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I fossili raccontano la fine dell’era glaciale del tardo Paleozoico, 294 milioni di anni fa

Un team internazionale di scienziati di cui fanno parte l’Università degli Studi di Milano e l’Università Sapienza di Roma, analizzando fossili di brachiopodi ha dimostrato come nel Paleozoico l’incremento di anidride carbonica (CO2), dovuto a un’intensa attività vulcanica, sia risultato concomitante alla riduzione dei ghiacciai e a un incremento della temperatura superficiale media degli oceani fino a 4 gradi centigradi. Questo studio pubblicato su Nature Geoscience ci può aiutare a comprendere meglio i cambiamenti climatici attualmente in atto e le loro conseguenze.

1. Ricostruzione artistica della deglaciazione avvenuta nel Permiano Inferiore causata da un rapido incremento della CO2, avvenuta circa 294 milioni di anni fa (realizzato da Dawid Adam Iurino)
1. Ricostruzione artistica della deglaciazione avvenuta nel Permiano Inferiore causata da un rapido incremento della CO2, avvenuta circa 294 milioni di anni fa (realizzato da Dawid Adam Iurino)

Studiare il riscaldamento globale del passato per capire i cambiamenti climatici del presente. Durante la sua lunga storia, la Terra ha sperimentato condizioni climatiche molto diverse, alternando fasi glaciali a periodi di riscaldamento globale che hanno plasmato il pianeta e influenzato l’evoluzione degli organismi. Ancor prima della comparsa dei dinosauri, durante il tardo Paleozoico (circa 300 milioni di anni fa) ebbe luogo una delle glaciazioni più estese, terminata con una fase di riscaldamento che portò alla scomparsa quasi completa dei ghiacciai e delle calotte polari con importanti conseguenze sulla biodiversità.

2. Variazioni della concentrazione di CO2 in atmosfera prima, durante e dopo la deglaciazione di fine Paleozoico
2. Variazioni della concentrazione di CO2 in atmosfera prima, durante e dopo la deglaciazione di fine Paleozoico

Un team internazionale di scienziati, tra cui ricercatori dell’Università Statale di Milano, dell’Università la Sapienza di Roma e dell’Università di St. Andrews in Scozia, ha preso in esame la glaciazione del tardo Paleozoico e il suo declino, seguito da un considerevole aumento delle temperature, per comprendere meglio l’attuale emergenza climatica.

I risultati di questo studio, pubblicati sulla rivista internazionale Nature Geoscience, ricostruiscono per la prima volta i livelli atmosferici di CO2 lungo un arco temporale di 80 milioni di anni.

L’atmosfera del passato viene spesso studiata attraverso l’analisi di piccole bolle d’aria inglobate nelle calotte polari, grazie alle quali siamo capaci di ricostruire con precisione le variazioni climatiche fino a circa 800 mila anni fa. Ma la sfida affrontata da questo studio è stata quella di sviluppare metodologie in grado di risalire a un intervallo compreso tra 340 e 260 milioni di anni fa. Sono stati così presi in oggetto i fossili brachiopodi, invertebrati marini con una conchiglia costituita da carbonato di calcio, molto abbondanti durante il Paleozoico e tuttora rappresentati da alcune specie viventi. Dalle analisi è emerso come i livelli di CO2 fossero intimamente connessi all’evoluzione della glaciazione e alla sua fine. I ricercatori hanno infatti misurato bassi livelli di anidride carbonica concomitanti alla formazione di estese calotte polari. Viceversa, l’incremento di CO2, che fu il prodotto di un’intensa attività vulcanica, è risultato contemporaneo a una riduzione globale dei ghiacciai e a un incremento della temperatura superficiale media degli oceani fino a 4 gradi centigradi. E oggi, proprio come è avvenuto 300 milioni di anni fa, il riscaldamento dell’atmosfera, causato dall’aumento della presenza di CO2 e di gas metano, ha innescato una evidente riduzione dei ghiacciai e delle calotte polari.

“I fossili e le caratteristiche geochimiche dei loro resti sono una preziosa fonte di informazioni, che ci permette di ricostruire il clima e gli ambienti in cui questi organismi sono vissuti, anche nel tempo profondo, e confrontare questi dati con i cambiamenti attualmente in atto” afferma Lucia Angiolini, docente del Dipartimento di Scienze della Terra Ardito Desio dell’Università degli Studi di Milano.

3. La prof. Lucia Angiolini osserva e campiona materiale fossile da alcuni affioramenti rocciosi del Carbonifero in Scozia
3. La prof. Lucia Angiolini osserva e campiona materiale fossile da alcuni affioramenti rocciosi del Carbonifero in Scozia

“Mentre l’organismo cresce, la sua conchiglia si espande ed incorpora numerosi elementi e composti chimici che vanno a costituire una sorta di archivio per tutto il suo ciclo vitale. Infatti è noto come le conchiglie siano legate alla composizione dell’acqua marina e alla variazione di molteplici parametri tra cui la temperatura e l’acidità (pH)”, sottolinea Claudio Garbelli, docente dell’Università Sapienza di Roma.

“Alcuni elementi presenti nel carbonato di calcio delle conchiglie sono determinati dai valori di pH dell’acqua marina che, a sua volta, dipende dalla quantità di CO2 atmosferica”, aggiunge Hana Jurikova, ricercatrice dell’Università di St. Andrews in Scozia e prima autrice dello studio. “Misurando alcuni degli elementi contenuti nelle conchiglie fossili (quali ad esempio il boro e lo stronzio) e con l’ausilio di sofisticati modelli matematici, siamo stati in grado di ricostruire con una certa precisione la quantità di CO2 presente in atmosfera lungo un arco temporale di 80 milioni di anni, tra 340 e 260 milioni di anni fa”, conclude Jurikova.

Studi come questo, oltre ad evidenziare l’importanza dei fossili come archivi di informazioni utili per comprendere le dinamiche dei cambiamenti climatici e ambientali avvenuti nel passato, rappresentano una fonte di dati indispensabile per sviluppare modelli predittivi dei fenomeni attualmente in atto e del loro impatto sulla biodiversità.

4. Un brachiopode fossile del Permiano, chiamato Pachycyrtella, proveniente dal Permiano inferiore dell’Oman
4. I fossili raccontano la fine dell’era glaciale del tardo Paleozoico: un brachiopode fossile del Permiano, chiamato Pachycyrtella, proveniente dal Permiano inferiore dell’Oman

 

Riferimenti bibliografici:

Jurikova, H., Garbelli, C., Whiteford, R. et al. Rapid rise in atmospheric CO2 marked the end of the Late Palaeozoic Ice Age, Nat. Geosci. (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41561-024-01610-2

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma e dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.

Il Carbonio controlla la profondità di genesi dei magmi nel mantello superiore della Terra

In un nuovo studio (https://www.nature.com/articles/s41561-021-00797-y), pubblicato sulla rivista Nature Geoscience (https://www.nature.com/ngeo/), un team di ricercatori italiani guidato da Alessandro Aiuppa (Università di Palermo) e che vede fra i co-autori Federico Casetta (Università di Ferrara), Massimo Coltorti (Università di Ferrara), Vincenzo Stagno (Sapienza Università di Roma) e Giancarlo Tamburello (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Sezione di Bologna), ha sviluppato un nuovo approccio per ricostruire la quantità di Carbonio immagazzinato nel mantello superiore della terra, dalla cui fusione sono segregati i magmi.

Il Carbonio, il quarto elemento più abbondante in termini di massa nell’universo, è un elemento chiave per la vita. Il suo ricircolo, da e verso l’interno della Terra, regola i livelli di CO2 nell’atmosfera, giocando quindi un ruolo fondamentale nel rendere il nostro pianeta abitabile. Il Carbonio è un elemento unico, perché può essere immagazzinato nelle profondità della Terra in varie forme: all’interno di fluidi, come componente di fasi minerali, oppure disciolto nei magmi. Si ritiene, inoltre, che il Carbonio giochi un ruolo chiave nella geodinamica terrestre, in quanto questo elemento è in grado di controllare i processi di fusione che avvengono mantello superiore. Vista la sua tendenza ad essere incorporato nei magmi prodotti per fusione delle rocce peridotitiche nel mantello superiore, il Carbonio è facilmente trasportato verso la superficie terrestre, ove viene poi rilasciato come CO2 nelle emissioni gassose di vulcani attivi o quiescenti. I magmi ed i gas derivati dal mantello sono, pertanto, i mezzi di trasporto più efficaci per portare il Carbonio verso l’idrosfera e l’atmosfera, dove gioca un ruolo primario nel controllo dei cambiamenti climatici su scala geologica.

Ma quanto Carbonio è immagazzinato all’interno della Terra?

Questa domanda ha ispirato ricerche in diversi ambiti delle geoscienze, che si sono avvalse di molteplici approcci empirici, quali lo studio dei gas emessi in aree vulcaniche, del contenuto in CO2 nelle lave eruttate lungo le dorsali medio-oceaniche e/o nelle inclusioni di magma all’interno dei cristalli, delle inclusioni fluide in xenoliti di mantello portati in superficie dai magmi, e le misure sperimentali sviluppate con lo scopo di comprendere la massima quantità di CO2 che può essere disciolta nei magmi a pressioni e temperature tipiche dell’interno della Terra. Sfortunatamente, questi approcci hanno portato spesso a conclusioni contrastanti, al punto che le stime sul contenuto di Carbonio del mantello (così come dell’intera Terra) divergono di più di un ordine di grandezza. Le “melt inclusions”, o inclusioni di magma, cioè piccole goccioline di fuso silicatico intrappolate nei cristalli al momento della loro formazione nei magmi, possono essere sorgenti di informazione uniche per quantificare il contenuto di Carbonio del mantello da cui i magmi stessi sono segregati. Tuttavia, il massivo rilascio di gas (degassamento), tra cui CO2, a cui i magmi sono soggetti durante la loro risalita verso la superficie (prima della loro messa in posto ed eruzione) ha rappresentato un fattore limitante nella comprensione delle variazioni di concentrazione di Carbonio nel mantello.

Nel loro studio, Aiuppa e co-autori hanno revisionato e catalogato i dati relativi al contenuto in CO2 (e zolfo) nei gas vulcanici emessi da 12 vulcani di hot-spot e di rifting continentale, i cui magmi sono generati da sorgenti mantelliche più profonde rispetto a quelle del mantello impoverito da cui derivano i magmi delle dorsali medio-oceaniche.

Gas magmatici ricchi in CO2 rilasciati dal degassamento del lago di lava a condotto aperto presso il vulcano Nyiragongo, Repubblica Democratica del Congo (foto di Sergio Calabrese, Università di Palermo)

I risultati ottenuti hanno permesso di comprendere che il mantello superiore (50-250 km di profondità) che alimenta il vulcanismo in aree di rifting continentale e di hot-spot contiene in media 350 parti per milione (ppm) di Carbonio (intervallo compreso tra 100 e 700 ppm di C). Questo ampio range conferma la visione di un mantello superiore fortemente eterogeneo, la cui composizione è stata variabilmente modificata, in tempi geologici, dall’infiltrazione di fusi carbonatici-silicatici generati in profondità. Le nuove stime ottenute da Aiuppa e co-autori indicano che il mantello superiore ha una capacità totale di Carbonio di circa ~1.2·1023 g. È possibile che la Terra, nelle sue porzioni interne, sia in grado di contenere ancora più Carbonio, come suggerito dai diamanti provenienti da profondità sub-litosferiche (fino a 700 km), i quali mostrano evidenze dell’esistenza di minerali e fusi che contengono significative quantità di C.

In aggiunta, il team di ricercatori ha stimato che il contenuto di Carbonio aumenta con la profondità di fusione parziale nel mantello. Questa scoperta permette di validare i dati sperimentali, che suggeriscono come il Carbonio giochi un ruolo nel determinare percentuale e profondità di fusione parziale nelle sorgenti di mantello che alimentano i vulcani in aree di rift continentali e di hot-spot. I risultati ottenuti, indicando che le porzioni di mantello ricche in Carbonio fondono più in profondità rispetto a porzioni povere in Carbonio, confermano il ruolo di primaria importanza giocato da questo elemento nel guidare i cicli geodinamici.

Aumento della concentrazione di Carbonio con la profondità di fusione nel mantello superiore terrestre. I magmi prodotti in contesti di Isole Oceaniche e di Rift Continentale sono alimentati da sorgenti di mantello più ricche in Carbonio rispetto alle porzioni di “Depleted MORB Mantle (DMM)”, cioè di mantello impoverito da cui sono prodotti i “Mid-Ocean Ridge Basalts (MORB)”, ovvero basalti di dorsale medio-oceanica

L’esistenza di un mantello ricco in Carbonio, evidenziata da Aiuppa e co-autori, ha profonde implicazioni rispetto alle modalità di immagazzinamento del Carbonio primordiale nel mantello, e per il suo riciclo nel tempo e nello spazio. I risultati ottenuti con questo studio sono anche importanti per comprendere le possibili variazioni nel ciclo geologico del Carbonio causate da eventi vulcanici di grande magnitudo, quali la messa in posto delle “Large Igneous Provinces (LIP)”, o grandi province ignee. Se i magmi prodotti dai “plume”, o pennacchi, di mantello sono ricchi in Carbonio, come suggerito da questo studio, allora il rilascio di Carbonio dalle grandi province ignee nel Fanerozoico può aver contribuito a causare le estinzioni di massa, le cui tracce sono preservate nei record sedimentari in tutto il mondo.

carbonio genesi magmi mantello
Sezione schematica dall’Oceano Atlantico all’Oceano Indiano (passando attraverso il cratone Africano), che mostra le variazioni nelle concentrazioni di Carbonio ricostruite nelle sorgenti di mantello da cui sono prodotti i magmi delle Isole Oceaniche e dei Rift Continentali

Il Carbonio controlla la profondità di genesi dei magmi nel mantello superiore della Terra

CITAZIONE

Alessandro Aiuppa, Federico Casetta, Massimo Coltorti, Vincenzo Stagno and Giancarlo Tamburello (2021), Carbon concentration increases with depth of melting in Earth’s upper mantle, Nature Geoscience, https://doi.org/10.1038/s41561-021-00797-y

La ricerca è stata finanziata dal Deep Carbon Observatory (https://deepcarbon.net/) e dal Miur, Progetto PRIN2017 Connect4Carbon (https://prin2017.wixsite.com/connectforcarbon)

Il Carbonio controlla la profondità di genesi dei magmi nel mantello superiore della Terra. Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma, Università di Palermo, Università di Ferrara, Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia.