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Proceedings of the National Academy of Sciences

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Le piante delle Alpi in fuga dal caldo

Pubblicato su «PNAS» lo studio dell’Università di Padova e della Fondazione Museo Civico di Rovereto in cui si dimostra come la maggioranza delle piante delle Alpi nord orientali italiane si sposta verso quote più alte come risposta ai cambiamenti climatici. Il Bromus erectus, ad esempio, negli ultimi trent’anni si è spostato con una velocità di circa 3 metri l’anno. Il Sorghum halepense, una specie aliena, si è spostato con una velocità di 4 metri l’anno. Diverso è il caso della Pulsatilla montana, specie rara, che ha retratto la sua distribuzione storica di circa 50 metri nei trent’anni. Le piante aliene, soprattutto negli ambienti antropizzati, sono molto veloci a crescere e sottraggono le risorse alle altre specie autoctone.

È stata pubblicata sulla rivista internazionale «Proceedings of the National Academy of Sciences» (PNAS) la ricerca dal titolo “Red-listed plants are contracting their elevational range faster than common plants in the European Alps” firmato dal professor Lorenzo Marini e dalla dottoressa Costanza Geppert del Dipartimento di Agronomia, Animali, Alimenti, Risorse naturali e Ambiente dell’Università di Padova insieme ad Alessio Bertolli e Filippo Prosser, botanici della Fondazione Museo Civico di Rovereto, sulle variazioni della distribuzione geografica delle piante alpine in base ai cambiamenti a lungo termine delle temperature.

Lo studio ha monitorato non solo la presenza, ma anche la tipologia (autoctona comune, autoctona rara e aliena) della flora situata sulle Alpi Nord-orientali italiane: in questi tre decenni vi è stato uno spostamento verso quote più alte delle popolazioni di piante. Eppure la distribuzione delle specie autoctone rare non si è espansa verso l’alto in concomitanza con i cambiamenti climatici, ma si è, anzi, contratta. Infine le piante aliene, invece, si sono diffuse rapidamente a quote più alte spostandosi con la stessa velocità del riscaldamento climatico pur mantenendo la loro presenza anche a valle.

ALPI LE PIANTE IN FUGA DAL CALDO
Papaveri. Credits: Paolo Paolucci

La pubblicazione, frutto della collaborazione di Lorenzo Marini e Costanza Geppert dell’Università di Padova con Filippo Prosser e Alessio Bertolli, esperti botanici della Fondazione Museo Civico di Rovereto, dimostra che la flora alpina vive un profondo mutamento. Alcune popolazioni di piante, per effetto del cambiamento climatico, sono sottoposte a temperature troppo alte per la loro sopravvivenza. Per questa ragione alcune specie “migrano” a quote più alte, dove si trovano condizioni termiche più fredde.

Tuttavia non è solo l’innalzamento della temperatura a sconvolgere la flora alpina, anche l’attività dell’uomo ha un importante impatto poiché a valle si concentrano le attività antropiche e vi è maggiore è una pressione sull’ambiente.

Il paesaggio alpino ha subito importanti trasformazioni negli ultimi anni: sono aumentate a valle le aree urbane o agricole e, parallelamente, sono stati abbandonati i prati semi-naturali – non sfruttabili da un’agricoltura sempre più intensiva – a quote intermedie.

Le piante delle Alpi in fuga dal caldo: Pulsatilla montana. Credits: Paolo Paolucci

Come è stata calcolata la velocità di risalita? Per prima cosa si è stimata, per ogni specie, la distribuzione di densità (probabilità) in cui si verificava il fenomeno. Il margine caldo è stato collocato nel 10% (quantile) della distribuzione, quello freddo nel restante 90%. Lo spostamento è stato misurato raffrontando (in sottrazione) i quantili storici del periodo 1990-2004 da quelli attuali 2005-2019.

Per specie aliena si intende una qualsiasi specie vivente (nel nostro caso vegetale) che, a causa dell’azione dell’uomo (accidentale o deliberata), si trova ad abitare e colonizzare un territorio diverso dal suo areale di origine, autosostenendosi riproduttivamente nel nuovo sito. In particolare, nel studio, sono state considerate aliene le specie consolidate introdotte dall’uomo in Europa da un altro continente dopo il XVI secolo. Come specie aliena, il Sorghum halepense, negli ultimi trent’anni, ha spostato il margine freddo della sua distribuzione verso quote più elevate con una velocità di circa 4 metri l’anno.

Le specie comuni, quelle autoctone non inserite nella lista rossa IUCN (organismo mondiale che monitora lo stato del mondo naturale e propone misure necessarie per la sua salvaguardia), si sono spostate verso quote più elevate. Questo movimento, però, non è stato omogeneo. Un esempio può essere il Bromus erectus che si è spostato di circa 3 metri l’anno al margine freddo e 5 metri l’anno al margine caldo, restringendo, quindi, la sua distribuzione totale. La Pulsatilla montanaspecie rara, non ha conquistato quote più elevate ma ha, anzi, retratto la sua distribuzione storica di circa 50 metri.

Costanza Geppert
Costanza Geppert

«In ecologia è raro poter esaminare dati con una buona risoluzione spaziale e temporale. In questo studio abbiamo potuto analizzare i cambiamenti di distribuzione di più di un milione di record di 1.479 specie alpine in un periodo di trent’anni – spiega Costanza Geppert, prima autrice dello studio –. I valori sono stati registrati con dei rilievi floristici in campo dal team di botanici della Fondazione Museo Civico di Rovereto che ha mappato per più di trent’anni le specie presenti nella provincia di Trento.Dalla nostra analisi sono emersi risultati allarmanti: le piante rare sono in diminuzione».

Lorenzo Marini
Lorenzo Marini

«La rapida perdita delle aree di distribuzione specifica delle piante rare si è verificata in zone in cui le attività umane e le pressioni ambientali sono elevate. Questo ci suggerisce che bisognerebbe proteggere anche alcune aree a valle e non solo le zone d’alta quota più remote – afferma Lorenzo Marini, coordinatore dello studio –. Quello che abbiamo fatto è stato misurare l’abilità a competere, anche con l’uomo, delle specie vegetali. Le piante aliene in condizioni di disturbo – per fertilizzazione, rimozione della vegetazione residente per la costruzione di una casa, una strada o un parcheggio – sono molto veloci a crescere e sfruttare le risorse presenti, sottraendole alle altre specie autoctone. Dal nostro studio è emerso che proprio nelle aree più antropizzate e disturbate le piante aliene sono particolarmente abili a competere con le altre specie».

