Polarizzazione politica e interazioni sui social: esistono schemi comuni a livello internazionale La ricerca pubblicata su Nature Communications, che ha coinvolto il Dipartimento di Informatica della Sapienza, mette in luce le dinamiche comuni della polarizzazione politica online su scala globale. Grazie all’analisi delle interazioni tra gli utenti su piattaforme online in ben nove Paesi, i ricercatori hanno rilevato l’esistenza di pattern ripetuti in diversi contesti nazionali.
La polarizzazione politica sui social network è un fenomeno internazionale. Al di là delle specificità dei singoli contesti nazionali – che differiscono per cultura, storia, sistema politico – il dibattito politico online si articola seguendo pattern comuni a livello globale. Lo studio, pubblicato su Nature Communications e condotto da un team internazionale di ricercatori, tra cui Walter Quattrociocchi, direttore del Centro per la Data Science e la complessità per la società della Sapienza, mira a individuare le dinamiche comunicative che vanno oltre i confini politici dei singoli Stati.
Grazie ad una analisi effettuata nel 2022 sulle interazioni che avvenivano su una specifica piattaforma in nove Paesi anche molto diversi tra loro (Canada, Francia, Germania, Italia, Polonia, Spagna, Turchia, Regno Unito e Stati Uniti), il gruppo di ricercatori, composto da scienziati sociali e informatici, ha individuato molteplici elementi ricorrenti.
La polarizzazione politica – presente anche nel mondo offline – appare particolarmente visibile nel mondo dei social network, soprattutto per la struttura intrinseca delle piattaforme online. In tutti i Paesi analizzati, le reti di interazione politica sui social sono risultate strutturalmente polarizzate lungo linee ideologiche (ad esempio destra/sinistra).
“Su quella che era la piattaforma Twitter, l’ostilità tra gruppi politici contrapposti è manifesta – spiega Walter Quattrociocchi. Questo, a livello comunicativo, si traduce in interazioni più tossiche rispetto a quelle osservabili tra i membri appartenenti allo stesso gruppo politico. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, le interazioni tossiche coinvolgono meno gli utenti. Per questi contenuti, il numero di like infatti appare minore rispetto a quello delle interazioni meno tossiche”
La ricerca mette in evidenza come la polarizzazione politica non sia un fenomeno limitato a una singola nazione, ma presenti caratteristiche simili tra diverse culture e contesti nazionali.
“Comprendere questi pattern comuni – commenta Quattrociocchi – è essenziale per poter pensare a soluzioni efficaci in grado di ridurre l’ostilità politica e promuovere un dialogo più costruttivo”.
Riferimenti bibliografici:
Patterns of partisan toxicity and engagement reveal the common structure of online political communication across countries – Falkenberg, M., Zollo, F., Quattrociocchi, W. et al. Nature Communications (2024), DOI: https://doi.org/10.1038/s41467-024-53868-0
Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
COME SE NON CI FOSSE UN DOMANI, un film documentario di Riccardo Cremona e Matteo Keffer
Scritto con la consulenza di Paolo Giordano
una produzione Motorino Amaranto e GreenBoo Production
con Maestro Distribution
COME SE NON CI FOSSE UN DOMANI è il documentario sul movimento Ultima Generazione che sarà presentato in anteprima mondiale nella sezione Special Screenings della 19° edizione della Festa del Cinema di Roma il prossimo 25 ottobre 2024e sarà prossimamente nelle sale italiane distribuito da Maestro Distribution.
COME SE NON CI FOSSE UN DOMANI è diretto da Riccardo Cremona e Matteo Keffer, due registi con all’attivo numerosi lavori su temi sociali e ambientali che per la prima volta si cimentano in un lungometraggio per il grande schermo, ed è stato scritto con la consulenza di Paolo Giordano.
È una produzione Motorino Amaranto e GreenBoo Production con Maestro Distribution e prodotto da Ottavia Virzì.
COME SE NON CI FOSSE UN DOMANI racconta le azioni, le discussioni, i dubbi, le speranze del gruppo di attivisti climatici impegnati da anni in una campagna di disobbedienza civile non violenta, che ha attirato l’attenzione dei media e della politica tramite iniziative controverse come blocchi stradali e imbrattamenti di palazzi istituzionali e opere d’arte. Una narrazione onesta ed equilibrata ci racconta quello che succede dietro le quinte delle loro proteste attraverso il punto di vista e le storie personali di cinque protagonisti del movimento che si intrecciano con gli eventi della cronaca.
Il movimento si definisce l’ultima generazione in grado di fermare la curva di una emergenza climatica che ha ormai superato la soglia critica e COME SE NON CI FOSSE UN DOMANI prova a dipingere il ritratto corale di questo gruppo e la loro battaglia indomabile affinché invece ci possa essere un domani.
Affermano i due registi Riccardo Cremona e Matteo Keffer: “Raccontare questa storia non è stato semplice. La crisi climatica non è un singolo evento o problema: è il contesto in cui ormai viviamo. Ma soprattutto non è stato facile – e non lo è tutt’ora – confrontarsi con l’istinto del tutto umano di sopprimere il pensiero doloroso dell’enormità delle sue conseguenze e della nostra responsabilità individuale e collettiva nel lasciare che accada. Allo stesso tempo, raccontare le storie di queste persone che hanno deciso di rischiare gravi conseguenze personali pur di lottare per il bene comune, ci ha regalato la possibilità di esplorare i pensieri e le emozioni di una generazione inascoltata che per la prima volta nella Storia non vede un letteralmente un futuro e che, nonostante questo, trova la forza di reagire giocandosi tutto su una piccola possibilità di cambiare il corso delle cose. Queste persone appartengono a una generazione che, per la prima volta nella storia, non vede un futuro. Eppure trovano la forza di agire, scommettendo tutto su una possibilità di cambiamento. Per noi parlare con loro e raccontare la loro visione del mondo è stato anche confrontarci con le nostre contraddizioni e mettere in discussione i nostri pregiudizi e la nostra indifferenza. In fondo, ci pongono una domanda tanto semplice quanto profonda: cosa conta davvero per me? La risposta a questa domanda è il cuore di questa storia.”
Testo, video e immagini dall’Ufficio Stampa Echo Group.
Esiste una relazione tra fiducia nella scienza e nelle università e opinioni circa il cambiamento climatico?
A cercare di rispondere a questa e ad altre domande, uno studio di grande attualità, appena pubblicato su PLoS Climate.
Nonostante il forte consenso della più gran parte degli studiosi sul fatto che il clima della terra stia cambiando e che le attività umane giochino un ruolo importante in questo, è pur vero che il tema scatena una partigianeria fortemente polarizzata negli Stati Uniti, che porta al negazionismo (dall’abstract dello studio su PLoS Climate).
Il risultato potrebbe essere dovuto all’azione della retorica aziendale e di alcune organizzazioni non profit, e risulta associato alle élite del Partito Repubblicano.
Tutto questo ha creato notevole frustrazione nella comunità scientifica (p. 2), al punto che già due anni fa si è addirittura affermato che il contratto tra scienza e società si è ormai rotto, invocando una moratoria sul tema (dall’abstract del secondo studio qui in bibliografia, quello su Climate and Development).
Tornando alla ricerca in questione, la stessa vuole quindi gettare luce sulle determinanti politiche e sociali dell’azione climatica (p. 2 del nuovo studio).
Parafrasando Claude Lévi-Strauss (Il crudo e il cotto, 1964), importante è porsi le giuste domande, ancor più che dare le giuste risposte. A p. 3 gli autori si interrogano:
Come la fiducia nella scienza si associa al considerare il cambiamento climatico un problema?
Come la fiducia nella scienza si associa a punti di vista sul fatto che il cambiamento climatico sia causato dalla natura o dall’uomo?
Chi ha fiducia nei centri di ricerca universitari?
Il contesto: Ricerche precedenti hanno individuato due diversi processi comportamentali: un rifiuto psicologico della scienza (Psychological Science Rejection – PSR) e un rifiuto ideologico della scienza (Ideological Science Rejection – ISR).
Mentre la prima potrebbe essere aumentata nel tempo, la seconda prospettiva sottolinea la crescita del populismo e la diminuita fiducia nella politica, l’effetto polarizzante dei media, che va quindi ad influire sulla fiducia nella scienza. Alcuni media trattano la scienza in maniera “relativistica”, considerandola semplicemente come un’opinione tra tante, oppure mostrando un “falso equilibrio” tra scienziati e scettici (p. 2).
Storicamente, la fiducia nella scienza negli Stati Uniti è sempre stata alta, pur dovendo considerare differenze regionali, religiose, o legate ad altre forme di partigianeria (p. 3).
Il sondaggio: La ricerca su PLoS Climate espone i risultati di un sondaggio su un campione rappresentativo di statunitensi (p. 3), ponderato sulla base di elementi che attengono alla persona, oltre che educazione, regione geografica, voto alle elezioni presidenziali del 2020 (p. 5).
Per gli autori, il cambiamento climatico è una sfida globale che necessita un approccio collaborativo e interdisciplinare, tanto per comprendere come per affrontare il problema. Considerando questo, e rispondendo quindi alla prima domanda, si tratta perciò di un tema cruciale che permette di misurare la fiducia pubblica nella scienza (p. 4).
Per quanto non ci sia accordo interdisciplinare su come concettualizzare fiducia e sfiducia, gli autori considerano un tipo di fiducia verso le istituzioni, che si relaziona alle performance delle istituzioni, perché ovviamente è la nostra esperienza delle stesse (che può essere anche indiretta, per il tramite di altri) a condizionare il nostro giudizio. Più nel dettaglio, non si tratta di istituzioni governative o di media in questo caso: le istituzioni prese in considerazione sono scienziati, centri di ricerca, università, per i quali gli statunitensi possono non avere esperienza diretta e quindi basare la loro fiducia su altri elementi, ad esempio di carattere legati all’ideologia, alla religione o forme di partigianeria (pp. 4-5).
Un sondaggio del 2020 rivelava una forte divisione: quasi il 50% degli statunitensi crede che il cambiamento climatico abbia cause antropiche, mentre una percentuale simile è divisa tra coloro che ritengono che le cause siano di origine naturale e coloro che ritengono non ci siano prove di un riscaldamento globale (p. 4).
Ad alcuni anni di distanza dal precedente, il nuovo sondaggio rivela dati un po’ diversi, per cui il 45% degli statunitensi pensano che il cambiamento climatico sia un problema molto importante, il 23% pensa che in qualche modo sia un problema importante, il 18% pensa che sia un problema poco importante e il 14% pensa che non sia un problema.
Il nuovo sondaggio ha semplificato il discorso della cause, per cui il 59% degli statunitensi pensa che il cambiamento climatico sia dovuto alle attività umane e il 41% (Fig. 1 a p. 8).
Secondo l’età, chi ha tra i 45 e i 64 anni, o 64 e più anni è meno incline a pensare che il cambiamento climatico sia un problema importante. Le donne sono più inclini degli uomini. Sulla stessa domanda, non vi sono state informazioni significative relativamente alla fonte delle informazioni, ad esempio, se gli intervistati si informassero alla radio o con fonti online.
Per rispondere alla seconda e alla terza domanda, le ipotesi verificate statisticamente sono che gli schieramenti sul cambiamento climatico siano determinati dall’ideologia e dalle visioni dei due partiti (Democratici e Repubblicani), per cui ad es. un democratico più probabilmente crederà che il cambiamento climatico è un problema; tra i conservatori, coloro che si identificano come moderati o liberal più probabilmente degli altri risponderanno che è un problema importante. Oltre a questo, coloro che hanno una bassa fiducia nella scienza risponderanno con minore probabilità che il cambiamento climatico è causato dalle attività umane (p. 10).
Gli autori sottolineano che si tratti di dati significativi e di magnitudine considerevole.
Mentre coloro che Ebrei e Cattolici sono più inclini a ritenere che il cambiamento climatico sia causato dalle attività umane, coloro che non professano alcuna fede registrano valori ancora più alti. Coloro che partecipano più spesso alle funzioni religiose sono più inclini a credere che il cambiamento climatico sia dovuto a cause naturali.
Per quanto riguarda la fiducia verso i centri di ricerca universitari, democratici e moderati si sono rivelati più inclini ad averla rispetto agli indipendenti.
In conclusione, gli autori constatano pure che studi empirici come questo siano pochi in letteratura, auspicando ulteriori ricerche sul tema, per diversi aspetti. Auspicano però soprattutto una cultura dove la ricerca e la comunicazione scientifica ricevano fiducia, costruendola già nell’educazione primaria e secondaria.
Con la premessa importante che quello su PLoS Climate è uno studio basato sul pubblico degli Stati Uniti, vi è una quarta domanda che ovviamente non è nella ricerca ma che viene naturale porsi: quanto queste considerazioni potrebbero essere valide anche per l’Italia?
Pure nel nostro Paese registriamo una fortissima polarizzazione su questi temi e il presentarsi delle medesime condizioni: il populismo in ascesa, la visione “relativistica” come i dibattiti “falsamente equilibrati” sui media, ecc.
Non sarebbe certo corretto rispondere senza dati a sostegno, ma – visto quanto sopra – il sospetto che si possano conseguire risultati non dissimili potrebbe forse accompagnarci e spingere qualcuno a ripetere l’esperimento anche nel nostro Paese.
Riferimenti bibliografici:
R. Michael Alvarez, Ramit Debnath, Daniel Ebanks, Why don’t Americans trust university researchers and why it matters for climate change, PLoS Climate (2023) 2(9): e0000147. DOI: 10.1371/journal.pclm.0000147
Bruce C. Glavovic, Timothy F. Smith & Iain White(2021)The tragedy of climate change science,Climate and Development,14:9,829-833,DOI: 10.1080/17565529.2021.2008855
PEW, The politics of climate; 2020. Link: https://www.pewresearch.org/science/2016/10/04/the-politics-of-climate/
Destra o sinistra? Te lo dice l’elettricità nel cervello!
Uno studio coordinato dalla Sapienza mostra come le scelte elettorali possano essere predette da specifiche attività elettriche cerebrali.
Un nuovo studio pubblicato su Scientific Reports, una prestigiosa rivista del gruppo Nature, mostra come le scelte elettorali possano essere predette da specifiche attività elettriche cerebrali. La ricerca è il risultato del lavoro di un gruppo interdisciplinare di neuroscienziati, psicologi e politologi, nato dalla collaborazione tra Sapienza Università di Roma, Kingston University London, Luiss Guido Carli, Università di Roma “Tor Vergata” e Università di Melbourne.
Lo studio è stato condotto nelle cinque settimane precedenti le elezioni europee 2019, in cui il dibattito politico era dominato dalla contrapposizione fra i partiti populisti e i partiti mainstream. I partecipanti alla ricerca hanno preso parte a un sondaggio pre-elettorale con frasi che esprimevano posizioni più o meno populiste in relazione a un’ampia gamma di tematiche, dall’immigrazione all’economia, all’Unione europea. Tuttavia, a differenza di un tradizionale sondaggio pre-elettorale, i partecipanti hanno risposto al sondaggio mentre veniva registrata la loro attività cerebrale, presso il laboratorio diretto da Viviana Betti del Dipartimento di Psicologia della Sapienza.
Gli autori hanno utilizzato un elettroencefalografo (EEG), uno strumento che registra l’attività elettrica del cervello. In particolare, l’interesse è stato focalizzato sulla N400, una attività elettrica cerebrale che si manifesta come un’onda che viene prodotta dal cervello ogni qual volta ci troviamo di fronte a informazioni in disaccordo con le nostre convinzioni. Nella settimana successiva al voto tutti i partecipanti sono stati ricontattati ed è stato loro chiesto per quale partito avessero votato. L’aspettativa degli studiosi, confermata poi dai risultati, era che il cervello dei partecipanti rispondesse con una onda N400 ad ogni frase che fosse in disaccordo con le proprie convinzioni di natura politica, e che l’ampiezza dell’onda N400 predicesse il voto.
In effetti, i risultati hanno dimostrato che il cervello rispondeva in modo diverso a seconda delle convinzioni politiche dei partecipanti: l’onda N400 si manifestava in modo deciso al disaccordo politico, ad esempio in risposta a contenuti populisti in partecipanti simpatizzanti per partiti non populisti. Non solo. L’ampiezza di questa risposta cerebrale era in grado di predire, con un’elevata accuratezza, se i partecipanti avessero in seguito espresso un voto populista o un voto per un partito mainstream, con una capacità predittiva superiore a classici predittori di voto tipicamente usati nelle predizioni elettorali. Un dato sorprendente è che il segnale cerebrale N400 era evidente in risposta a frasi riguardanti tematiche economiche, come il reddito di cittadinanza. In sostanza, il cervello si attivava in modo diverso per contenuti populisti e non populisti, ma solo quando questi contenuti erano legati a questioni economiche piuttosto che a questioni tradizionalmente legate al populismo, come il sovranismo o l’avversione all’establishment.
Cosa ci dicono i risultati di questo studio? Innanzitutto che la registrazione dell’attività cerebrale, in aggiunta alle risposte esplicite ai sondaggi, consente un aumento della capacità predittiva dei sondaggi stessi. E non è difficile capirne il perché se si pensa che spesso le risposte ai sondaggi, di qualunque tipo essi siano, sono influenzate dal cosiddetto social desirability bias, ovverosia la tendenza a fornire risposte socialmente accettabili. In questo senso, la registrazione dell’attività cerebrale consente di “bypassare” la risposta esplicita delle persone e di accedere a opinioni o attitudini più veritiere.
Un altro potenziale vantaggio della registrazione dell’attività cerebrale riguarda i votanti indecisi. Già in uno studio precedente del 2016, condotto da uno degli autori nei giorni precedenti il referendum sulla Brexit, le risposte cerebrali dei votanti indecisi furono predittive del successivo voto “Leave” o “Remain”. A dimostrazione del fatto che i votanti indecisi possono avere delle preferenze “embrionali”, non ancora consapevoli, che tuttavia possono essere rilevate tramite l’attività cerebrale.
I tradizionali sondaggi pre-elettorali hanno sicuramente dei vantaggi rispetto alla misurazione dell’attività cerebrale, non ultimo la possibilità di raccogliere informazioni da un numero elevato di persone con costi e tempi ridotti. Tuttavia, i risultati di questo nuovo lavoro dimostrano come l’utilizzo di metodi neuroscientifici consenta una predizione più accurata e dettagliata. Sulla scia di studi di neuroeconomia, che hanno dimostrato come le risposte cerebrali del singolo individuo possano predire scelte collettive, si può suppore che questo studio sia un primo passo verso una “neuropredizione” delle scelte elettorali.
Riferimenti:
Early EEG responses to pre-electoral survey items reflect political attitudes and predict voting behavior – Giulia Galli, Davide Angelucci, Stefan Bode, Chiara De Giorgi, Lorenzo De Sio, Aldo Paparo, Giorgio Di Lorenzo & Viviana Betti – Scientific Report. DOI: https://doi.org/10.1038/s41598-021-96193-y
Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma sullo studio che mostra come attività elettriche cerebrali possano permettere di predire le scelte elettorali.
Te lo leggo negli occhi! Come stimoli politici influenzano la decisione di mentire agli altri
Un nuovo studio italiano, coordinato da un team di ricerca del Dipartimento di Psicologia della Sapienza, ha osservato l’influenza che volti e parole della politica possono avere sul comportamento morale degli elettori “indecisi”. I risultati del lavoro, pubblicati sulla rivista Scientific Reports, sono stati ottenuti attraverso l’analisi del comportamento oculomotorio di un campione di persone prive di una convinzione ideologica precisa
Gli occhi non mentono perchè secondo alcuni sono lo specchio dell’anima.
Dal movimento oculare è possibile capire se una persona mentirà o dirà la verità e ottenere anche informazioni utili sulle ragioni e sulle modalità dell’uno o dell’altro comportamento e sulle relative conseguenze.
È quanto ha dimostrato il team di ricerca composto da Michael Schepisi, Giuseppina Porciello, Salvatore Maria Aglioti e Maria Serena Panasiti del Dipartimento di Psicologia della Sapienza in un nuovo lavoro pubblicato sulla rivista Scientific Reports.
L’obiettivo generale dello studio è stato quello di indagare se la presentazione di stimoli politici di diversa natura (volti di politici vs. parole ideologiche) e associati a diverse ideologie (sinistra vs. destra) potesse influenzare la tendenza di persone politicamente indecise a mentire. Inoltre, attraverso la registrazione dei movimenti oculari dei partecipanti è stato possibile avere un indice attentivo in grado di predire il processo decisionale che porta a tale comportamento.
Nello specifico, i risultati mostrano come alcune parole ideologiche (es. “condivisione”, “tolleranza”) possano essere utilizzate più efficacemente per veicolare messaggi che influiscono sul comportamento morale dei partecipanti, portandoli a mentire di più per l’interesse altrui e meno per quello personale.
A queste conclusioni si è arrivati attraverso un esperimento nel quale ai partecipanti è stato chiesto di cimentarsi in un gioco di carte contro avversari dal differente status socioeconomico. In palio una ricompensa monetaria per ottenere la quale i giocatori potevano decidere se mentire o dire la verità ai loro avversari riguardo all’esito del gioco.
“L’analisi dei movimenti oculari dei partecipanti – spiega Michael Schepisi della Sapienza, primo autore del lavoro – ha inoltre evidenziato come gli stimoli ideologici avessero influenzato le loro decisioni durante il gioco spostandone il focus attentivo: in seguito all’esposizione di stimoli di sinistra i partecipanti tendevano a prestare più attenzione alle informazioni relative allo status dei propri avversari che al risultato del gioco, condizionando i successivi comportamenti e il contatto oculare a seconda della posizione socioeconomica degli avversari stessi”.
I ricercatori hanno visto che i partecipanti modellavano il loro comportamento mentendo meno agli avversari di basso status, ossia quelli percepiti come probabilmente più “deboli”. Inoltre, dopo aver mentito, i partecipanti tendevano a distogliere lo sguardo dagli avversari di alto status e a mantenerlo verso quelli di basso status.
“I risultati del nostro studio, che rientra nel progetto ERC Advanced Grant eHONESTY, – conclude Salvatore Maria Aglioti – offrono nuove evidenze circa il modo in cui un priming ideologico puo’ influenzare il processo decisionale di tipo morale e suggeriscono come il comportamento oculomotorio possa fornire informazioni cruciali su come questo processo abbia luogo”.
Riferimenti:
Oculomotor behavior tracks the effect of ideological priming on deception – Michael Schepisi, Giuseppina Porciello, Salvatore Maria Aglioti & Maria Serena Panasiti – Sci Rep 10, 9555 (2020) https://doi.org/10.1038/s41598-020-66151-1
Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma.