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Parassiti del melo: approcci innovativi e sostenibili dalla ricerca internazionale da due progetti tra Alto Adige, Germania e Lussemburgo

Un gruppo di ricerca coordinato dal prof. Hannes Schuler del Centro di competenza per la salute delle piante è coinvolto in nuovi progetti internazionali di ricerca volti a individuare alternative innovative e sostenibili nella lotta contro le malattie del melo. A maggio hanno preso il via due progetti congiunti con partner in Germania e Lussemburgo. L’obiettivo? Comprendere meglio il ruolo degli insetti vettori e dei batteri simbionti nella trasmissione di patogeni che causano gli scopazzi del melo.

Gli scopazzi del melo sono una delle fitopatie più problematiche per la melicoltura altoatesina da oltre vent’anni. Causata da fitoplasmi, batteri privi di parete cellulare, la malattia si trasmette attraverso insetti fitofagi (che si nutrono della linfa o dei contenuti cellulari delle piante), in particolare le psille. Tali insetti, nutrendosi della linfa di piante infette, possono acquisire i fitoplasmi, che si replicano al loro interno e vengono poi trasmessi ad altre piante sane durante l’alimentazione.

Nel progetto VectoRise — una collaborazione tra unibz, l’Istituto di Scienza e Tecnologia del Lussemburgo (Luxembourg Institute of Science and Technology) e l’istituto tedesco RLP AgroScience — l’attenzione dei ricercatori si concentra sul ruolo della psilla del biancospino.

« In Germania, questa specie non è rilevante per la trasmissione dei fitoplasmi ma i nostri studi precedenti hanno dimostrato che in Alto Adige è in grado di acquisire e probabilmente anche trasmettere il patogeno», spiega il prof. Hannes Schuler.  «Comprendere i fattori alla base di queste differenze regionali nell’efficienza vettoriale è essenziale per sviluppare alternative più sostenibili agli insetticidi».

Nella collaborazione, il team unibz si occuperà di genomica, studiando quali geni influenzano la capacità dell’insetto di acquisire e trasmettere i fitoplasmi. I ricercatori lussemburghesi analizzeranno invece se le variazioni regionali della psilla modificano la trasmissibilità del patogeno e se l’aumento delle temperature legato al cambiamento climatico possa accelerarne la diffusione.

Struttura sperimentale di un esperimento di trasmissione del fitoplasma
Parassiti del melo: approcci innovativi e sostenibili dalla ricerca internazionale da due progetti tra Alto Adige, Germania e Lussemburgo. Struttura sperimentale di un esperimento di trasmissione del fitoplasma

Un viaggio nel tempo attraverso centinaia di milioni di anni

Un secondo progetto congiunto, sviluppato dalla Facoltà di Scienze Agrarie, Ambientali e Alimentari insieme alla Deutsche Forschungsgemeinschaft (DFG), al Max-Planck-Institut di Jena, alla Martin-Luther-Universität di Halle-Wittenberg e al Naturmuseum di Berlino, esplora la storia evolutiva della simbiosi tra psille e batteri. Questi microrganismi forniscono nutrienti essenziali agli insetti fitofagi come aminoacidi assenti nella linfa vegetale, e rappresentano un elemento chiave per la sopravvivenza degli insetti vettori.

Combinando sequenziamento genomico, ricostruzioni filogenetiche e microscopia a fluorescenza, gli scienziati studieranno oltre cento specie di psille per comprendere le dinamiche della coevoluzione con i loro simbionti batterici.

«Questo progetto – conclude Schuler – non solo approfondirà la nostra conoscenza delle interazioni insetto-microbo, ma potrà offrire strumenti concreti per bloccare la trasmissione di malattie vegetali».

il prof. Hannes Schuler
il prof. Hannes Schuler

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa e organizzazione eventi Libera Università di Bolzano – Freie Universität Bozen

Banche dei semi: una nuova metodologia indica quali specie conservare per salvare le piante dall’estinzione (e ridurre i costi)

La ricerca dell’Università di Pisa pubblicata sulla rivista New Phytologist

Circa due specie di piante su cinque nel mondo potrebbero sparire. Per questo motivo, è importante capire quali specie sono più a rischio e trovare i modi efficaci per conservarle.

È questa la sfida raccolta da un gruppo di ricercatori coordinato dal professore Angelino Carta del Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa. Il risultato è stata una nuova metodologia basata sulla rilevanza evolutiva delle specie grazie alla quale sarà possibile integrare le collezioni attualmente conservate nelle banche dei semi. Lo studio pubblicato sulla rivista New Phytologist promette inoltre anche dei risparmi in termini economici. Al progetto hanno partecipato ricercatori della Stazione Biologica Doñana (Spagna), degli Orti Botanici di Ginevra (Svizzera), Meise (Belgio) e Kew (Regno Unito).

L’analisi ha riguardato un imponente set di dati provenienti da 109 banche dei semi comprendente oltre 22.000 specie relative a tutta la flora d’Europa. È così emerso che le banche custodiscono una ricca varietà di piante, ma ancora non coprono completamente tutta la diversità evolutiva possibile. In pratica, alcuni “rami” dell’albero genealogico delle piante europee non sono rappresentati nelle collezioni. Le specie attualmente non conservate, ma il cui campionamento e stoccaggio in banca sarebbe fondamentale, sono sopratutto quelle che rappresentano un unicum evolutivo perché mostrano delle strategie riproduttive singolari o sono confinate ad aree geografiche limitate.

“Si tratta di un metodo che può essere personalizzato per adattarlo a diversi obiettivi di conservazione, fino all’esaurimento del budget disponibile – sottolinea Carta – La nostra ricerca rappresenta quindi un passo fondamentale per future azioni di conservazione, i risultati possono servire come base di discussione per promuovere nuove politiche, incluso la salvaguardia delle specie in via di estinzione, la resilienza dei sistemi agroalimentari e l’identificazione delle specie più adatte al restauro degli habitat in uno scenario di cambiamenti climatici”.

Il cortile del Palazzo della Sapienza dell’Università degli Studi di Pisa. Foto di Antonio D’Agnelli, in pubblico dominio

Testo dall’Ufficio Comunicazione di Ateneo dell’Università di Pisa.

Alla riscoperta del fico, coltura strategica per aumentare sostenibilità e produttività del bacino del Mediterraneo

L’Università di Pisa capofila del progetto europeo AGROFIG con il gruppo di ricerca in genomica vegetale del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali

È una risorsa preziosa per la sua capacità di adattarsi a condizioni difficili, le sue radici vanno in profondità riducendo l’erosione, attira impollinatori e fauna selvatica, contribuendo alla biodiversità, i suoi frutti creano opportunità economiche per i piccoli agricoltori, il suo forte valore culturale è una leva per il turismo rurale. Tutte queste caratteristiche rendono il fico una pianta strategica per il futuro del bacino mediterraneo. Per valorizzarlo al meglio in termini di sostenibilità e produttività è appena partito AGROFIG – Fostering agroforestry benefits through fig tree cultivation in the Mediterranean un nuovo progetto europeo promosso da PRIMA (Partnership for research and innovation in the Mediterranean area) e guidato dall’Università di Pisa con il gruppo di ricerca in genomica vegetale del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali in prima fila.

Utilizzare colture arboree resistenti alle condizioni ambientali avverse causate dai cambiamenti climatici è fondamentale – dice il responsabile di AGROFIG, Tommaso Giordani, professore associato di genetica agraria dell’Ateneo pisano – Il fico ha una grande capacità di adattarsi ad ambienti secchi, calcarei e salini, il che rende questa specie estremamente utile nella regione del Mediterraneo”.

“Malgrado la coltura del fico sia antichissima e raccontata anche nella Bibbia e che l’Italia sia stato fino alla fine degli anni ’60 il maggior produttore mondiale, negli ultimi decenni la produzione si è ridotta notevolmente – continua Giordani – il nostro obiettivo è di usare tecniche genomiche per caratterizzare e selezionare le varietà migliori e rilanciare questa coltura arborea particolarmente resiliente e ricca dal punto di vista nutrizionale”.

A livello scientifico, il gruppo dell’Ateneo pisano analizzerà la variabilità genetica delle varietà italiane di fico, oltre a valutare l’impatto di questa coltivazione a livello agronomico, economico e di microbiologia del terreno in associazione con altre specie erbacee come leguminose e altre foraggere.

AGROFIG finanziato per tre anni con oltre 850mila euro prosegue il lavoro avviato con FIGGEN, un altro progetto sul fico sempre coordinato da Giordani. Il gruppo di genomica vegetale di cui fa parte in questi anni ha approfondito lo studio di questa specie con varie pubblicazioni scientifiche. L’ultima nel febbraio 2025 sulla rivista The Plant Journal, una delle più prestigiose nel campo della biologia vegetale, ha esteso le conoscenze sul genoma del fico, già affrontata in un precedente lavoro del 2020 sulla stessa rivista.

Sono inoltre coinvolti in AGROFIG anche altri docenti del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali: Daniele Antichi della sezione di Agronomia, Monica Agnolucci della sezione di Microbiologia agraria, Gianluca Brunori della sezione di Economia Agraria. Gli altri partner del progetto sono sono il Centro di ricerca scientifica e tecnologica dell’Estremadura (CICYTEX) in Spagna, l’Università di Tunisi El Manar (UTM) in Tunisia, l’Università Aydın Adnan Menderes (ADU) in Turchia, l’Azienda Agricola dimostrativa “I giardini di Pomona” (AAP) di Brindisi, Italia.

Il gruppo di genomica vegetale del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali. Da sinistra: Alberto Vangelisti, Andrea Cavallini, Marco Castellacci, Flavia Mascagni, Samuel Simoni, Lucia Natali, Gabriele Usai, Tommaso Giordani
Alla riscoperta del fico, coltura strategica per aumentare sostenibilità e produttività del bacino del Mediterraneo, con il progetto AGROFIG – Fostering agroforestry benefits through fig tree cultivation in the Mediterranean. Il gruppo di genomica vegetale del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali. Da sinistra: Alberto Vangelisti, Andrea Cavallini, Marco Castellacci, Flavia Mascagni, Samuel Simoni, Lucia Natali, Gabriele Usai, Tommaso Giordani

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

IL CODICE DEL BOSCO, un film documentario di Alessandro Bernard e Paolo Ceretto

Prodotto da Zenit Arti Audiovisive
In anteprima internazionale al 73. Trento Film Festival
AL CINEMA DAL 5 MAGGIO, distribuito da OpenDDB
TUTTE LE DATE DEL TOUR IN SALA IN AGGIORNAMENTO SU: https://openddb.it/film/il-codice-del-bosco/

Il codice del bosco, film documentario di Alessandro Bernard e Paolo Ceretto poster
il poster del film

In una valle messa sottosopra dall’uragano Vaia e lentamente divorata da un insetto che lascia tracce simili a geroglifici, due scienziati non convenzionali esplorano il codice segreto del bosco ferito.

Nel cuore di una foresta devastata, tra tronchi abbattuti e radici scoperte, due scienziati visionari cercano un nuovo modo di dialogare con la natura: Alessandro Chiolerio, fisico che a tratti sembra un alchimista, che usa tecnologia e biologia per captare segnali elettrici dalle piante, e Monica Gagliano, ecologa visionaria che sfida la scienza moderna con i lavori su comunicazione e intelligenza delle piante, portano avanti i loro esperimenti nei luoghi dove all’uragano Vaia è seguita l’epidemia di bostrico.

“Il Codice del bosco”, un film di Alessandro Bernard e Paolo Ceretto, li ha seguiti nelle loro scoperte: il documentario sarà in anteprima assoluta al 73. Trento Film Festival, in programma nella sezione Proiezioni Speciali, in sala giovedì 1° maggio alle 18.45 (Cinema Modena). Il film sarà poi al cinema in tour dal 5 maggio. Prodotto da Zenit Arti Audiovisive in collaborazione con MIC e Film Commission Torino Piemonte, il film è distribuito in Italia da OpenDDB.

Tra l’ottobre e il novembre 2018 una forte tempesta si è abbattuta sul nord-est italiano: l’uragano Vaia ha colpito come mai prima l’ambiente delle Dolomiti e delle Prealpi Venete, le stime contano l’abbattimento di circa 14 mila alberi. Questo disastro ha reso possibile il diffondersi del bostrico, un minuscolo insetto che si nutre dell’abbondante quantità di alberi abbattuti, che ha moltiplicato la sua azione anche sugli abeti del bosco: in seguito alla particolare siccità e allo stress di piogge della stagioni del 2022, oggi è presente un’epidemia di bostrico, che minaccia tutta la foresta, a sei anni dalla tempesta.

Proprio in Val di Fiemme, a Costa Bocche (Paneveggio, TN), i due scienziati si incontrano per provare a entrare in contatto con il bosco, tra tronchi spezzati e radici capovolte, dove avanza inesorabile il minuscolo ospite a vista d’occhio, flagello degli alberi, che incide sotto la corteccia intricati segni come geroglifici da decifrare. Un linguaggio sconosciuto che sembra alludere a un mistero ancora da svelare. Tra nuove ipotesi scientifiche, antichi saperi e connessioni invisibili da esplorare, il film ci porta in un viaggio affascinante alla ricerca di un nuovo modo di vedere e vivere il nostro rapporto con la natura. Un racconto che intreccia scienza, tecnologia e mito, in cui il bosco si manifesta come un’entità viva, abitata da un genius loci con cui imparare a dialogare. La camera da presa incontra quindi diverse vedute della scienza, sguardi attenti e volontà di ascoltare, al fianco dei due ricercatori, tra il sapere locale e la pazienza della scoperta, che infine arriva – quasi inaspettata – rivelando la voce del bosco.

Alessandro Chiolerio è un fisico noto per il suo lavoro pionieristico e il suo approccio interdisciplinare tra fisica, nanotecnologie, elettronica e biologia (da Torino a Pasadena con la Nasa, fino al Max Planck Institute in Germania): oltre alla robotica bioispirata, il suo lavoro ha aperto una nuova frontiera nello studio della cibernetica della natura. Ha installato nel bosco i Cybertree, dispositivi da lui inventati, una chimera che unisce tecnologia e biologia per captare i segnali elettrici delle piante. Con lui c’è Monica Gagliano, scienziata di fama internazionale (ascoltata dai più importanti istituti e media mondiali), che ha esplorato le saggezze indigene del mondo, dalla selva amazzonica al bush australiano, apprendendo che la natura parla se la si sa ascoltare. Ha così aperto la strada al nuovissimo campo di ricerca della bioacustica delle piante, dimostrando per la prima volta sperimentalmente che le piante emettono le proprie “voci” e rilevano e rispondono ai suoni del loro ambiente, estendendo a queste il concetto di cognizione (inclusi percezione, processi di apprendimento, memoria).

“C’era un tempo in cui l’uomo guardava alla natura con rispetto e meraviglia. Boschi, fiumi e montagne erano visti come luoghi abitati da presenze invisibili, forze con cui bisognava entrare in sintonia prima di insediarsi, coltivare la terra o costruire un tempio. Un tempo in cui ci si poneva in rispettoso ascolto del “genius loci”. Oggi, invece, abbiamo smesso di ascoltare. – si legge le note di regia degli autori – Quello che doveva essere il resoconto lineare di un esperimento è diventata un’esperienza inattesa condivisa con gli scienziati, che ci ha rivelato il vero cuore del processo scientifico: un viaggio fatto di ipotesi, errori e scoperte, dove pianificazione e imprevisti si intrecciano. Lontana dall’essere un insieme di certezze, la scienza che ci affascina davvero è viva, una lente che allarga il nostro sguardo, apre nuove domande e ci spinge a ripensare il mondo. Oggi si parla molto di Intelligenza Artificiale, ma forse abbiamo bisogno prima di tutto di riconnetterci con un’altra intelligenza: quella della natura. Serve un cambio di prospettiva, una nuova rivoluzione copernicana che ci aiuti ad abbandonare l’idea di essere il centro del mondo, per riconoscerci parte di un ecosistema più grande, abitato da specie che esistevano prima di noi, hanno sperimentato l’evoluzione molto più a lungo e forse hanno qualcosa da insegnarci.”

