali che essi svolgono sia a scala locale che globale, inclusa la regolazione stessa del clima”.

“L’approccio multidisciplinare, che vede collaborare insieme biologi e geologi sul campo ed in laboratorio, nello studio dei laghi artici, rappresenta sicuramente un valore aggiunto al progetto e consente di studiare in dettaglio le complesse dinamiche esistenti tra fattori biotici ed abiotici, che guidano e vincolano la circolazione dei nutrienti anche a queste latitudini”, sottolinea David Rossi dell’Istituto di ricerca sulle acque del Cnr.

“Il contributo innovativo alle ricerche sugli ecosistemi dei laghi artici è rappresentato dall’integrazione di immagini satellitari e dati al terreno per l’analisi della variabilità spaziale e temporale delle coperture nevose nelle isole Svalbard in cui Il Cnr ha maturato una esperienza pluriennale”, aggiunge Rosamaria Salvatori dell’Istituto di scienze polari. “Il sistema dei laghi analizzati ricade nel territorio della Brogger Peninsula in cui è situata la base scientifica Dirigibile Italia del Cnr”.

 

Riferimenti:

Climate-related drivers of nutrient inputs and food web structure in shallow Arctic lake ecosystems – Edoardo Calizza, Rosamaria Salvatori, David Rossi, Vittorio Pasquali, Giulio Careddu, Simona Sporta Caputi, Deborah Maccapan, Luca Santarelli, Pietro Montemurro, Loreto Rossi & Maria Letizia Costantini – Scientific Reports. DOI https://doi.org/10.1038/s41598-022-06136-4

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

CLIMA DI FINE SECOLO E AGRICOLTURA “EROICA” 

Studio dell’Università di Padova dimostra che tra tre generazioni il cambiamento climatico provocherà un’espansione di zone a clima arido con condizioni di scarsità idrica.

Penalizzati saranno i paesaggi agricoli in forte pendenza, luoghi di agricoltura eroica e di grande valore storico culturale.

Clima di fine secolo e agricoltura “eroica”: coltivazione di arancio su terrazzamenti in aree ad alta pendenza a Valencia (Spagna)

Pubblicata su «Nature Food» la ricerca dal titolo “Future climate-zone shifts are threatening steep-slope agriculture”, coordinata dal Professor Paolo Tarolli del Dipartimento di Territorio e Sistemi Agro-Forestali dell’Università di Padova, in cui si mostra quale sarà l’impatto del cambiamento climatico sulle aree agricole a forte pendenza alla fine del secolo. Lo studio è basato sulla proiezione delle zone climatiche attuali (1980-2016) a fine secolo (2071-2100) secondo lo scenario di concentrazione di gas serra RCP8.5, ovvero senza l’adozione di iniziative a favore della protezione del clima e, pertanto, con crescita delle emissioni ai ritmi attuali. Sono stati utilizzati dati satellitari e territoriali open-access, analizzati tramite la piattaforma online Google Earth Engine, in modo che la metodologia possa essere replicata non solo da scienziati, ma anche da operatori del settore agricolo ed enti per la gestione del territorio.

clima agricoltura eroica
Paolo Tarolli

«In questo lavoro abbiamo prodotto una mappa globale ad alta risoluzione dei paesaggi agricoli collinari e di montagna, analizzando la loro distribuzione nelle zone climatiche attuali (tropicale, arido, temperato, freddo, polare) e nelle proiezioni climatiche future – spiega il Professor Paolo Tarolli –. La nostra analisi dimostra che le aree agricole in forte pendenza sono significativamente più minacciate dal cambiamento climatico rispetto alla media della superficie agricola globale, in particolare vi sarà un’espansione di zone a clima arido, quindi di condizioni di scarsità idrica».

clima agricoltura eroica
Mappa globale ad alta risoluzione dei paesaggi agricoli di collina e montagna, con indicati i relativi siti patrimonio dell’umanità UNESCO e patrimonio agricolo globale GIAHS (FAO)

I sistemi agricoli in aree a forte pendenza, sebbene rappresentino una frazione ridotta della superficie agricola globale, sono di grande rilevanza per diversi aspetti. La loro importanza agronomica, così come il valore storico e culturale che li contraddistingue, sono ampiamente riconosciuti dalle Nazioni Unite e protetti con iniziative come i siti patrimonio dell’umanità UNESCO e patrimonio agricolo globale GIAHS (FAO). Le coltivazioni in pendenza sono soprattutto concentrate in Messico, Italia, Etiopia e Cina: si tratta di colture di altissima “specializzazione”. Tra gli esempi si possono citare le aree terrazzate Honghe Hani nella provincia cinese dello Yunnan, gestite dalle minoranze Hani da oltre 1300 anni, le quali producono 48 varietà di riso, dando vita ad un habitat ideale anche per l’allevamento di bovini, anatre e pesci, in un’ottica di economia circolare, oppure, in Italia, la viticoltura eroica sulle colline del Prosecco e del Soave.

Sul totale, l’agricoltura in forte pendenza si trova principalmente in zone climatiche temperate (46%) e fredde (28%): insieme, esse ospitano quasi tre quarti di questi paesaggi. Le coltivazioni in aree in pendenza delle regioni tropicali sono pari al 17%, nelle aride al 9% e in quelle polari arrivano all’1%, coprendo insieme il restante quarto del totale. Il cambiamento climatico rappresenterà una seria minaccia per tutta l’agricoltura e i sistemi rurali, con un impatto su raccolti e prezzi alimentari. In particolare, esso provocherà una variazione nell’estensione delle aree climatiche globali, con ripercussioni significative sui versanti agricoli in forte pendenza.

«Tra ottant’anni, secondo le proiezioni del nostro studio, la percentuale dei terreni agricoli di collina e montagna delle zone tropicali saliranno al 27% e quelle aride al 16%: sostanzialmente raddoppieranno rispetto alla situazione attuale. All’opposto, nelle regioni fredde si osserverà una riduzione di terreni agricoli di collina e montagna dall’attuale 28% al 13%, mentre in quelle temperate si passerà dal 46% al 44% – sottolinea Paolo Tarolli –. In sole tre generazioni quindi aree agricole più estese saranno interessate da un clima più caldo che comporterà un calo della disponibilità di acqua per l’irrigazione e la produzione alimentare. La nostra ricerca dimostra che le aree agricole in forte pendenza, spesso caratterizzate da un’alta specializzazione nella gestione dell’acqua derivante da antichi saperi tradizionali, saranno quelle maggiormente minacciate dal cambiamento climatico, soprattutto dalla siccità. Data l’urgente necessità di garantire una produzione alimentare sostenibile e per tutti riteniamo che i governi e le istituzioni debbano investire di più nell’identificazione e mitigazione degli effetti del cambiamento climatico in agricoltura. In particolare il nostro studio – conclude Tarolli – evidenzia la necessità di azioni atte a migliorare, specie per i paesaggi agricoli collinari e montani, la resilienza al cambiamento climatico previsto nei prossimi decenni, al fine di preservare il loro ruolo nella produzione alimentare, reddito, valore storico e culturale, e servizi ecosistemici».

Link alla ricerca: 10.1038/s43016-021-00454-y oppure https://rdcu.be/cGZ1M

Titolo: “Future climate-zone shifts are threatening steep-slope agriculture” – «Nature Food» 2022

Autori: Wendi Wang, Anton Pijl & Paolo Tarolli*

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Padova. sullo studio relativo a clima di fine secolo e agricoltura “eroica”.

GHIACCIAI MINACCIATI DAL CLIMA: SCIENZIATI A 4100 METRI PER SALVARE LA ‘MEMORIA’ DEL GRAND COMBIN

ghiacciai clima Grand Combin
Ghiacciai minacciati dal clima: foto di archivio dalla ricognizione sul Grand Combin del 2018. Credit: Riccardo Selvatico per Cnr e Università Ca’ Foscari Venezia

ICE MEMORY: STOP ALLA MISSIONE SUL GRAN COMBIN

GHIACCIAIO DIFFICILE, SCIENZIATI RIENTRATI

 

VENEZIA, 21 Settembre 2020 – Dopo tre tentativi interrotti a una ventina di metri di profondità, il team italo-svizzero di scienziati del programma Ice Memory ha dovuto lasciare questa mattina il campo sul massiccio del Grand Combin. I ricercatori hanno operato per una settimana a 4.100 metri di quota sul ghiacciaio Corbassiere. Giorni di temperature elevate, con massime sempre sopra lo zero, hanno reso più difficile del previsto l’estrazione dei campioni di ghiaccio.

Il team sul ghiacciaio era composto da 6 glaciologi e paleoclimatologi dell’Istituto di Scienze Polari del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isp), dell’Università Ca’ Foscari Venezia e del centro di ricerca svizzero Paul Scherrer Institut (Psi). Con loro una guida alpina e a valle, nel borgo aostano di Ollomont, un ricercatore a supporto.

In due punti gli scienziati hanno incontrato una transizione inaspettata, probabilmente delle ‘lenti’ di ghiaccio molto resistenti, che hanno bloccato e anche danneggiato il carotatore. Determinati a portare a termine la missione, grazie al supporto a valle, erano riusciti a far trasportare riparare in una notte la strumentazione nel laboratorio del costruttore, nei pressi di Berna.

Nel fine settimana il terzo tentativo, spostato a una decina di metri dai precedenti, si è arrestato ancora una volta attorno ai 20 metri, determinando lo ‘stop’ alle operazioni, suggerito anche dalle previsioni di instabilità meteo che avrebbero reso difficile per i prossimi giorni un rientro a valle in sicurezza.

Rinviato a una futura missione, dunque, l’obiettivo di prelevare tre carote di ghiaccio, veri e propri archivi della storia climatica della regione alpina da analizzare e conservare per le prossime generazioni di scienziati.

“L’acqua ha complicato le operazioni. Non ci aspettavamo di trovare il ghiacciaio in queste condizioni – afferma Carlo Barbante, direttore dell’Istituto di Science polari del Cnr e docente all’Università Ca’ Foscari Venezia – dovremo cambiare metodo di perforazione, sperando di non essere arrivati troppo tardi e di riuscire per la prima volta ad estrarre una carota di ghiaccio completa dal Grand Combin, in un’area in cui la calotta raggiunge i 70 metri di profondità”.

Negli ultimi 170 anni il ghiacciaio Corbassiere ha perso circa un terzo della sua area, con un arretramento della lingua glaciale di circa 3,5 chilometri.

Parte dei campioni che gli scienziati volevano prelevare era destinato alla ‘biblioteca dei ghiacci’ che il programma internazionale Ice Memory creerà in Antartide. Ice Memory è una corsa contro il tempo per portare al sicuro questi archivi, mettendoli a disposizione delle future generazioni di scienziati.

Comprendere il clima e l’ambiente del passato permette di anticipare i cambiamenti futuri. I ghiacciai montani conservano la memoria del clima e dell’ambiente dell’area in cui si trovano, ma si stanno ritirando inesorabilmente a causa del riscaldamento globale, ponendo questo inestimabile patrimonio scientifico in pericolo.

Quella sul Grand Combin è stata la prima di una serie di spedizioni finanziate dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (con il Fondo Integrativo Speciale per la Ricerca, Fisr) che proseguirà con i ghiacciai italiani del Monte RosaMarmoladaMontasio e Calderone.

È possibile sostenere l’impegno dei glaciologi partecipando alla campagna di crowdfunding lanciata dall’Università Ca’ Foscari Venezia: https://sostienici.unive.it/projects/la-memoria-dei-ghiacciai

Per saperne di più sul progetto: https://www.icememory.it

Per gli aggiornamenti provenienti dai ricercatori sul campo: Facebook e Twitter.

Il team: Margit Schwikowski (team leader, Psi), Theo Jenk (Psi), Thomas Singer (Psi), Jacopo Gabrieli (Cnr/Ca’ Foscari), Fabrizio de Blasi (Cnr/Ca’ Foscari), Rachele Lodi (Cnr/Ca’ Foscari), Paolo Conz (guida alpina). Al campo base i ricercatori di Cnr e Ca’ Foscari: Federico Dallo (Cnr/Ca’ Foscari).

 

VENEZIA – Un team italo-svizzero di scienziati è salito la mattina del 14 Settembre sul massiccio del Grand Combin, a 4.100 metri di quota, per estrarre dal ghiacciaio Corbassiere due campioni (carote di ghiaccio) da destinare alla ‘biblioteca dei ghiacci’ che il programma internazionale Ice Memory creerà in Antartide. Ice Memory è una corsa contro il tempo per portare al sicuro questi archivi, mettendoli a disposizione delle future generazioni di scienziati.

Comprendere il clima e l’ambiente del passato permette di anticipare i cambiamenti futuri. I ghiacciai montani conservano la memoria del clima e dell’ambiente dell’area in cui si trovano, ma si stanno ritirando inesorabilmente a causa del riscaldamento globale, ponendo questo inestimabile patrimonio scientifico in pericolo.

Negli ultimi 170 anni il ghiacciaio Corbassiere ha perso circa un terzo della sua area, con un arretramento della lingua glaciale di circa 3,5 chilometri.

Sul ghiacciaio del Grand Combin vivranno e opereranno per circa due settimane 6 glaciologi e paleoclimatologi dell’Istituto di Scienze Polari del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isp), dell’Università Ca’ Foscari Venezia e del centro di ricerca svizzero Paul Scherrer Institut (Psi). Le buone condizioni meteo saranno fondamentali per la riuscita dell’impresa: sarà possibile evacuare solo in elicottero. Saranno supportati dai colleghi che seguiranno la missione dal campo base nel borgo aostano di Ollomont.

L’obiettivo è estrarre tre carote di ghiaccio profonde 80 metri e del diametro di 7,5 centimetri. Si tratterà dei primi campioni completi del ghiacciaio del Grand Combin. Due verranno conservate per il futuro nell’archivio creato appositamente nella stazione Concordia sul plateau antartico, l’altra sarà analizzata nei laboratori congiunti di Ca’ Foscari e Cnr a Venezia ed al Psi.

ghiacciai clima Grand Combin
Ghiacciai minacciati dal clima: foto di archivio dalla ricognizione sul Grand Combin del 2018. Credit: Riccardo Selvatico per Cnr e Università Ca’ Foscari Venezia

Quella sul Grand Combin è la prima di una serie di spedizioni finanziate dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (con il Fondo Integrativo Speciale per la Ricerca, Fisr) che proseguirà con i ghiacciai italiani del Monte RosaMarmoladaMontasio e Calderone.

È possibile sostenere l’impegno dei glaciologi partecipando alla campagna di crowdfunding lanciata dall’Università Ca’ Foscari Venezia: https://sostienici.unive.it/projects/la-memoria-dei-ghiacciai

Per saperne di più sul progetto: https://www.icememory.it

Per gli aggiornamenti provenienti dai ricercatori sul campo: Facebook e Twitter.

Parteciperanno alla spedizione: Margit Schwikowski (team leader, Psi), Theo Jenk (Psi), Thomas Singer (Psi), Jacopo Gabrieli (Cnr/Ca’ Foscari), Fabrizio de Blasi (Cnr/Ca’ Foscari), Rachele Lodi (Cnr/Ca’ Foscari), Paolo Conz (guida alpina). Al campo base i ricercatori di Cnr e Ca’ Foscari: Federico Dallo (Cnr/Ca’ Foscari).

 

La scienza delle “carote di ghiaccio”

Foto di archivio dalla ricognizione sul Grand Combin del 2018. Credit: Riccardo Selvatico per Cnr e Università Ca’ Foscari Venezia

Analizzando le bolle d’aria che la neve accumula strato dopo strato sul ghiacciaio nel corso dei secoli, gli scienziati sono oggi in grado di identificare le tracce dell’evoluzione delle temperature e delle concentrazioni di composti chimici. Si tratta di analisi impensabili pochi decenni fa. Per questo, la missione di Ice Memory ha lo scopo di assicurare campioni di qualità agli scienziati che, tra qualche decennio, avranno nuovi metodi e tecnologie a disposizione per analizzarli.

Foto di archivio dalla ricognizione sul Grand Combin del 2018. Credit: Riccardo Selvatico per Cnr e Università Ca’ Foscari Venezia

“Per comprendere meglio la risposta del clima della terra alle continue emissioni e quindi intraprendere concrete azioni di mitigazione ed adattamento, è essenziale guardare al passato – spiegano i ricercatori – È necessario, infatti, capire come il clima abbia reagito alla naturale ciclicità delle variazioni dei gas serra. Grazie alle carote di ghiaccio è possibile ricostruire questa ciclicità”.

L’esempio emblematico è quello della carota del progetto europeo EPICA estratta in Antartide e lunga oltre 3000 metri, che ha permesso di ricostruire la storia del clima della terra negli ultimi 740.000 anni riconoscendo i cicli glaciali e interglaciali che si sono susseguiti nel tempo. Particolari carote estratte dai ghiacci alpini, per esempio sul Monte Rosa e sull’Ortles, hanno permesso di ricostruire l’evoluzione del clima fino a oltre 5000 anni fa nonostante le inferiori profondità di perforazione (70 – 80 metri).

Foto di archivio dalla ricognizione sul Grand Combin del 2018. Credit: Riccardo Selvatico per Cnr e Università Ca’ Foscari Venezia

Ice Memory

Ice Memory è un programma internazionale che ha l’obiettivo di fornire, per le decadi e i secoli a venire, archivi e dati sulla storia del clima e dell’ambiente fondamentali sia per la scienza sia per ispirare le politiche per la sostenibilità e il benessere dell’umanità. Ice Memory ambisce a federare le comunità internazionali scientifica e istituzionale per creare in Antartide un archivio di carote di ghiaccio dai ghiacciai attualmente in pericolo di ridursi o scomparire. Gli scienziati sono convinti che questo ghiaccio contenga informazioni di valore tale da richiedere attività di ricerca anche su campioni di ghiacciai scomparsi.

Foto di archivio dalla ricognizione sul Grand Combin del 2018. Credit: Riccardo Selvatico per Cnr e Università Ca’ Foscari Venezia

Per Ice Memory, quella sul Grand Combin è la seconda missione sui ghiacciai alpini dopo quella del 2016 sul Monte Bianco. Altre spedizioni internazionali hanno permesso di mettere al sicuro gli archivi dei ghiacciai Illimani (Bolivia), Belukha e Elbrus (Russia).

Ice Memory è un programma congiunto tra Università Grenoble Alpes, Università Ca’ Foscari Venezia, Istituto nazionale francese per le ricerche sullo sviluppo sostenibile (Ird), Cnrs, Cnr, e con Istituto polare francese (Ipev) e Programma nazionale per le ricerche in Antartide (Pnra) per quanto riguarda le attività alla stazione Concordia in Antartide. Ice Memory ha il patrocinio delle commissioni italiana e francese dell’Unesco.

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Ghiacciai minacciati dal clima: foto di archivio dalla ricognizione sul Grand Combin del 2018. Credit: Riccardo Selvatico per Cnr e Università Ca’ Foscari Venezia

Testo, immagini e video dall’Ufficio Comunicazione Università Ca’ Foscari Venezia sui ghiacciai minacciati dal clima e gli scienziati a 4100 metri per salvare la ‘memoria’ del Grand Combin.

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Ghiacciai minacciati dal clima: foto di archivio dalla ricognizione sul Grand Combin del 2018. Credit: Riccardo Selvatico per Cnr e Università Ca’ Foscari Venezia

Un nuovo studio del Dipartimento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin della Sapienza ha valutato l’impatto delle attività umane sull’estinzione locale dei mammiferi negli ultimi 50 anni. Solo poche specie sono riuscite a trarre vantaggio dalla convivenza con l’uomo colonizzando nuove aree. Il lavoro è pubblicato su Nature Communications

mammiferi estinzione
Rinoceronte bianco, una delle specie il cui areale di distribuzione ha subito gli impatti maggiori dovuti alle attività antropiche.

L’impatto delle attività umane sull’ambiente, che ha avuto un notevole incremento a partire dagli anni ‘70 del secolo scorso con la terza rivoluzione industriale, sta alterando sensibilmente i processi ecologici alla base della vita sulla Terra.

Uno degli effetti principali dell’intensificarsi delle attività antropiche è la progressiva scomparsa di alcune specie autoctone, con risvolti drammatici sugli equilibri ecosistemici a esse associati. I mammiferi, in particolare, sono stati oggetto di importanti diminuzioni, con il 25% delle specie viventi ritenuto oggi a rischio di estinzione.

In un nuovo studio pubblicato sulla rivista Nature Communications, il team di ricercatori coordinato da Michela Pacifici del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin ha confrontato le distribuzioni di un campione rappresentativo di mammiferi terrestri negli anni ‘70 e oggi, riscontrando che circa il 75% di queste ha subito cambiamenti.

I ricercatori hanno inoltre individuato i fattori associati al declino e all’espansione dell’areale, ovvero della superfice normalmente abitata da una specie, includendo tra queste variabili sia quelle di natura antropica sia quelle legate alla biologia delle specie, come il peso e le strategie riproduttive.

“Abbiamo scoperto – spiega Michela Pacifici – che una specie su cinque ha subito contrazioni dell’areale di oltre il 50%. I principali responsabili sembrano essere l’incremento della temperatura globale, la perdita di aree naturali e l’aumento della densità umana, fattori che influiscono soprattutto su specie di grandi dimensioni come il rinoceronte bianco, l’elefante asiatico e l’antilope Addax”.

Comprendere quali variabili siano implicate nel declino dei mammiferi è fondamentale per focalizzare le azioni di conservazione necessarie, specialmente in considerazione delle molteplici minacce alle quali i mammiferi sono soggetti, incluso il cambiamento climatico.

“Studi precedenti – commenta Carlo Rondinini, coautore dello studio e coordinatore del Global Mammal Assessment, una partnership tra Sapienza e l’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn) – evidenziano che le uniche specie in grado di spostarsi abbastanza velocemente per seguire il clima che cambia sono i grandi mammiferi. Da questo studio si evidenzia che proprio i grandi mammiferi hanno maggiormente sofferto l’azione diretta dell’uomo. Resta quindi fondamentale, per evitare la scomparsa dei grandi mammiferi, mettere in atto tutte le misure per consentire il loro spostamento naturale alla ricerca di ambienti adatti”.

Per quanto riguarda l’espansione di areale, i risultati dello studio evidenziano che le specie che ne hanno beneficiato sono in numero inferiore e che le variabili determinanti sono maggiormente legate alle caratteristiche intrinseche, favorendo le specie con tassi riproduttivi veloci, dieta generalista e massa corporea inferiore.

“Questo studio – aggiunge Moreno Di Marco, autore senior dello studio – dimostra ancora una volta che ci sono molte specie di mammiferi che declinano rapidamente in seguito alla pressione antropica, mentre poche specie riescono, per le loro caratteristiche biologiche, ad adattarsi ed eventualmente approfittare del cambiamento globale”.

“I nostri dati – conclude Pacifici – dimostrano che una percentuale elevata di mammiferi, tra cui molte specie carismatiche, sta scomparendo da zone in cui questi erano presenti fino a meno di 50 anni fa. Questo risultato allarmante evidenzia come sia di fondamentale importanza comprendere quali siano i fattori di rischio che hanno portato le specie a estinguersi localmente, in modo tale da agire in maniera proattiva e ridurre il rischio di ulteriori perdite”.

Riferimenti:

Global correlates of range contractions and expansions in terrestrial mammals – Michela Pacifici, Carlo Rondinini, Jonathan R. Rhodes, Andrew A. Burbidge, Andrea Cristiano, James E. M. Watson, John C. Z. Woinarski & Moreno Di Marco – Nature Communications volume 11, Article number: 2840 (2020) https://doi.org/10.1038/s41467-020-16684-w

https://www.nature.com/articles/s41467-020-16684-w 

 

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma