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Coste toscane, studio sulla presenza di microplastiche nelle telline

La ricerca coordinata dall’Università di Pisa in collaborazione con l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Lazio e della Toscana, Università degli Studi di Messina, Istituto per i Processi Chimico-Fisici (IPCF) del CNR.

Strumentazione per analisi microplastiche
Strumentazione per analisi microplastiche

Pisa, 28 maggio 2024 – Il FishLab dell’Università di Pisa ha condotto uno studio sulla presenza di microplastiche nelle telline (specie Donax trunculus) sulle coste toscane da cui non emergono rischi legati al consumo di questo alimento. La ricerca è stata realizzata in collaborazione con l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Lazio e della Toscana, l’Università degli Studi di Messina e l’Istituto per i Processi Chimico-Fisici (IPCF) del CNR di Messina.

I ricercatori hanno esaminato cinque siti lungo la costa toscana, da Viareggio a Tirrenia, da febbraio a dicembre 2021. Nei campioni analizzati, sono stati trovati 85 frammenti riconducibili a microplastiche. Successivamente, un’analisi più approfondita ha confermato la natura plastica solo per una parte di essi. In base a questa stima, i consumatori di telline potrebbero essere esposti ad una quantità molto esigua rispetto a quella che ingerirebbero consumando altre tipologie di alimenti; ad esempio, è stato dimostrato che il sale e l’acqua stessa  ne contengono una quantità decisamente più elevata.

Le microplastiche sono ubiquitarie in ogni ambiente, per assumerle basta lasciare un bicchiere su un tavolo prima di berlo – spiega il professore Andrea Armani del dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università di Pisa – in base ai dati emersi e alle conoscenze attualmente disponibili, non ci sono rischi legati al consumo di telline, anche per le basse quantità di consumo di questo alimento”.

La presenza di microplastiche è stata documentata a tutti in tutti gli habitat marini, dagli oceani aperti ai mari chiusi, dalle spiagge, alle acque superficiali, in tutta la colonna d’acqua fino ai fondali più profondi. Le dimensioni ridotte che le caratterizzano facilitano il loro trasporto a lunga distanza attraverso le correnti. Si tratta infatti di particelle di polimeri plastici di dimensioni comprese tra 0,1 µm e 5 mm, prodotte tal quali a livello industriale (microplastiche primarie) o derivate dalla frammentazione di oggetti in plastica più grandi (microplastiche secondarie) a seguito del loro utilizzo (es. tessuti, vernici, pneumatici) o per opera di agenti atmosferici (raggi UV, temperature). Una volta fatto il loro ingresso nell’ecosistema marino possono essere facilmente ingerite da molti organismi, entrando così nella catena alimentare, sino agli esseri umani. I molluschi bivalvi (come mitili, ostriche, vongole e capesante), essendo filtratori, sono spesso utilizzati per valutare l’inquinamento da microplastiche negli ambienti marini. Se consumati come alimenti, possono pertanto rappresentare una fonte di esposizione alle microplastiche per l’uomo.

“L’esposizione umana alle microplastiche è molto diversa tra paese e paese a causa delle differenze geografiche e culturali legate al consumo dei molluschi bivalvi – conclude Armani – Un rischio elevato, calcolato sulla base del consumo annuo di molluschi bivalvi e della quantità media di microplastiche per grammo, è stato riscontrato in Cina e Corea del Sud, mentre a livello europeo sono stati riscontrati rischi maggiori in Francia e Grecia”.

La ricerca pubblicata sulla rivista Animals è stata finanziata dal Ministero della Salute italiano, dall’Unione Europea grazie al fondo NextGeneration EU e attraverso il progetto SAMOTHRACE del Ministero dell’Università e della Ricerca.

Il FishLab dell’Ateneo pisano è impegnato da anni in attività di ricerca che affrontano problematiche inerenti la sicurezza e la tracciabilità dei prodotti della pesca. La ricerca si inserisce nella visione One Health che vede uomo, animali e ambiente strettamente interconessi.

Foto di gruppo:da sinistra Gabriele Spatola, Andrea Armani, Giusti Alice e Tinacci Lara
Foto di gruppo:da sinistra Gabriele Spatola, Andrea Armani, Giusti Alice e Tinacci Lara

 

Testo e immagine dall’Unità Comunicazione Istituzionale dell’Università di Pisa.

LAGUNA DI VENEZIA E LA NOCE DI MARE (MNEMIOPSIS LEIDYI), L’INVASORE INVISIBILE PRIMA DEL GRANCHIO BLU

Pubblicata sulla rivista internazionale «Hydrobiologia» la ricerca del team scientifico dell’Università di Padova che ha documentato la massiccia invasione nella Laguna di Venezia da parte di Mnemiopsis leidyi, una specie nota come noce di mare.

Viene dimostrata la connessione con il calo del pescato lagunare, diminuito di quasi il 40%, già negli anni 2014-19, cioè prima dell’invasione del granchio blu.

Mnemiopsis leidyi - Noce di mare
La noce di mare (Mnemiopsis leidyi)

Un importante fattore di rischio per la biodiversità marina, così come per la pesca, è rappresentato dalle invasioni biologiche, cioè il forte aumento negli ambienti costieri di specie “aliene” (non indigene) con la capacità arrecare ingenti danni agli ecosistemi. Tali specie, di cui il granchio blu in Adriatico è un famoso esempio, vengono definite “invasive”.