Dal 2006, Alessandro Bernard scrive e dirige film documentari, lavorando anche come autore di progetti transmediali e podcast. Paolo Ceretto è filmmaker, autore e regista di documentari, e dal 2016 insegna sceneggiatura e regia presso lo IED, Istituto Europeo di Design di Torino. Insieme hanno co-diretto Wastemandala (2015), Quando Olivetti inventò il pc (2011) e Space Hackers (52’, 2006).

LE DATE – IN AGGIORNAMENTO: https://openddb.it/film/il-codice-del-bosco/

Lunedì 5 maggio
TORINO – ore 20.30, Cinema Massimo di Torino – alla presenza degli autori

FELTRE – ore 20, Cinema Teatro Officinema

Martedì 6 maggio
TORINO – ore 18, Cinema Massimo
FELTRE – ore 21, Cinema Teatro Officinema

Mercoledì 7 maggio

TORINO – ore 16, Cinema Massimo Torino – alla presenza di uno dei due autori

ore 21, Cinema Fratelli Marx – alla presenza degli autori

Giovedì 8 maggio
BOLOGNA – ore 21.30 Cinema Galliera – alla presenza di Alessandro Bernard

Venerdì 9 maggio

FIRENZE – ore 21, Cinema Astra – alla presenza di Alessandro Bernard

TORINO – ore 18.45, Cinema Fratelli Marx

Domenica 11 maggio

FIRENZE – ore 18, Cinema Astra

Lunedì 12 maggio
TORINO – ore 19, Cinema Fratelli Marx

CESENA – ore 21, Cinema Eliseo – collegamento di Paolo Ceretto

CUNEO – ore 21, Cinema Monviso – collegamento con uno dei registi

Martedì 13 maggio

MODENA – ore 21, Sala Truffaut – collegamento di Paolo Ceretto

BOLOGNA – ore 19, Cinema Galliera Bologna
Giovedì 14 maggio

CUNEO – ore 21, Cinema Monviso – collegamento con uno dei registi

Venerdì 30 maggio
ASTI – ore 21, Sala Pastrone

 

 

Testo, video e immagini dall’Ufficio stampa OpenDDB. Aggiornato il 30 aprile 2025.

Cambiamenti climatici: oscillazioni termiche ed eventi estremi mettono a rischio gli ecosistemi marini, ecco come il biofilm reagisce alle variazioni di temperatura dell’aria

Lo studio condotto a Calafuria (Livorno) dall’Università di Pisa e dalla Scuola Superiore Sant’Anna pubblicato su Nature Communications.

Gli scogli di Calafuria in provincia di Livorno sono stati il laboratorio naturale al centro di uno studio dell’Università di Pisa e della Scuola Superiore Sant’Anna per capire come i cambiamenti climatici stiano alterando gli ecosistemi marini. La ricerca, pubblicata sulla rivista Nature Communications, ha analizzato come il biofilm – una sottile pellicola vivente formata da microalghe e batteri fondamentale per la vita delle scogliere – reagisce alle variazioni di temperatura dell’aria.

I ricercatori hanno condotto un esperimento sul campo esponendo il biofilm a due diversi regimi termici: un riscaldamento costante e uno caratterizzato da forti oscillazioni, che simula le condizioni imprevedibili destinate a diventare sempre più comuni nel prossimo futuro a causa del cambiamento climatico. I risultati hanno mostrato che un regime costante di riscaldamento favorisce la presenza di specie con funzioni simili, capaci di “darsi il cambio” in caso di difficoltà. Questo meccanismo permette al biofilm di resistere meglio agli eventi estremi. Al contrario, forti oscillazioni di temperatura riducono la diversità favorendo specie a crescita rapida, capaci di riprendersi velocemente dopo uno shock termico, ma più vulnerabili funzionalmente nel lungo periodo.

L’area di Calafuria, nei pressi di Livorno, caratterizzata da piattaforme rocciose di arenaria esposte all’aria durante la bassa marea, ha fornito un ambiente ideale per studiare il biofilm marino in condizioni naturali. Per simulare l’aumento delle temperature, i ricercatori hanno utilizzato speciali camere di metallo riscaldate con piccole stufe, controllando le variazioni di calore con sensori elettronici. Per valutare la risposta del biofilm, è stata usata una fotocamera a infrarossi in grado di rilevare la quantità di clorofilla. Infine, grazie alla collaborazione con l’Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, è stato analizzato il DNA dei microrganismi con tecniche avanzate di sequenziamento, simili a quelle utilizzate per studiare il genoma umano, per capire quali funzioni svolgono le diverse specie e come il loro patrimonio genetico le rende più o meno adatte a rispondere agli eventi estremi.

“Il cambiamento climatico non si manifesta solo attraverso l’aumento medio delle temperature, ma anche con una crescente variabilità termica, cioè oscillazioni imprevedibili tra picchi di calore e periodi meno caldi– dice il professore Luca Rindi dell’Università di Pisa, primo autore dello studio – In un mondo che si prospetta sempre più caldo e instabile, i microrganismi marini potrebbero, da un lato, reagire più rapidamente agli shock, ma dall’altro diventare più vulnerabili di fronte a eventi estremi ripetuti nel tempo. In vista delle sfide che il clima ci riserva, lo studio apre una finestra sul futuro, aiutandoci a capire come questo importante elemento dell’ecosistema costiero reagirà ai cambiamenti climatici.”

