Polarizzazione politica e interazioni sui social: esistono schemi comuni a livello internazionale La ricerca pubblicata su Nature Communications, che ha coinvolto il Dipartimento di Informatica della Sapienza, mette in luce le dinamiche comuni della polarizzazione politica online su scala globale. Grazie all’analisi delle interazioni tra gli utenti su piattaforme online in ben nove Paesi, i ricercatori hanno rilevato l’esistenza di pattern ripetuti in diversi contesti nazionali.
La polarizzazione politica sui social network è un fenomeno internazionale. Al di là delle specificità dei singoli contesti nazionali – che differiscono per cultura, storia, sistema politico – il dibattito politico online si articola seguendo pattern comuni a livello globale. Lo studio, pubblicato su Nature Communications e condotto da un team internazionale di ricercatori, tra cui Walter Quattrociocchi, direttore del Centro per la Data Science e la complessità per la società della Sapienza, mira a individuare le dinamiche comunicative che vanno oltre i confini politici dei singoli Stati.
Grazie ad una analisi effettuata nel 2022 sulle interazioni che avvenivano su una specifica piattaforma in nove Paesi anche molto diversi tra loro (Canada, Francia, Germania, Italia, Polonia, Spagna, Turchia, Regno Unito e Stati Uniti), il gruppo di ricercatori, composto da scienziati sociali e informatici, ha individuato molteplici elementi ricorrenti.
La polarizzazione politica – presente anche nel mondo offline – appare particolarmente visibile nel mondo dei social network, soprattutto per la struttura intrinseca delle piattaforme online. In tutti i Paesi analizzati, le reti di interazione politica sui social sono risultate strutturalmente polarizzate lungo linee ideologiche (ad esempio destra/sinistra).
“Su quella che era la piattaforma Twitter, l’ostilità tra gruppi politici contrapposti è manifesta – spiega Walter Quattrociocchi. Questo, a livello comunicativo, si traduce in interazioni più tossiche rispetto a quelle osservabili tra i membri appartenenti allo stesso gruppo politico. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, le interazioni tossiche coinvolgono meno gli utenti. Per questi contenuti, il numero di like infatti appare minore rispetto a quello delle interazioni meno tossiche”
La ricerca mette in evidenza come la polarizzazione politica non sia un fenomeno limitato a una singola nazione, ma presenti caratteristiche simili tra diverse culture e contesti nazionali.
“Comprendere questi pattern comuni – commenta Quattrociocchi – è essenziale per poter pensare a soluzioni efficaci in grado di ridurre l’ostilità politica e promuovere un dialogo più costruttivo”.
Riferimenti bibliografici:
Patterns of partisan toxicity and engagement reveal the common structure of online political communication across countries – Falkenberg, M., Zollo, F., Quattrociocchi, W. et al. Nature Communications (2024), DOI: https://doi.org/10.1038/s41467-024-53868-0
Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
Scoperti i più antichi antenati del bue domestico: i resti di uro nella valle dell’Indo e in Mesopotamia risalgono a 10mila anni fa
La ricerca, pubblicata sulla rivista Nature, ha coinvolto il paleontologo dell’Università di Pisa, Luca Pandolfi
I più antichi antenati del bue domestico sono stati scoperti nella valle dell’Indo e nella mezzaluna fertile in Mesopotamia: si tratta di resti di uro (Bos primigenius) risalenti a circa 10mila anni fa. La ricerca pubblicata sulla rivista Naturee condotta dal Trinity College di Dublino e dall’Università di Copenaghen, ha coinvolto Luca Pandolfi, paleontologo del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa, che da tempo si occupa dell’evoluzione e dell’estinzione dei grandi mammiferi continentali anche in relazione ai cambiamenti climatici.
Gli uri addomesticati erano animali abbastanza simili a quelli selvatici, ma un po’ più piccoli, soprattutto con corna meno sviluppate ad indicare una maggiore mansuetudine. Giulio Cesare nel De Bello Gallico (De Bello Gallico, 6-28) descrive infatti l’uro selvatico come un animale di dimensioni di poco inferiori all’elefante, veloce e di natura particolarmente aggressiva. Dai resti fossili emerge che gli uri selvatici potevano raggiungere un’altezza di poco meno di due metri, i 1000 kg di peso ed avere corna lunghe più di un metro. La loro presenza ha dominato le faune dell’Eurasia e del Nord Africa a partire da circa 650 mila anni fa, per poi subire un forte declino dalla fine del Pleistocene, circa 11mila anni fa, fino alla sua estinzione in età moderna. L’ultimo esemplare di cui si ha notizia fu abbattuto il Polonia nel 1627.
“Lo studio su Nature ha analizzato per la prima volta questa specie per comprenderne la storia evolutiva e genetica attraverso resti fossili rinvenuti in diversi di siti in Eurasia, Italia inclusa, e Nord Africa”, dice Luca Pandolfi.
Dai reperti, che includono scheletri completi e crani ben conservati, sono stati estratti campioni di DNA antico. La loro analisi ha quindi permesso di individuare quattro popolazioni ancestrali distinte che hanno risposto in modo diverso ai cambiamenti climatici e all’interazione con l’uomo. Gli uri europei, in particolare, subirono una diminuzione drastica sia in termini di popolazione che di diversità genetica durante l’ultima era glaciale, circa 20 mila anni fa. La diminuzione delle temperature ridusse infatti il loro habitat spingendoli verso la Penisola Italiana e quella Iberica da cui successivamente ricolonizzarono l’intera Europa.
“Nel corso del Quaternario, epoca che va da 2 milioni e mezzo di anni fa sino ad oggi, l’uro è stato protagonista degli ecosistemi del passato, contraendo ed espandendo il proprio habitat in relazione alle vicissitudine climatiche che hanno caratterizzato questo periodo di tempo – conclude Pandolfi – le ossa di questi maestosi animali raccontano ai paleontologi la storia del successo, adattamento e declino, di una specie di cui noi stessi abbiamo concorso all’estinzione e rivelano la complessità e fragilità delle relazioni che legano gli organismi viventi al clima del nostro Pianeta”.
Journal reference: The genomic natural history of the aurochs, Nature, 2024; DOI: 10.1038/s41586-024-08112-6
Testo e immagine dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa
Con le donne al comando si respira un’aria migliore, letteralmente: uno studio rileva una correlazione tra politiche ambientali ed empowerment politico delle donne
Studio dell’Università di Pisa pubblicato sull’European Journal of Political Economyevidenza che la qualità dell’aria è migliore con l’empowerment femminile. L’analisi ha riguardato 230 regioni di 27 paesi UE.
La qualità dell’aria è migliore se le donne comandano le istituzioni. La notizia arriva da uno studio condotto all’Università di Pisa e pubblicato sull’European Journal of Political Economy. L’analisi ha riguardato 230 regioni di 27 Paesi dell’Unione europea.
“I nostri risultati evidenziano una relazione positiva tra l’empowerment politico delle donne e la qualità dell’aria – spiega una delle autrici dello studio, la professoressa Lisa Gianmoena del dipartimento di Economia e Management dell’Ateneo pisano – Questo suggerisce che le donne, quando occupano posizioni di potere, tendono ad adottare politiche ambientali più rigide e orientate verso la sostenibilità rispetto alle regioni governate da uomini e questo fenomeno può essere attribuito alla loro maggiore sensibilità e al loro impegno sociale”.
In particolare, questa correlazione positiva risulta evidente in numerose regioni del Nord Europa, tra cui Finlandia, Irlanda, Estonia, Svezia e Danimarca, mentre la maglia nera va alla Polonia, Ungheria e Romania. In Italia, la Valle d’Aosta si distingue per la qualità dell’aria migliore, mentre la Lombardia registra i livelli peggiori.
Per realizzare lo studio ricercatori e ricercatrici hanno lavorato alla costruzione di un dataset a livello regionale che integrasse empowerment politico femminile e dati ambientali. Questa impostazione è stata fondamentale anche perché nel contesto europeo le condizioni ambientali e sociali possono variare notevolmente tra le diverse zone e sono poi le autorità sub-nazionali ad essere maggiormente responsabili dell’applicazione di direttive e standard ambientali nazionali e sovranazionali. Per quanto riguarda le donne, è stato utilizzato l’Indice di Empowerment Politico delle Donne (WPEI), considerando la loro presenza a vari livelli di governo (nazionale, regionale e locale).
“Per assicurarci che il rapporto tra empowerment politico femminile e qualità aria non fosse una “correlazione spuria”, cioè puramente casuale – conclude Gianmoena – abbiamo testato altre variabili economiche e non economiche come lo sviluppo economico, il livello di istruzione, le innovazioni in tecnologie verdi, l’ideologia politica e la densità di popolazione. Tuttavia la relazione positiva tra empowerment politico femminile e qualità dell’aria è rimasta significativa, confermando la robustezza del risultato”.
Lisa Gianmoena è autrice dell’articolo insieme al collega Vicente Rios, docente del dipartimento di Economia e management dell’Ateneo pisano. Entrambi collaborano con il centro di ricerca REMARC (Responsible Management Research Center) dell’Università di Pisa. Gli altri autori sono la dottoranda Izaskun Barba e il professore Pedro Pascual entrambi deldipartimento di Economia della Università Pubblica di Navarra (Universidad Pública de Navarra – UPNA), Spagna.
Testo dal Polo Comunicazione CIDIC – Centro per l’innovazione e la diffusione della cultura dell’Università di Pisa.
Il geotermico è la rinnovabile più efficace per diminuire le emissioni di CO2 (seguono idroelettrico e solare)
Lo studio dell’Università di Pisa su 27 paesi OCSE dal 1965 al 2020 pubblicato sul Journal of Cleaner Production
Per diminuire le emissioni di CO2 nell’atmosfera, il geotermico è la fonte di energia rinnovabile più efficace, seguito da idroelettrico e solare. La notizia arriva da uno studio su 27 paesi OCSE dal 1965 al 2020 pubblicato sul Journal of Cleaner Production.
La ricerca ha analizzato l’impatto di alcune fonti di energia rinnovabile per la produzione di energia elettrica: geotermico, solare, eolico, biofuel, idroelettrico. Dai risultati è emerso che ognuna di esse contribuisce a ridurre le emissioni di CO2 e dunque è utile agli obiettivi della transizione ecologica. Fra tutte, le migliori sono il geotermico, l’idroelettrico, e il solare, in ordine decrescente di importanza. A livello quantitativo, 10 terawattora di energia elettrica prodotti da geotermico, idroelettrico, e solare, consentono infatti di ridurre le emissioni di CO2 pro capite rispettivamente di 1.17, 0.87, e 0.77 tonnellate.
I 27 paesi OCSE esaminati dal 1965 al 2020 sono stati scelti come campione perché contribuiscono notevolmente al rilascio di emissioni di CO2 nell’atmosfera e rappresentano circa un terzo del totale delle emissioni globali di CO2. Nello specifico si tratta di Australia, Austria, Canada, Cile, Cipro, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Islanda, Irlanda, Israele, Italia, Giappone, Messico, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Norvegia, Polonia, Portogallo, Corea del Sud, Spagna, Svezia, Svizzera, Regno Unito e Stati Uniti.
Per ricavare i dati, la ricerca ha analizzato molteplici fonti, le principali sono: Food and Agriculture Organization (FAO), International Energy Agency (IEA), OECD, Our World in Data (OWID), e World Bank.
“È noto che circa due terzi degli italiani si dichiara appassionato del tema della sostenibilità e ritiene importante l’uso delle rinnovabili per avere città più sostenibili – dice Gaetano Perone, ricercatore del dipartimento di Economia e Management dell’Università di Pisa e autore dell’articolo – la mia analisi spiega in modo dettagliato l’impatto di ciascuna energia rinnovabile sulle emissioni di CO2, considerando anche altri aspetti legati ai costi di implementazione e costruzione delle centrali e delle opportunità date dalle caratteristiche geografiche e climatiche dei paesi considerati”.
Riferimenti bibliografici:
Gaetano Perone, The relationship between renewable energy production and CO2 emissions in 27 OECD countries: A panel cointegration and Granger non-causality approach, Journal of Cleaner Production,
Volume 434, 2024, 139655, ISSN 0959-6526, DOI: https://doi.org/10.1016/j.jclepro.2023.139655
Testo dall’Unità Comunicazione Istituzionale dell’Università di Pisa.
LOFAR: LA PIÙ GRANDE RETE DI RADIOTELESCOPI ALLE BASSE FREQUENZE SI RAFFORZA DIVENENDO UN CONSORZIO EUROPEO DI INFRASTRUTTURA DI RICERCA (ERIC)
Il radiotelescopio europeo LOFAR (LOw Frequency ARray) acquisisce la nuova configurazione di European Research Infrastructure Consortium (ERIC). L’avvio di questa entità legale pensata per ottimizzare la gestione dell’infrastruttura e consolidare la leadership mondiale dell’Europa nel campo è stato ufficialmente dato nel corso della prima riunione del Consiglio di LOFAR ERIC svoltasi oggi.
L’infrastruttura di ricerca di LOFAR, composta da 70mila antenne distribuite su ben dieci Paesi europei a cui anche l’Italia partecipa con la guida dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, forma il telescopio a bassa frequenza più potente del pianeta ed è il più grande precursore del futuro radiotelescopio SKA alle basse frequenze. LOFAR ha già rivoluzionato la ricerca sulla radioastronomia, dando luogo a una valanga di pubblicazioni scientifiche nell’ultimo decennio. In particolare, la comunità Italiana sta giocando un ruolo fondamentale nell’utilizzo scientifico dei dati LOFAR e ha dato un contributo tecnologico importante nella progettazione e realizzazione dei sistemi che saranno utilizzati nell’aggiornamento della infrastruttura (LOFAR 2.0) prevista per il 2025.
LOFAR ERIC governerà proprio la sfida tecnologica alla base di LOFAR 2.0, che porterà ad un grande potenziamento di LOFAR mettendo a disposizione della comunità astronomica una capacità di osservazione ed elaborazione dei dati ancora più all’avanguardia, producendo un ulteriore balzo in avanti nella sensibilità e risoluzione delle immagini prodotte da LOFAR.
“Siamo fieri di contribuire in modo decisivo al progetto LOFAR” commenta Marco Tavani, Presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica. “L’Italia è infatti uno dei Paesi fondatori di questo ERIC che oggi rafforza la leadership mondiale dell’Europa nel campo della radioastronomia. Il lavoro incessante per migliorare a livello tecnologico e organizzativo questa infrastruttura di ricerca sarà fondamentale per entrare in una nuova era dello studio dell’universo nelle onde radio, quando sarà operativo anche lo Square Kilometre Array Observatory”.
LOFAR ERIC fornirà un accesso trasparente a un’ampia gamma di servizi di ricerca scientifica per la comunità europea e globale, promuovendo collaborazioni e consentendo ai ricercatori di portare avanti progetti innovativi su larga scala in tutti i settori scientifici, tra cui lo studio dell’universo primordiale, la formazione e l’evoluzione delle galassie, la fisica delle pulsar e dei fenomeni radio transitori, la natura delle particelle cosmiche ad altissima energia e la struttura dei campi magnetici cosmici. LOFAR ERIC garantirà l’accesso ad una mole di dati senza precedenti attraverso un archivio distribuito su scala Europea e aperto alla comunità.
I membri fondatori di LOFAR ERIC sono Bulgaria, Germania, Irlanda, Italia, Paesi Bassi e Polonia. Collaborazioni con istituti in Francia, Lettonia, Svezia e Regno Unito garantiscono un’ulteriore partecipazione all’infrastruttura distribuita LOFAR e al programma di ricerca. La sede statutaria di LOFAR ERIC è a Dwingeloo, nei Paesi Bassi, ospitata dal NWO-I/ASTRON (Netherlands Institute for Radio Astronomy, che ha guidato la progettazione di LOFAR).
“L’istituzione di LOFAR ERIC consolida l’eccellenza a livello mondiale per l’Europa in un importante settore di ricerca”, dice René Vermeulen, direttore fondatore di LOFAR ERIC. “Con la sua impareggiabile infrastruttura di ricerca distribuita e il suo solido partenariato paneuropeo, LOFAR ERIC entra nello Spazio europeo della ricerca come una potenza all’avanguardia nella scienza e nella tecnologia dell’astronomia, con il potenziale per contribuire a sfide complesse più ampie”.
Informazioni su LOFAR ERIC
LOFAR ERIC (LOw-Frequency ARray European Research Infrastructure Consortium) assicura il futuro della radioastronomia a bassa frequenza sfruttando l’infrastruttura di ricerca distribuita LOFAR come osservatorio leader mondiale per la ricerca astronomica su larga scala. LOFAR ERIC consolida la leadership mondiale dell’Europa in questo campo. È stato istituito dalla Commissione europea il 20 dicembre 2023. I membri fondatori di LOFAR ERIC sono Bulgaria, Germania, Irlanda, Italia, Paesi Bassi e Polonia. Collaborano a LOFAR ERIC anche istituti in Francia, Lettonia, Svezia e Regno Unito.
Informazioni su LOFAR
LOFAR è il più grande e sensibile radiotelescopio al mondo che opera a basse frequenze radio, tra 10 e 240 MHz. Si tratta di un’infrastruttura di ricerca distribuita che consiste in molteplici stazioni d’antenna, geograficamente distribuite in tutta Europa, tutte gestite via software e dotate di un potente sistema di calcolo e di una massiccia archiviazione di dati in diversi centri dati distribuiti. Il funzionamento congiunto forma un sistema di osservazione ed elaborazione dati unificato, altamente agile e capace. Con una sensibilità cento volte superiore a quella di qualsiasi telescopio precedente a queste frequenze, una risoluzione d’immagine senza precedenti su un ampio campo visivo e la capacità di osservare simultaneamente in più direzioni, LOFAR è di gran lunga il telescopio a bassa frequenza più potente del pianeta e sta rivoluzionando la nostra visione dell’universo radio a bassa frequenza. LOFAR è stato originariamente sviluppato dal NWO-I/ASTRON, l’Istituto olandese di radioastronomia, che ora ospita LOFAR ERIC e fornisce la maggior parte dei servizi operativi di LOFAR ERIC. LOFAR ERIC è finanziato congiuntamente dai suoi membri e partner, che stanno implementando collettivamente un importante aggiornamento (LOFAR2.0) per migliorare e ampliare notevolmente le capacità di ricerca scientifica.
Testo e immagini dall’Ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).
TORNA A RACCONTARE LA STRAORDINARIA TRADIZIONE CELESTE CITTADINA IL MUSEO ASTRONOMICO COPERNICANO DI ROMA, NEL SEGNO DI COPERNICO
L’evento è inserito nelle iniziative internazionali legate alle celebrazioni per il 550° anniversario della nascita dell’astronomo polacco Niccolò Copernico.
Il Museo Astronomico Copernicano situato sulla collina di Monte Mario a Roma, all’interno di Villa Mellini che ospita la Sede Centrale dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, si mostra rinnovato alla Città: il nuovo allestimento è stato ufficialmente presentato oggi pomeriggio, durante la cerimonia di inaugurazione che ha visto la presenza dell’Ambasciatore della Repubblica di Polonia a Roma S.E. Anna Maria Anders, del Presidente dell’INAF Marco Tavani e di rappresentanti del Ministero dell’Università e della Ricerca, del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, del Ministero della Cultura e del Comune di Roma
L’inaugurazione del nuovo allestimento museale, pensato come un ideale viaggio nell’Astronomia, dai suoi albori fino ad oggi e con uno sguardo ai più ambiziosi progetti futuri, è inserita nelle iniziative internazionali legate alle celebrazioni per il 550° anniversario della nascita dell’astronomo polacco Niccolò Copernico.
Tavani commenta: “È una grande gioia inaugurare oggi, alla presenza di prestigiosi esponenti delle istituzioni e dell’Ambasciatore della Polonia, il nuovo allestimento del Museo Copernicano, che abbiamo fortemente voluto per rendere merito al suo valore storico e restituirlo alla cittadinanza. Come ai tempi di Copernico siamo sull’orlo di una nuova rivoluzione nel campo dell’astrofisica e l’Istituto Nazionale di Astrofisica di questa rivoluzione è protagonista, con le sue ricerche di frontiera che porteranno a una conoscenza sempre più profonda dell’Universo in cui viviamo”.
Il Museo Astronomico e Copernicano dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Roma possiede un patrimonio che abbraccia un periodo storico che va dall’XI secolo ai nostri giorni. Gli strumenti scientifici, i libri antichi, gli archivi, i documenti originali e i registri di osservazione provengono principalmente dai due osservatori astronomici romani dell’Ottocento, la Specola del Collegio Romano (1787) e la Specola del Campidoglio (1827), nonché dalle celebri collezioni del Museo Kircheriano (1651).
Questo patrimonio si aggiunge alla originale collezione di opere e cimeli copernicani raccolti dallo storico polacco Arturo Wolynski in occasione delle celebrazioni di Niccolò Copernico (1473-1543) nel 400° anniversario della nascita tenutesi a Roma nel 1873, che costituisce il nucleo originale del Museo e ne motiva la dedicazione al grande scienziato polacco, in visita nella Città Eterna nel corso del Giubileo del 1500.
Sua Eccellenza Ambasciatore della Repubblica di Polonia a Roma Anna Maria Anders commenta: “Per noi polacchi il Museo Astronomico Copernicano è un luogo dell’anima, perché parla della nostra Patria, della nostra cultura, della nostra storia. Questo tempio della scienza e della memoria è anche un simbolo dell’amicizia plurisecolare tra Italia e Polonia, che si rinnova qui a Roma proprio nel 550° della nascita di Copernico”.
Il percorso storico si sviluppa attraverso quattro sale – Strumenti pre-galileiani e cannocchiali antichi; Evoluzione dell’ottica; Geodesia, Topografia e computo del Tempo; Globi terrestri e Celesti – che conducono alla più ampia Sala Copernicana riservata ad esposizioni temporanee e a un’ultima stanza che illustra presente e futuro della ricerca astrofisica in cui l’Italia con l’INAF è protagonista a livello globale.
“Il nuovo allestimento inaugurato in occasione dei 550 anni della nascita di Copernico, consentirà ai visitatori di muoversi attraverso un percorso che li accompagnerà dalle origini del pensiero astronomico, alla Rivoluzione Eliocentrica che ha dato l’avvio a quella Scientifica, fino ai giorni nostri, toccando le tappe principali che hanno segnato la comprensione del nostro universo con un occhio alla ricchissima storia della scienza del cielo romana” sottolinea Lucio Angelo Antonelli, direttore dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Roma.
Questo percorso condurrà ad una apertura regolare su prenotazione dopo l’estate, in coincidenza con l’avvio del nuovo anno scolastico e un grande congresso Internazionale alla fine di settembre, dedicato proprio alla figura di Copernico e alle sue relazioni con Roma e l’Italia.
Da quel momento il museo sarà visitabile da scuole, gruppi e privati cittadini con modalità che verranno pubblicizzate sul portale dell’INAF e dell’Osservatorio Astronomico di Roma.
IL MUSEO ASTRONOMICO E COPERNICANO
L’idea di un museo copernicano nacque in occasione delle celebrazioni del 4° centenario della nascita di Copernico tenutesi a Roma presso l’Università La Sapienza nel 1873.
Il principale promotore di questa iniziativa fu Artur Wolynski, uno storico polacco studioso di Copernico e di Galileo.
La collezione originaria è costituita da cimeli copernicani, volumi antichi, stampe e materiali di archivio ed è stata raccolta da Wolynski attraverso donazioni provenienti dalla Polonia.
Fu arricchita da materiale scientifico proveniente dagli osservatori astronomici italiani e in particolare da tutta la strumentazione ormai in disuso dei due osservatori astronomici romani del XIX secolo, l’Osservatorio del Collegio Romano e l’Osservatorio del Campidoglio.
Il Museo divenne quindi una collezione completa di strumenti astronomici di tutte le epoche, libri antichi e documenti d’archivio, che mostrano l’evoluzione delle conoscenze astronomiche dalle origini fino alla nascita dell’astrofisica e ai giorni nostri.
La prima sala è dedicata agli strumenti pre-galileiani e alla collezione dei cannocchiali antichi.
Nella teca centrale è esposta la collezione di astrolabi e notturnali.
L’astrolabio arabo valenziano di Ibrahim ibn Said al-Sahli è l’oggetto più antico del museo e risale al 1070. Questo astrolabio proviene dal Museo Kircheriano presso il Collegio Romano ed è stato trasferito al Museo Copernicano nel 1886.
Sempre in questa sala c’è la collezione dei cannocchiali più antichi.
I cannocchiali qui esposti sono del XVII e XVIII secolo e sono realizzati in carta, cartone, pelle e legno.
La seconda sala è dedicata all’evoluzione dell’ottica
Qui è presente anche la collezione di telescopi riflettori realizzati secondo gli schemi ottici proposti da Newton e da James Gregory.
Gli specchi venivano realizzati di metallo (una lega di rame e stagno facilmente levigabile) molto ben lucidato per diventare riflettente.
In questa sala sono esposti anche spettroscopi, che venivano utilizzati nella seconda metà del XIX secolo insieme ai telescopi, dagli astronomi Angelo Secchi e Lorenzo Respighi, direttori rispettivamente dell’Oss. Astr. del Collegio Romano e dell’Oss.Astr. del Campidoglio. Essi furono tra I pionieri dell’astrofisica. Furono tra i primi a condurre studi sistematici dello spettro della luce proveniente dal sole e dalle altre stelle per comprendere le caratteristiche chimiche e fisiche dei corpi celesti. Secchi è considerato il padre dell’astrofisica poiché fu il primo a proporre una classificazione spettrale delle stelle basata sullo studio dello spettro di circa 2000 stelle, ponendo così le basi degli studi successivi che hanno portato alla comprensione dei meccanismi evolutivi delle stelle.
La terza sala è dedicata alla geodesia e alla topografia
In questa sala sono esposte le collezioni di circoli moltiplicatori, teodoliti, grafometri, compassi, goniometri, sestanti, ottanti, orologi solari e meccanici, utilizzati per misurare le coordinate terrestri e celesti.
Questa attività era utile non solo per comprendere i movimenti delle stelle e dei pianeti, ma anche per disegnare le mappe geografiche e i confini dei territori ed anche per identificare le rotte delle navi in mare aperto.
La sala dei globi
La collezione dei globi è molto vasta ed è composta da esemplari di autori delle diverse epoche. I più antichi sono i tre globi di Gerardo Mercatore della metà del XV secolo. Il globo posto al centro della sala è stato realizzato da Vincenzo Maria Coronelli nel 1696.
Individuare fenomeni quantistici attraverso rapporti di causa-effetto
Per comprendere la relazione quantistica fra due eventi, un team di ricercatori del QuantumLab della Sapienza ha sviluppato un nuovo metodo basato sulla misura della forza dei rapporti causa-effetto tra le variabili. La tecnica, eseguita sperimentalmente nei laboratori dell’Ateneo, potrà essere utilizzata per verificare il corretto funzionamento di nuove tecnologie quantistiche
“Qual è il motivo?”, “Perché sta succedendo?” sono domande molto frequenti nella vita quotidiana, in cui spesso si è portarti a chiedersi la causa degli eventi che succedono, cercando motivi più o meno diretti o astratti. La strategia intuitivamente più efficace per capire se due eventi siano l’uno la causa dell’altro è verificare la loro correlazione, ovvero chiedersi: l’evento A succede sempre quando succede l’evento B? Come quando ogni volta che viene spinto un interruttore (evento A) si accende una lampadina (evento B). Tuttavia, questo processo, apparentemente così semplice e immediato, nasconde una grande insidia: quando due eventi sono correlati, possono sia essere la causa l’uno dell’altro ma possono anche essere influenzati da una causa comune, di cui spesso non si tiene conto. Per esempio, ogni anno, in estate, aumentano parallelamente il consumo di gelati e il numero di persone che soffrono di cali di pressione. Questi due eventi sono indubbiamente correlati, ma non sono l’uno la causa dell’altro. Avvengono simultaneamente solo perché hanno una causa comune: l’aumento delle temperature.
Comprendere se due eventi siano causati da un fattore comune o se siano direttamente collegati non è affatto semplice, per cui tali relazioni sono da sempre una sfida per gli scienziati. Secondo la fisica classica è possibile comprendere appieno larelazione causa-effettotra due eventi effettuando una serie di opportune misurazioni. Molto più difficile è quando entrano in gioco effetti quantistici, perché i rapporti di causa-effetto tra un evento A e un evento B hanno conseguenze diverse se questi hanno una causa comune non classica. Tuttavia, la discrepanza tra predizioni classiche e quantistiche può tornare utile proprio per rilevare la presenza di fenomeni quantistici, come avviene nei cosiddetti test di Bell, effettuati per misurare le proprietà di particelle fisicamente separate ma correlate in maniera non classica.
Il gruppo QuantumLab (https://www.quantumlab.it/) della Sapienza Università di Roma ha presentato, in un lavoro recentemente pubblicato sulla rivista Science Advances, unmetodo altamente innovativo che è basato sulla misura della forza dei rapporti causa-effetto tra due variabili. Lo studio è nato nell’ambito di una collaborazione internazionale dell’Ateneo romano con l’International Institute of Physics di Natal (Brasile), l’Università di Colonia (Germania) e l’Università di Gdansk (Polonia).
Il team di fisici, da tempo impegnato nello studio di questi fenomeni con l’obiettivo di creare tecniche per rilevare la presenza di fenomeni quantistici, è partito dal caso in cui un evento A è causa di un evento B e, in più, questi hanno una causa comune quantistica. In tale situazione, si può dimostrare che, per ottenere determinati effetti su B, c’è bisogno di un’influenza causale più debole da parte di A, rispetto al caso classico. Quindi, misurando la forza del rapporto causa-effetto tra A e B, è possibile capire se il processo che stiamo osservando è quantistico oppure puramente classico.
“La novità di questo approccio – afferma Iris Agresti della Sapienza – sta nel fatto che permette di individuare comportamenti quantistici del tutto nuovi, che non potevano essere individuati con le tecniche note finora”.
Per mostrare queste nuove tracce di fenomeni quantistici è stato riprodotto nei laboratori di ottica e informazione quantistica della Sapienza lo schema di rapporti causa-effetto menzionato (chiamato processo strumentale) su una piattaforma fotonica.
In dettaglio, nell’esperimento, gli eventi A e B erano i risultati di due misure su fotoni, mentre la causa comune era una sorgente di stati quantistici.
“Abbiamo generato coppie di fotoni entangled (cioè correlati quantisticamente) e abbiamo implementato il rapporto di causa-effetto tra le misure A e B, scegliendo la misura B in base al risultato di A” – spiega Fabio Sciarrino, coordinatore del gruppo. “Siccome i due fotoni da misurare vengono generati nello stesso istante, per avere il tempo di eseguire la misura A, abbiamo dovuto ritardare il fotone misurato in B tramite una fibra lunga più di 100 metri e abbiamo sfruttato un dispositivo elettro-ottico per cambiare la misura B in pochi nanosecondi”.
Questa tecnica che si basa sulla misura della forza dell’influenza causale tra due eventi per dimostrare la presenza di fenomeni quantistici, che è stata eseguita sperimentalmente dai ricercatori del QuantumLab, ha dei risvolti sia dal punto di vista applicativo, perché potrà essere utilizzata per verificare il corretto funzionamento di nuove tecnologie quantistiche, sia teorico, perché ha permesso di individuare nuove tipologie di comportamenti non classici.
Riferimenti:
Experimental test of quantum causal influences –Iris Agresti, Davide Poderini, Beatrice Polacchi, Nikolai Miklin, Mariami Gachechiladze, Alessia Suprano, Emanuele Polino, Giorgio Milani, Gonzalo Carvacho, Rafael Chaves and Fabio Sciarrino – Science Advances, Vol 8, Issue 8 https://doi.org/10.1126/sciadv.abm1515
Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
L’IMPATTO DEL PRECARIATO SUI PROGETTI DI VITA DEI GIOVANI IN EUROPA
Presentazione del volume “Social exclusion of youth in Europe”, pubblicato nel 2021, che raccoglie dati, statistiche ed esperienze dei giovani europei.
Mercoledì 16 febbraio 2022, dalle 9 alle 13, in diretta streaming dal Campus Luigi Einaudi dell’Università di Torino, si tiene la presentazione del volume“Social exclusion of youth in Europe, the multifaceted consequences of labour market insecurity”, a cura di Sonia Bertolini,docente di sociologia dei processi economici e del lavoroalDipartimento di Culture, Politica e SocietàUniTo, Michael Gebel (Università di Bamberg), Vasiliki Deliyanni-Kouimtzis (Università di Salonicco) e Dirk Hofäcker (Università di Duisburg-Essen). Modera il giornalista Paolo Volpato.
Il volume raccoglie dati, statistiche ed esperienze dei giovani europei raccolti attraverso Horizon Except, il progetto che dal 2016 ha cercato risposte a una serie di interrogativi: Cosa significa diventare autonomi in un mondo precario? Come si vive la progettualità e il percorso del divenire adulti in questo contesto? Quali sono le conseguenze dell’insicurezza sul benessere e sulla scelta di uscire dalla famiglia di origine? Che ruolo ha il significato del lavoro, in questo processo, e come si declinano questi aspetti in paesi diversi, quando diverso è il mercato del lavoro, il sistema di welfare, la cultura?
Social exclusion of youth in Europe rende conto di un lavoro interdisciplinare, comparativo e multi-metodo, fatto di analisi e lettura delle dinamiche tra lavoro e progetti di vita che riguardano i giovani in Europa. Un’iniziativa che ha coinvolto 9 paesi (Bulgaria, Estonia, Germania, Grecia, Italia, Polonia, Svezia, Ucraina e Regno Unito), con 386 interviste e 117 fotografie in tema di “divenire adulti oggi”.
In alcuni paesi come Italia, Polonia e Bulgaria emerge una doppia esclusione dei giovani: si può parlare di una sorta di “insicurezza istituzionalizzata” per indicare quando la precarietà lavorativa produce una serie di esclusioni a catena, ad esempio dal sostegno al reddito (in Italia fino allo scorso anno) o dall’accesso al credito bancario, che in questo Paesi è impossibile da ottenere senza un contratto fisso o la garanzia dei genitori, indipendentemente dal reddito.
In Italia l’insicurezza istituzionalizzata riguarda numeri considerevoli, se pensiamo che il 30% della popolazione giovanile è disoccupata e il 50% ha un contratto precario. La ricerca mette in luce le conseguenze negative sul benessere psicosociale e sull’autonomia psicologica, economica e abitativa: far fronte a questa insicurezza è un compito arduo, perché le strategie individuali e sociali non sono sufficienti per contrastare un sistema fortemente strutturato sull’insicurezza.
I dati degli ultimi anni ci dicono che la pandemia da Covid-19 ha avuto conseguenze sproporzionate su giovani e donne. Questo libro, fornendo una fotografia articolata e comparata della situazione prepandemica, aiuta a comprendere su quali premesse e su quali meccanismi abbia trovato terreno fertile quest’ultima ondata di precarietà ed esclusione.
Il team italiano di Horizon Except all’Università di Torino è composto da Sonia Bertolini, Magda Bolzoni, Chiara Ghislieri, Valentina Goglio, Antonella Meo, Valentina Moiso, Rosy Musumeci, Roberta Ricucci e Paola Torrioni.
Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Torino
Ecco i singoli atomi al lavoro durante la sua produzione elettrochimica
Individuata una via razionale per il design di catalizzatori di nuova generazione
Lo scenario attualmente più accreditato per uno sviluppo basato su fonti energetiche rinnovabili è quello che viene indicato sotto il nome di hydrogen economy. Perché tale ambizioso obiettivo possa essere raggiunto, la soluzione passa attraverso una produzione sostenibile di idrogeno a partire dall’acqua attraverso un processo elettrochimicoa basso costo. Questo idrogeno viene usualmente chiamato idrogeno verde per il basso impatto ambientale e per la virtualmente infinita disponibilità della materia prima qualora si riuscisse ad impiegare l’acqua degli oceani.
Tutto ciò necessita però di un’ottimizzazione dei catalizzatori indispensabili a rendere il processo elettrochimico economico ed efficiente. Attualmente i ricercatori del campo stanno studiando un percorso razionale che permetta l’ottimizzazione dei materiali catalitici atti a raggiungere tale obiettivo.
Il Surface Science and Catalysis Group (SSCG) del Dipartimento di Scienze Chimiche (DiSC) dell’Università di Padova diretto dal prof. Gaetano Granozzi, in collaborazione con il gruppo teorico dell’Università di Milano Bicocca diretto dalla prof.ssa Cristiana Di Valentin, ha raggiunto uno straordinario risultato che sarà di forte impatto per gli sviluppi futuri nel campo della produzione di idrogeno.
Con il titolo “Operando visualization of the hydrogen evolution reaction with atomic scale precision at different metal-grapheneinterfaces” è stata pubblicata sulla rivista «Nature Catalysis» la ricerca coordinata daStefano Agnoli del Dipartimento di Scienze Chimiche dell’Università di Padova in cui, attraverso una strumentazione estremamente sofisticata (Electrochemical Scanning Tunneling Microscopy, EC-STM) sviluppata a Padova in collaborazione con il gruppo di elettrochimica dello stesso Dipartimento, sono stati visti con risoluzione atomica i singoli siti catalitici durante il processo elettrochimico di produzione dell’idrogeno (tale metodologia è usualmente indicata con il termine in operando). Il metodo EC-STM è stato applicato a sistemi catalitici innovativi basati su materiali bidimensionali a base di grafene e metalli non nobili, che rappresentano una strada alternativa ai materiali standard usati attualmente per la decomposizione elettrochimica dell’acqua richiedenti l’uso di metalli nobili di alto costo e scarsa reperibilità. La qualità dei dati ottenuti è senza precedenti ed è stata interpretata attraverso metodi di simulazione quantomeccanica all’avanguardia sviluppati all’Università di Milano Bicocca.
«Il presente studio ha reso possibile identificare con precisione atomica la presenza di siti catalitici e valutare direttamente in situ la loro capacità di produrre idrogeno. Questa combinazione davvero unica di risoluzione spaziale e quantificazione dell’attività elettrocatalitica – dice Stefano Agnoli coordinatore dello studio – consente di stabilire in modo estremamente accurato le relazioni che legano la struttura della materia alla reattività chimica e quindi fornisce le informazioni necessarie per costruire atomo dopo atomo catalizzatori ad altissima efficienza».
«L’ottenimento di questi risultati – sottolinea Gaetano Granozzi – è stato reso possibile dalla lunga esperienza maturata dal SSCG dell’Università di Padova operante nel campo sin dal tempo della sua fondazione avvenuta nel 1990».
«Le metodologie e le risorse computazionali attualmente disponibili – sostiene Cristiana Di Valentin – rendono possibile la simulazione di sistemi molto vicini al campione reale sperimentale con straordinario beneficio per l’interpretazione delle osservazioni in termini di proprietà atomiche della materia e meccanismi di reazione».
Link alla ricerca: https://doi.org/ 10.1038/s41929-021-00682-2
Titolo: “Operando visualization of the hydrogen evolution reaction with atomic scale precision at different metal-grapheneinterfaces” – «Nature Catalysis» – 2021
Autori: Tomasz Kosmala,1,2 Anu Baby,3 Marco Lunardon,1Daniele Perilli,3 Hongsheng Liu,3 Christian Durante,1 Cristiana Di Valentin,3 Stefano Agnoli*1 and Gaetano Granozzi1
1 Dipartimento di Scienze Chimiche and INSTM Research Unit, Università degli Studi di Padova,
2 Institute of Experimental Physics, University of Wrocław, pl. M. Borna 9, 50-204 Wrocław, Poland
3 Dipartimento di Scienza Dei Materiali, Università degli Studi di Milano-Bicocca, Milano, Italy
Testo e foto dagli Uffici Stampa Università degli Studi di Padova e Università degli Studi di Milano-Bicocca
UNA NUOVA APP PER IL MONITORAGGIO PARTECIPATIVO DEI MAMMIFERI SELVATICI: MAMMALNET, LA SCIENZA A PORTATA DI TUTTI
Scaricando l’app e condividendo gli avvistamenti di mammiferi selvatici, i cittadini potranno interagire direttamente con scienziati ed esperti, comprendere la natura e supportare attivamente la conservazione della biodiversità.
Venerdì 16 aprile, in diretta streaming sulla piattaforma ZOOM è stato presentato alla stampaMammalNet, il progetto promosso dall’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (European Food Safety Authority, EFSA), e coordinato in Italia dalle Università di Torino e Sassari, che ha l’obiettivo di monitorare e conservare i mammiferi selvatici europei tramite il coinvolgimento dei cittadini e l’utilizzo di un’App specifica per Android e iPhone.
Con MammalNetnaturalisti, ambientalisti, escursionisti, cacciatori e cittadini parteciperanno attivamente alla citizen science, attraverso la condivisione delle proprie osservazioni di mammiferi selvatici, e contribuiranno direttamente alla comprensione della natura e della biodiversità, attività fondamentale per coadiuvare le ricerche faunistiche di pubblico interesse. MammalNetoffre diversi strumenti tecnologici che possono aiutare i cittadini, e con loro gli studiosi, a documentare la presenza di mammiferi nel loro habitat.
Il progetto mette a disposizione di tutti iMammalia, un’app gratuita disponibile per i dispositivi Android e iPhone, che permette di registrare e condividere avvistamenti di mammiferi o dei loro segni e tracce in modo semplice e veloce. L’app include inoltre guide per identificare le diverse specie e può memorizzare tutte le osservazioni in modo da fornire un registro dettagliato di tutti gli avvistamenti. Attraverso le informazioni caricate dagli utenti si potrà registrare quali specie siano presenti in un determinato territorio e avere una migliore percezione di quali specie invece potrebbero essere assenti. Queste informazioni sono importanti per comprendere e prevedere con precisione la distribuzione delle specie e verranno utilizzate per aiutare a creare il prossimo Atlante Europeo dei Mammiferi.
Gli appassionati potranno anche contribuire con immagini acquisite mediante trappole fotografiche. Pur senza essere esperti, molti cittadini sono perfettamente in grado di distinguere alcune specie di mammiferi, come conigli, lepri, volpi. Per altre specie tuttavia hanno bisogno del confronto di un esperto. Grazie all’impiego degli strumenti messi a disposizione dal progetto questa interazione con studiosi ed esperti sarà semplice ed efficace. Tutte le registrazioni saranno inviate alla una piattaforma web https://european-mammals.brc.ac.uk/ alla quale si potrà accedere per visualizzare anche le osservazioni degli altri utenti per vedere, ad esempio, quali aree geografiche o specie non sono ancora state incluse.
Il Progetto MammalNet ha inoltre lo scopo di affrontare alcune delle sfide ambientali attuali come i cambiamenti climatici, la perdita di biodiversità, le zoonosi e le malattie emergenti legate alla fauna selvatica. I mammiferi selvatici influenzano anche la trasmissione di malattie che colpiscono il bestiame e gli esseri umani. Una buona comprensione della distribuzione dei mammiferi può aiutare a prendere decisioni basate su dati oggettivi, con l’obiettivo di ridurre il rischio di trasmissione.
“A molti cittadini capita di osservare i mammiferi selvatici che vivono intorno a loro. L’avvistamento di una volpe in movimento o di un capriolo su un prato, o il riconoscimento di un animale investito sono preziose fonti di informazione per i ricercatori, e possono essere facilmente condivise usando iMammalia” dichiara Ezio Ferroglio, docente del Dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università di Torino e partner del progetto.
“Le trappole fotografiche ci forniscono informazioni essenziali su dove e come vivono i mammiferi. Possono essere messe anche nel proprio giardino. È stupefacente vedere cosa sono in grado di fotografare. Se non si ha esperienza, si possono condividere le immagini ottenute e lasciarle classificare agli esperti; pian piano si può imparare a riconoscere gli animali che ci circondano”, sostiene Massimo Scandura, professore dell’Università di Sassari, anche lui partner di MammalNet.
Durante la prima fase del progetto, i paesi coinvolti sono stati Spagna, Germania, Polonia e Croazia. Ora, nella seconda fase, nuovi Paesi si sono aggiunti tra cui l’Italia. MammalNet è un’opportunità per tutti per contribuire attivamente alla conservazione dei mammiferi, semplicemente limitandosi ad osservarli o a rilevarne la presenza attraverso i loro segni.
Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Torino