«Sono numerose le specie floristiche minacciate legate agli ambienti agricoli tradizionali e a prati e pascoli – osservano Filippo Prosser e Alessio Bertolli, botanici esperti della Fondazione Museo civico di Rovereto che hanno coordinato i rilievi di campo in Trentino –. Le zone aperte rischiano di scomparire poiché nelle aree più acclivi e scomode sono in fase di abbandono, mentre in quelle pianeggianti vicino alle strade sono soggette a sempre più eccessive concimazioni e pascolamenti, che determinano una banalizzazione della componente floristica. Il pericolo è perdere specie davvero uniche e preziose per la biodiversità delle nostre Alpi».

Link alla ricerca: https://www.pnas.org/doi/10.1073/pnas.2211531120

Titolo: “Red-listed plants are contracting their elevational range faster than common plants in the European Alps” – «PNAS» 2023

Autori: Costanza Geppert, Alessio Bertolli, Filippo Prosser, Lorenzo Marini.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Padova.

L’EFFETTO FLIPPER DEGLI ATOMI ESPOSTI AI RAGGI X: ALCUNI VETRI DIVENTANO FLUIDI

Lo studio pubblicato su «PNAS» dal team di ricerca guidato dall’Università di Padova mostra, per la prima volta, come gli atomi di alcuni vetri, esposti a raggi X, si spostano in risposta a tante piccole “molle cariche” che si accendono in maniera casuale nel materiale. L’effetto medio è che gli atomi si muovono con una serie di accelerazioni improvvise, un po’ come biglie in un flipper. La ricerca mostra una possibile nuova strategia per modificare, e dunque alla fine controllare, le proprietà fisiche dei vetri.

Un vetro può essere realizzato raffreddando rapidamente un liquido – si pensi ad un comune oggetto di vetro ottenuto per raffreddamento del fuso. In conseguenza di questa procedura, nello stato vetroso gli atomi si trovano in una forma disordinata, come in un liquido. A differenza di quest’ultimo, però, la loro configurazione resta pressoché fissa, vale a dire che gli atomi sono vincolati alla loro posizione di equilibrio e possono spostarsi all’interno del materiale solo in tempi estremamente lunghi (comunque troppo estesi anche per un osservatore molto paziente). Recentemente si è rilevato che, esponendo i vetri a un fascio di raggi X di intensità sufficiente, è possibile indurre spostamenti degli atomi all’interno dei vetri: sottoposti ai raggi X i vetri fluiscono, come i liquidi.

L’origine di questo fenomeno è ancora dibattuta e la ricerca dal titolo “Stochastic atomic acceleration during the X-ray-induced fluidization of a silica glass” pubblicata su «PNAS», nata da una collaborazione del Dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Padova con Istituto di Fisica dell’Università di Amsterdam, centro di ricerca DESY di Amburgo e Dipartimento di Fisica dell’Università di Trento, getta nuova luce su come gli atomi, esposti a raggi X, possano spostarsi all’interno della struttura disordinata del vetro su distanze altrimenti irraggiungibili in tempi così brevi.

«Con una serie di misure eseguite con una tecnica nota come spettroscopia di correlazione di fotoni X (XPCS) e realizzate nel sincrotrone PETRA III del centro di ricerca DESY ad Amburgo – afferma Francesco Dallari, ricercatore post-doc del Dipartimento di Fisica ed Astronomia dell’Università di Padova –  è stato possibile tracciare questi spostamenti a partire dalla scala interatomica che è dell’ordine dell’angstrom, pari ad un decimilionesimo di millimetro, fino a distanze di svariate centinaia di angstrom, per intenderci della dimensione di un coronavirus».

Francesco Dallari
Francesco Dallari

La dinamica osservata segue le leggi di quello che viene definito “iper-trasporto”, ossia un tipo di moto dove la distanza percorsa dagli atomi aumenta col passare del tempo più rapidamente non solo di quanto non avvenga in una semplice diffusione (si pensi ad una goccia di caffè che si estende in una tazza di latte) ma addirittura di quanto non avvenga quando una particella si muove a velocità costante in una certa direzione.

«In pratica – spiega il Professor Giulio Monaco del Dipartimento di Fisica ed Astronomia dell’Università di Padova – i raggi X che raggiungono il vetro generano dei difetti all’interno del materiale. Questi inducono dei campi di forza che si comportano come delle molle compresse che a loro volta spostano gli atomi vicini fino a distanze dell’ordine di centinaia o migliaia di angstrom».

Giulio Monaco atomi flipper
Giulio Monaco

Quando, dopo un sufficiente irraggiamento, questi difetti diventano densi (abbastanza numerosi), gli atomi si spostano in risposta a tante piccole molle cariche che si “accendono” in maniera casuale nel materiale. L’effetto medio è che gli atomi si muovono con una serie di accelerazioni improvvise, un po’ come palline in un flipper: una traiettoria caratterizzata da tanti spostamenti brevi intervallati da spostamenti sorprendentemente lunghi seguendo una distribuzione di probabilità nota come distribuzione di Lévy.

Questo tipo di distribuzione di spostamenti è osservata in una classe di situazioni molto diverse fra loro: dalla materia interstellare accelerata da campi magnetici distribuiti in maniera casuale, fino alle migrazioni di animali o al trasporto di persone.

Le particelle, quindi, si muovono eseguendo piccoli passi e spostandosi di poco, ma hanno sempre una certa probabilità di eseguire improvvisamente un salto estremamente lungo che le trasporta in una nuova regione dello spazio dove eseguono di nuovo piccoli passi per poi spostarsi nuovamente in un’altra regione completamente diversa. Per analogia si può pensare ad un turista: visita una città muovendosi a piedi, poi prende un aereo, cambia nazione e metropoli e ricomincia a spostarsi a piedi. Questo tipo di dinamica è stata osservata, come si è detto, in molti sistemi su scale estremamente disparate, ma viene osservata, come riportato dallo studio, per la prima volta in un sistema compatto come un vetro per effetto di forze interatomiche.