Le specie invasive sono spesso facilitate dal cambiamento climatico che ne favorisce gli spostamenti geografici e che, assieme agli altri impatti umani, perturba gli ecosistemi costieri diminuendone la capacità di resistere alle invasioni biologiche. La Laguna di Venezia è un ambiente in forte cambiamento, soggetto ad un intenso traffico navale (tipico vettore d’introduzione di specie aliene) e numerose altre attività umane: è quindi particolarmente colpita dalle specie invasive.

Uno studio del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova, in collaborazione con l’istituto Nazionale di Oceanografia e Geofisica Sperimentale di Trieste, dal titolo “Assessing the impact of the invasive ctenophore Mnemiopsis leidyi on artisanal fisheries in the Venice Lagoon: an interdisciplinary approach” e pubblicato sulla rivista internazionale «Hydrobiologia» ha documentato la recente massiccia invasione nella Laguna di Venezia da parte di Mnemiopsis leidyi, una specie nota come noce di mare.

Lo studio chiarisce come l’esplosione di abbondanza della noce di mare a partire dal 2014 sia connessa all’aumento della temperatura delle acque ed evidenzia l’enorme impatto negativo di questa specie sulla piccola pesca tradizionale lagunare svolta coi cogolli.

Nonostante la noce di mare sia gelatinosa, quindi praticamente invisibile, e lunga tipicamente pochi centimetri, essa intasa completamente le reti dei pescatori ed è una vorace predatrice di plancton e di larve di specie pregiate per la pesca.

«Questo progetto – dice Filippo Piccardi, dottorando nel programma europeo PON ricerca e innovazione all’Università di Padova, primo autore dello studio – nasce dalla collaborazione fra i ricercatori della sede di Chioggia dell’Università di Padova e i pescatori lagunari. Sono stati loro i primi a vedere l’intruso in Laguna e a subirne le conseguenze. Lo studio è il primo esempio di quantificazione dell’impatto che una specie invasiva ha avuto e sta purtroppo tutt’ora avendo sulla piccola pesca lagunare. Non c’è solo il granchio blu e il rischio di queste invasioni biologiche è quello della perdita totale di una tradizione di pesca lagunare quasi millenaria che utilizza attrezzi estremamente sostenibili».

«L’approccio interdisciplinare utilizzato in questo lavoro ci ha permesso di indagare a fondo il problema della noce di mare: la conoscenza ecologica locale dei pescatori ci ha permesso di ricostruire le fasi temporali dell’arrivo della specie in Laguna attorno al 2010 e della successiva esplosione demografica dal 2014. Successivamente, la modellazione statistica ha chiarito come tale esplosione demografica coincida con un aumento significativo della temperatura delle acque lagunari. Infine, un’analisi delle serie temporali di sbarcato lagunare e i nostri monitoraggi sul campo in affiancamento ai pescatori hanno permesso di dimostrare la connessione fra l’invasione di questa specie e il calo del pescato lagunare, diminuito di quasi il 40% già negli anni (2014-19) precedenti l’esplosione del granchio blu. Specie invasive come noce di mare e granchio blu – conclude Alberto Barausse dell’Università di Padova che ha coordinato questo studio – sono una tragedia ambientale e sociale che va affrontata cercando strategie di mitigazione e adattamento sostenibili, che rispettino cioè anche gli ecosistemi locali i quali, come mostra chiaramente la ricerca, con la loro capacità di autoregolarsi nel lungo periodo sono la nostra principale protezione contro le specie invasive».

Link alla ricerca: https://doi.org/10.1007/s10750-024-05505-6

Titolo: “Assessing the impact of the invasive ctenophore Mnemiopsis leidyi on artisanal fisheries in the Venice Lagoon: an interdisciplinary approach” – «Hydrobiologia» – 2024

Autori: F. Piccardi, F. Poli, C. Sguotti, V. Tirelli, D. Borme, C. Mazzoldi & A. Barausse

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

PESCATO DELL’ALTO ADRIATICO: STESSA QUANTITÀ, DIVERSA QUALITÀ

La “mutazione invisibile” dell’ecosistema marino scoperta dall’Università di Padova

 Negli ultimi decenni la ricerca ha chiarito come i sistemi naturali, anche quelli grandi e complessi come gli ecosistemi marini, subiscono dei “cambiamenti di regime” cioè variazioni nette e totalmente inaspettate. Possono essere determinati dalle attività umane, come la pesca o il cambiamento climatico globale di origine antropica, trasformando radicalmente gli ecosistemi in termini di abbondanza di organismi e di processi ecologici, con potenziali ricadute per la biodiversità e la produttività delle risorse ittiche.

Lo studio dal titolo “Stable landings mask irreversible community reorganizations in an overexploited Mediterranean ecosystem” pubblicato sul «Journal of Animal Ecology» da parte di ricercatori del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova in collaborazione con l’Università di Amburgo e CNR-ISMAR dimostra che, negli ultimi 40 anni, si sono succeduti intensi cambiamenti di regime nell’ecosistema dell’Alto Adriatico, uno dei mari più pescosi e sfruttati del pianeta, nella totale inconsapevolezza di tutti.

