INDIVIDUATE NUOVE POSSIBILITÀ TERAPEUTICHE PER IL MEDULLOBLASTOMA RESISTENTE ALLA CHEMIOTERAPIA
I ricercatori del Dipartimento di Salute della Donna e del Bambino dell’Università di Padova, autori dell’articolo pubblicato sulla rivista Acta Neuropathologica Communications, hanno dimostrato che i farmaci che agiscono sul metabolismo delle cellule tumorali, e che sono chiamati comunemente antimetaboliti, sono particolarmente attivi nel trattamento delle cellule tumorali resistenti alle terapie.
La resistenza alla chemioterapia è una delle sfide più impegnative che i medici devono affrontare durante le cure dei pazienti oncologici e che i ricercatori devono cercare di risolvere con i loro studi sperimentali. L’insorgenza di cellule tumorali resistenti alle terapie è infatti uno dei maggiori ostacoli alla completa eliminazione del tumore. Questo è particolarmente rilevante per il medulloblastoma, un tumore cerebrale pediatrico ancora difficile da curare e spesso refrattario alla chemioterapia. Peraltro, le attuali opzioni terapeutiche prevedono l’utilizzo di farmaci che sono parzialmente efficaci, oltre a causare numerosi effetti collaterali e tossicità per i piccoli pazienti. Ciò lascia spazio a potenziali recidive, insieme alle conseguenze a volte durature di farmaci non del tutto tollerabili.
Allo scopo di identificare i meccanismi molecolari che permettono ad alcune cellule tumorali di resistere alla chemioterapia, alcuni ricercatori del Dipartimento di Salute della Donna e del Bambino dell’Università di Padova insieme a colleghi dell’Istituto di Ricerca Pediatrica – Città della Speranza hanno esposto ciclicamente cellule di medulloblastoma derivate dai pazienti alla stessa combinazione di farmaci comunemente utilizzata in clinica. Hanno così cercato di riprodurre in laboratorio ciò che accade quando un tumore mostra la propria resistenza alla chemioterapia.
I risultati sono stati pubblicati sulla rivista internazionale Acta Neuropathologica Communications in un articolo dal titolo “Molecular and functional profiling of chemotolerant cells unveils nucleoside metabolism-dependent vulnerabilities in medulloblastoma”. Lo studio è stato coordinato dal Prof. Giampietro Viola e dal Dott. Luca Persano del Dipartimento di Salute della Donna e del Bambino dell’Università di Padova ed è stato condotto con pari contributo dalle Dottoresse Elena Mariotto, Elena Rampazzo e Roberta Bortolozzi. La ricerca è stata sostenuta dalla Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro, Fondazione Just Italia, Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo (CARIPARO) e dalla charity statunitense Rally Foundation for Childhood Cancer Research.
Grazie a questi esperimenti i ricercatori hanno mostrato che le cellule di medulloblastoma resistenti alla chemioterapia sono in grado di stravolgere completamente molteplici processi intracellulari. Le cellule tumorali contrastano così i danni provocati dai farmaci, si adattano ai trattamenti farmacologici e soddisfano le crescenti esigenze di nutrienti. Questa riconfigurazione metabolica può però trasformarsi nel tallone di Achille di queste cellule.
I ricercatori coinvolti nello studio sono stati in grado di identificare tali vulnerabilità grazie a uno screening di più di 2000 farmaci, con il quale hanno dimostrato che i farmaci che agiscono sul metabolismo delle cellule tumorali, chiamati comunemente antimetaboliti, sono particolarmente attivi nel trattamento delle cellule resistenti. Questo risultato è particolarmente rilevante, dal momento che molti dei farmaci identificati sono già approvati e attualmente impiegati nel trattamento di altre neoplasie, anche pediatriche, facilitando così il loro potenziale futuro impiego anche nel contesto del medulloblastoma.
«Gli studi sulla resistenza alla chemioterapia effettuati e descritti – dice Elena Mariotto, prima coautrice dell’articolo – sono un buon sistema per studiare la resistenza farmacologica e il suo impatto sulla prognosi del medulloblastoma pediatrico. Possono infatti almeno in parte sopperire alla mancanza di campioni di recidive, una lacuna che può ostacolare l’identificazione dei fattori molecolari responsabili della ricrescita del tumore in seguito alla terapia».
«Nonostante siano molto promettenti, questi risultati chiariscono solo su una piccola parte dei potenziali meccanismi con cui le cellule tumorali sfuggono alle attuali terapie antitumorali – spiegano il Prof. Giampietro Viola e il Dott. Luca Persano, coordinatori dello studio –. Anche per questo saranno un punto di partenza per ulteriori studi finalizzati alla caratterizzazione dei processi che sostengono la resistenza terapeutica nei tumori cerebrali pediatrici e l’identificazione di potenziali bersagli farmacologici».
gruppo del professor Giampietro Viola (secondo da destra), impegnato sulla ricerca riguardante il medulloblastoma resistente alla chemioterapia
Titolo: “Molecular and functional profiling of chemotolerant cells unveils nucleoside metabolism-dependent vulnerabilities in medulloblastoma” in Acta Neuropathologica Communications – 2023
Autori: Elena Mariotto, Elena Rampazzo, Roberta Bortolozzi, Fatlum Rruga, Ilaria Zeni, Lorenzo Manfreda, Chiara Marchioro, Martina Canton, Alice Cani, Ruben Magni, Alessandra Luchini, Silvia Bresolin, Giampietro Viola & Luca Persano
Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova
AL PROF. ALBERTO AREZZO L’ERC SYNERGY GRANT DA 10 MILIONI DI EURO – Con un finanziamento per i prossimi 6 anni si apre una nuova strada per la diagnosi precoce e la terapia mininvasiva per le neoplasie del colon-retto
Alberto Arezzo
Giovedì 26 Ottobre il Consiglio europeo della ricerca (European Research Council – ERC), organismo dell’Unione Europea che attraverso finanziamenti altamente competitivi sostiene l’eccellenza scientifica, ha pubblicato la lista dei progetti vincitori dei Synergy Grant, che attribuiscono un finanziamento di 10 milioni di euro per i prossimi 6 anni. Tra le ricerche finanziate compare quella del Prof. Alberto Arezzo, docente del Dipartimento di Scienze Chirurgiche dell’Università di Torino, che ha presentato il progetto intitolato “EndoTheranostics: Multi-sensor Eversion Robot Towards Intelligent Endoscopic Diagnosis and Therapy”. La ricerca permetterà di ridisegnare i modelli di diagnosi e trattamento in un unico tempo delle neoplasie del tubo digerente, con particolare riferimento al colon-retto.
Il cancro del colon-retto è uno dei tipi di cancro più comuni in tutto il mondo, con oltre 1,9 milioni di nuovi casi e 935.000 decessi registrati nel 2020. Nonostante i progressi nella tecnologia medica, gli interventi vengono spesso eseguiti durante le ultime fasi dello sviluppo della malattia, portando a bassi tassi di sopravvivenza dei pazienti o scarsa qualità della vita. Il progetto nasce dall’osservazione che i programmi di screening endoscopico sono purtroppo largamente disattesi. In particolare, la colonscopia è percepita come un esame invasivo, cui la maggioranza delle persone tende a sottoporsi con dispiacere o a non farlo affatto. La ricerca ha perciò immaginato di ridisegnare tutto il processo di diagnosi e terapia delle neoplasie del colon e retto, ridiscutendo dalla base quali dovessero essere le caratteristiche ideali per uno strumento in grado di offrire diagnosi e possibile terapia locale al tempo stesso.
“L’idea – dichiara il Prof. Arezzo – è di offrire un sistema che sostituisca l’attuale tecnologia per endoscopia flessibile (colonscopia), che è in realtà solo relativamente flessibile, con uno più tollerato perché costituito da materiali soffici, un cosiddetto soft-robot. Ciò fungerà anche da veicolo all’interno dell’intestino per un microrobot, che, operato dall’esterno, consentirà in una sorta di sala operatoria miniaturizzata, di asportare lesioni anche di ampie dimensioni in maniera appropriata. Grazie a programmi di screening sempre più diffusi ci aspettiamo di diagnosticare sempre più spesso lesioni anche non di piccole dimensioni, ma suscettibili di escissione locale curativa, senza dover ricorrere alla resezione chirurgica di tratti di intestino. Per farlo, il microrobot sarà dotato di sensori di nuova concezione, capaci di studiare e caratterizzare ampie aree di tessuto in poco tempo. Gli stessi sensori serviranno per controllare i gesti “chirurgici” durante la procedura per prevenire possibili errori e quindi complicanze, e al tempo stesso, operando in parziale autonomia, velocizzare la procedura stessa”.
La competizione per gli ERC è estrema, solo l’8% dei progetti è stato finanziato. Il lavoro presentato dal Prof. Arezzo è uno dei 37 progetti internazionali, su un totale di 395 proposte presentate in tutta Europa, comprendenti tutte le discipline. I Synergy Grant finanziano gruppi composti da due a quattro ricercatori principali per affrontare congiuntamente problemi di ricerca ambiziosi e complessi che non potrebbero essere affrontati singolarmente. Il gruppo vincitore, che comprende i Proff. Kaspar Althoefer (Queen Mary University di Londra), Bruno Siciliano (Università Federico II di Napoli) e Sebastien Ourselin, (King’s College di Londra), riunisce competenze eccezionali e complementari per intraprendere una ricerca pionieristica nei prossimi 6 anni per migliorare lo screening e il trattamento del cancro del colon-retto.
Il gruppo mira a rivoluzionare lo screening e il trattamento del cancro del colon-retto attraverso lo sviluppo di un “eversion robot” con una struttura a manica soffice che si “srotola” dall’interno quando insufflato, evitando così pressioni e frizioni sulle pareti. Il robot sarà in grado di estendersi in profondità nel colon e di percepire l’ambiente attraverso l’imaging e il rilevamento dell’ambiente circostante mediante sensori multimodali. Fungerà anche da condotto per trasferire strumenti miniaturizzati al sito remoto all’interno del colon per la diagnosi e la terapia (teranostica). I dispositivi robotici attuali hanno una destrezza limitata e non sono adatti a svolgere compiti delicati in luoghi remoti, come nelle profondità del colon. Al contrario, i soft-robots dimostrano una maggiore flessibilità e adattabilità nell’esecuzione dei compiti, portando a una maggiore sicurezza quando si lavora intorno o all’interno del corpo umano.
La soft-robotics per diagnosi e terapia ha il potenziale per mitigare gli interventi chirurgici non necessari, aumentare i tassi di sopravvivenza e migliorare la qualità e la durata della vita delle persone affette da cancro del colon-retto. Per ottenere traduzioni della ricerca nel settore sanitario è fondamentale lavorare in modo interdisciplinare e, attraverso il gruppo di ricerca internazionale guidato dal Prof. Arezzo, si riuniranno competenze in chirurgia, endoscopia, controllo del movimento, intelligenza artificiale, sensori e robotica per offrire i migliori risultati possibili ai pazienti.
“L’ottenimento di questo prestigioso finanziamento – conclude il Prof. Arezzo – riflette l’eccellenza scientifica che l’Università di Torino rappresenta. Il gruppo del Prof Mario Morino, del quale mi pregio di far parte ormai da molti anni, e che ringrazio per le opportunità che in questi anni mi ha concesso, è assai stimato grazie a lui in campo internazionale, essendo egli pioniere delle tecniche mini invasive chirurgiche ed endoscopiche. Questa ricerca nasce dalla mia formazione in Germania presso l’Università di Tuebingen, sotto il Prof Gerhard Buess, inventore della microchirurgia endoscopica transanale e della chirurgia robotica, che hanno rivoluzionato il nostro settore negli ultimi decenni. Questo progetto è solamente la naturale evoluzione dei concetti che lui ha proposto con successo ormai 40 anni orsono, e che io ed altri suoi allievi abbiamo cercato di raccogliere, dopo la sua prematura scomparsa. Voglio però concludere con un appello a tutti affinché si sottopongano agli accertamenti per screening delle neoplasie del colon-retto come di ogni altra patologia, perché è con la prevenzione che si ottengono i migliori risultati in campo oncologico, e già oggi si può fare davvero molto per molte patologie”.
il professor Alberto Arezzo, al quale va uno dei Synergy Grant ERC
Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino
Medicina di precisione: individuati nuovi biomarcatori per migliorare e personalizzare la diagnosi del carcinoma midollare della tiroide
Un nuovo studio coordinato dalla Sapienza Università di Roma ha utilizzato una tecnologia innovativa, non invasiva ed economica per identificare caratteristiche molecolari peculiari di questa neoplasia. I risultati dello studio, pubblicati su Biomarker Research, possono migliorare la diagnosi e la prognosi dei pazienti.
Il carcinoma midollare della tiroide è un tumore la cui diagnosi, a oggi, si basa sul riscontro di alti livelli di calcitonina, ormone prodotto dalle cellule C della tiroide da cui origina il tumore, in pazienti con nodulo tiroideo rilevato mediante esame ecografico.
Tuttavia, alti livelli di calcitonina non sono specifici di tale neoplasia e possono essere dunque riscontrati anche in pazienti non affetti da questo tipo di tumore. Inoltre, i livelli di tale ormone, in presenza di neoplasia, non sempre correlano con l’estensione del tumore stesso. Pertanto, la ricerca biomedica sta facendo grossi sforzi per migliorare la diagnosi e di conseguenza la prognosi dei pazienti.
In questo contesto, il gruppo di ricerca coordinato da Elisabetta Ferretti e Agnese Po della Sapienza di Roma ha utilizzato una tecnologia innovativa e al tempo stesso relativamente economica per identificare nuove caratteristiche molecolari nel DNA circolante presente nel sangue di pazienti affetti da carcinoma midollare della tiroide. Lo studio, nato dalla collaborazione di tre dipartimenti della Sapienza e importanti enti nazionali come l’Università di Siena, l’Università di Pisa, l’Università di Cagliari e l’Istituto Pascale di Napoli, è stato pubblicato sulla rivista Biomarker Research del gruppo Nature.
“Da alcuni anni il DNA circolante nel sangue dei pazienti oncologici viene analizzato alla ricerca di mutazioni presenti nelle cellule tumorali. Tuttavia, il numero di diverse mutazioni che possono essere presenti è molto elevato e le indagini possono mancare la diagnosi poiché cercano la molecola sbagliata – spiega Agnese Po. Ci sono altre caratteristiche del DNA circolante che possono essere sfruttate per identificare una patologia, e tra queste abbiamo analizzato la metilazione e la frammentazione, che sono legate al fenotipo e al comportamento delle cellule”.
Raccogliendo campioni di biopsia liquida di pazienti affetti da carcinoma midollare della tiroide al momento della diagnosi per estrarre il DNA circolante (o cell-free DNA) è infatti possibile integrare le indagini che già si eseguono, migliorando il livello di caratterizzazione del paziente.
“Per queste analisi abbiamo utilizzato una tecnologia altamente specifica come la PCR digitale o droplet digital PCR – afferma Elisabetta Ferretti – che permette una risoluzione fino alla singola molecola di DNA”.
“Questi risultati – concludono Anna Citarella e Zein Mersini Besharat, prime autrici dello studio e ricercatrici presso il Dipartimento di Medicina sperimentale della Sapienza – gettano le basi per l’aggiunta di nuovi biomarcatori non invasivi, utili per la diagnosi e gestione del paziente affetto da carcinoma midollare della tiroide nell’ambito della medicina di precisione”.
Inoltre questi risultati aprono la strada alla ricerca di nuovi biomarcatori circolanti anche per altre tipologie di tumore, dove la ricerca di biomarcatori diagnostici e prognostici specifici e sensibili è un’importante esigenza medica.
Riferimenti:
Circulating cell-free DNA (cfDNA) in patients with medullary thyroid carcinoma is characterized by specific fragmentation and methylation changes with diagnostic value – Citarella A, Besharat ZM, Trocchianesi S, Autilio TM, Verrienti A, Catanzaro G, Splendiani E, Spinello Z, Cantara S, Zavattari P, Loi E, Romei C, Ciampi R, Pezzullo L, Castagna MG, Angeloni A, Elisei R, Durante C, Po A and Ferretti E – Biomarker Research (2023) https://doi.org/10.1186/s40364-023-00522-4
Medicina di precisione: individuati nuovi biomarcatori per migliorare e personalizzare la diagnosi del carcinoma midollare della tiroide. Foto di Konstantin Kolosov
Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
Importanti novità sulla sospensione della terapia della leucemia mieloide cronica (LMC)
Alla vigilia della Giornata Mondiale della leucemia mieloide cronica, arrivano importanti novità dal team di ricerca coordinato dal professor Gambacorti Passerini di Milano-Bicocca e Fondazione IRCCS San Gerardo dei Tintori di Monza.
Milano, 21 settembre 2023 – La Leucemia Mieloide Cronica (LMC) è una forma di leucemia che grazie all’avvento di farmaci specifici (inibitori di tirosino chinasi) è passata da una aspettativa di vita di 2-3 anni ad una identica a quella della popolazione generale. Questo fatto ha determinato un continuo aumento del numero dei pazienti affetti da questa malattia, che è stimato a circa 2 milioni nei paesi sviluppati.
In presenza di una risposta ottimale, definita come almeno 4 anni di terapia e presenza di un residuo minimo di cellule leucemiche (meno di 1/10.000) è usuale proporre al paziente di sospendere la terapia. È noto che circa la metà dei pazienti devono riprendere la terapia a causa della recidiva della LMC, ma la pratica della sospensione è comunque sicura in quanto la ripresa della terapia porta ad una nuova remissione in praticamente tutti i pazienti. Sono stati tuttavia descritti alcuni casi in letteratura nei quali la sospensione della terapia si è associata ad una progressione della LMC, alla sua evoluzione in una leucemia acuta, ed in alcuni casi anche alla morte del paziente. Queste descrizioni di singoli casi non permettono però di quantificare il rischio di questo drammatico evento.
Sono stati recentemente pubblicati sulla rivista American Journal of Hematologyi risultati dello studio “Risk of progression in chronic phase-chronic myeloid leukemia patients eligible for tyrosine kinase inhibitor discontinuation: Final analysis of the TFR-PRO study”.
Questo studio, iniziato nel 2017 e coordinato dal professor Carlo Gambacorti Passerini, Professore di Ematologia presso l’Università Milano-Bicocca e direttore della UOC di Ematologia presso la Fondazione IRCSS San Gerardo dei Tintori di Monza, ha arruolato 906 pazienti affetti da LMC seguiti in centri italiani, francesi, tedeschi, spagnoli e canadesi.
I pazienti dovevano essere candidabili alla sospensione della terapia e sono stati seguiti indipendentemente dalla loro decisione se sospendere o no la terapia stessa. Circa il 40 per cento di essi non ha in effetti sospeso la terapia mentre il 60 per cento lo ha fatto. Dopo un tempo di monitoraggio mediano dei pazienti superiore a 5 anni e oltre 5000 anni-persona di follow up disponibili, è stato registrato 1 unico caso di progressione di malattia in un paziente tedesco di 45 anni: una frequenza di circa 1 caso su 1000, e che per di più si è verificato nel gruppo di pazienti che non aveva sospeso la terapia.
Questi dati permettono di concludere che nei pazienti con risposta ottimale, la progressione della LMC rappresenta un evento molto raro ma possibile, nell’ordine tra 1/10.000 e 1/1.000, ma che non è legato alla sospensione della terapia.
Questi risultati inoltre indicano la grande importanza della assunzione regolare della terapia prima della sua sospensione, e di un monitoraggio ottimale da parte del medico dopo la sospensione.
Un piccolo megacariocita con nucleo ipolobato in un aspirato di midollo osseo di un paziente affetto da leucemia mieloide cronica. Foto di Difu Wu, CC BY-SA 3.0
Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca sulla ricerca relativa alla sospensione della terapia nella leucemia mieloide cronica (LMC).
Microcalcificazioni del seno: non tutte sono correlate all’insorgenza del tumore
Una ricerca dell’Università degli Studi di Milano e Istituti Clinici Scientifici Maugeri, realizzata in collaborazione con il Consiglio nazionale delle ricerche e il Paul Scherrer Institute in Svizzera, ha studiato la correlazione tra le microcalcificazioni al seno e la presenza di tumori, scoprendo che l’assenza di whitlockite, un minerale solitamente presente nelle microcalcificazioni, potrebbe essere un indicatore della presenza di tumore. La pubblicazione su Cancer Communication.
Milano, 20 settembre 2023 – Le microcalcificazioni, piccoli depositi di calcio che si formano nel tessuto mammario e che possono essere rilevati alla mammografia, sono spesso, ma non sempre, un segnale di allarme per la presenza di un tumore al seno. Ela relazione fra microcalcificazioni e tumore non è stata mai chiarita.
Lo studio pubblicato, sulla rivista Cancer Communication, è frutto della collaborazione tra i ricercatori dell’Università degli Studi di Milano e degli Istituti Clinici Scientifici Maugeri, coordinati dal Fabio Corsi, docente di Chirurgia Generale della Statale di Milano e capo della Breast Unit dell’IRCCS Maugeri Pavia, in collaborazione con colleghi dell’Istituto di fotonica e nanotecnologie (Cnr-Ifn) e dell’Istituto di cristallografia (Cnr-Ic) del Consiglio nazionale delle ricerche e del Paul Scherrer Institute in Svizzera.
I ricercatori hanno infatti scoperto infatti che la relazione tra le microcalcificazioni e il tumore è legata alla presenza di un particolare minerale chiamato whitlockite, che è ricco di magnesio e che si trova nelle microcalcificazioni solo in assenza del tumore. I ricercatori hanno usato tecniche avanzate di spettroscopia (Raman, WAXS, XRF), per analizzare le microcalcificazioni prelevate da pazienti affette da tumore al seno. Hanno confrontato i campioni con quelli di donne sane e hanno osservato che nei tessuti tumorali la whitlockite era quasi assente, mentre nei tessuti sani era abbondante.
Questo suggerisce che il tumore al seno ha la capacità di alterare il metabolismo del calcio e del magnesio nel tessuto mammario, influenzando la formazione delle microcalcificazioni, eliminando la whitlockite e rendendole più dure, cosa che le rende in grado di stimolare ancora di più la crescita del tumore.
“Questo risultato apre nuove prospettive per lo sviluppo di metodiche più efficaci per lo screening del tumore al seno, basate sulla misurazione della concentrazione di whitlockite nelle microcalcificazioni”, spiega Fabio Corsi. “Inoltre, potrebbe aiutare a capire meglio i meccanismi molecolari alla base della trasformazione maligna delle cellule mammarie. Da ultimo, infatti, questa scoperta potrebbe ridurre o meglio orientare l’indicazione alla biopsia mammarie ad oggi indispensabile per capire la natura del tessuto mammario in presenza di microcalcificazioni”.
Testo dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano
RICERCA SUI TUMORI, PREMIATA L’ECCELLENZA DI UNITO: DAL MUR UN FINANZIAMENTO DI 8 MILIONI PER STUDIARE I MECCANISMI DI RESISTENZA AI FARMACI ANTI-NEOPLASTICI
Il Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino riconosciuto Dipartimento di Eccellenza dal Ministero dell’Università e della Ricerca. Martedì 5 settembre presentazione del Progetto “DIORAMA” per combattere la resistenza dei tumori ai farmaci anti-neoplastici con l’obiettivo di aumentare l’aspettativa e migliorare la qualità di vita dei pazienti oncologici.
Il Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino è stato riconosciuto Dipartimento di Eccellenza dal Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR) e ha ricevuto un finanziamento straordinario di circa 8 milioni di euro per il quinquennio 2023-2027 con l’obiettivo di rafforzare e valorizzare l’eccellenza della ricerca tramite investimenti in capitale umano, infrastrutture e attività didattiche di alta qualificazione.
Martedì 5 settembre, alle ore 10.00 presso l’Ospedale San Luigi Gonzaga di Orbassano in Aula Pescetti si terrà il kick-off meeting del Progetto Dipartimenti di Eccellenza intitolato “DIORAMA – Dinamiche evolutive in campioni vitali di pazienti Oncologici per Ricerche Avanzate sui Meccanismi di progressione metastatica e di resistenza alle terapie Antineoplastiche”.
Il progetto si propone di studiare i meccanismi di resistenza ai farmaci anti-neoplastici messi in atto dai tumori e in particolarela presenza di lesioni genetiche multiple che si sostituiscono al bersaglio della terapia mirata per sostenere la proliferazione tumorale e l’innesco di segnali adattativi di sopravvivenza che contrastano l’azione del trattamento. Per indagare queste due facce della resistenza alle terapie, il Dipartimentosfrutterà una risorsa caratterizzante: una collezione di centinaia di campioni tumorali da paziente, raccolti in forma vitale e coltivati sotto forma di organoidi tridimensionali che racchiudono tutte le caratteristiche dei tumori originali donati dai pazienti. Come il diorama è una rappresentazione in miniatura di un paesaggio, così l’organoide è una replica fedele, propagabile in laboratorio, di un tumore che cresce e si sviluppa in un essere umano. DIORAMA si concentra su tre tipi di tumore estremamente diffusi: il cancro del colon, il cancro del polmone e il cancro della prostata. Lavorando sugli organoidi, i ricercatori e i medici del Dipartimento di Oncologia esploreranno nuove strade per migliorare la risposta alle terapie esistenti e identificheranno nuove vulnerabilità da bersagliare con farmaci di ultima generazione, con ricadute dirette sulla aspettativa e qualità di vita dei pazientioncologici.
Finanziamento di 8 milioni a UniTo per studiare i meccanismi di resistenza ai farmaci anti-neoplastici messi in atto dai tumori
La giornata sarà aperta dal Direttore del Dipartimento, Prof. Federico Bussolino; proseguirà con interventi dedicati a illustrare il progetto DIORAMA, coordinato dal Prof. Livio Trusolino, e si chiuderà con un dibattito finale a cura dei Proff. Jan Paul Medema, Pasquale Rescigno e Gabriella Sozzi (componenti del comitato scientifico dei revisori) con la partecipazione di Federico Bussolino, Livio Trusolino e Silvia Novello (vice-direttore alla Ricerca del Dipartimento).
Testo e immagini dall’Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino
INTUBAZIONE VIDEO-ASSISTITA DEL PAZIENTE CRITICO: NUOVO STUDIO DI RICERCATORI UNITO DIMOSTRA L’EFFICACIA DEL VIDEOLARINGOSCOPIO
Il lavoro del team di Anestesia Rianimazione del San Luigi – Università di Torino pubblicato sul British Journal of Anesthesia, la più importante rivista di settore. I risultati sono di grande importanza perché aprono la strada a un utilizzo sistematico della videolaringoscopia, non solo in anestesia ma anche nel paziente critico.
L’intubazione tracheale è una delle più frequenti manovre eseguite sia in anestesia che in rianimazione per assicurare le vie aeree e consentire l’avvio della ventilazione artificiale. Nel paziente critico, a causa delle compromissioni delle condizioni di base (shock, insufficienza respiratoria) questa manovra può associarsi a gravi complicanze.
Un team di ricercatori, coordinato dal dott. Vincenzo Russotto, ricercatore del Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino e rianimatore presso l’AOU San Luigi Gonzaga, e dal prof. Pietro Caironi, Direttore dell’UOC di Anestesia e Rianimazione del San Luigi e docente dello stesso Ateneo, ha appena messo in luce il ruolo del videolaringoscopio per l’intubazione del paziente critico attraverso una analisi di quasi 3.000 pazienti inclusi nello studio INTUBE, che ha valutato la pratica della gestione delle vie aeree nel mondo.
Il videolaringoscopio è un device già utilizzato da diversi anni in anestesia. A differenza del laringoscopio tradizionale, consente di visualizzare le vie aeree attraverso la visione indiretta fornita da una telecamera. Attraverso tale metodo, la visione è più agevole, consentendo di concludere l’intubazione in sicurezza anche nelle situazioni di maggior difficoltà anatomiche o quando la visione per via tradizionale è estremamente difficile (edema, sanguinamenti, presenza di neoformazioni).
In anestesia, diversi studi hanno dimostrato l’efficacia di questa nuova metodica. Nel paziente critico (terapia intensiva o pronto soccorso) l’evidenza scientifica a supporto del suo utilizzo è stata finora conflittuale, evidenziando originalmente una maggiore probabilità di complicanze quali ipotensione e desaturazione, verosimilmente associate al coinvolgimento di operatori non esperti nell’utilizzo della metodica video-assistita, la cui curva di apprendimento è differente rispetto alla metodica tradizionale.
Lo studio pubblicato dai ricercatori UniTo sulla più importante rivista del settore, British Journal of Anesthesia, ha studiato l’efficacia della videolaringoscopia nella popolazione inclusa nello studio INTUBE dimostrando che, a fronte di pazienti con condizioni cliniche predittive di una maggior difficoltà di intubazione, i pazienti sottoposti a tecnica video assistita con videolaringoscopia venivano più frequentemente intubati con successo al primo tentativo. Inoltre, pur trattandosi di pazienti critici in gravi condizioni, non si è osservata una maggior incidenza di eventi avversi. Questi risultati inattesi ed estremamente importanti sono stati confermati, tramite metodiche di statistica avanzata (inverse probability of treatment weighting) considerando anche tutti i possibili fattori di confondimento, inclusa l’esperienza degli operatori. È possibile che, negli anni, la crescente disponibilità di questo importante device abbia consentito agli operatori di acquisire maggiore competenza con la metodica video-assistita.
I risultati di questo studio sono di grande importanza perché aprono la strada ad un utilizzo sistematico della videolaringoscopia, non solo in anestesia ma anche nel paziente critico, dove l’importanza dell’intubazione al primo tentativo è di fondamentale importanza, visto l’incremento notevole dei rischi qualora siano necessari più tentativi, garantendo così una maggior sicurezza nella cura di tali pazienti.
L’attività di ricerca del gruppo continua con due ulteriori studi multicentrici internazionali attualmente in corso, lo studio PREVENTION e lo studio STARGATE, entrambi coordinati ancora dal dott. Russotto e dal prof. Caironi. Il primo studio valuterà l’utilizzo della noradrenalina, un farmaco in grado di incrementare la pressione arteriosa, nella prevenzione del collasso cardiocircolatorio dopo intubazione nel paziente critico e il secondo si pone l’obiettivo ambizioso di descrivere lo stato dell’arte della gestione delle vie aeree durante anestesia nel mondo.
TUMORE AL SENO: IDENTIFICATO UN NUOVO MECCANISMO MOLECOLARE ALLA BASE DELLE FORME PIÙ AGGRESSIVE
Pubblicati sulla prestigiosa rivista Nature Communications i risultati di una ricerca coordinata da Università di Torino, Università Statale di Milano, Istituto Europeo di Oncologia (IEO) e sostenuta da Fondazione AIRC. Il meccanismo molecolare riguarda la proteina p140Cap che inibisce a monte l’attività della beta-Catenina, una potente proteina coinvolta nella crescita tumorale.
Milano – Torino, 11 maggio 2023. Una nuova chiave di lettura per comprendere i tumori della mammella più aggressivi nasce dagli studi condotti in collaborazione tra due gruppi di scienziati di Milano e Torino. Hanno coordinato la ricerca la professoressa Paola Defilippi, ordinario di Biologia applicata e Responsabile del Laboratorio di ricerca “Piattaforme di segnalazione nei tumori” presso il Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute dell’Università di Torino, e il professor Salvatore Pece, ordinario di Patologia generale all’Università Statale di Milano e Direttore del Laboratorio “Tumori Ormono-Dipendentie Patobiologia delle Cellule Staminali” dell’Istituto Europeo di Oncologia (IEO). I risultati dello studio, sostenuto da Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro, sono appena stati pubblicati sulla rivista Nature Communications.
La ricerca ha portato alla scoperta di un meccanismo molecolare con cui i tumori mammari si arricchiscono in cellule staminali tumorali. A loro volta queste cellule, da un lato, funzionano da forza motrice della crescita della massa tumorale e, dall’altro lato, sopprimono la risposta immunitaria naturale che, a livello del microambiente circostante il tumore, dovrebbe invece contrastare la crescita del cancro.
All’origine dell’intero processo c’è verosimilmente p140Cap, una proteina in grado di inibire la crescita tumorale. La sua assenza, che caratterizza almeno il 40-50% di tutti i casi di tumori mammari umani, determina una cascata di eventi che portano all’attivazione incontrollata del gene responsabile della sintesi di beta-Catenina, una potente proteina coinvolta nella crescita tumorale. Una volta attivata, la beta-Catenina provoca l’espansione del compartimento delle cellule staminali tumorali. A loro volta queste cellule rilasciano citochine anti-infiammatorie, inibendo così direttamente la risposta immunitaria anti-tumorale e creando un ambiente favorevole all’ulteriore crescita del tumore.
“Dunque p140Cap – sottolinea la professoressa Paola Defilippi – si comporta come una specie di interruttore molecolare che, tramite l’inibizione di beta-Catenina e la conseguente riduzione del compartimento delle cellule staminali tumorali, esercita una duplice funzione anti-tumorale: inibisce l’espansione della massa tumorale e sostiene una efficiente risposta immunitaria anti-tumorale nel microambiente circostante”.
“Attraverso studi clinici retrospettivi in coorti di pazienti – continua il professor Salvatore Pece – abbiamo dimostrato una chiara correlazione tra bassi livelli della proteina p140Cap nei tumori mammari più aggressivi e ridotta presenza di cellule del sistema immunitario, in particolare linfociti, nelle aree circostanti il tumore. Questi dati suggeriscono che p140Cap potrebbe essere utilizzato come un utile biomarcatore nella pratica clinica, per identificare i tumori mammari con alterazioni della risposta immunitaria anti-tumorale”.
Spiega Vincenzo Salemme, ricercatore del Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute dell’Università di Torino e primo autore dell’articolo:
“Il meccanismo molecolare con cui p140Cap inibisce a monte l’attività della beta-Catenina dipende dal fatto che la prima proteina è parte di un complesso macchinario multi-proteico deputato a distruggere la stessa beta-Catenina, che così non si accumula eccessivamente all’interno della cellula. In assenza di p140Cap questa funzione è alterata, come accade in alcuni tumori mammari, dove aumentano di conseguenza sia i livelli di beta-Catenina, sia la sua azione capace di influire sull’espansione delle cellule staminali tumorali”.
Continua la professoressa Paola Defilippi: “Nel corso degli ultimi anni è emerso in modo chiaro che tra i principali responsabili all’origine della formazione e della continua crescita dei tumori ci sono le cellule staminali tumorali. Si tratta di cellule dotate di capacità illimitata di auto-rinnovamento e in grado di sostenere nel tempo la crescita della massa tumorale. In nostri precedenti studi avevamo già messo in luce il ruolo inibitore di p140Cap sulla crescita tumorale e stabilito che la perdita di questa proteina è legata a una maggiore aggressività biologica e a un decorso clinico più sfavorevole di alcuni tipi di tumori mammari. Non avevamo però ancora una completa comprensione del meccanismo d’azione specifico e della varietà di conseguenze funzionali legate alla perdita di p140Cap sulla crescita tumorale. Ora, attraverso questi studi sappiamo che questa funzione dipende da un’azione diretta di p140Cap sull’attività di beta-Catenina. Inoltre, grazie ai risultati ottenuti sia in topi di laboratorio con tumore mammario, sia in campioni ottenuti da pazienti, abbiamo compreso che la presenza di p140Cap è fondamentale. Infatti questa proteina, inibendo le cellule staminali tumorali, da un lato blocca direttamente la crescita del tumore e dall’altro lato permette una efficiente risposta immune anti-tumorale nel microambiente circostante il tumore stesso”.
“Sappiamo inoltre – aggiunge la professoressa Defilippi – che possiamo inibire l’azione tumorigenica delle cellule staminali tumorali e, al contempo, ripristinare una efficiente risposta immunitaria anti-tumorale nei tessuti circostanti la neoplasia. Ciò è possibile simulando la funzione di p140Cap all’interno del macchinario di distruzione della beta-Catenina, attraverso l’utilizzo di farmaci al momento disponibili solo per uso sperimentale”.
“I risultati dei nostri studi – sottolinea il professor Pece– si collocano nella prospettiva di alcuni tra i più importanti concetti emersi nella ricerca oncologica degli ultimi anni, nel tentativo di spiegare l’aggressività biologica e clinica dei tumori, in particolare di quelli mammari. Sappiamo oggi che i tumori più aggressivi e con decorso clinico più sfavorevole sono quelli arricchiti in cellule staminali tumorali, oppure quelli in grado di sfuggire alla risposta immunitaria naturale, rendendo inefficienti i meccanismi di barriera anti-tumorale esercitati dalle cellule del sistema immunitario. La nostra scoperta, dell’esistenza di un nuovo circuito molecolare p140Cap/beta-Catenina, apre a una prospettiva concreta per la stratificazione a fini terapeutici delle pazienti con tumore mammario che hanno perduto p140Cap. Tale perdita è infatti alla base dell’acquisizione contemporanea di entrambe queste caratteristiche aggressive della biologia dei tumori mammari. Grazie a questi risultati le pazienti potrebbero beneficiare in futuro di nuove terapie per colpire le cellule staminali tumorali e ripristinare una efficiente risposta immunitaria contro il cancro. Terapie di questo tipo sono oggi l’obiettivo delle principali linee di ricerca per lo sviluppo di nuovi farmaci in oncologia”.
“Questo studio rappresenta per noi motivo di grande soddisfazione – conclude il professor Pece – non solo per la sua valenza scientifica ma anche perché dimostra l’importanza dello sforzo cooperativo tra gruppi di ricerca che fondono differenti competenze scientifiche e piattaforme tecnologiche per far avanzare la conoscenza della biologia dei tumori mammari e aprire nuove prospettive terapeutiche per le pazienti”.
Identificato nuovo meccanismo molecolare alla base delle forme più aggressive di tumore al seno. Foto di Pexels
Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino
LA VITAMINA B3 NELLA SUA FORMA NIACINA CONTRASTA IL DEPERIMENTO FISICO ASSOCIATO AL CANCRO, SECONDO UN NUOVO STUDIO PUBBLICATO SU NATURE COMMUNICATIONS.
Uno studio coordinato dal gruppo di ricerca del Dipartimento di Scienze Cliniche e Biologiche dell’Università di Torino ha dimostrato come la niacina, una forma di vitamina B3, migliori lo stato dei mitocondri, contrasti l’atrofia muscolare e le alterazioni del metabolismo energetico nei pazienti oncologici.
La vitamina B3 (niacina) contrasta la cachessia neoplastica, il deperimento fisico associato al cancro. Foto di Tung Nguyen
Il gruppo di ricerca coordinato dal Prof. Fabio Penna del Dipartimento di Scienze Cliniche e Biologiche dell’Università di Torino ha appena pubblicato un lavoro scientifico sulla prestigiosa rivista ‘Nature Communications’ (https://rdcu.be/c82wc) in cui si dimostra l’efficacia della niacina, una forma della vitamina B3, nel contrastare la cachessia neoplastica, una sindrome multifattoriale caratterizzata dalla perdita progressiva di massa muscolare, con o senza perdita di massa grassa, di un paziente oncologico.
La crescita del cancro e i trattamenti antitumorali generano adattamenti dannosi nei pazienti, che spesso si traducono in sindromi paraneoplastiche, tra cui la cachessia neoplastica, la più rilevante e di impatto negativo. La cachessia è caratterizzata da infiammazione e stress metabolico in diversi organi, con conseguente compromissione della funzionalità dei tessuti, ridotta tolleranza alla chemioterapia e scarsa risposta immunitaria: tutti fattori che contribuiscono a compromettere la qualità della vita e ridurre la sopravvivenza. Nella pratica oncologica, tutta l’attenzione è focalizzata sulle terapie mirate al cancro, ignorando spesso lo stato generale del paziente e perdendo l’opportunità di trattare il cancro e le sindromi associate come una malattia unica. Nella ricerca attuale, volta a considerare il sistema cancro-paziente nel complesso, è stato considerato il metabolismo energetico per trovare nuove opzioni di trattamento anti-cachessia.
L’identificazione del target specifico, ovvero il metabolismo del NAD⁺ (nicotinammide adenina dinucleotide), è avvenuta studiando modelli preclinici di ricerca (topi portatori di tumori) grazie a Juha Hulmi di Jyväskylä (Finlandia), le cui analisi hanno mostrato l’associazione tra atrofia muscolare e carenza di NAD⁺. Poiché il NAD⁺ è fondamentale per il corretto funzionamento dei mitocondri, la ‘centrale energetica’ delle nostre cellule, la perdita di NAD⁺ può spiegare il deficit energetico che si verifica nei tessuti dei pazienti oncologici, analogamente a quanto accade nella miopatia mitocondriale primaria, dove il potenziamento del NAD⁺ con la vitamina B3 contrasta il dismetabolismo, come dimostrato dal pionieristico lavoro di Eija Pirinen (Finlandia).
Il contributo torinese alla ricerca è stato quello di caratterizzare il metabolismo del NAD⁺ nel contesto della cachessia neoplastica e di testare l’efficacia della rigenerazione del NAD⁺ nei topi portatori di tumore, modelli animali che Marc Beltrà ha recentemente messo a punto nel laboratorio di Torino. Lo studio di intervento è stato preceduto dal lavoro di Noora Pöllänen (Finlandia), il cui screening dei disturbi del metabolismo NAD⁺ nei nuovi modelli di cachessia ha confermato che la perdita di NAD⁺ e la ridotta espressione dei geni associati è un tratto comune nella cachessia sperimentale innescata da tumori intestinali e pancreatici. Nel tentativo di estendere e convalidare questa osservazione in clinica, il gruppo di Roberta Sartori (Dipartimento di Scienze Biomediche, Università di Padova e Fondazione Ricerca Biomedica Avanzata VIMM di Padova) si è unito al consorzio e ha dimostrato il verificarsi delle alterazioni del NAD⁺ e del metabolismo energetico nel muscolo di pazienti oncologici affetti da tumori del colon-retto o del pancreas. I pazienti sono stati reclutati presso l’U.O.C. Chirurgia Generale 1 Azienda Ospedale – Università di Padova in collaborazione con un team di ricercatori del DiSCOG (Dipartimento di Scienze Chirurgiche Oncologiche e Gastroenterologiche), Università di Padova.
Allo scopo di dimostrare l’importanza di queste alterazioni per la potenziale cura della cachessia, si è deciso di testare l’efficacia della niacina (vitamina B3) nell’aumentare i livelli di NAD⁺ nei topi portatori di tumore. La niacina ha prevenuto la carenza di NAD⁺ muscolare ed ha migliorato lo stato dei mitocondri, contrastando l’atrofia muscolare e le alterazioni del metabolismo energetico. Considerando che la niacina è poco costosa ed è stata utilizzata in modo sicuro per il trattamento dell’ipercolesterolemia negli esseri umani, ne viene proposto l’uso per la gestione dei pazienti oncologici che presentano una compromissione del metabolismo energetico. In futuro, mirare allo squilibrio metabolico nell’ospite invertirà potenzialmente il circolo vizioso della cachessia e della mancata risposta alle terapie anti-tumorali, migliorando la sopravvivenza e la qualità della vita dei malati di cancro.
Infinitamente piccolo, infinitamente grande, di Mauro Ferrari, Arnoldo Mondadori Editore – recensione e intervista all’autore
Mauro Ferrari è prima di tutto una persona curiosa, poi un ultra-maratoneta e, non ultimo, anche un accademico e imprenditore, impegnato nella ricerca sulle nanotecnologie applicate alla cura dei tumori. Padova, Berkeley, Bethesda, Houston. Non è il percorso della sua ultima performance sportiva, ma è certamente una parte del suo percorso di vita personale e professionale.
Laureatosi in Matematica all’Università di Padova, nel 1987 si trasferisce negli Stati Uniti, dove consegue il Master e il Ph.D. in Ingegneria Meccanica alla University of California, Berkeley, e inizia subito la carriera come professore di Ingegneria dei Materiali e Ingegneria Civile. Contemporaneamente alla docenza e alla direzione del dipartimento di Ingegneria Biomedica alla Ohio State University, a 43 anni inizia a studiare medicina e collabora con il National Cancer Institute a Bethesda, dove dà inizio al programma federale USA di nanotecnologia oncologica. Nel 2006 si trasferisce in Texas, dove è professore ordinario di Medicina Interna e direttore del dipartimento di Nanomedicina alla University of Texas, Houston, e professore ordinario di Terapie Sperimentali (Anderson Cancer Center). Seguono i dieci anni alla presidenza del Methodist Hospital Research Institute, e la brevissima esperienza all’European Research Council. Attualmente è presidente e amministratore delegato di BrYet Pharma, consigliere d’amministrazione di Arrowhead Pharmaceutics e professore di Scienze Farmaceutiche all’Università di Washington. Non si contano i premi, gli incarichi e le partecipazioni a ricerche dalle quali sono nati alcuni dei farmaci più innovativi per la cura dei tumori. Mauro Ferrari conta 60 brevetti a suo nome e oltre 500 pubblicazioni su riviste internazionali.
Il libro Infinitamente piccolo, infinitamente grande, edito da Mondadori, è un dialogo coinvolgente con il lettore: si legge come se fosse una chiacchierata con un conoscente. La scienza diventa metafora/analogia di tutte le attività umane. Giochi di parole, salti temporali, gioie e dolori, successi e fallimenti. Il saggio è un viaggio nella mente dell’autore, un’avventura nel flusso di pensieri dello scienziato, a volte condivisibili, altre volte comprensibili e quasi mai superficiali. Nella mente dello scienziato non vi sono solo numeri, formule, specifiche tecniche dei materiali usati per la nanomedicina oncologica, ma anche tanto sport (sembra di correre con lui), moltissima musica, la creatività, la natura, el’amore. Infinitamente grande è l’amore per il proprio lavoro, per la ricerca scientifica sull’infinitamente piccolo al servizio della comunità.Il libro ha tutte le caratteristiche per essere una fonte di ispirazione per i giovani.
È anche possibile ascoltare il professore in musica: l’album Mauro Ferrari e LA Rhythm & Blues Band, della Rhythm & Blues Band di Cividale e Mauro Ferrari si può ascoltare su Spotify, Youtube, Amazon Music, e altri distributori musicali. Il disco è la colonna sonora dello spettacolo di scienza e musica che fa con la band.
Ringraziamo Mauro Ferrari, per aver risposto alle domande di ScientifiCult, con grande spontaneità e generosità:
Nel suo libro Infinitamente piccolo, infinitamente grande fa spesso riferimento ai giovani, alla fiducia che meritano e ai talenti che, a volte inconsapevolmente, possiedono. Quanto è importante, nel suo lavoro, incoraggiare i giovani?
Beh, per me a questo punto della vita credo che sia la cosa più importante: incoraggiare/sostenere e talvolta anche avere un po’ di amorevole pazienza (ovvio, viste le quantità industriali che hanno avuto i miei mentori con me). Ci tengo tantissimo. Negli anni ho avuto la fortuna ed il privilegio di fare da mentore a giovani che, nonostante la mia guida (spericolata) sono diventati fortissimi in carriera, come professori e leader in posti importanti come Oxford, EPFL, Berkeley, MIT, Duke, Brown, Univ Washington, Univ Florida, UC San Francisco, Houston Methodist, Brown University, e altre ancora… In Italia ad esempio all’IIT, a Trento e Udine, a Milano e Catanzaro. Anche Torino.
Devo dire che sto ricevendo molto riscontro per il libro proprio tra giovani, specialmente da quelli/e che hanno un interesse per le scienze, ma anche per le altre cose di cui racconto storie. Che so, la musica, le maratone, e quant’altro (mi hanno detto che leggere il libro è come stare in un frullatore acceso – non sai mai se arriva una carota, un pezzo di pomodoro, di arancia, o i semi di qualcosa che non si sa, tra il miele e qualche goccia di cognac, di quelli che non costano troppo). Sto facendo tante conferenze e incontri con gioventù (di ogni età) e mi diverto moltissimo (almeno io, loro non so); spesso porto qualche musicista con me così racconto di scienza con un po’ del linguaggio del jazz e blues, o in stile cantautorale (che sto un po’ imparando, ma non mi riesce troppo bene, sono più a mio agio con blues e jazz, dopo 42 anni negli USA). P.S.: canto e suono il sax.
Ho fatto e sto facendo incontri di questo tipo in università certo, ma anche nelle scuole superiori, medie, elementari e persino negli asili! Ad esempio, qualche settimana fa mi sono trovato a Napoli con un ragazzo delle superiori che ho invitato sul palco in teatro e che si è messo a fare rap, dialogando con i miei messaggi e con altre musiche: era proprio bravo e mi sono divertito tantissimo!
Vedi, magari i presenti si dimenticheranno molto in fretta dei dettagli tecnici e scientifici di cui ho parlato (come capita a tutti, non tiriamocela tanto…) ma l’emozione resta in memoria. Se poi vai via pensando che ti sei divertito ad un incontro con uno scienziato, vedi un po’, magari ti viene voglia di scienza, provi simpatia invece che la paura di non capire.
E l’avrete già capito – INVITATEMI E IO VENGO! I miei contatti sono disponibili per tutti nel libro, a pagina 23, ed eccoli qui di nuovo mauroferrari.boh@gmail.com.
(Perché pagina 23? Beh perché nella smorfia napoletana il 23 è lo scemo del villaggio, così non vi dimenticate più di me, no?)
Rispetto al passato, il mondo della scienza sta cambiando e in diversi campi di studio si assiste ad un progressivo bilanciamento tra i due sessi. Nel suo libro si legge “le donne sono grandi protagoniste dell’ingegneria spaziale”. Tuttavia, vi sono ancora numerosi ostacoli per le donne alla costruzione di una carriera nella scienza. Infatti, sono poche le donne che occupano posizioni da leader e, spesso, eccellenti scienziate non hanno la visibilità che meriterebbero per i loro contributi scientifici.Sulla base della sua esperienza, potrebbe suggerire una via d’uscita al problema?
Io sono stato molto fortunato perché la maggioranza dei successi dei miei mentee sono donne, che nei miei settori di lavoro (almeno lato bio/farma) sono spesso la maggioranza. Ma sul lato ingegneria/fisica/matematica (e pure imprenditoria) c’è tantissimo talento femminile, ma ahimè non abbastanza visibilità, hai ragione. Il mondo fortunatamente si sta svegliando su questo, ma troppo lentamente. Come fare ad accelerare? Ci sono tanto approcci in corso d’opera, in giro per il mondo, e tutti hanno dei meriti importanti, ma credo che alla fine siano le success stories che fanno la differenza, role models di successo reale e profondo, e questo richiede tempo e costanza nell’impegno della promozione femminile: non bastano proclami e operazioni brevi. Ho letto uno studio che diceva che la variabile più importante nel determinare se e quanto un uomo è favorevole al women’s empowerment nelle professioni dipende da quante figlie ha… Io con 4 (due coppie di gemelle) credo di stare abbastanza bene, dai! Di queste, Ilaria sta svolgendo un MD/PhD ed è già laureata in ingegneria meccanica alla Columbia University, Chiara è disegnatrice di cartoni animati e regista per DreamWorks, Kim fa anche lei cartoni animati, ma per la Khan Academy come direttrice dell’animazione, e Federica fa l’indossatrice e modella e gestisce un sistema di palestre. Tutte negli USA, dove sono nate. E poi c’è Giacomo, il primogenito, che è informatico a Seattle.
Nel suo libro è forte il messaggio della scienza come servizio diretto alla comunità e che possa portare beneficio al mondo, soprattutto a chi ne ha più bisogno. Altrettanto forte è l’auspicio/invito alle scienziate e agli scienziati a svolgere il proprio lavoro con responsabilità e di portarlo a termine.La politica le sembra sempre pienamente consapevole del ruolo sociale della scienza?
Chiarisco: io rispetto completamente punti di vista diversi, e non ho nessunissima intenzione di fare il predicatore e/o convincere nessuno a fare come piace fare a me, figuriamoci. Ognuno faccia il suo a modo proprio: che bella la libertà, che bello il rispetto. I due pastori della chiesa (capita che sia Metodista) dove vado quando sono a Houston (la chiesa è St John’s Downtown, vai a vederla online se vuoi: fenomenale chiesa, storicamente nera con grandissima musica e un imbattibile spirito di solidarietà per tutti!) si chiamano Rudy e Juanita e hanno il motto: ”I love you and there is nothing you can do about it” (Ti voglio bene e non ci puoi fare nulla!). Differenze d’opinione, pestate di calli, pure un dito nell’occhio e quello che ti pare, and I still love you! Quindi benissimo quelsiasi approccio alla scienza, e se vogliamo essere amici o comunque comportarci da esseri comunicanti, magari possiamo condividere quali sono le nostre motivazioni interne o no? Beh, per me ormai a questo punto della vita e per quello che resta, piace fare cose utili per chi si può aiutare. E non è che ci riesca sempre, ma quando succede devo dire che dà un senso alla vita, vero?
Quando la ricerca tocca da vicino i temi della salute e si ha davanti un pubblico sofferente e fragile, predatori senza scrupoli possono approfittarne. Si entra nella dimensione della frode e diventano concreti i rischi per la società. Nel suo libro cita il caso Stamina, ma l’elenco delle cure salvifiche senza alcun fondamento scientifico potrebbe essere molto lungo. In ambito oncologico, purtroppo, non mancano le ‘terapie alternative’ (omeopatia, medicina ayurvedica, naturopatia).Come reagisce alle frodi che riguardano la salute?
Tante frodi, tanto sfruttamento della sofferenza, è orribile a vedersi e dolorosissimo a maggior ragione perché è vero danno inferto su persone particolarmente disperate e fragili. Noi come scienziati abbiamo delle responsabilità, perché ci siamo persi tanta della fiducia che avevano in noi le comunità in seno alle quali siamo al servizio (nota: a me piace molto il concetto di essere un servitore della comunità; mi sembra giusto visto che è la comunità che ci fornisce gli strumenti che utilizziamo per fare gli studi che ci piace fare, ti pare?). E così la gente va verso le magie e le superstizioni, invece che verso la scienza. Anche in questo senso Covid è stato un disastro. Tutti in televisione a dare come certezze cose che si sapeva benissimo che non lo potevano essere, esagerando tutte le affermazioni, mescolando la scienza con la politica e l’ideologia, facendo spettacolo di giochi di potere… per forza la gente non si fida! Dobbiamo imparare a dire la verità, nel bene e nel male. Basta complessi di superiorità e onnipotenza! E basta paternalismi, “Noi” (scienza, stato, apparato) a dire a tutti cosa è meglio per loro e per il mondo. Ragà, il dubbio è la chiave della scienza, no? E basta fare credere che la verità scientifica si basa sul numero di persone che “votano a favore”: la scienza che conta succede nelle divergenze! E quindi verità e trasparenza sono le chiavi. E per quanto riguarda le terapie varie, che ci piaccia o no, e che sia migliorabile non ci piove, ma l’unico strumento scientifico che abbiamo sono i trial clinici con sufficienti valenze statistiche. Quello che non è passato per questo sistema magari è ancora meglio – importante dire che non lo possiamo sapere fino a quando non sia stato rigorosamente testato – ma senza trial clinici non ci può essere autorizzazione clinica. E che palle tutte queste teorie della cospirazione che si vedono – credo abbastanza universalmente una grande perdita di tempo ed energie – se non credi a sistema sarebbe tanto meglio mettersi a lavorare per risolvere i problemi, invece che sognarsi follie cospirazioniste, che dici? Ad esempio trovare fondi/modi per testare in maniera rigorosa una strategia terapeutica non tradizionale?
E per rispondere direttamente alla domanda – in politica (Oh My God!) veramente sembra che nessuno capisca nulla di scienza! Ma la realtà è che è peggio dell’ignoranza (che a me è pure simpatica), è una scelta! Che a lungo (e neppure troppo) andare affossa le civiltà e le culture. E temo che l’Italia sia molto a rischio su questo.
Lei si occupa di ricerca contro il cancro, la missione dichiarata della sua vita. Una ricerca che lei porta avanti da molto tempo perché la scienza richiede la verifica dei dati da parte della comunità scientifica. Spesso si ha fretta di divulgare risultati promettenti, anche prima che la comunità scientifica li abbia messi alla prova. Questo, a lungo andare, si traduce in sfiducia nella scienza e disinformazione.Cosa ne pensa al riguardo?
Sempre difficile per lo scienziato stare attento a non dare troppa speranza, è vero – tante volte la comunicazione un po’ troppo gloriosa nasce solo dall’entusiasmo, dall’ottimismo, dalla passione che alla fine sono le cose che ci spingono alla vita nella scienza, no? Ma comunque sia, è nostra responsabilità presentare le nostre conclusioni ed aspettative in maniera equilibrata – non facile, credimi – ed è certamente capitato anche a me di proiettare dell’ottimismo che poi si è rivelato prematuro. Resta la triste realtà che dalla scoperta scientifica al prodotto farmaceutico in clinica ci sono in media almeno 15 anni e 2 miliardi di Euro, e quindi quasi tutte le scoperte promettenti di cui si legge sui giornali non arrivano mai in clinica, e se ci arrivano, arrivano troppo tardi per chi sta oggi soffrendo del male che si vuole curare con la scoperta annunciata. È in qualche modo il prezzo da pagare del sistema dei trial clinici del mondo farmaceutico: un mondo che va certamente riformato, in maniera profondissima, per raggiungere un servizio ottimale alla comunità globale, specialmente nelle sue componenti meno abbienti, che sono quasi completamente abbandonate a se stesse.
La nanomedicina consiste nel veicolare i farmaci tramite particelle (per esempio di silicio, lipidiche, virali), completamente innocue per il corpo, caricate di medicinale. Quale è secondo lei la sfida più urgente della nanomedicina?
La nanomedicina ha tantissime linee tecnologiche che sono presenti nella medicina di tutti i giorni: spesso non ce ne rendiamo conto, ma è veramente dapertutto. Basti pensare al Covid: i test diagnostici usano microfluidica su quantità nanoscopiche di fluidi e reagenti. Cose che ho visto nascere all’alba della nanomedicina, trent’anni fa. E sempre riguardo il Covid: i vaccini con mRNA, ad esempio quelli di Pfizer e Moderna, non funzionerebbero mai senza le nanoparticelle lipidiche (no, non ci sono le nanocose che connettono il cervello a Bill Gates tramite le torri 5G, quelle sono appunto scemenze cospirazioniste). Ho visto nascere anche le nanoparticelle per uso in medicina, anzi ho diretto la formulazione ed il lancio del programma federale USA in questo, che nel tempo ha dato dozzine di farmaci anticancro (e altre malattie) che vengono ormai usate in tutto il mondo. La sfida più importante adesso? Le metastasi, specialmente quelle ai polmoni ed al fegato, indipendentemente dal sito del tumore primario: restano la principale cause di morte in oncologia. È su queste che io lavoro (da trent’anni) e finalmente penso di essere a meno di 12 mesi da sperimentazioni cliniche. Ma anche in passato mi è successo di pensarlo: vedi sopra!
Le dico tre parole estrapolate dal suo libro, che lei chiama “pilastri fondamentali della scienza”: motivazione, conoscenza, amore. Potrebbe spiegarci brevemente cosa intende?
Beh, credo che sia il capitolo centrale del libro, “I (miei) (tre) pilastri della scienza”, che si trova subito dopo agli altri due capitoli fondamentali: “Figure di M… auro” (ce ne sono tante ed è per quello che il libro ha tante pagine) e “I miei 29 anni di fallimenti” (che se lo scrivessi oggi sarebbero quasi trentuno). “Miei” è tra parentesi proprio per il rispetto delle prospettiva altrui, vedi sopra. E pure “tre”, perché comincio a pensare che invece sono quattro.
E non sono pilastri nel senso della topologia e dell’architettura diciamo – dei templi greci – ma spero ci capiremo lo stesso. Il primo: la conoscenza, è ovvio, no? Il nostro mestiere nella scienza è creare conoscenza e condividerla/insegnarla. Bello ed emozionante di per sé, non occorre altro. Ma per qualcuno è importante chiedersi “perché?” – motivazione – secondo pilastro. Perché faccio questo mestiere? E perché è importante scoprire e condividere conoscenza? In modi diversi, per strade diverse, alcuni che se lo chiedono giungono alla conclusione che è per fare del bene al mondo. Fichissimo. Ci si arriva per vie cristiane, musulmane, ebraiche, buddiste, per altre religioni, da nessuna religione come atei, agnostici, militari e metà prezzo come direbbe forse Totò, pure da milanisti, interisti, juventini e tifosi del Darwin Football Club (chi lo sa?!), e pure venendo da filosofie fichissime, da Kant a Popper e Feyerabend e pure da sua zia Evelyn. Sembra sia una costante universale, voler fare del bene al mondo. Bene, comunque ci si arrivi. Ma come si fa a sapere quando ci si è arrivati, alla prospettiva giusta sul perché si fa la scienza? Un bel libro di argomentazioni convincenti e uno splendido teorema del vivere? Ohi, proprio non mi sembra. Non il cervello – neppure per noi scienziati –, ce lo dice il cuore (metaforico!). L’emozione, pure a noi veneratori della ragione scientifica! Ohi ohi ohi! E allora se è vero che è l’ emozione che guida, beh, scegliamocela bene questa emozione fondante, no? Io dico: Amore (Ohi, si può dire in circoli scientifici? Si offende nessuno?). Ma se hai un’idea migliore fammelo sapere e la mettiamo su Internet, ok?
Le dico altre tre parole (non in ordine): correre, idee, salute. La sua vita personale e professionale ha sempre avuto un legame con lo sport. Qual è la migliore idea che le è passata per la mente facendo sport?
Di idee buone non ne ho avute poi tante, anzi. Ma quelle che vengono nella fase creativa delle corse lunghe (per me dopo diciamo un’ora) sono spesso le migliori. Attenzione: come quando si beve alcoolici, anche nella corsa si passa rapidamente dalle fase creativa allo stato di ebbrezza, nel quale le idee non sempre, anzi quasi mai sono da mettere in pratica… Attenzione! Capitolo di riferimento: “Pioggia Neve o Tiri Vento – Me li Faccio Tutti e Cento”, dove racconto le mie esperienze con l’ultramaratona del Passatore (appunto, 100 km di corsa a piedi). La migliore idea venuta correndo? La prossima, spero!
La storia della scienza è sia storia di fallimenti sia di grandi innovazioni e scoperte. Spesso sono più numerosi gli errori e i fallimenti dei grandi risultati. Lei racconta in modo efficace gli errori, i fallimenti e i successi delle sue ricerche. Qual è la cosa più importante che ha imparato dai suoi fallimenti?
Come canta (anzi canterà prossimamente) il grande Piero Sidoti: “Settecento Volte Perdenti, Settecento e Una Sognanti”. Frank Sinatra canta “That’s Life”, per dire che se finisci faccia a terra ti devi rialzare e ripartire: “pick yourself up and get back in the race!” I Samurai dicevano “sette volte a terra, otto volte in piedi”. Nel nostro mestiere, ahimè, molte più di sette… e dopo un po’ ci si rompe le palle di doversi rialzare di nuovo, e magari fa male un po’ dapertutto… E se lo facciamo per noi stessi, per il successo, per la carriera, per le più svariate ragioni, allora dopo un po’ si smette di rialzarsi o si cerca un altro lavoro. A meno che – ed è questa la scoperta! – lo si faccia per aiutare qualcuno che ha bisogno che ci arriviamo a quella scoperta o a portarla in clinica. E se si pensa alle persone che si possono aiutare, che tu le conosca o no, allora per forza ci si rialza tutte le volte che serve!
Nel suo libro si legge “L’idea vincente viene da chi non te lo aspetteresti […] Succede solo se sai ascoltare e sai mettere tutti nella condizione di poter essere ascoltati”. Come si relaziona con i suoi collaboratori?
A tirarsela tanto non finisce mai bene. Il successo è 90% risultato di circostanze fortunate (posto giusto, momento giusto, dove sei nato e cresciuto, che risorse ti hanno dato, e soprattutto chi hai intorno), mentre le sconfitte quelle sì che sono 90% merito nostro – e anche in quelle le persone intorno a noi sono la chiave – perché ci aiutano a rialzarci e a imparare dalle sconfitte (che poi è l’ unico modo per imparare sul serio). Quindi i collaboratori sono la chiave e bisogna trovare quelli giusti per noi – valori condivisi, modo di lavorare compatibile – e soprattutto tanta inossidabile fiducia reciproca! E per citare il presidente Ronald Reagan: “The secret of success is to surround yourself with great people – and get out of their way!”