Questa ricerca mostra dunque una possibile nuova strategia per modificare, e dunque alla fine controllare, le proprietà fisiche dei vetri.

Link alla ricerca: https://www.pnas.org/doi/10.1073/pnas.2213182120

Titolo: “Stochastic atomic acceleration during the X-ray-induced fluidization of a silica glass” – «PNAS» 2023

Autori: Francesco Dallari, Alessandro Martinelli, Federico Caporaletti, Michael Sprung, Giacomo Baldi, Giulio Monaco

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Padova

DALL’UNIVERSITÀ DI TORINO UNA NUOVA MOLECOLA CHE RALLENTA LA PROGRESSIONE DELL’ATROFIA MUSCOLARE SPINALE (SMA)

 Una ricerca dell’Università di Torino, pubblicata sulla prestigiosa rivista americana Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), ha recentemente dimostrato come una piccola molecola sintetica chiamata MR-409, sia capace di rallentare la progressione della SMAl’Atrofia Muscolare Spinale (SMA).

Il trattamento con MR-409 ha migliorato l’innervazione dei muscoli scheletrici

L’Atrofia Muscolare Spinale (SMA) è una malattia neuromuscolare rara dell’infanzia, caratterizzata dalla perdita dei motoneuroni, le cellule nervose che trasportano i segnali dal sistema nervoso centrale ai muscoli, controllandone il movimento. La SMA, che ha un’incidenza di circa 1 su 10.000 nati vivi, provoca debolezza, atrofia muscolare progressiva e complicazioni respiratorie. È causata da mutazioni del “gene per la sopravvivenza del motoneurone” e conseguente carenza della proteina SMN (Survival Motor Neuron), essenziale per la sopravvivenza e il normale funzionamento dei motoneuroni.

Fino a poco tempo fa, il trattamento della SMA era esclusivamente sintomatico, finalizzato a migliorare la qualità di vita dei pazienti. Oggi, invece, sono stati approvati nuovi farmaci in grado di incrementare la produzione di proteina SMN funzionale, ma non sono ancora considerati come cura definitiva per la SMA.

Uno studio dell’Università di Torino, coordinato dalla Prof.ssa Riccarda Granata, della Divisione di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo (diretta dal Prof. Ezio Ghigo) del Dipartimento di Scienze Mediche e dal Prof. Alessandro Vercelli, direttore del NICO – Neuroscience Institute Cavalieri Ottolenghi, Dipartimento di Neuroscienze, ha recentemente dimostrato come una piccola molecola sintetica chiamata MR-409, analoga del growth hormone-releasing hormone (GHRH, neurormone che stimola il rilascio dell’ormone della crescita), sia capace di rallentare la progressione della SMA.

Nuova ricerca dell'Università di Torino: una nuova molecola, MR-409, rallenta la progressione dell'Atrofia Muscolare Spinale (SMA)
La somministrazione di MR-409 ha significativamente contrastato l’atrofia muscolare

MR-409 è prodotta a Miami nel laboratorio del Prof. Andrew Viktor Schally, Premio Nobel per la Medicina e co-autore del lavoro. Nello specifico, i ricercatori che hanno condotto lo studio, la Prof.ssa Marina Boido, il Dr. Iacopo Gesmundo e la Dr.ssa Anna Caretto, hanno evidenziato come MR-409 sia in grado di migliorare le funzioni motorieattenuare l’atrofia muscolare e promuovere la maturazione delle giunzioni neuromuscolari in un modello sperimentale di SMA. Inoltre, MR-409 contrasta la perdita dei motoneuroni e riduce l’infiammazione nel midollo spinale. Questi risultati suggeriscono che MR-409 possa rappresentare un potenziale farmaco, in associazione ad altre terapie, nel trattamento della SMA.

molecola rallenta atrofia muscolare spinale SMA MR-409
MR-409, migliorando l’innervazione ed il trofismo muscolare, ha anche contribuito a rallentare la degenerazione dei motoneuroni spinali (mostrati in verde)

Lo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista americana Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), è il risultato di una collaborazione tra il gruppo di neuroscienziati, da anni impegnati nella ricerca sulla SMA, ed il gruppo di endocrinologia cellulare e molecolare, che insieme al Prof. Schally ed i suoi collaboratori, ha dimostrato già in precedenza gli effetti protettivi degli analoghi del GHRH, anche a livello cardiaco e muscolare. Pur non essendo ancora disponibili per uso umano, sono in corso ulteriori studi per l’autorizzazione di queste sostanze per uso clinico, definite “agonisti” del GHRH, così come degli “antagonisti”, promettenti farmaci antitumorali, già studiati nel mesotelioma pleurico maligno e nei tumori ipofisari.

Testo e immagini dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino sulla molecola MR-409, che rallenta la progressione dell’Atrofia Muscolare Spinale (SMA).

SIAMO “CIÒ CHE MANGIAMO” MA NON SIAMO “DOVE VIVIAMO”

Uno studio di ricercatori dell’Università di Torino, Trieste e Padova – pubblicato su PNAS – ha esaminato le preferenze alimentari di sei popolazioni lungo l’antica Via della seta e ha scoperto come le nostre scelte, più che dal luogo dove siamo nati o abitiamo, dipendono maggiormente dal sesso biologico, dall’età e da altri fattori culturali.

Gli studi genetici degli ultimi 20 anni hanno ampiamente dimostrato che, tra le popolazioni di tutto il mondo, la maggior parte delle differenze genetiche si riscontrano a livello individuale piuttosto che a livello di popolazione. Due individui presi a caso nella stessa popolazione tendono infatti a essere geneticamente più diversi l’uno dall’altro rispetto alla differenza media fra due popolazioni distinte. Si può dire la stessa cosa anche se si parla di stile di vita e cultura?

In un recente articolo pubblicato sulla rivista scientifica PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences) da ricercatori delle Università di TorinoTrieste e Padova, gli autori hanno indagato la questione utilizzando le abitudini alimentari come una possibile fonte di differenze culturali fra individui. In particolare, hanno esaminato le preferenze alimentari relative a 79 diversi alimenti in sei popolazioni lungo la Via della seta, l’antica rotta commerciale che si estende attraverso tutta l’Asia centrale.

Abbiamo scoperto che la preferenza per alcuni cibi era informativa della preferenza per altri cibi, o che, in altre parole, le preferenze alimentari possono essere descritte combinando un numero discreto di ‘profili alimentari’”, ha affermato il Prof. Luca Pagani, autore senior dello studio, professore associato in Antropologia Molecolare presso l’Università di Padova.

Luca Pagani
Luca Pagani

Inaspettatamente, i profili così individuati non sono tipici di un determinato villaggio o nazione, ma sono invece legati ad altre caratteristiche degli individui partecipanti come la loro età, il sesso e altre scelte culturali. Questo naturalmente con qualche eccezione, rappresentata da alcuni alimenti disponibili solo in determinati Paesi: tra questi spiccano alcuni prodotti locali, come il “sulguni”, un formaggio in salamoia tipico della Georgia ed il “kurut”, un alimento diffuso tra le popolazioni nomadi dell’Asia centrale a base di yogurt essiccato.

I ricercatori hanno verificato che solo il 20% delle abitudini alimentari sono legate al Paese di origine, un valore piuttosto alto se confrontato con la sua controparte genetica (1%) ma ancora non sufficiente a spiegare le differenze osservate, nonostante le migliaia di chilometri che separano le aree geografiche oggetto di studio.

Siamo ciò che mangiamo ma non siamo dove viviamo

I ricercatori hanno poi condensato le differenze nella composizione genetica e nelle preferenze alimentari tra i Paesi in distanze “genetiche” e “alimentari”, e le hanno confrontate con le distanze geografiche reali tra i luoghi di campionamento, rappresentandole insieme in una mappa. Da essa emerge che la “localizzazione culturale” è leggermente più simile a quella geografica, rispetto a quella “genetica” per i gruppi analizzati (Figura 1), coerentemente con quanto emerso dal resto dei risultati.

Non importa dove viviamo o dove siamo nati. Le nostre scelte (almeno quelle legate all’alimentazione) dipendono maggiormente dal sesso biologico, dall’età e da altri fattori culturali”, ha concluso la dott.ssa Serena Aneli, prima autrice dello studio, ricercatrice del Dipartimento di Scienze della Sanità Pubblica e Pediatriche dell’Università di Torino.

Serena Aneli
Serena Aneli

Informazioni

Titolo dell’articolo: “The impact of cultural and genetic structure on food choices along the Silk Road”

Autori: Serena Aneli, Massimo Mezzavilla, Eugenio Bortolini, Nicola Pirastu, Giorgia Girotto, Beatrice Spedicati, Paola Berchialla, Paolo Gasparini, Luca Pagani

LINK: https://www.pnas.org/cgi/doi/10.1073/pnas.2209311119

 

Testo e immagini dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino

API E NUMERI

La figurazione spaziale dei numeri è una rappresentazione di natura biologica comune a sistemi nervosi con origini evolutive distanti

Gli insetti si rappresentano i numeri in ordine crescente, i più piccoli a sinistra e quelli più grandi a destra: lo dimostra lo studio pubblicato su PNAS che vede coinvolti ricercatori delle università di Padova, Tolosa e Losanna coordinati da Rosa Rugani del Dipartimento di Psicologia Generale dell’Ateneo patavino

 

Esattamente come gli esseri umani, anche le api ordinano le numerosità crescenti da sinistra verso destra. Noi infatti rappresentiamo (Linea Numerica Mentale) i numeri nello spazio, i più piccoli a sinistra e i più grandi a destra, e l’orientamento di questa linea mentale dipende sicuramente da fattori sociali e culturali, come testimonia l’esistenza, in una minoranza di società, di una direzionalità opposta (da destra verso sinistra) rispetto a quella, prevalente, occidentale.

Recentemente un ordinamento spaziale dei numeri è stato dimostrato anche in varie specie animali come i macachi e i pulcini di pollo domestico. Una questione cruciale rimane tuttavia capire l’origine di un’associazione numerica spaziale, orientata da sinistra a destra, piuttosto che da destra a sinistra, nei vertebrati (umani e animali) e negli invertebrati, malgrado la considerevole riduzione nella dimensione del cervello e nel numero dei neuroni.

La ricerca dal titolo “An insect brain organizes numbers on a left-to-right mental number line” pubblicata sulla rivista «PNAS» dimostra che la figurazione spaziale dei numeri è una rappresentazione di natura biologica comune a sistemi nervosi con origini evolutive distanti. Il comportamento di scelta osservato nelle api, dotate di un “micro-cervello”, evidenzia la convergenza delle strategie di elaborazione numerica che esistono tra cervelli di diverse complessità nonostante le differenze evolutive.

La ricerca

L’ape mellifera è dotata di spiccate abilità di orientamento spaziale e di conteggio simili ad alcuni vertebrati. Rimaneva tuttavia un mistero se questi piccoli invertebrati orientassero i numeri nello spazio in ordine crescente come fanno gli esseri umani con la Linea Numerica Mentale.

Dopo avere addestrato le api a trovare del cibo (una soluzione zuccherina) in prossimità di un’immagine raffigurante 3 figure posta davanti a loro, i ricercatori hanno osservato la reazione delle api davanti a due immagini, del tutto identiche: una posta a sinistra e l’altra a destra. Entrambe le immagini raffiguravano lo stesso numero di figure in numero però diverso da 3 (che era l’entità numerica appresa durante l’addestramento). Nel primo esperimento le due immagini raffiguravano entrambe una figura, nel secondo ne raffiguravano cinque.

Di fronte a un numero più piccolo di figure, per intenderci quello con numerosità pari a uno, le api cercavano il cibo in prossimità dell’immagine di sinistra, mentre quando il numero di figure era maggiore di tre, nel nostro caso cinque, le api si dirigevano verso destra. Una serie di esperimenti di controllo hanno evidenziato come sia la numerosità a determinare l’associazione con lo spazio e non la quantità di area, perimetro o densità delle immagini.

In un esperimento cruciale, si sono selezionati due gruppi di api: uno è stato addestrato a trovare il cibo in prossimità di un’immagine centrale raffigurante una singola figura, l’altro gruppo è stato addestrato con cinque figure.

Quando le api sono state poste di fronte a due pannelli raffiguranti tre figure, quelle addestrate con una figura si sono dirette verso destra, mentre quelle addestrate con cinque figure si sono dirette a verso sinistra. È interessante notare come lo stesso numero (il 3) diriga il comportamento verso destra con api addestrate con una singola figura o verso sinistra per quelle addestrate con cinque figure.

In altre parole, se le api vedono una numerosità più piccola di quella iniziale vanno verso sinistra e quando ne vedono una più grande vanno a destra. Inoltre, la grandezza di un numero è relativa e dipende dal confronto con il numero osservato durante addestramento.

Api e numeri
Api e numeri

Le api hanno una MNL (pdf)

«La dimostrazione che le api dispongano i numeri piccoli a sinistra e numeri grandi a destra evoca la famosa Linea Numerica Mentale umana, dove i numeri sono rappresentati in ordine crescente da sinistra a destra – dice Rosa Rugani del Dipartimento di Psicologia Generale dell’Università di Padova e team leader della sperimentazione –. I nostri risultati mostrano che l’associazione tra spazio e numerosità è coerente tra varie specie, compresi gli esseri umani, supportando l’ipotesi di una rappresentazione numerica radicata nell’organizzazione dei sistemi nervosi lateralizzati in cui i due emisferi elaborano informazioni in modo differente. La direzione di mappatura da sinistra a destra durante l’evoluzione potrebbe essere stata imposta dall’asimmetria cerebrale. Tale caratteristica comune e antica, che si verifica in una vasta gamma di vertebrati e invertebrati, può aver aiutato diverse specie a elaborare meglio diversi tipi di informazioni. La ricerca – conclude Rugani – suggerisce che la capacità di ordinare i numeri spazialmente sia probabilmente emersa in diverse specie, esibendo asimmetrie nell’elaborazione delle informazioni tra l’emisfero sinistro e destro del cervello. Questo studio indica che la predisposizione a mappare i numeri nello spazio in ordine crescente sia incorporata nell’architettura dei sistemi neurali degli organismi, indipendentemente dalla loro complessità».

La ricerca è stata supportata da un progetto Marie Curie Global (European’s Union Horizon 2020 Research and Innovation program under the Marie Sklodowska-Curie Grant/Award Number: SNANeB_795242)

Rosa Rugani
Rosa Rugani, team leader della sperimentazione su api e numeri

Rosa Rugani è ricercatrice al Dipartimento di Psicologia Generale dell’Università degli Studi di Padova e da oltre un decennio studia le basi biologiche dei processi cognitivi.  Dopo la laurea e il dottorato di ricerca conseguiti all’Università degli Studi di Padova, la sua attività di ricerca è proseguita principalmente al Dipartimento di Psicologia Generale dello stesso Ateneo, comprendendo vari periodi di formazione al Centro Interdipartimentale Mente/Cervello dell’Università di Trento e al Center for Avian Cognition dell’Università del Saskatchewan in Canada, Center for Cognitive Neuroscience della Duke University a Durham in North Carolina,  USA, Department of Psychology, University of Potsdam, Potsdam, Germany e Department of Psychology, University of Pennsylvania, Philadelphia, PA, United States. Ha pubblicato su numerose prestigiose riviste internazionali e il suo lavoro ha suscitato l’interesse in particolare per quanto concerne il suo innovativo contributo al progresso della conoscenza inerente la questione dell’origine e delle basi biologiche delle abilità matematiche nei modelli animali.

Link alla ricercahttps://www.pnas.org/doi/10.1073/pnas.2203584119

Titolo: “An insect brain organizes numbers on a left-to-right mental number line” – PNAS 2022

Autori: Martin Giurfa, Claire Marcout, Peter Hilpert, Catherine Thevenot and Rosa Rugani

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Padova sullo studio su api e numeri

Cambiamenti climatici e deforestazione instradano i primati verso un nuovo stile di vita
Uno studio internazionale a cui ha preso parte la Sapienza ha analizzato i fattori ecologici ed evolutivi che spingono scimmie e lemuri che vivono sugli alberi a terra. La ricerca condotta su larga scala nei primati di 3 continenti, è stata pubblicata sulla rivista PNAS.

Uno studio internazionale su 47 specie di scimmie e lemuri ha evidenziato come i cambiamenti climatici e le deforestazioni interferiscano sullo stile di vita dei primati. L’influenza dei cambiamenti ambientali porta molti di questi animali, che vivono normalmente sugli alberi, a cambiare le proprie abitudini, spingendoli a scendere a terra, dove sono più esposti a fattori di rischio come la mancanza di cibo, i predatori, la presenza dell’uomo e degli animali domestici.

Lo studio, pubblicato sulla rivista PNAS (The Proceedings of the National Academy of Sciences) è stato coordinato da Timothy Eppley, ricercatore presso il San Diego Zoo Wildlife Alliance (SDZWA), e vede la straordinaria collaborazione a livello mondiale di 118 co-autori provenienti da 124 istituti diversi, tra cui Luca Santini della Sapienza di Roma che ha co-ideato e supervisionato il lavoro. I risultati si basano su circa 150.000 ore di dati di osservazione riguardanti 15 specie di lemuri e 32 specie di scimmie in 68 siti nelle Americhe e in Madagascar.

La ricerca consiste in una valutazione dell’influenza delle caratteristiche biologiche, del contesto ambientale e delle azioni umane sul periodo trascorso a terra dai primati arboricoli. Lo studio ha rilevato come le specie che consumano meno frutta e vivono in grandi gruppi sociali siano più predisposte a scendere a terra e abbandonare lo stile di vita arboricolo. Si possono, quindi, definire queste condizioni come una sorta di “pre-adattamento” a quello che potrà essere la vita futura di questi animali. Lo studio ha inoltre mostrato come la temperatura, e la degradazione delle foreste, spingano i primati ad un uso maggiore dello strato terrestre. Di conseguenza, un habitat frammentato, disturbato dall’uomo che offre scarse risorse alimentari, solo popolazioni di primati che hanno una dieta più diversificata e vivono in gruppi numerosi possono adattarsi più facilmente a uno stile di vita terrestre.

Lo studio ha anche rilevato che le popolazioni di primati più vicine alle infrastrutture umane hanno meno probabilità di scendere a terra:

“I nostri risultati – dichiara Luca Santini della Sapienza – suggeriscono che la presenza umana, spesso una minaccia alla conservazione dei primati, possa interferire con la loro naturale adattabilità al cambiamento globale”.