Camilla Sguotti Pescato dell'Alto Adriatico: stessa quantità, diversa qualità
Camilla Sguotti

«Questa scoperta è stata possibile analizzando con metodi matematici avanzati, basati sulla teoria delle catastrofi di Thom, le serie temporali delle catture di organismi, quali pesci e invertebrati, da parte della flotta peschereccia di Chioggia, la maggiore d’Italia – dice Camilla Sguotti, ricercatrice post-dottorato nel programma europeo ‘Marie Skłodowska-Curie Actions’ al Dipartimento di Biologia dell’Ateneo di Padova e prima autrice dello studio –. La composizione di quello che si pesca riflette la comunità di organismi che abitano il mare: a partire dagli anni Ottanta si è avuto un andamento caratterizzato da lunghi periodi di stabilità nella varietà e qualità del pescato intervallati da improvvisi cambiamenti discontinui a causa dell’effetto sinergico di pressione da pesca e riscaldamento dei mari dovuto ai cambiamenti climatici. La cosa interessante è “scoprire” solo ora questi cambiamenti, cioè dopo decenni, in quanto le catture totali della flotta sono rimaste approssimativamente costanti nel tempo, distogliendo quindi l’attenzione dall’avvicendarsi delle diverse specie nei decenni».

Alberto Barausse
Alberto Barausse

«Sembra che l’ecosistema del mare Alto Adriatico – conclude Alberto Barausse del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova coordinatore dello studio pubblicato – sia cambiato in modo irreversibile: anche se diminuissimo la pressione di pesca, le temperature non si riabbasseranno a breve a causa dell’inerzia del cambiamento climatico. Capire i fattori che portano a questi cambiamenti di regime negli ecosistemi marini è quindi fondamentale per saper gestire le nostre attività, come la pesca, senza erodere la resilienza degli ecosistemi: una volta che un cambiamento di regime è avvenuto nell’ecosistema, potenzialmente con conseguenze negative non solo per la biodiversità ma spesso anche per le attività economiche, purtroppo non sempre è possibile tornare indietro facilmente».

Link all’articolo: https://doi.org/10.1111/1365-2656.13831

Titolo: “Stable landings mask irreversible community reorganizations in an overexploited Mediterranean ecosystem” – «Journal of Animal Ecology» – 2022.

Autori: Camilla Sguotti, Aurelia Bischoff, Alessandra Conversi, Carlotta Mazzoldi, Christian Möllmann, Alberto Barausse

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Padova sulla ricerca sul pescato nell’Alto Adriatico.

Milano-Bicocca, una task force per salvare le tartarughe marine alle Maldive

Firmato l’accordo tra l’Università e ABA – Associazione Benessere Animale. Ricercatori, studenti e veterinari saranno coinvolti in attività di monitoraggio, analisi e sensibilizzazione.


Milano, 3 agosto 2022 – Una task force per promuovere attività di monitoraggio, analisi e salvaguardia delle tartarughe marine dell’arcipelago delle Maldive, nell’Oceano Indiano. È quanto previsto da un accordo firmato dall’Università di Milano-Bicocca e dall’ABA – Associazione Benessere Animale, che consentirà di coniugare le competenze di veterinaria dell’associazione ABA con quelle di ecologia marina del MaRHE Center, il Centro di ricerca di eccellenza dell’Ateneo milanese, situato alle Maldive e dotato di grandi apparecchiature e laboratori all’avanguardia.

Foto di Davide Seveso

La task force sarà guidata da Paolo Galli, professore di Ecologia del dipartimento di Scienze dell’ambiente e della terra dell’Università e direttore del MaRHE Center, e dal veterinario Giordano Nardini, presidente dell’Associazione ABA e tra i massimi esperti mondiali nella cura delle tartarughe marine.

La collaborazione tra Milano-Bicocca e ABA è appena partita. Inizialmente si focalizzerà sulla ricerca di marcatori molecolari di stress nelle tartarughe marine: mediante l’analisi di un piccolo prelievo di sangue sui campioni di tartaruga recuperati in spiaggia o nell’oceano, l’equipe di ricercatori e veterinari potrà valutare lo stato di salute degli esemplari. L’analisi verrà effettuata di volta in volta mediante strumentazione all’avanguardia in grado di restituire valori dei parametri biochimici ed ematologici dei singoli campioni.

Foto copyright Tane Sinclair-Taylor

I dati raccolti permetteranno ai ricercatori di avere indicazioni sullo stato di salute degli esemplari che vivono in popolazioni libere ad oggi molto poco studiate. Verrà inoltre valutata la presenza di malattie infettive o traumi provocati ad esempio da impatti con natanti, detenzioni in cattività o battute di pesca. Tutte le informazioni raccolte confluiranno in una banca dati, che si arricchirà di volta in volta andando a costituire una sorta di censimento dei rettili acquatici.

In un secondo momento, gli studi verranno incentrati sul momento della riproduzione, con azioni di monitoraggio nei siti di nidificazione. Nella task force verranno coinvolti non solo i ricercatori del MaRHE Center ma anche gli studenti del corso di laurea magistrale in Marine Sciences dell’Università di Milano-Bicocca. Le competenze di ecologia marina dell’Ateneo Milanese saranno fondamentali per studiare il comportamento, i siti di riproduzione, la riduzione della mortalità causata dalla pesca professionale.

Ulteriore obiettivo dell’accordo, la delineazione di linee guida da adottare per un comportamento responsabile da parte della comunità locale e dei turisti, che vengono in contatto, nelle acque dell’Oceano Indiano, non solo con le tartarughe ma anche con animali quali squali, balene, delfini… Dal rispetto dell’ambiente (per esempio, non lasciare rifiuti di plastica nel mare, facilmente confondibili dalle tartarughe come cibo) al rispetto dell’habitat e delle abitudini della fauna locale (per esempio, non disturbare i siti di nidificazione o le fasi di cova).

«Sono molto orgoglioso di questa nuova collaborazione finalizzata alla cura e protezione, monitoraggio e cura delle tartarughe marine dell’Arcipelago Maldiviano – afferma Paolo Galli –. Le attività di ricerca e salvaguardia inizieranno nell’Atollo di Faafu per poi spostarsi, grazie anche alla fitta rete di collaborazioni che abbiamo con i Resort, in tutti gli Atolli Maldiviani. Contiamo inoltre di coinvolgere nelle attività studenti universitari iscritti a Scienze Marine, Scienze Ambientali, Biologia».

una task force per salvare le tartarughe marine alle Maldive
Da sinistra a destra Paolo Galli, professore di Ecologia del dipartimento di Scienze dell’ambiente e della terra dell’Università, e Giordano Nardini, presidente dell’Associazione ABA (Associazione Benessere Animale)
«L’accordo firmato tra Associazione Benessere Animale e Università Bicocca con il MaRHE Center – dichiara Giordano Nardini – è un importante traguardo nel campo della salvaguardia delle tartarughe a livello mondiale: pochissime informazioni e dati scientifici sono infatti reperibili nell’oceano indiano e in particolare nell’arcipelago Maldiviano. Contiamo di ottenere nell’arco di un anno i primi dati epidemiologici sullo stato di salute delle tartarughe e di poter procedere, nel caso fosse necessario, a curare e ad operare le prime tartarughe. Vista la conformazione delle Maldive, costituite da circa 1200 piccole isole difficilmente raggiungibili, cercheremo di mettere a disposizione un servizio di telemedicina veterinaria».
una task force per salvare le tartarughe marine alle Maldive
Da sinistra a destra Paolo Galli, professore di Ecologia del dipartimento di Scienze dell’ambiente e della terra dell’Università, e Giordano Nardini, presidente dell’Associazione ABA (Associazione Benessere Animale)
Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università di Milano-Bicocca.

Mediterraneo, Milano-Bicocca sulle tracce della foca monaca: mappare il suo ritorno grazie al DNA ambientale

Attraverso il prelievo e il rilevamento di campioni molecolari dal mare, i ricercatori dell’ateneo milanese rilevano il passaggio del pinnipede lungo le coste italiane e in alto mare. Il metodo, descritto in un articolo appena pubblicato su “Biodiversity and Conservation”, favorirà il monitoraggio e la salvaguardia della specie.

foca monaca DNA
Foca adulta nuota in superficie. È molto raro osservare una foca monaca perché questi animali trascorrono gran parte del tempo in immersione. In alcune specie affini alla foca monaca è stato calcolato che circa l’80% tempo è trascorso in immersione. Infatti in apnea le foche mangiano, si accoppiano e dormono profondamente. Foto: E. Coppola/GFM

Milano, 22 febbraio 2022 – Da decenni la foca monaca, tra i pinnipedi più rari al mondo e l’unico presente nel Mar Mediterraneo, era considerata estinta nelle acque dei mari italiani, fino ai recenti avvistamenti nel Mar Tirreno e Ionio, che hanno fatto ipotizzare un suo ritorno. Per mapparne la presenza, i ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca hanno realizzato un metodo di rilevazione innovativo e non invasivo, basato sul recupero e analisi del DNA ambientale (eDNA) dai campioni di acqua prelevati nel Mare Nostrum. I primi test e i risultati delle azioni di monitoraggio hanno dato riscontro positivo, anticipando alcune delle recenti segnalazioni del mammifero marino al largo delle coste toscane e siciliane, in tratti di mare poco frequentati.

 

Il metodo è stato descritto in un articolo dal titolo “A species-specific qPCR assay provides novel insight into range expansion of the Mediterranean monk seal (Monachus monachus) by means of eDNA analysis”, appena pubblicato dalla rivista scientifica “Biodiversity and Conservation” (DOI: https://doi.org/10.1007/s10531-022-02382-0). Prima autrice Elena Valsecchi, ecologa molecolare del dipartimento di Scienze dell’ambiente e della terra dell’Università di Milano-Bicocca e docente di Marine Vertebrate Zoology.

foca monaca DNA
La foca nuota in immersione. Le foche hanno un corpo perfettamente adattato al nuoto, con le pinne posteriori utilizzate esattamente come la coda di un pesce e le pinne anteriori tenute aderenti al corpo o usate solo per migliorare l’assetto e per i rapidi spostamenti laterali. In foto, una foca monaca (Monachus monachus) del Mediterraneo, femmina adulta Riserva Naturale di Kamenjak, Istria meridionle, Croazia 12-2011. Foto: E. Coppola/GFM

Alla base del metodo, un assunto: ogni organismo vivente lascia una traccia del proprio passaggio e questa viene rivelata dal suo DNA rimasto nell’ambiente. Per esempio per la foca monaca, dal DNA che resta nella massa d’acqua in cui si muove. Elena Valsecchi coordina il gruppo di DNA ambientale marino (Marine eDna Group) dell’ateneo milanese, che da due anni ha promosso il progetto “MeD for Med – Marine environmental DNA for the Mediterranean”, sistema di monitoraggio della biodiversità marina basato proprio sull’analisi del DNA ambientale contenuto in campioni d’acqua raccolti da traghetti lungo le rotte commerciali. Un progetto nato grazie al cofinanziamento del programma Bicocca Università del Crowdfunding dell’Università di Milano-Bicocca e descritto in un articolo pubblicato lo scorso agosto su “Frontiers in Marine Science” (DOI: https://doi.org/10.3389/fmars.2021.704786).

Per mettere a punto una strategia molecolare in grado di intercettare, dall’analisi di semplici campioni d’acqua marina, la presenza della foca monaca, una volta diffusa in tutto il bacino centro-orientale del Mediterraneo ma oggi concentrata principalmente nel Mar Egeo, Elena Valsecchi ha identificato regioni “informative” del DNA mitocondriale del pinnipede, ovvero sequenze target che si trovano solo in questa specie. I ricercatori hanno così potuto sviluppare sonde specifiche per poter “pescare” all’interno di un miscuglio di milioni di molecole di DNA provenienti dagli animali più disparati – come quello presente all’interno di un campione di DNA ambientale prelevato dal mare – il DNA della foca monaca: una sorta di “calamita molecolare”.

 

Foche. La presenza delle foche viene immortalata dal sistema automatizzato di monitoraggio fotografico che scatta una foto ogni ora in punti frequentati dalle foto. Questa foto è stata scattata alla stessa data ed ora in cui un campione è stato prelevato in mare, a 70 metri dalla battigia

In collaborazione con Antonia Bruno, microbiologa del dipartimento di Biotecnologie e bioscienze, si è passati allo screening di “veri” campioni ambientali. Le sonde molecolari sono quindi state testate sul campo, attraverso il confronto con un ampio spettro di campioni, alcuni dei quali (campioni positivi) contenenti il DNA della foca monaca, come quelli prelevati nelle acque dell’Oceano Atlantico intorno dell’arcipelago portoghese di Madera, dove si trova una piccola popolazione stanziale di una trentina di esemplari di foca monaca, grazie alla collaborazione dell’Instituto das Florestas e Conservação da Natureza di Madera.

Campionamento. Mauricio Pereira, ranger del Instituto das Florestas e Conservação da Natureza di Madera, raccoglie un campione d’acqua in prossimità della Isola Grande Deserta (Madera) dove le foche monache hanno trovato riparo per dare alla luce i piccoli

I test hanno dimostrato l’efficienza delle sonde nell’intercettare la presenza del mammifero marino e hanno convinto i ricercatori a sperimentarle in campioni di DNA ambientale raccolti nel Mediterraneo, nell’ambito di altri progetti di ricerca portati avanti dal Marine eDna Group. Questi i risultati:

«Abbiamo rilevato la presenza della specie – afferma Elena Valsecchi – in circa il 50 per cento dei campioni prelevati al largo dell’isola di Lampedusa nell’estate 2020 e in alcuni campioni prelevati tra il 2018 e il 2019 da traghetto al largo dell’arcipelago Toscano nell’ambito del progetto Med for Med, lungo la rotta Livorno-Golfo Aranci (Corsica Sardinia Ferries)».

L’efficacia del test ha avuto una conferma nella realtà. «L’analisi di circa 50 campioni di acqua prelevati nei mari italiani sia sotto costa che in alto mare – prosegue l’ecologa molecolare – ha anticipato alcune delle più importanti segnalazioni e avvistamenti di foca monaca avvenute di recente in Toscana e in Sicilia e ne hanno svelato la presenza in tratti di Mediterraneo finora inesplorati».
da sinistra, Emanuele Coppola e Andrea Parmegiani, laureato all_Università di Milano-Bicocca (corso di laurea magistrale in Marine Sciences), in un campionamento. Foto: E. Coppola/GFM
Le applicazioni di questo sistema di rilevazione molecolare sono molteplici.
«Si potranno monitorare aree dove è già nota la presenza della foca monaca – osserva Emanuele Coppola, documentarista che si è occupato di foca monaca per decenni, nonché presidente del Gruppo Foca Monaca APS e coautore nella pubblicazione – al fine di stimare il passaggio stagionale dei pinnipedi e il grado di fedeltà al sito, anche durante le stagioni invernali o in orari notturni, e tenere sotto osservazione, in modo assolutamente non invasivo, siti costieri che, per conformazione fisica, costituiscono i potenziali habitat di elezione per la foca monaca, quali grotte riparate dalla forza del mare e con spiagge interne ideali per il parto».
foca monaca DNA
Femmina adulta in grotta. Le foche partoriscono a terra e per questo scelgono ambienti molto riparati, come grotte marine con ingresso subacqueo. In foto, una foca monaca (Monachus monachus) del Mediterraneo, femmina adulta Riserva Naturale di Kamenjak, dopo la muta, animale in grotta, Colombarica, Istria meridionale, Croazia 05-2013. Foto: E. Coppola/GFM
Ciò favorirà lo studio e la ricerca sulla specie, la conservazione dei siti e la tutela della foca monaca. 

da sinistra, Emanuele Coppola, Elena Valsecchi, Antonia Bruno. Foto scattata alla mostra IllusiOcean ospitata all_Università di Milano-Bicocca. Foto: E. Coppola/GFM
In questo senso, Università di Milano-Bicocca, Gruppo Foca Monaca APS e numerosi altri partner sono ora impegnati nell’iniziativa “Spot the Monk”, un ambizioso piano di campionamento del Mediterraneo che vede coinvolti anche diversi programmi di citizen science, con diversi equipaggi e imbarcazioni coinvolti nella raccolta dei campioni.
da sinistra, Emanuele Coppola ed Elena Valsecchi. Foto scattata alla mostra IllusiOcean ospitata all_Università di Milano-Bicocca. Foto: E. Coppola/GFM
Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università di Milano-Bicocca

Da Napoli lo studio dell’equipe della Diabetologia della Federico II pubblicato su “Advances in Nutrition”

Mangiare pesce fa bene al cuore? Sì, ma solo se è grasso!

Il consumo di pesce azzurro, anche detto pesce grasso, riduce il rischio di malattie cardiovascolari e di mortalità precoce, mentre il pesce bianco, identificato come pesce magro, non ha lo stesso potenziale.

Importante l’impatto che la ricerca avrà sulle scelte alimentari della popolazione adulta e sull’ecosistema marino.

acciughe pesce cuore
Mangiare pesce fa bene al cuore? Acciuga europea o alice (Engraulis encrasicolus). Acciughe fotografate nel Mar Ligure. Foto di Alessandro Duci, caricata da Massimiliano Marcelli, in pubblico dominio

Chi di noi, rivolgendosi ad un esperto, non ha ricevuto l’indicazione di consumare pesce almeno tre volte a settimana? Ebbene, da oggi qualcosa potrebbe cambiare.

Se, infatti, numerosi studi hanno dimostrato che il consumo di pesce si associa alla riduzione del rischio di malattie cardiovascolari ischemiche, come l’infarto del miocardio, sino ad ora nessuno aveva chiarito se i tipi di pesce fossero intercambiabili o se fosse meglio preferire le alici alla spigola, le sardine ai gamberi, in sintesi se fosse meglio il pesce azzurro, anche detto pesce grasso o il pesce bianco, noto come pesce magro.

La risposta è arrivata dallo studio dell’equipe della Diabetologia del Policlinico Federico II, guidata dalla professoressa Olga Vaccaro, che ha analizzato tutti i dati disponibili in letteratura sulla relazione tra il consumo di pesce e le malattie cardiovascolari.

Utilizzando una metodologia basata sulla sistematicità della ricerca, grazie a procedure statistiche in grado di combinare tutti i dati disponibili, abbiamo analizzato una popolazione di 1,320,509 individui, seguiti per un periodo di tempo che va dai 4 ai 40 anni. I risultati hanno mostrato, con estrema chiarezza, che il consumo di 1-2 porzioni di pesce grasso a settimana si associa ad una riduzione significativa del rischio di infarto e di altre patologie cardiache che, per i casi fatali, si colloca intorno al 17%. Al contrario, il consumo abituale di pesce magro, pur non aumentando il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari, non si associa a questi benefici”, spiega la professoressa Vaccaro.

Vale a dire che il consumo di pesce grasso, come sardine, sgombri ed altri pesci azzurri, riduce il rischio di malattie cardiovascolari e di mortalità precoce, mentre il pesce magro, come merluzzo, spigola, crostacei, molluschinon ha lo stesso potenziale.

I risultati di questo studio mettono in luce, per la prima volta, che l’effetto benefico sulla salute cardiovascolare attribuito finora al consumo di pesce in generale è in realtà limitato esclusivamente al pesce grasso. Questo ha una sua logica: il pesce grasso contiene, infatti, quantità fino a 10 volte più elevate di grassi cosiddetti omega-3, benefici per la salute, rispetto al pesce magro, inoltre, il pesce grasso è più ricco di molte altre sostanze salutari come calcio, potassio, ferro e Vitamina D, che possono contribuire all’impatto benefico del pesce azzurro sul cuore”, sottolinea il professore Gabriele Riccardi, già direttore della Diabetologia Federiciana.

Le conclusioni dello studio avranno implicazioni rilevanti per le scelte alimentari della popolazione adulta e per la preservazione dell’ecosistema marino.

La consapevolezza che bastano una o due porzioni di pesce azzurro a settimana per ridurre marcatamente il rischio di malattie cardiache facilita l’adesione alle raccomandazioni nutrizionali in confronto al generico consiglio di consumare ogni tipo di prodotto della pesca con una frequenza maggiore. Guardando agli aspetti ambientali, la scelta preferenziale di pesce azzurro di piccola taglia, e con un breve ciclo di vita come alici, sardine, sgombri, aringhe e molti altri pesci meno noti ma molto diffusi nel mar Mediterraneo, ha un impatto rilevante sull’ecosistema marino ed è molto più sostenibile dell’utilizzo di specie, ritenute più pregiate, che arrivano sulla nostra tavola grazie all’acquacultura o alla pesca intensiva”, conclude la professoressa Vaccaro.

All’innovativo studio, insieme ai professori Vaccaro e Riccardi, hanno preso parte le nutrizioniste Marilena Vitale e Ilaria Calabrese, la dottoranda di ricerca in “Nutraceuticals Functional Foods and Human Health” Annalisa Giosuè e la diabetologa Roberta Lupoli.

Testo dall’Ufficio Stampa Università Federico II di Napoli.

NELL’AMBITO DEL PROGETTO BLUFISH,

GAL PONTE LAMA E MARINE STEWARDSHIP COUNCIL PROMUOVONO IL

PIANO D’AZIONE PER IL MIGLIORAMENTO DELLA PESCA DEL GAMBERO BIANCO NELL’ADRIATICO MERIDIONALE

Quella del gambero bianco è la prima attività di pesca in Italia ad iniziare 

un percorso concreto verso la sostenibilità

pesca gambero bianco GAL Ponte Lama

Bari, 19 ottobre 2021 – Oggi a Bari nella Sala Conferenze della Regione Puglia, il GAL Ponte Lama e Marine Stewardship Council (MSC), insieme all’Assessorato Risorse Agroalimentari della Regione Puglia hanno presentato il progetto Piano d’azione per il miglioramento della pesca del gambero bianco (parapenaeus longirostris) in Adriatico meridionale (GSA18) secondo lo Standard MSC per la pesca sostenibile: “FIP.GAMBERO BIANCO”.

Questo Piano d’azione si inserisce nell’ambito del progetto BluFish finanziato dalla fondazione Mava e promosso da Marine Stewardship Council (MSC), organizzazione non-profit che lavora per promuovere la pesca sostenibile a salvaguardia degli oceani.

Sono intervenuti alla conferenza stampa: Donato Pentassuglia, Assessore Risorse Agroalimentari Regione Puglia; Giacomo Patruno, presidente GAL Ponte Lama; Giovanni Porcelli, direttore tecnico GAL Ponte Lama; Francesca Oppia, direttrice del programma MSC in Italia; Giuseppe Lembo, presidente Coispa; Loretta Malvarosa, NISEA.

Ha commentato così Donato Pentassuglia, Assessore all’Agricoltura della Regione Puglia “Un progetto virtuoso che mi rende orgoglioso come cittadino e per il ruolo che ricopro” – ha commentato,– “Ma che, al tempo stesso, mi responsabilizza a proseguire con impegno, anche sui tavoli nazionali, un percorso finalizzato al miglioramento e alla crescita del settore della pesca e alla tutela della risorsa mare. Serve l’impegno di tutti, dell’istituzione regionale, attraverso strategie di sostegno mirate, come anche della lungimiranza dei nostri operatori della pesca, delle organizzazioni di categoria per consolidare e difendere un settore vitale per la nostra economia e per la tenuta delle nostre coste e dei nostri mari. Ringrazio il GAL Ponte Lama, le marinerie coinvolte, i centri di studio e ricerca, per aver messo insieme le proprie esperienze e competenze al fine di dar vita ad un percorso che ci riguarda tutti da vicino legato alla crescita del nostro territorio, alla valorizzazione delle nostre produzioni ittiche, alla gestione sostenibile delle nostre produzioni di qualità e alla loro tutela”.

Tutti i promotori si augurano che questo progetto rappresenti un modello virtuoso che ispiri altre realtà di pesca a impegnarsi per una maggiore sostenibilità, in un Mediterraneo dove un preoccupante 85% degli stock ittici è sovra sfruttato1.

Per raggiungere questi importanti obiettivi, MSC ha quindi avviato dei progetti che vogliono facilitare l’accesso di tutte le attività di pesca, incluse quelle più piccole, ai benefici derivanti dall’applicazione degli strumenti di miglioramento. Questi progetti sono presenti anche nell’area Mediterranea e in particolare in Italia dove il progetto BluFish è stato lanciato tre anni fa con l’obiettivo di accompagnare le attività di pesca del Sud Italia e delle Isole in un percorso partecipativo verso la sostenibilità, fornendo supporto e strumenti per migliorare le pratiche di pesca e riportare in salute gli stock ittici.

Il Progetto “FIP. GAMBERO BIANCO” vede coinvolte le attività di pesca dell’area del GAL Ponte Lama con l’obiettivo di identificare soluzioni condivise “dal basso”, atte a migliorare la gestione e comprensione dell’attività di pesca e quindi identificare misure e azioni concrete per intraprendere un percorso verso la sostenibilità ambientale ed economico-sociale dell’attività stessa, utilizzando lo Standard MSC come esercizio di verifica sul territorio GAL.

È così che l’attività di pesca del Gambero bianco con reti a strascico delle imbarcazioni di pesca della marineria di Molfetta è stata sottoposta, nell’ambito del progetto BluFish, ad un’attività di pre-valutazione condotta da un ente terzo sulla base dello Standard MSC e dalla consultazione con una componente importante delle parti coinvolte (operatori, ricerca, amministrazione, etc.) in questa attività di pesca.

L’obiettivo della pre-valutazione è stato quello di evidenziare i punti di forza e le aree di miglioramento dell’attività di pesca del gambero bianco pescato dalle imbarcazioni a strascico della marineria di Molfetta e dare quindi una misura di quanto lontano o vicino fosse rispetto alle buone pratiche di pesca sostenibile stabilite dallo Standard MSC. 

La pre-valutazione ha inoltre identificato le aree di miglioramento e ha definito il Piano di Azione contenente tutte le azioni concrete per raggiungere le buone pratiche in termini di sostenibilità, ad esempio: aggiornare la valutazione della risorsa e dello scarto, secondo gli obiettivi della Politica Comune della Pesca (obbligo di sbarco); identificare strategie di gestione delle catture accidentali e degli effetti indiretti dell’attività di pesca sugli habitat marini e sull’ecosistema; predisporre un piano di gestione per il gambero rosa e valutare l’impatto socio-economico delle misure di gestione individuate.

Il Progetto “FIP. GAMBERO BIANCO” ha ottenuto il finanziamento da parte della Regione Puglia nell’ambito del Fondo Europeo per gli Affari Marittimi e per la Pesca (FEAMP) 2014/2020 Misura 4.63 – SSL GAL PONTE LAMA s.c.a r.l. – Azione 5 – Intervento 5.3.

L’obiettivo più ampio di tutto il progetto è far sì che le attività di pesca e tutti gli attori della filiera ittica facciano propri i principi dello Standard MSC, realizzando allo stesso tempo percorsi di modernizzazione e innovazione finalizzati a soddisfare un equilibrio tra le esigenze di sostenibilità ambientale e socio-economica della pesca.

1 The State of World Fisheries and Aquaculture 2020 (fao.org)

 

Testo e foto dall’Area Comunicazione e Informazione GAL Ponte Lama scarl

LAGUNA DI VENEZIA: ONDE SONORE PER SCOPRIRE LA VITA SOMMERSA E IN TRANSITO ALLE BOCCHE DI PORTO

Dal progetto FEAMP Exchange appena concluso approfondimento sull’habitat di transizione e indicazioni sull’importanza del monitoraggio periodico per una migliore gestione della pesca

Laguna Venezia bocche porto
Tressa con bertovelli in secca

VENEZIA – Tra laguna e mare c’è uno scambio continuo di maree e organismi. Uno scambio fondamentale anche per la pesca: diversi pesci, cefalopodi e crostacei migrano a fini riproduttivi e di alimentazione dal mare alla laguna, sfruttando la maggior produttività delle acque di transizione rispetto a quelle costiere. Molte specie a riproduzione marina come l’orata, la spigola, la passera, la sogliola e i cefali, che costituiscono importanti stock sfruttati a fini di pesca, si concentrano allo stadio giovanile proprio negli habitat di basso fondale degli ambienti di transizione.

Inoltre, ci sono le bocche di porto, non più semplici corridoi tra mare e laguna, ma veri e propri habitat scelti da pesci e organismi marini che ne amano le caratteristiche, nonostante la cementificazione. Lo stanno scoprendo gli ecologi e biologi che da anni studiano gli organismi che tra mare e laguna vivono e si spostano. Li seguono perlustrando le bocche di porto con l’aiuto di onde sonore.

Le prime tre campagne con l’ecoscandaglio di precisione realizzate tra estate, autunno e inverno del 2018 hanno dimostrato che non solo è possibile ‘vedere’ il passaggio di banchi di pesci, ma addirittura riconoscere specie di piccolissime dimensioni. È stato possibile grazie al progetto Exchange, appena concluso, finanziato dal Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (FEAMP 2014-2020).

“Ogni organismo ha una sua ‘impronta’ che l’ecoscandaglio di precisione registra e che noi impariamo a riconoscere – spiega Fabio Pranovi, professore di Ecologia marina al Dipartimento di Scienze Ambientali, Informatica e Statistica dell’Università Ca’ Foscari Venezia e coordinatore del progetto – grazie a questa tecnica di acustica attiva, per la prima volta usata in laguna di Venezia, abbiamo potuto valutare i flussi di organismi attraverso le bocche di porto, anche in relazione a diverse condizioni ambientali (stagione, fase del giorno, marea). Il progetto ha permesso una prima quantificazione degli scambi di organismi marini attraverso la bocca di porto del Lido e di evidenziare la relazione tra flussi e condizioni di marea”.

Laguna Venezia bocche porto

Le campagne di monitoraggio hanno messo in luce inoltre come le tecnologie di rilievo acustico, grazie anche alla loro rapidità, possano essere impiegate come strumento di ‘early warning’, cioè di allerta preventiva. Emblematico il caso della noce di mare (Mnemiopsis leidyi) esploso, soprattutto d’estate, dal 2016. Questo organismo dall’aspetto gelatinoso, erroneamente scambiato per medusa, si nutre di larve e uova.

È responsabile del crollo della pesca di sardina in Mar Nero negli anni Ottanta. In laguna, quindi, è una specie aliena, innocua per l’uomo, ma capace di intasare le reti dei pescatori. La sua presenza, spiegano i ricercatori, segue fluttuazioni profonde e difficilmente prevedibili. L’ecoscandaglio non ne ha rilevato la presenza in Laguna nel 2018, a differenza di quanto segnalato solo l’anno precedente.

“Dato che è un vorace predatore di stadi larvali di molte specie ittiche di interesse commerciale – spiega Pranovi – è evidente come predisporre dei monitoraggi periodici possa avere un’importante valenza in termini gestionali, attivando ad esempio potenziali misure di mitigazione degli effetti nocivi, quali ad esempio campagne di prelievo attivo per mezzo di reti pelagiche all’ingresso delle bocche di porto o la raccolta manuale da parte dei pescatori degli individui che si fissano sulle reti da posta”.

Pranovi sta coordinando il seguito di queste prime campagne, Exchange II, progetto che intende valorizzare i risultati incoraggianti di Exchange, estendendo il campionamento acustico anche alle bocche di porto di Malamocco e Chioggia, per ottenere una visione d’insieme dei flussi di biomassa nectonica in entrata e uscita dalla laguna di Venezia, e svolgendo, in parallelo ai rilevamenti acustici, dei campionamenti con tecniche tradizionali di pesca scientifica per validare i dati raccolti.

Un terzo progetto proseguirà fino al giugno 2021 occupandosi, come spiega il titolo stesso, di “Valutazione e miglioramento della sostenibilità ambientale della pesca artigianale nei siti Natura 2000 della laguna di Venezia”. Coordinato dal professor Piero Franzoi, ha l’obiettivo di promuovere la sostenibilità ambientale della pesca artigianale e tutelare la biodiversità in laguna di Venezia.

Il monitoraggio delle caratteristiche ambientali, delle forme del paesaggio lagunare e delle catture tramite reti fisse (tresse con bertovelli), svolto in collaborazione con i pescatori professionisti, permetterà di mappare la distribuzione delle specie alloctone e dei rifiuti plastici, indagando i fattori ambientali maggiormente coinvolti nella loro diffusione. Saranno inoltre sperimentate modifiche agli attrezzi da pesca, per favorire il rilascio delle specie protette e aumentare la sensibilità dei pescatori in materia di conservazione della biodiversità.

“Studi di questo genere sono indispensabili per riuscire ad avere una visione complessiva della funzionalità ecologica del sistema laguna-area costiera – conclude Franzoi – contribuendo in modo significativo all’implementazione di un approccio gestionale realmente ecosistemico”.

Per saperne di più sui progetti FEAMP finanziati a Ca’ Foscari: https://www.unive.it/pag/40522/

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Testo e immagini dall’Università Ca’ Foscari Venezia