News
Ad
Ad
Ad
Tag

raggi gamma

Browsing

QUEL FOTONE CHE NON SAREBBE MAI DOVUTO ARRIVARE SULLA TERRA: UNA NUOVA INTERPRETAZIONE DI GRB 221009A

Un fotone di altissima energia associato al lampo gamma più potente finora registrato ha messo in crisi l’attuale modello che descrive questi violentissimi eventi celesti. Un gruppo tutto italiano composto da ricercatrici e ricercatori dell’INAF e dell’INFN prova a far luce su questo fotone che non sarebbe mai dovuto arrivare sulla Terra, proponendo un’interpretazione che contempla la presenza di una oscillazione tra fotoni e ALP, ipotetiche particelle previste dalla teoria delle stringhe.

GRB 221009A immagine artistica di un lampo di raggi gamma (GRB). Crediti: ESO/A. Roquette
immagine artistica di un lampo di raggi gamma (GRB). Crediti: ESO/A. Roquette

Un singolo fotone ma talmente energetico da mettere in crisi gli attuali modelli astrofisici sulla propagazione dei raggi gamma.  L’evento nel quale è stato osservato, chiamato BOAT (brightest of all time, ovvero il più luminoso di tutti i tempi), è il lampo di raggi gamma (gamma-ray burst, GRB) GRB 221009A, emesso da una galassia a oltre due miliardi di anni luce da noi e rivelato – da terra e nello spazio – il 9 ottobre 2022. Tra i fotoni gamma di altissima energia intercettati dal rivelatore cinese LHAASO in occasione di questo evento, ce n’era, appunto, uno di addirittura 18 TeV: l’energia più elevata mai registrata da un GRB. Un’interessante interpretazione di questa inaspettata osservazione viene fornita da uno studio interamente italiano, coordinato da INAF Istituto Nazionale di Astrofisica insieme a INFN Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, con autori Giorgio Galanti, Lara Nava, Marco Roncadelli, Fabrizio Tavecchio e Giacomo Bonnoli, pubblicato oggi, 18 dicembre, su Physical Review Letters.

“Pochi minuti dopo aver avuto notizia dell’esplosione – ricorda Giorgio Galanti dell’INAF, primo autore dell’articolo – abbiamo intuito che questo GRB non solo poteva essere un evento astrofisico straordinario ma poteva anche rappresentare un’opportunità unica per studi di fisica fondamentale, in particolare riguardo alle axion-like particles”.

Secondo l’ipotesi avanzata dal gruppo di ricerca, quel fotone così energetico potrebbe essere un ‘fotone trasformista’: capace cioè di cambiare natura, oscillando da una ‘personalità’ all’altra mentre viaggia alla velocità della luce. E le ALP – le axion-like particles, ipotetiche particelle previste dalla teoria delle stringhe candidate per costituire la materia oscura fredda, simili ad altre particelle altrettanto ipotetiche, gli assioni – sarebbero una di queste personalità. Un po’ come Mr. Hyde, una ALP è infatti in grado di compiere azioni che un fotone, il Dr. Jekyll di questa strana storia, non riuscirebbe mai a portare a termine: attraversare indenne la cosiddetta EBL – l’extragalactic background light, la luce di fondo extragalattica, ovvero la luce emessa da tutte le stelle durante l’intera evoluzione dell’universo.

Quando un fotone di alta energia — diciamo superiore a 100 GeV — urta un fotone dell’EBL, c’è una probabilità che si formi una coppia elettrone-positrone, che fa scomparire il fotone di alta energia. E questo effetto diventa progressivamente più importante al crescere sia dell’energia, sia della distanza. Ritornando, quindi, al GRB 221009A, secondo la fisica convenzionale, i fotoni di energia superiore a circa 10 TeV verrebbero completamente assorbiti. Considerando il redshift della sorgente, e dunque l’enorme distanza percorsa dal lampo gamma, i fotoni a energie più elevate in teoria non sarebbero mai stati in grado di giungere fino a noi. Come è allora possibile che LHAASO, unico strumento per la rivelazione dei lampi gamma a non essere andato in saturazione quel 9 ottobre di un anno fa, abbia osservato fotoni del GRB 221009A a energie comprese fra 500 GeV e 18 TeV? È qui che entrano in gioco, appunto, le ALP.

“Secondo la nostra ipotesi, in presenza di campi magnetici, i fotoni si tramutano in ALP e viceversa, — spiega Marco Roncadelli, ricercatore associato all’INFN e all’INAF — rendendo così possibile raggiungere la Terra a un maggior numero di fotoni, perché le ALP sono invisibili ai fotoni del fondo extragalattico”.

Entrando un po’ più nel dettaglio, le ALP si accoppiano a due fotoni, ma non a un singolo fotone. Questo fatto implica che in presenza di un campo magnetico esterno – che, come è ben noto, è costituito da fotoni – si possono avere ‘oscillazioni fotone-ALP’. Queste sono molto simili alle oscillazioni dei neutrini massivi di tipo diverso, con la sola differenza che per le ALP l’esistenza del campo magnetico è essenziale al fine di garantire la conservazione del momento angolare, in quanto il fotone ha spin 1 mentre le ALP hanno spin 0: lo spin mancante o eccedente è compensato dal campo magnetico esterno.

L’oscillazione tra fotoni e ALP per aggirare l’opacità del fondo extragalattico ai fotoni di energia elevata non è un’idea inedita: è una soluzione proposta per la prima volta nel 2007 da Alessandro De Angelis, Oriana Mansutti e Marco Roncadelli. Ed è una soluzione a un problema più generale di quello posto da questo gamma-ray burst. Oltre ai lampi di raggi gamma, ci sono infatti altre sorgenti distanti che emettono fotoni a energie elevatissime eppure in grado di giungere fino a noi, in barba alla fisica standard. Sorgenti come i quasar di tipo FSRQ (flat spectrum radio quasar), dove la componente ‘opaca’ che intralcia la corsa dei fotoni ad alta energia, fino a renderne teoricamente impossibile la fuoriuscita, non è la ELB ma qualcosa di molto simile: un campo di radiazione ultravioletta all’interno della sorgente stessa. O i blazar di tipo BL Lac, il cui spettro – come mostrato da uno studio pubblicato nel 2020 dagli stessi Galanti, Roncadelli e De Angelis insieme a Giovanni F. Bignami – sarebbe in alcuni casi inspiegabile senza ricorrere a un meccanismo che consenta di aumentare la ‘trasparenza cosmica’, riducendo quindi l’assorbimento prodotto dall’EBL.

Fotoni da quasar FSRQ, fotoni da blazar BL Lac e ora fotoni da questo lampo gamma BOAT, dunque. Tutt’e tre apparentemente inconcepibili entro il perimetro della fisica standard. Ma tutt’e tre spiegabili se al posto di ‘semplici’ fotoni ci fossero particelle “Jekyll-Hyde” che oscillano da fotone ad ALP e viceversa. Per dare solidità a questa ipotesi, serviranno altre osservazioni, e saranno per questo di grande aiuto i nuovi osservatori astrofisici per alte energie – primi fra tutti CTA e l’italiano ASTRI – pronti a entrare in funzione nei prossimi anni.

L’articolo Observability of the very-high-energy emission from GRB 221009A di Giorgio Galanti, Lara Nava, Marco Roncadelli, Fabrizio Tavecchio, Giacomo Bonnoli viene pubblicato oggi sulla rivista Physical Review Letters.

 

Testo e immagine dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

Una magnetar appena formata e rapidamente rotante può spiegare in modo dettagliato le diverse fasi dell’emissione dei lampi di raggi gamma

Un team italiano di ricercatori dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e della Stony Brook University (USA) ha dimostrato per la prima volta che una magnetar appena formata e rapidamente rotante, cioè una stella di neutroni con un campo magnetico elevatissimo che ruota su se stessa molte centinaia di volte al secondo, può spiegare in modo dettagliato le diverse fasi dell’emissione dei lampi di raggi gamma, dalla loro violenta accensione fino allo spegnimento definitivo. Questo risultato è stato ottenuto confrontando le previsioni teoriche con un ricco insieme di dati nella banda dei raggi X e gamma. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.

magnetar stella di neutroni lampi di raggi gamma
Resa artistica di una magnetar. Immagine di Robert S. Mallozzi, Università dell’Alabama, Huntsville, e NASA Marshall Space Flight Center”, in pubblico dominio

I lampi di raggi gamma (in inglese Gamma-Ray Burst, o GRB) sono brevi eventi esplosivi tra i più violenti dell’universo, a distanza di miliardi di anni luce da noi. La loro energia viene trasferita in potentissimi getti collimati che emettono la radiazione che osserviamo. Si ritiene che i GRB siano originati nel processo di formazione di un buco nero di massa stellare, in seguito al collasso gravitazionale di una stella alla fine del suo ciclo evolutivo, o alla collisione e fusione di due stelle di neutroni. Negli ultimi anni è stata sviluppata un’altra ipotesi: i GRB, o almeno una frazione rilevante di essi, potrebbero essere prodotti dalla formazione di una magnetar che ruota su sé stessa molte centinaia di volte al secondo. Le magnetar, come le altre stelle di neutroni, hanno una massa simile a quelle del Sole concentrata in un volume dalle dimensioni comparabili con quelle di una grande città, ma posseggono campi magnetici elevatissimi. Scoperte nella nostra Galassia negli anni ‘90 del secolo scorso, sono caratterizzate da un’intensa emissione di origine magnetica in raggi X e gamma, punteggiata da ricorrenti episodi parossistici di breve durata ed enorme luminosità. La loro origine è ad oggi un mistero tra i più studiati nell’astrofisica degli oggetti compatti.

Il nuovo lavoro combina conoscenze acquisite nello studio delle magnetar e delle stelle di neutroni che catturano materia con le principali caratteristiche dei GRB, dimostrando come una magnetar appena formata e rapidamente rotante possa spiegare le proprietà di alcuni tra i GRB più studiati meglio di un buco nero.

Simone Dall’Osso, ricercatore presso l’INFN, associato INAF e primo autore dell’articolo, commenta: “Il nostro studio spiega in modo quantitativo le diverse fasi dell’emissione di un lampo gamma e del suo graduale spegnimento. I processi fisici coinvolti sono gli stessi che operano in altri sistemi contenenti stelle magnetiche in rotazione quali nane bianche, stelle di neutroni ordinarie (non magnetar) ed anche stelle ordinarie in fase di formazione. Applicati ad una magnetar appena formata e rapidamente rotante questi stessi processi portano al rilascio di enormi quantità di energia in tempi brevissimi, con segni distintivi identificabili”.

Giulia Stratta, ricercatrice INAF, associata INFN e membro del cluster di ricerca ELEMENTS presso la Goethe University di Francoforte, aggiunge “Per poter fornire una spiegazione organica delle diverse fasi dei lampi gamma, è stato necessario basarsi sui GRB per i quali abbiamo le informazioni più complete da osservazioni in banda ottica, X e gamma. Si tratta di una dozzina di casi in tutto, frutto di un lungo lavoro di ricerca tra molte centinaia”.

Lo scenario teorizzato nel lavoro del team italiano suggeriscew che, in una prima fase, la magnetar cattura parte della materia che ancora sta cadendo a seguito del collasso gravitazionale o della collisione tra stelle di neutroni. Questo genera la parte iniziale e più brillante del GRB, liberando un’enorme quantità di energia gravitazionale in poche decine di secondi. Quando l’afflusso di materia diminuisce, la rotazione del campo magnetico della magnetar inizia a respingere la materia stessa fiondandola via – un po’ come un’elica che gira – e una quantità via via più piccola di energia gravitazionale viene rilasciata, causando un graduale calo della luminosità. Infine, quando non vi è più materia che cade, la magnetar si comporta come una stella di neutroni isolata e dissipa progressivamente la sua energia rotazionale.

Secondo Rosalba Perna, professore ordinario presso la Stony Brook University e co-autore dello studio, “questo risultato getta una nuova luce su due misteri cosmici, suggerendo un probabile legame tra di essi: ‘che cos’è che produce un lampo gamma?’ e ‘dove si formano le magnetar e in quali speciali condizioni, tali da differenziarle dalle altre stelle di neutroni?’“.

Luigi Stella, dirigente di ricerca presso l’INAF di Roma e autore anch’egli dello studio, sottolinea che: “appena formate le magnetar, come anche i buchi neri di massa stellare, possono essere motori astrofisici di eccezionale potenza, capaci di alimentare l’emissione dei lampi gamma, ma anche di generare forti onde gravitazionali, come abbiamo dimostrato in alcuni studi precedenti”.

“Nel prossimo futuro” conclude Dall’Osso “un’ulteriore e definitiva conferma della formazione di una magnetar potrà venire proprio  dalla rivelazione di un segnale in onde gravitazionali”.


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “Magnetar central engines in gamma-ray bursts follow the universal relation of accreting magnetic stars”, di Simone Dall’Osso, Giulia Stratta, Rosalba Perna, Giovanni De Cesare e Luigi Stella, è stato pubblicato su pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.

Testo dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

CON HUGO SCOPRIREMO I LAMPI GAMMA AGLI ALBORI DELL’UNIVERSO

In un articolo pubblicato ieri sulla rivista Nature Astronomy, un team internazionale guidato da ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) presenta un metodo per scovare i lampi di raggi gamma (GRB, dall’inglese gamma-ray burst) lontanissimi, sfruttando osservazioni combinate nella luce visibile e nel vicino infrarosso. I GRB sono fenomeni transienti impulsivi al centro di continue rivoluzioni scientifiche e l’INAF è impegnato sia sul piano osservativo-interpretativo che con la partecipazione a grandi missioni dallo spazio per rilevarli e studiarli. L’idea dei ricercatori è quella di costruire HUGO (High-redshift Universe GRB Observatory), un telescopio specificamente progettato e ideato per dare la caccia a GRB lontani nello spazio e quindi anche nel tempo, che potrebbero essere avvenuti anche oltre 13 miliardi di anni fa.

Con HUGO scopriremo i lampi gamma agli albori dell'universo: nell'immagine un GRB
Con HUGO scopriremo i lampi gamma agli albori dell’universo: nell’immagine un GRB

Ricerche con strumenti sempre più avanzati, come quelle effettuate con il telescopio spaziale James Webb della NASA, hanno permesso di scoprire e studiare galassie sempre più lontane arrivando fino all’alba dell’Universo. Queste galassie, la cui luce appare “arrossata” per effetto dell’espansione dell’Universo (il cosiddetto redshift, o spostamento verso il rosso), sono però molto deboli e difficili da studiare in dettaglio. Ecco allora che diventano decisivi in queste indagini i lampi gamma, esplosioni che rilasciano getti di materia con velocità prossime a quelle della luce. Si tratta di eventi incredibilmente energetici, che osserviamo come lampi estremamente luminosi nelle frequenze dei raggi gamma, così intensi da sopraffare qualsiasi altra sorgente di alta energia nel cielo. I lampi gamma della durata di qualche secondo o più sono associati all’esplosione di una stella di massa superiore ad almeno una decina di volte quella del Sole, giunta alla fine del suo ciclo evolutivo. Dopo la fase esplosiva iniziale, i GRB sono caratterizzati da una fase di declino, della durata di qualche giorno, chiamata afterglow, durante la quale sovrastano in luminosità la galassia che li ospita anche di 100 volte.

Per trovare GRB ad altissimo redshift, emesso in un’epoca in cui l’universo aveva un’età inferiore a un miliardo di anni, i ricercatori propongono di

“costruire un telescopio infrarosso con lo stesso grande campo di vista del Vera Rubin Observatory (VRO), che è un telescopio di 8,4 metri di diametro in fase avanzata di costruzione da parte di un consorzio americano in Cile. Questo nuovo telescopio, che noi abbiamo chiamato HUGO, dovrebbe avere un diametro di 3 o 4 metri e osservare esattamente gli stessi campi di VRO, allo stesso tempo (in tandem). Le sorgenti transienti rivelate con questo telescopio, e ‘non’ rivelate da VRO, sono con grande probabilità, GRB ad alto/altissimo redshift. Abbiamo stimato che si potrebbero osservare circa 10 GRB avvenuti oltre 12,8 miliardi di anni fa (con un valore di redshift maggiore di 6) e addirittura qualcuno emesso anche 13,2 miliardi di anni fa, quindi circa 500 milioni di anni dopo il Big Bang (ovvero con un valore di redshift maggiore di 10)”, spiega Sergio Campana, primo autore dell’articolo e ricercatore presso l’INAF di Milano “e la nostra tecnica apre le porte allo studio della reionizzazione e dell’evoluzione chimica dell’universo primordiale. Con un po’ di fortuna si potrebbero anche rivelare le primissime stelle che si sono accese”.

Rilevare lampi di raggi gamma così lontani nell’Universo è difficile: basti pensare che il satellite Swift, in quasi 18 anni di attività in orbita, ne ha scovati “solo” 9. Perché? I GRB lontani sono deboli e sono difficili da rivelare con i satelliti sensibili alla radiazione di alta energia. Una volta rivelati poi è difficile capire se provengano davvero dall’universo lontano o se non siano semplicemente dei GRB deboli nell’universo vicino.

“Questo è il punto: distinguere i GRB intrinsecamente deboli (e quindi vicini) da quelli deboli, perché lontani. L’Universo è opaco alla radiazione ottica proveniente da oggetti ad alto redshift, a causa dell’assorbimento dell’idrogeno lungo la linea di vista, e questo ci aiuta: per un GRB ad alto redshift non si vedrà nessun afterglow nelle immagini ottiche, mentre sarà rilevabile nelle immagini infrarosse, dove l’assorbimento dell’idrogeno è ininfluente. La condizione necessaria è che esista un potente telescopio a grande campo che possa osservare il cielo in banda ottica e in profondità. Quindi, transienti impulsivi visti in infrarosso e non visti in ottico sono candidati molto forti per provenire dall’universo lontano” aggiunge il ricercatore”.

E sottolinea: “La condizione necessaria per applicare la nostra idea è che esista un potente telescopio a grande campo che possa osservare il cielo in banda ottica in profondità, in modo da escludere i GRB vicini e deboli. Se si osserva un transiente infrarosso e alla stessa posizione e allo stesso tempo non si vede nulla, è fatta: abbiamo un convincente candidato GRB ad alto redshift. Questo telescopio ottico ora esiste: VRO. Sulle spalle di questo gigante si potrebbe costruire un telescopio infrarosso che ci apra le porte dell’universo primordiale”.

Gli esperti sostengono che l’astronomia infrarossa da terra con un telescopio medio-piccolo possa essere un modo economico e competitivo per studiare gli albori dell’Universo, al pari di costose e complesse missioni spaziali presenti e future. Campana conclude:

“Questa tecnica permette di puntare il dito in cielo e dire a tutti i grandi strumenti presenti e futuri (JWST, ELT, SKA, Athena): guardate là, in quel punto esatto c’è una delle prime galassie ‘normali’ che si sia formata nell’Universo lontano”.


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo Finding high-redshift gamma-ray bursts in combined near-infrared and optical surveys, di S. Campana et al., è stato pubblicato online sulla rivista Nature Astronomy.

Testo e immagine dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)