In passato situazioni di transizione da uno stile di vita arboricolo a quello di vita terreste si sono già presentate, non è una novità.

Le preoccupazioni che hanno portato gli studiosi ad avviare uno studio di questa portata nascono nella rapidità con cui avvengono cambiamenti climatici e interventi dell’uomo. Questo richiederebbe per le specie meno adattabili, strategie di conservazione rapide ed efficaci per garantire la loro sopravvivenza.

lemure Eulemur mongoz Cambiamenti climatici e deforestazione cambiano le abitudini dei primati
Cambiamenti climatici e deforestazione instradano i primati verso un nuovo stile di vita. Un lemure mangusta (Eulemur mongoz) nella foto di IParjan, in pubblico dominio

Riferimenti:
Factors influencing terrestriality in primates of the Americas and Madagascar – Eppley T.M., Hoeks S., Chapman C.A., Ganzhorn J.U., Hall K., Owen M.A., Adams D.B., Allgas N., Amato K.R., Andriamahaihavana M., Aristizabal J.F., Baden A.L., Balestri M., Barnett A.A., Bicca-Marques J.C., Bowler M., Boyle A.S., Brown M., Caillaud D., Calegaro-Marques C., Campbell C.J., Campera M., Campos F.A., Cardoso T.S., Carretero-Pinzón X., Champion J., Chaves O.M., Chen-Kraus C., Colquhoun I.C., Dean B., Dubrueil C., Ellis K.M., Erhart E.M., Evans K.J.E., Fedigan L.M., Felton A.M., Ferreira R.G., Fichtel C., Fonseca M.L., Fontes I.P., Fortes V.B., Fumian I., Gibson D., Guzzo G.B., Hartwell K.S., Heymann E.W., Hilário R.R., Holmes S.M., Irwin M.T., Johnson S.E., Kappeler P.M., Kelley E.A., King T., Knogge C., Koch F., Kowalewski M.M., Lange L.R., Lauterbur M.E., Louis Jr. E.E., Lutz M.C., Martínez J., Melin A.D., de Melo F.R., Mihaminekena T.H., Mogilewsky M.S., Moreira L.S., Moura L.A., Muhle C.B., Nagy-Reis M.B., Norconk M.A., Notman H., O’Mara M.T., Ostner J., Patel E.R., Pavelka M.S.M., Pinacho-Guendulain B., Porter L.M., Pozo-Montuy G., Raboy B.E., Rahalinarivo V., Raharinoro N.A., Rakotomalala Z., Ramos-Fernández G., Rasamisoa D.C., Ratsimbazafy J., Ravaloharimanitra M., Razafindramanana J., Razanaparany T.P., Righini N., Robson N.M., da Rosa Gonçalves J., Sanamo J., Santacruz N., Sato H., Sauther M.L., Scarry C.J., Serio-Silva J.C., Shanee S., de Souza Lins P.G.A., Smith A.C., Smith Aguilar S.E., Souza-Alves J.P., Stavis V.K., Steffens K.J.E., Stone A.I., Strier K.B., Suarez S.A., Talebi M., Tecot S.R., Tujague M.P., Valenta K., Van Belle S., Vasey N., Wallace R.B., Welch G., Wright P.C., Donati G., Santini L. – PNAS (2022) https://doi.org/10.1073/pnas.2121105119

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Grafene e semiconduttori 2D: il binomio perfetto per lo sviluppo di dispositivi opto-elettronici all’avanguardia

Un nuovo studio, coordinato dal Dipartimento di Fisica della Sapienza, ha scoperto il meccanismo di scambio di energia tra il grafene e i semiconduttori bidimensionali. I risultati del lavoro, pubblicati sulla rivista PNAS, aprono la strada all’ottimizzazione di rivelatori di luce di ultima generazione

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Grafene e semiconduttori 2D: il binomio perfetto per lo sviluppo di dispositivi opto-elettronici all’avanguardia. Modello molecolare del grafene. Immagine di AlexanderAlUS, CC BY-SA 3.0

I materiali che utilizziamo nella vita di tutti i giorni hanno una struttura tridimensionale.

Nel 2004 è stato realizzato per la prima volta un solido bidimensionale, il grafene, isolando un singolo strato di atomi di carbonio. La scoperta ha aperto la strada alla realizzazione di una larga classe di materiali cristallini bidimensionali, le cui proprietà fisiche differiscono drasticamente da quelle dei materiali tridimensionali. Più recentemente è stato osservato come, unendo singoli strati 2D di una coppia di diversi materiali, sia possibile combinare le proprietà uniche e complementari dei costituenti di base, permettendo la realizzazione di dispositivi innovativi nel campo della fotonica e dell’elettronica.

Una delle soluzioni di maggior impatto applicativo per questa famiglia di solidi, dette “eterostrutture”, è stata ottenuta combinando il grafene con alcuni semiconduttori bidimensionali (i dicalcogenuri dei metalli di transizione). La loro implementazione permette di realizzare rivelatori di luce che, grazie all’elevatissima mobilità elettronica del grafene e all’ottima capacità di assorbimento del semiconduttore, sono estremamente più rapidi ed efficienti delle tecnologie attualmente utilizzate.

Il meccanismo fisico alla base della conversione e del trasferimento della luce catturata dal semiconduttore in un segnale elettrico nel grafene, sebbene sia cruciale per una progettazione ottimale di questi rivelatori di luce, è tutt’ora oggetto di un acceso dibattito.

 

Oggi il team di ricerca Femtoscopy diretto da Tullio Scopigno del Dipartimento di Fisica della Sapienza, in collaborazione con l’Istituto di fisica e chimica dei materiali di Strasburgo e l’Istituto italiano di tecnologia che partecipa grazie al supporto del progetto Europeo Graphene Flagship, è giunto a risultati fondamentali per la comprensione dei processi microscopici alla base dei dispositivi che interagiscono con la luce e convertono i segnali elettrici in segnali ottici e viceversa.

 

Lo studio, pubblicato sulla rivista PNAS, ha stabilito innanzitutto che il trasferimento di energia tra i due materiali avviene in un tempo rapidissimo, quantificato in pochi picosecondi (un picosecondo è la millesima parte di un miliardesimo di secondo).

Inoltre i ricercatori, monitorando la temperatura degli elettroni del grafene, hanno descritto i meccanismi dello scambio energetico tra i due materiali durante questa piccolissima frazione di secondo.

Inizialmente si riteneva che la conversione della luce assorbita dal semiconduttore in una corrente elettrica nel grafene richiedesse un trasferimento di carica netta positiva o negativa.

L’esperimento ha dimostrato che l’energia luminosa assorbita dal semiconduttore viene convertita in agitazione termica delle cariche elettriche nel grafene. In particolare, nei primissimi istanti successivi all’assorbimento della luce da parte del semiconduttore, ciò che viene trasferito al grafene è un pacchetto di energia associato a un eccitone neutro (costituito da una coppia di cariche positive e negative legate tra loro) e non una carica netta.  È l’intero eccitone a essere trasferito al grafene (quindi elettricamente neutro) e non un singolo frammento carico come si pensava inizialmente.

 

“Questi risultati sono stati possibili grazie a un’innovativa tecnica spettroscopica – spiega Tullio Scopigno – che impiega coppie impulsi di luce ultracorti della durata di un picosecondo.  Il primo impulso deposita energia nel materiale semiconduttore, mentre il secondo, misurando la temperatura degli elettroni nel grafene, permette di sondare il trasferimento di energia e/o carica attraverso i due materiali”.

Comprendere come avvengono gli scambi di energia tra il grafene e gli altri materiali bidimensionali rappresenta un passo chiave per implementare dispositivi opto-elettronici all’avanguardia e dal design razionale, come celle solari, LED, touchscreen e photodetectors.

Riferimenti:
Picosecond energy transfer in a transition metal dichalcogenide–graphene heterostructure revealed by transient Raman spectroscopy – Carino Ferrante, Giorgio Di Battista, Luis E. Parra López, Giovanni Batignani, Etienne Lorchat, Alessandra Virga, Stéphane Berciaud, Tullio Scopigno – Proceedings of the National Academy of Sciences (2022) https://doi.org/10.1073/pnas.2119726119

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Migliorare la memoria è una questione di allenamento ripetuto, ma nel tempo

Un nuovo studio firmato dalla Sapienza ha scoperto che il coinvolgimento di aree diverse del cervello nella memorizzazione, alla base del ricordo, è legato alla distribuzione nel tempo dell’apprendimento. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista PNAS.

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Migliorare la memoria è una questione di allenamento ripetuto, ma nel tempo. Foto di Dariusz Sankowski

L’apprendimento migliora se un’esperienza viene distribuita nel tempo piuttosto che essere concentrata in un’unica soluzione. Questo vale nello studio, ma anche nell’ambito della pubblicità e di tanti altri aspetti della vita quotidiana.

Un team di ricerca della Sapienza ha svelato per la prima volta che la maggiore efficienza di un apprendimento ripartito nel tempo dipende dal fatto che il cervello utilizza circuiti cerebrali diversi a seconda della modalità di apprendimento, indipendentemente da ciò che deve essere appreso. Inoltre, i ricercatori hanno dimostrato che la stimolazione artificiale dei circuiti responsabili dell’apprendimento distribuito nel tempo si traduce in un miglioramento della memoria.

In particolare lo studio, pubblicato sulla rivista PNAS, ha messo in evidenza, che lo striato, una struttura del cervello che si pensava coinvolta principalmente in funzioni motorie (ad esempio il Parkinson), ha un ruolo anche in funzioni cognitive complesse.

“Inoltre – spiega Andrea Mele, coordinatore dello studio – abbiamo visto che la sua stimolazione esogena durante l’apprendimento, migliora la durata della memoria nei topi”.

Lo studio è molto importante sia da un punto di vista teorico, perché include tra le aree del cervello responsabili del ricordo regioni cui prima erano attribuite altre funzioni, sia da un punto di vista traslazionale perché suggerisce la possibilità di migliorare la memoria attraverso una stimolazione artificiale del cervello, aprendo nuove prospettive nel trattamento di patologie neurodegenerative come l’Alzheimer.

Riferimenti:

The neural substrate of spatial memory stabilization depends on the distribution of the training sessions – Valentina Mastrorilli, Eleonora Centofante, Federica, Arianna Rinaldi and Andrea Mele – PNAS 2022 https://doi.org/10.1073/pnas.2120717119

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

IL DELTA DEL MEKONG SPROFONDA e rischia di finire sotto il livello del mare entro il 2100

Pubblicata sulla rivista scientifica statunitense «PNAS» la ricerca Strategic basin and delta planning increases the resilience of the Mekong Delta under future uncertainty che evidenzia il rischio per il delta del Mekong di finire sotto il livello del mare entro il 2100

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Il delta del Mekong

Il delta del Mekong, nel sud del Vietnam, è popolato da circa 21 milioni di persone e costituisce una risorsa di importanza globale: il fiume Mekong, infatti, è il settimo al mondo per lunghezza, il dodicesimo per portata e il corso d’acqua più lungo dell’Indocina con circa 4.880 km, uno dei maggiori dell’Asia.

Un team internazionale di ricercatori, tra cui Simone Bizzi del Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova, ha osservato che a causa dell’innalzamento del livello dei mari, della subsidenza incentivata da un utilizzo non sostenibile delle acque sotterranee e del ridotto apporto di sedimenti fluviali al delta dovuto alla costruzione di numerose dighe per lo sviluppo di energia idroelettrica, una percentuale variabile dal 23% fino al 90% del delta del Mekong rischia di finire sotto il livello del mare entro il 2100.

delta del Mekong sprofonda livello del mare
Il delta del Mekong

Questa grande incertezza è dovuta alla complessità di comprendere il funzionamento del sistema nella sua totalità: infatti, i processi del bacino fluviale a monte interagiscono con processi del delta e costieri.

Lo studio integra modelli matematici di diversi componenti del sistema – trasporto solido fluviale, subsidenza, scenari climatici e innalzamento del livello del mare – e dimostra come, a causa del forte impatto antropico, la sopravvivenza stessa del delta sia a rischio.

Gli autori della ricerca, tra i quali i vincitori del premio Aspen Institute Italia 2021 per la collaborazione e la ricerca scientifica tra Italia e Stati Uniti per un precedente studio sempre sullo stesso tema, mettono in evidenza come la gestione dei problemi nel bacino fluviale e nel delta debba essere integrata poiché i processi sono strettamente interconnessi.