“Il successo di questa collaborazione dimostra ancora una volta il valore del sistema universitario pisano – dice il professore Matteo Dell’Acqua, direttore dell’Istituto di Scienze delle Piante della Scuola Sant’Anna e coautore dello studio – l’unione delle competenze uniche presenti sul nostro territorio ci permette di esplorare la frontiera della ricerca sugli effetti del cambiamento climatico”

L’Università di Pisa ha avuto un ruolo centrale nello studio, in particolare attraverso il Dipartimento di Biologia, dove hanno operato alcuni degli autori principali, come i professori Luca Rindi e Lisandro Benedetti-Cecchi. L’ateneo ha inoltre fornito supporto scientifico e logistico per la progettazione e la realizzazione degli esperimenti sul campo, oltre a contribuire all’analisi dei dati ecologici e microbiologici grazie al supporto fornito dal Green Data Center.

Il progetto è stato finanziato in parte dal programma europeo ACTNOW (Advancing understanding of Cumulative Impacts on European marine biodiversity, ecosystem functions and services for human wellbeing), che si occupa di studiare gli impatti cumulativi dei cambiamenti climatici sugli ecosistemi marini.

gli scogli di Calafuria cambiamenti climatici ecosistemi marini biofilm
Cambiamenti climatici: oscillazioni termiche ed eventi estremi mettono a rischio gli ecosistemi marini, ecco come il biofilm reagisce alle variazioni di temperatura dell’aria; lo studio pubblicato su Nature Communications. In foto, gli scogli di Calafuria

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

Nuovo censimento della flora delle Alpi apuane: segnalate 3 nuove specie per la Toscana e 141 a rischio estinzione

Il lavoro firmato dal professor Lorenzo Peruzzi dell’Università di Pisa.

Tre nuove specie segnalate per la Toscana e 141 inserite nella “Lista Rossa Nazionale” delle piante a rischio di estinzione, il dato emerge dall’ultimo censimento della flora delle Alpi apuane realizzato dal professore Lorenzo Peruzzi del Dipartimento di Biologia e Direttore dell’Orto e Museo Botanico dell’Università di Pisa.

Il lavoro, pubblicato nella rivista Italian Botanist, ha documentato un totale di 1987 tra specie e sottospecie, di cui 130 aliene, in un’area ampia 1056 km². Le nuove specie sono: le native Vulneraria piccolina (Anthyllis vulneraria subsp. pulchella) e Pigamo dei sassi (Thalictrum minus subsp. saxatile) e l’esotica casuale Fior di pesco (Chaenomeles speciosa). Fra quelle a rischio estinzione si segnalano le tre specie gravemente minacciate: l’Atamanta di Corti (Athamanta cortiana), un’ombrellifera endemica apuana che vive esclusivamente su rupi di marmo, fiorendo raramente; l’Erba-unta di Maria (Pinguicula mariae), una graziosa pianta carnivora endemica apuana, dedicata alla studiosa Maria Ansaldi, scomparsa prematuramente nel 2013; la Felcetta atlantica (Vandenboschia speciosa), rara felce presente in Italia solo sulle Alpi Apuane, rappresentata anche nel logo del Parco Regionale delle Alpi Apuane.

Nel territorio sono inoltre presenti 93 specie endemiche italiane, cioè che esistono in tutto il mondo solo in Italia, di cui 30 endemiche delle Alpi Apuane.

La flora delle Alpi Apuane è particolarmente ricca, al di sopra dell’atteso per un’area di quell’ampiezza per quanto riguarda il numero di specie autoctone, ma fortunatamente anche al di sotto dell’atteso per il numero di specie aliene – afferma Lorenzo Peruzzi – In particolare, la maggiore ricchezza floristica si concentra sulle colline e montagne al di sopra delle città di Massa e di Carrara, che purtroppo però sono anche le zone maggiormente impattate dalle cave di marmo”.

Lo studio aggiorna alcuni censimenti realizzati in passato. Le Alpi Apuane, per le loro peculiarità geomorfologiche e biogeografiche, hanno infatti da sempre attratto l’interesse dei botanici. Un primo elenco completo di tutte le felci, conifere e piante a fiore di quest’area fu pubblicata da Pietro Pellegrini nel 1942, aggiornato poi da Erminio Ferrarini tra il 1994 e il 2000. In entrambi i casi, però, gli elenchi floristici ricavati erano relativi a un territorio diverso e più ampio, per cui un vero e proprio elenco floristico aggiornato e mirato alle sole Alpi Apuane ancora non esisteva.

“Per dare un’idea della mole del lavoro svolto, basti pensare che l’elenco completo della flora che abbiamo reso disponibile come appendice all’articolo è di ben 936 pagine – racconta Peruzzi – ha collaborato all’opera Brunello Pierini, appassionato esperto di botanica, ben esemplificando l’importanza della cosiddetta Citizen Science in questo tipo di studi”.

“Le Alpi Apuane sono obiettivamente ricche – conclude Lorenzo Peruzzi – non resta che auspicare, quindi, una adeguata tutela di questo eccezionale territorio, un vero e proprio gioiello dal punto di vista botanico in particolare e naturalistico in generale”.

Il lavoro fa parte delle attività di ricerca svolte nell’ambito del progetto 3P_earthBIODIV, un importante finanziamento alla ricerca di base ottenuto dal nostro ateneo nell’ambito di un bando a cascata del National Biodiversity Future Center. Il progetto, che vede fortemente impegnato il gruppo di ricerca PLANTSEED Lab dell’Università di Pisa per tutto il 2025, prevede l’esplorazione di territori poco conosciuti o con flore mancanti o non aggiornate e uno studio tassonomico integrato di gruppi critici della flora italiana, con particolare attenzione alla componente endemica.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

L’influenza dei cambiamenti climatici sulle strategie riproduttive delle piante: uno studio dell’Università di Pisa traccia l’evoluzione dei semi negli ultimi 150 milioni di anni

La ricerca pubblicata sulla rivista New Phytologist

Uno studio dell’Università di Pisa ha tracciato l’evoluzione dei semi negli ultimi 150 milioni di anni evidenziando una relazione diretta tra evoluzione, cambiamento del clima terrestre e comparsa di innovazioni riproduttive nelle angiosperme, le piante a fiore maggiormente diffuse sul nostro pianeta. La ricerca condotta dal professore Angelino Carta dell’Ateneo pisano e da Filip Vandelook del Giardino botanico Meise in Belgio è stata pubblicata sulla rivista New Phytologist.

L’analisi ha riguardato i semi di 900 specie rappresentative di tutte le famiglie di angiosperme di cui è stato valutato il rapporto fra dimensioni dell’embrione e riserve nutritive. Dai risultati è emerso che i cambiamenti del clima della Terra hanno portato a un’ampia diversificazione, permettendo alle angiosperme di esplorare nuove strategie riproduttive e di adattarsi a habitat sempre più vari.

“Non sappiamo se i nuovi tipi di semi hanno favorito tale diversificazione oppure se i nuovi tipi di semi son comparsi in conseguenza di essa. Certamente però, ed è la cosa più affascinante – spiega Carta – l’innovazione evolutiva dei semi, coincide con la comparsa dei principali modelli strutturali dei fiori contribuendo a spingere la biodiversità moderna verso cambiamenti epocali denominati Rivoluzione Terrestre delle Angiosperme”.

La condizione ancestrale delle piante era quella di avere semi con embrioni relativamente piccoli, tendenza che ha avuto poche variazioni sino a quando le temperature medie globali sono state alte, sopra i 25 °C. Quando le temperature globali sono diminuite, con temperature intorno ai 15 °C, l’evoluzione ha favorito semi con embrioni più grandi che tendono infatti a germinare più rapidamente, un vantaggio in ambienti secchi o soggetti a condizioni imprevedibili. E tuttavia, come è emerso dallo studio, questo sviluppo non esaurisce la storia evolutiva dei semi che piuttosto ha avuto un andamento “a salti”. Semi con maggiori riserve nutritive e minori dimensioni dell’embrione mantengono infatti il vantaggio di ritardare la germinazione e aumentare le possibilità di sopravvivenza, soprattutto in ambienti come le foreste e gli habitat umidi.

“Questa ricerca è stata una sfida materiale e virtuale che non solo aiuta a comprendere il passato evolutivo delle piante a fiore, ma potrebbero anche fornire informazioni importanti su come risponderanno ai cambiamenti climatici futuri – conclude Angelino Carta, del Dipartimento di Biologia – la sfida materiale è iniziata diversi anni fa quando abbiamo iniziato, guidati da Filip Vandelook ad assemblare il più grande dataset relativo alle caratteristiche dimensionali e strutturali dei semi, utilizzando sia a materiale vivo ma anche valorizzando materiale conservato in erbari e banche semi; la sfida virtuale è stata gestire e analizzare questa mole di informazioni per ricostruire gli ultimi 150 milioni di anni di storia evolutiva dei semi attraverso sofisticati approcci analitici e le risorse del centro di calcolo dell’Ateneo pisano”.

Link articolo scientifico: https://doi.org/10.1111/nph.20445

Immagine di mxwegele

Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

Coltivare le verdure nello spazio: sarà possibile anche in assenza di luce 

La ricerca, a cui ha preso parte un team di biologi della Sapienza Università di Roma, ha individuato i meccanismi molecolari che consentono ad alcune microverdure di germogliare e crescere al buio. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista “Plant Communications”.

Tra le principali sfide nella coltivazione di verdure nello spazio, una delle più rilevanti è la limitata disponibilità di risorse energetiche, in particolare la luce, fondamentale per la crescita e il corretto sviluppo delle piante.

L’individuazione di varietà di microverdure in grado di essere coltivate in contesti ambientali estremi, come le missioni spaziali, rappresenta una soluzione ideale soprattutto per rifornire di cibi freschi gli astronauti durante i viaggi e la loro permanenza nello spazio.

Uno studio, pubblicato sulla rivista “Plant Communications” e coordinato dai ricercatori Raffaele Dello Ioio e Paola Vittorioso del Dipartimento di Biologia e Biotecnologie della Sapienza, in collaborazione con l’Institute of Experimental Botany, l’Agenzia Spaziale Italiana e il Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa, ha permesso di isolare microverdure capaci di germinare al buio identificando un meccanismo molecolare che promuove la loro crescita indipendentemente dalla luce.

La ricerca si è focalizzata sulla Cardamine hirsuta, più comunemente nota come crescione amaro peloso, una pianta modello con caratteristiche di microverdura.

I ricercatori hanno dimostrato che la Cardamine è capace di germinare indipendentemente dalla luce e che deve questa sua capacità agli alti livelli di Acido gibberellico (GA), ormone presente in tutte le piante e responsabile della loro crescita, e al regolatore DAG1, che invece è coinvolto nel processo indipendentemente dalle condizioni di luce.

I risultati ottenuti dalla ricerca permetteranno di traslare queste conoscenze anche ad altre microverdure attraverso tecnologia TEA (tecniche di evoluzione assistita), aumentando il plafond di prodotti vegetali disponibili per gli astronauti e avvicinando la colonizzazione di altri pianeti.

Grazie alla joint venture del gruppo di Paola Vittorioso e di Raffaele Dello Ioio, finanziata dalla regione Lazio, sarà possibile inoltre approfondire nuove prospettive per lo sviluppo di colture più resilienti e che riescano ad adattarsi a contesti ambientali sempre più complessi a causa del cambiamento climatico.

 “Oggi le tematiche legate all’ambiente – commenta Dello Ioio – coinvolgono la società in tutte le sue componenti rendendo necessario lo sviluppo di strategie alternative per rendere le coltivazioni sostenibili e adattabili alle nuove condizioni climatiche. La generazione di piante di interesse agronomico i cui semi sono capaci di germinare in condizioni non ottimali rappresenterebbe quindi un importante traguardo per la generazione di colture tolleranti i cambiamenti ambientali”.

Riferimenti bibliografici:

Andrea Lepri, Hira Kazmi, Gaia Bertolotti, Chiara Longo, Sara Occhigrossi, Luca Quattrocchi, Mirko De Vivo, Daria Scintu, Noemi Svolacchia, Danuse Tarkowska, Veronika Tureckova, Miroslav Strnad, Marta Del Bianco, Riccardo di Mambro, Paolo Costantino, Sabrina Sabatini, Raffaele Dello Ioio, Paola Vittorioso, A DOF transcriptional repressor-gibberellin feedback loop plays a crucial role in modulating light-independent seed germination, Plant Communications, Volume 0, Issue 0, 101262, DOI: https://www.cell.com/plant-communications/fulltext/S2590-3462(25)00024-0

Coltivare le verdure nello spazio: sarà possibile anche in assenza di luce; la ricerca si è concentrata sul crescione amaro peloso (Cardamine hirsuta). Foto di Rasbak, CC BY-SA 3.0

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Biodiversità, ai vertebrati l’83% dei fondi globali destinati alla conservazione; discriminati gli animali “brutti” o pericolosi. Poche risorse anche per le piante

Lo rivela per la prima volta uno studio su PNAS delle Università di Firenze e Hong Kong

I finanziamenti mondiali per la conservazione della biodiversità animale e vegetale sono indirizzati solo ad un piccolo numero di grandi specie, mentre quasi il 94% delle specie a diretto rischio di estinzione non ha ricevuto alcun sostegno.

Ad attirare più attenzione sono gli animali più iconici: gli elefanti o le tartarughe marine. A spese, però, di specie fondamentali per il funzionamento degli ecosistemi, tra cui anfibi, invertebrati, piante e funghi.

È quanto rivela uno studio internazionale, il primo di questo genere, pubblicato su PNAS a cura delle Università di Hong Kong e Firenze che denuncia una distribuzione squilibrata dei fondi globali, sia pubblici che privati, destinati a salvaguardare l’esistenza delle varie specie (“Limited and biased global conservation funding means most threatened species remain unsupported”, DOI: https://doi.org/10.1073/pnas.2412479122).

I finanziamenti mondiali per la conservazione della biodiversità animale e vegetale sono indirizzati solo ad un piccolo numero di grandi specie. Gallery

La ricerca è stata in parte sostenuta dal centro nazionale National Biodiversity Future Center (NBFC), finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca con fondi dell’Unione Europea nell’ambito del programma #NextGenerationEU (PNRR – Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza).

“Abbiamo analizzato – spiega Stefano Cannicci, docente di Zoologia dell’Università di Firenze – 14.566 progetti di conservazione che abbracciano un periodo di 25 anni, dal 1992 al 2016, confrontando l’importo dei finanziamenti per specie con il loro status nella «lista rossa» delle specie minacciate stilata dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN), istituzione che valuta i livelli di rischio di estinzione e di cui faccio parte”.

“Per la prima volta – prosegue lo zoologo dell’Ateneo fiorentino – si è analizzato lo sforzo mondiale di conservazione delle specie e degli ambienti andando a studiare la distribuzione dei fondi dedicati alla conservazione, e non contando il numero di articoli pubblicati: dei 1.963 miliardi di dollari assegnati complessivamente dai progetti, l’82,9% è stato destinato a vertebrati. Piante e invertebrati hanno rappresentato ciascuno il 6,6% dei finanziamenti, mentre funghi e alghe sono appena rappresentati, con meno dello 0,2% per ciascuna delle specie”.

Anche all’interno di molti dei gruppi maggiormente finanziati esistono grosse disparità: i mammiferi di grossa taglia, che rappresentano solo un terzo dei mammiferi minacciati, secondo l’IUCN, hanno ricevuto l’86% dei finanziamenti.

Una grossa percentuale dei fondi analizzati riguarda il più ricco e importante programma di fondi per la conservazione europeo, quello dei progetti LIFE, che in realtà sono la spina dorsale dei fondi per la conservazione delle specie italiane, e che quindi ci riguarda direttamente.

“I dati dicono, per esempio – prosegue Cannicci – che tra i vertebrati più a rischio di estinzione ci sono gli anfibi (salamandre e rane), ma i fondi a loro dedicati sono meno del 2% del totale. In generale, gli animali che noi consideriamo ‘brutti’ o pericolosi (pipistrelli, serpenti, lucertole, e moltissimi insetti escluse le farfalle) sono scarsissimamente finanziati in termine di conservazione”.

“Investire i fondi sulla conservazione di poche specie non preserva gli ecosistemi che li supportano: che senso ha conservare un animale ma non gli animali o le piante che mangiano?” si domanda il ricercatore, che conclude: “Per affrontare in modo efficace la sfida della tutela della biodiversità gli autori dello studio propongono che siano destinate complessivamente più risorse alla conservazione, ma anche che le organizzazioni governative e non governative lavorino per riallineare, sulla base delle conoscenze scientifiche, le priorità di finanziamento verso le specie a reale rischio di estinzione e attualmente trascurate”.

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Unità funzionale comunicazione esterna dell’Università degli Studi di Firenze

Censita per la prima volta la flora del Comune di Pisa, in totale sono presenti 1404 specie di cui 112 aliene

La ricerca dell’Università di Pisa pubblicata sulla rivista Plants rivela una ricca diversità floristica, anche se le specie aliene superano le aspettative

La città di Pisa rappresenta un po’ la culla della Botanica moderna: nel 1543, durante il Rinascimento, proprio all’Università venne fondato il primo Orto Botanico accademico al mondo. Ma nonostante questa illustre storia, ancora oggi mancava un elenco completo di tutte le specie e sottospecie di piante vascolari (felci, conifere, piante a fiore) che crescono spontaneamente nel Comune di Pisa.

Censita per la prima volta la flora del Comune di Pisa. Gallery

A colmare questa lacuna è stato un gruppo di botanici dell’Università di Pisa, Lorenzo Peruzzi, Gianni Bedini Jacopo Franzoni del Dipartimento di BiologiaIduna Arduini del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali a cui si è aggiunto Brunello Pierini, studioso appassionato della materia. Il risultato è stata una ricerca appena pubblicata sulla rivista internazionale Plants che ha censito nel Comune di Pisa un totale di 1404 tra specie e sottospecie, di cui 112 aliene.

“Nonostante la marcata urbanizzazione dell’area, abbiamo documentato una importante ricchezza floristica, con il 33% di specie native in più rispetto all’atteso – afferma Lorenzo Peruzzi, professore ordinario di Botanica sistematica – ma purtroppo, anche le specie aliene sono molto rappresentate, con il 34,9% in più rispetto alle aspettavive”.

Dal punto di vista conservazionistico, l’inventario comprende alcune piante a rischio di scomparsa che in gran parte sono state trovate nell’area protetta del Parco Naturale Regionale di Migliarino – San Rossore – Massaciuccoli. In particolare, sono quattro le specie vulnerabili (Butomus umbellatus , Leucojum aestivum subsp. aestivum , Ranunculus ophioglossifoliusThelypteris palustris), nove quelle minacciate (Anacamptis palustrisBaldellia ranunculoidesCardamine apenninaCentaurea aplolepa subsp. subciliataHottonia palustrisHydrocotyle vulgarisSagittaria sagittifoliaSolidago virgaurea subsp. litoralis , Triglochin barrelieri) e una gravemente minacciata (Symphytum tanaicense).

“Il problema delle invasioni biologiche è molto rilevante nel Comune di Pisa – commenta Iduna Arduini, professoressa associata di Botanica ambientale e applicata – Tra le 45 aliene invasive documentate nello studio, ve ne sono 4 di rilevanza unionale, piante cioè i cui effetti negativi sono talmente rilevanti da richiedere un intervento coordinato e uniforme a livello di Unione Europea, e una, Salpichroa origanifolia, localmente molto invasiva”.

“La fonte primaria dei dati floristici utilizzati è rappresentata da Wikiplantbase #Toscana,” – continua Gianni Bedini, professore ordinario di Botanica sistematica – un database floristico liberamente accessibile da cui abbiamo potuto estrarre ben 12.002 segnalazioni, disponibili grazie allo sforzo di numerosi e attivi collaboratori, ben esemplificando il ruolo cruciale giocato anche dalla cosiddetta Citizen Science nell’accumulare importanti informazioni di tipo floristico”.

“Questo lavoro, oltre a fare il punto sulle conoscenze floristiche della città, fornirà anche i dati di base per il progetto IDEM FLOS, finanziato nell’ambito di un bando a cascata del National Biodiversity Future Center, con l’Università di Trieste come partner capofila – conclude Jacopo Franzoni, assegnista in Botanica sistematica – consentendoci di costruire uno strumento per l’identificazione di tutte queste specie, che sarà reso liberamente accessibile entro il 2025 e potrà essere usato per diffondere le conoscenze della flora locale alla popolazione”.

Riferimenti bibliografici:

Peruzzi L, Pierini B, Arduini I, Bedini G, Franzoni J. The Vascular Flora of Pisa (Tuscany, Central Italy), Plants. 2025; 14(3):307, DOI: https://doi.org/10.3390/plants14030307

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.