Sebbene l’impatto maggiore derivi dalla grande incertezza riguardo gli scenari futuri di prelievo di acque sotterranee, i relativi fenomeni di subsidenza e gli scenari climatici, le simulazioni effettuate dimostrano la grande importanza di una pianificazione strategica per l’installazione di nuove centrali idroelettriche lungo il corso del Mekong al fine di aumentare il trasporto di sedimenti verso il delta e compensare i processi di subsidenza e innalzamento del livello del mare.

Simone Bizzi

«Visto quanto l’attuale impatto antropico modifica la dinamica terrestre, per il futuro è diventato prioritario riuscire a comprendere l’effetto delle nostre politiche di gestione territoriale nella loro complessità geomorfologica, idrologica ed ecologica» – spiega il prof. Simone Bizzi – «Le attuali politiche gestionali, soprattutto in paesi emergenti e densamente abitati come il delta del Mekong, stanno trasformando le caratteristiche degli habitat in cui viviamo mettendo a rischio la nostra stessa permanenza in questi habitat. Comprendere come e dove si possa agire per invertire questa tendenza è una priorità a cui la ricerca può e deve dare una risposta. Questo lavoro ha guardato al caso studio del delta del Mekong con questo spirito e mostra la complessità delle sfide che abbiamo davanti».

Una comprensione del sistema Mekong nella sua globalità, che includa una stima delle incertezze, permetterebbe di generare informazioni quantitative sulle conseguenze delle politiche gestionali adottate: queste getterebbero le basi per trovare compromessi fra vari stati e più interessi e politiche gestionali più sostenibili che salvaguardino l’esistenza del “sistema delta”.

Titolo: Strategic basin and delta planning increases the resilience of the Mekong Delta under future uncertainty – «PNAS» – 2021 Autori: R. J. P. Schmitt, M. Giuliani, S. Bizzi, G. M. Kondolf, G. C. Daily, Andrea Castelletti. Link all’articolo: https://www.pnas.org/content/118/36/e2026127118

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università di Padova.

Biodiversità e clima: dal lago di Ocrida il segreto della resilienza delle foreste ai cambiamenti globali

Lo studio di un team internazionale di ricercatori coordinati dalla Sapienza, individua il ruolo del grande bacino d’acqua dolce situato al confine tra Albania e Macedonia del Nord, come di area di rifugio per le piante e gli alberi durante fasi climatiche sfavorevoli. La ricerca pubblicata su PNAS fornisce un importante contributo allo studio dei rifugi forestali e alle ricerche sulla conservazione e diversificazione delle foreste.

biodiversità clima lago di Ocrida
Biodiversità e clima: dal lago di Ocrida il segreto della resilienza delle foreste ai cambiamenti globali. In foto, il lago di Ocrida, piattaforma al tramonto. Foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

La conservazione e il ripristino delle foreste sono importanti strumenti di contrasto alle minacce causate dalla frammentazione degli habitat e dal cambiamento globale. Ma per favorire la diversificazione e la resilienza delle foreste occorre prima capire le dinamiche di risposta delle piante ai cambiamenti climatici del passato.

Uno studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), coordinato dal Dipartimento di Biologia ambientale della Sapienza, analizzando polline e spore fossili da campioni di sedimenti provenienti dal fondo del lago di Ocrida, un grande bacino d’acqua dolce situato al confine tra Albania e Macedonia del Nord, identifica e descrive la risposta di numerosi elementi forestali ai cambiamenti climatici determinati dalle oscillazioni glaciali-interglaciali negli ultimi 1,36 milioni di anni.

Il record dei sedimenti del lago di Ocrida rappresenta il più antico archivio lacustre continuo d’Europa, a partire da quando il lago si generò.

Questa nuova ricerca spiega l’importanza di un’area umida qual è il lago Ocrida, come rifugio per le piante durante le fasi climatiche meno favorevoli, quelle aride e fredde.

I risultati suggeriscono che circa 1,16 milioni di anni fa la zona del lago di Ocrida era caratterizzata da foreste che lasciarono il posto a un ambiente più aperto, con erbe e arbusti indicatori di un aumento dell’aridità e dell’approfondimento delle acque lacustri. A questa fase seguì un’altra transizione, circa 0,94 milioni di anni fa, dovuta alla risposta della vegetazione a cicli glaciali-interglaciali sempre più lunghi e accentuati. Numerose piante, altrove estinte o rare, hanno avuto una maggiore persistenza nella zona di Ocrida, dimostrando che il lago era un’area di rifugio, almeno fino a circa 1 milione di anni fa. Lo studio mette anche in evidenza come molti alberi abbiano avuto decrescite più o meno rapide, prima di scomparire.

“La valutazione degli effetti a lungo termine rispetto a clima globale e cambiamento della vegetazione locale – spiega Alessia Masi della Sapienza – rivela un’influenza significativa delle condizioni interglaciali umide sulla successiva composizione e diversità vegetale nel periodo glaciale”.

“Questo effetto – conclude Laura Sadori della Sapienza, coordinatrice dello studio – è opposto nelle osservazioni alle alte latitudini, dove l’intensità glaciale è nota per controllare la successiva vegetazione interglaciale, e le evidenze dimostrano che il bacino del lago di Ocrida ha funzionato come rifugio sia per le specie arboree termofile che per quelle temperate”.

Secondo gli autori, il record del lago di Ocrida può dare un contributo notevole alla gestione delle foreste e alle ricerche sulla loro resilienza ai futuri cambiamenti climatici.

 

Riferimenti:

1.36 million years of Mediterranean forest refugium dynamics in response to glacial-interglacial cycle strength  Timme Donders, Konstantinos Panagiotopoulos, Andreas Koutsodendris, Adele Bertini, Anna Maria Mercuri, Alessia Masi, Nathalie Combourieu-Nebout, Sébastien Joannin, Katerina Kouli, Ilias Kousis, Odile Peyron, Paola Torri, Assunta Florenzano, Alexander Francke, Bernd Wagner, Laura Sadori. – PNAS 2021 DOI: https://doi.org/10.1073/pnas.2026111118

 

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma