Cambiamento climatico: se aumentano le temperature le piante assorbono più nanoplastiche
La ricerca dell’Università di Pisa sulla rivista Plant Physiology and Biochemistry.
Le alte temperature aumentano l’assorbimento delle nanoplastiche da parte delle piante. La notizia arriva da uno studio dell’Università di Pisa pubblicato sulla rivista Plant Physiology and Biochemistry che per la prima volta ha analizzato l’effetto amplificatore dei cambiamenti climatici sull’inquinamento da nanoplastiche. La ricerca è stata condotta dal gruppo di Botanica della professoressa Monica RuffiniCastiglione, e da quello di Fisiologia Vegetale della dottoressa Carmelina Spanò, in collaborazione con le colleghe Stefania Bottega e Debora Fontanini. La sperimentazione nei laboratori dell’Università di Pisa ha impiegato come pianta modello Azolla filiculoides Lam, una piccola felce acquatica galleggiante con radici fluttuanti e sottili che assorbono le sostanze disciolte nell’acqua. Come inquinante sono state utilizzate nanoplastiche di polistirene, una delle materie plastiche più comuni e diffuse con cui si realizzano ad esempio posate e piatti usa e getta, imballaggi, contenitori da asporto e seminiere per l’ortoflorovivaismo.
il laboratorio
Dai dati è emerso che a 35° la presenza di nanoplastiche aumenta apprezzabilmente all’interno della pianta rispetto alla situazione ottimale a 25°. Questo provoca il deterioramento dei parametri fotosintetici e l’aumento dello stress ossidativo e della tossicità nelle piante. L’impiego di nanoplastiche fluorescenti ha inoltre permesso alle ricercatrici di tracciarne con precisione l’assorbimento e la distribuzione nei tessuti e negli organi vegetali.
“Il maggior assorbimento di nanoplastiche in condizioni di alte temperature da parte delle piante solleva preoccupazioni riguardo al possibile impatto sulle colture di interesse agronomico, con implicazioni potenzialmente rilevanti per l’ingresso di queste sostanze nella catena alimentare”, dicono Monica Ruffini Castiglione e Carmelina Spanò.
“Il nostro studio – continua Ruffini Castiglione – sottolinea come i cambiamenti climatici non solo sono in grado di amplificare gli effetti negativi dei rifiuti plastici, ma possano anche creare nuove sinergie pericolose tra fattori ambientali e inquinanti, aggravando ulteriormente le sfide ecologiche già esistenti. Questo deve aumentare la nostra consapevolezza e portare a un maggiore impegno verso comportamenti più sostenibili, come ridurre il consumo di plastica monouso”.
Cambiamento climatico: se aumentano le temperature le piante assorbono più nanoplastiche; lo studio su Plant Physiology and Biochemistry. In foto, il gruppo di ricerca
Le ricercatrici dei gruppi di Botanica e di Fisiologia vegetale impegnate in questo studio si occupano da anni delle risposte di piante modello e di interesse agronomico a metalli, anche in forma nanometrica e a contaminanti emergenti, quali micro e nanoplastiche. L’interesse nasce dalla consapevolezza che le piante sono organismi estremamente sensibili e al contempo resilienti agli stress ambientali. Questa duplice natura le rende modelli ideali per studiare l’impatto dei contaminanti sugli organismi viventi, soprattutto nel contesto dei cambiamenti climatici. Le ricerche del gruppo, svolte anche in collaborazione con l’IBBA CNR e l’Università di Siena, sono state pionieristiche nello studio delle interazioni tra piante e nanomateriali dimostrando per la prima volta, a livello ultrastrutturale, l’assorbimento e la traslocazione di nanomateriali plastici nelle cellule vegetale.
I contenitori di plastica per alimenti riscaldati al microonde possono rilasciare microplastiche
Uno studio, condotto dall’Università degli Studi di Milano in collaborazione con l’azienda Eos e l’Università di Milano-Bicocca, ha rilevato microplastiche nei contenitori alimentari riscaldati al microonde, che possono disperdersi nell’ambiente quando non utilizzati secondo le indicazioni. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista internazionale Particles and Particle Systems Characterization.
Milano, 23 maggio 2024 – Portarsi in ufficio il pranzo nella cosiddetta “schiscetta” e scaldarlo al microonde in maniera non appropriata può contribuire al rilascio di microplastiche nell’ambiente. È quanto emerso da uno studio coordinato dall’Università Statale di Milano, in collaborazione con l’Università di Milano-Bicocca e svolto presso EOS, un’azienda che sviluppa una tecnologia per la caratterizzazione ottica di polveri ideata nei laboratori di Fisica dell’Università Statale di Milano, chiamata “SPES” (Single Particle Extinction and Scattering).
L’idea di verificare se i contenitori alimentari in plastica scaldati al microonde rilasciassero micro e nanoplastiche è partita da EOS, che ha utilizzato la tecnologia “SPES” evidenziando la formazione sistematica di nano e micro-sfere di plastica durante il riscaldamento di acqua pura, un esperimento controllato volto a simulare quanto avviene durante il riscaldamento del cibo.
“SPES” è un metodo innovativo che permette di classificare nano e micro particelle in maniera molto precisa e completa, spiega Marco Pallavera, Direttore Ricerca e sviluppo della EOS, ideatore del protocollo di misura utilizzato nello studio e primo autore dell’articolo. “Lo studio, iniziato quasi per curiosità, ha subito mostrato l’adeguatezza del nostro metodo a costruire un protocollo solido e affidabile per il problema in studio”, continua Tiziano Sanvito che amministra l’azienda fin dalla sua fondazione nel 2014.
“I dati presi da EOS hanno mostrato subito una forte solidità, fondamentale per approcciare un problema delicato come questo”
aggiunge Marco Potenza, docente di Ottica del Dipartimento di Fisica dell’Università Statale di Milano, inventore della tecnica utilizzata nello studio e commercializzata da EOS, oltre che responsabile del Laboratorio di Strumentazione Ottica e Direttore del Centro di Eccellenza CIMAINA (Centro Interdipartimentale Materiali e Interfacce Nanostrutturati).
Dopo molti controlli incrociati sulle procedure sperimentali, i ricercatori sono arrivati alla conclusione che, in effetti, riscaldando acqua pura nei contenitori alimentari si liberano nano e microsfere composte del materiale di cui è costituito il contenitore stesso: il polipropilene, un materiale biocompatibile che ha la caratteristica di fondere tra i 90 e i 110 gradi. Portando l’acqua a ebollizione, quindi, una piccola parte di polipropilene si fonde per poi solidificare nuovamente in acqua. Lo stesso processo, d’altra parte, che si utilizza per produrre industrialmente nanosfere di materiali polimerici, utilizzate in molti settori industriali dalla cosmetica allo sviluppo di materiali innovativi.
I risultati sono stati analizzati e studiati in dettaglio anche da Llorenç Cremonesi e Claudio Artoni del laboratorio EuroCold, presso il Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra dell’Università Milano-Bicocca e corredati di immagini al microscopio elettronico prese da Andrea Falqui, docente del Dipartimento di Fisica dell’Università Statale di Milano.
SottolineaSanvito: “È interessante notare che diversi produttori specificano di non portare i contenitori oltre i 90 °C, oppure di non riscaldarli per troppo tempo nel microonde, oppure ancora di non usare l’apparecchio alla massima potenza. Quindi, seguendo queste indicazioni, l’effetto non si verifica”. “Viceversa, le nano e micro-particelle prodotte andranno a contribuire alla dispersione di plastica in ambiente che caratterizza il mondo moderno”, conclude Potenza.
Testo e immagini dagli Uffici Stampa dell’Università Statale di Milano e dell’Università di Milano-Bicocca.
Uno studio interdisciplinare dell’Università degli Studi di Milano ha esposto le tre principali tipologie cellulari coinvolte nel mantenimento della massa ossea a nanoplastiche fluorescenti, analizzandone l’effettivo ingresso nella cellula e scoprendo che, a causa delle ridotte dimensioni, le nanoplastiche possono interagire direttamente con le cellule ossee, andandone a modificare le nomali attività. La pubblicazione su Science Direct – Journal of Hazardous Materials.
Nel pannello ordinato (pannelo A) compaiono, partendo da sinistra: osteociti, osteoblasti e osteoclasti (fila superiore localizzazione delle nanoplastiche, fila inferiore visibili i nuclei e i contorni delle cellule. Crediti per l’immagine: Lavinia Casati
Milano, 2 novembre 2023 – Le nanoplastiche alterano il delicato equilibrio e la relazione esistente nel microambiente osseo, attività che potrebbe riflettersi in una maggiore suscettibilità a sviluppare patologie legate all’impoverimento osseo: ecco la conclusione a cui è giunto un team di scienziati e recentemente pubblicata su Science Direct – Journal of Hazardous Materials.
La plastica è il materiale che maggiormente caratterizza la nostra epoca: la gestione errata del rifiuto plastico ha determinato infatti un accumulo massivo di oggetti plastici nell’ambiente, che, a seguito della degradazione e della frammentazione a causa di processi chimici, fisici e biologici, originano micro e nanoplastiche, misurate rispettivamente in micrometri (ovvero con dimensioni comprese tra 0,1 e 5.000 µm, ovvero 5mm) e nanometri (le cui dimensioni vanno da 0,001 a 0,1 µm, cioè da 1 a 100 nanometri).
E sono proprio le nanoplastiche l’oggetto dello studio frutto di una collaborazione interdisciplinare, interdipartimentale e interuniversitaria tra Lavinia Casati, ricercatore di Patologia Generale presso il Dipartimento di Scienze della Salute della Statale di Milano, il laboratorio di Patologia Generale coordinato da Raffaella Chiaramonte, docente di Patologia Generale dello stesso Ateneo, e altri gruppi di ricercatori, tra cui il team di ricerca di Marco Parolini, docente di Ecologia del Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali, i ricercatori del Dipartimento di Biotecnologie Mediche e Medicina Traslazionale dell’Università degli Studi di Milano e dell’Università di Parma.
Le nanoplastiche, ad oggi, rappresentano una delle più recenti categorie di contaminanti emergenti, la cui distribuzione in ambiente e gli effetti sugli esseri viventi sono largamente sconosciuti.
“A oggi esistono pochi studi inerenti agli effetti indotti dall’esposizione alle nanoplastiche su modelli ecotossicologici e ancora meno studi sull’uomo”, spiega Lavina Casati, ultimo autore e corresponding author della ricerca. “Proprio da questo nasce la nostra ricerca, che ci ha permesso di descrivere l’azione di questi contaminanti sull’osso, usando un modello in vitro che potesse fornirci una visione ad ampio spettro”.
Per poter scattare la fotografia del microambiente osseo, gli scienziati si sono serviti delle tre principali tipologie cellulari coinvolte nel mantenimento della massa ossea, ovvero i precursori degli osteoblasti, (le cellule che depongono l’osso), gli osteociti (considerati i controllori del processo di rimodellamento osseo) e i precursori degli osteoclasti (ovvero le cellule che lo degradano). Utilizzando tecniche di colture cellulari, hanno esposto queste cellule a delle nanoplastiche fluorescenti di dimensioni pari a 50 nanometri, verificando l’effettivo ingresso delle nanoplastiche nella cellula e la loro localizzazione, attraverso tecniche di imaging e citofluorimetria: le nanoplastiche sono in grado di entrare nelle cellule in un modo che è sia attivo che passivo, e vanno a localizzarsi a livello citoplasmatico. Sono stati poi valutati gli aspetti tossicologici, medianti saggi enzimatici e colorimetrici e parametri funzionali (mediante scratch test e saggi immunoistochimici). Le nanoplastiche riducono la vitalità delle cellule, ne aumentano la morte e inducono la formazione di radicali liberi. A livello funzionale, inoltre, le nanoplastiche alterano la capacità migratoria degli osteoblasti e potenziano il riassorbimento indotto dagli osteoclasti.
Per descrivere al meglio anche l’effetto delle nanoplastiche a livello molecolare, infine, è stato analizzato l’impatto sull’espressione di geni coinvolti nel mantenimento della massa ossea: il team di ricerca ha trovato un coinvolgimento di geni relativi all’innesco di processi infiammatori nei precursori degli osteoblasti e negli osteociti e un’induzione dei geni coinvolti nei processi differenziativi degli osteoclasti.
“Anche se saranno necessari ulteriori studi per delineare al meglio la complessa interrelazione tra nanoplastiche e rimodellamento osseo a livello della salute umana, questo studio ci permette di iniziare ad esplorare nuovi orizzonti inerenti ai contaminanti ambientali e al loro impatto sull’uomo”, conclude Lavinia Casati.
Che cosa sono microplastiche e nanoplastiche e quale impatto hanno sulla salute umana e sull’ambiente circostante?
Che cosa sono le microplastiche?
Le plastiche sono componenti onnipresenti nella vita di tutti i giorni. Dal punto di vista chimico sono polimeri di idrocarburi, cioè un insieme di molecole contenenti solo carbonio, idrogeno e ossigeno. I motivi del loro successo sono principalmente la loro leggerezza, versatilità, resistenza ed economicità.
Un aspetto da considerare seriamente è la loro permanenza nell’ambiente: se non sono smaltite correttamente, le plastiche raggiungono i corsi d’acqua e i mari, ma non solo. Probabilmente, avrai sentito parlare dell’isola di plastica presente tra la California e le Hawaii, nell’Oceano Pacifico: una massa di detriti galleggianti. Le plastiche sono pericolose per gli animali marini, che possono cibarsene o rimanervi intrappolati. Eppure, non sono i rifiuti visibili il problema, ma quelli (quasi) invisibili.
Le cosiddette microplastiche (una presentazione del tema qui) hanno dimensioni inferiori ai 5mm e sono state rinvenute negli ecosistemi terrestri, marini e di acqua dolce, nonché negli alimenti e nell’acqua potabile. Le microplastiche si distinguono in primarie e secondarie, a seconda della loro origine. Le prime sono prodotte per uso domestico e industriale grazie alle loro proprietà abrasive (per esempio, nei cosmetici); le secondarie hanno origine da fenomeni di erosione e degradazione dei rifiuti plastici quando sono esposti, per esempio, alla luce solare.
La plastica si degrada continuamente nell’ambiente in particelle via via più piccole facilmente trasportate dall’aria. Anche i microrganismi possono contribuire alla degradazione delle plastiche (si parla di biodegradazione), dal cui processo, temperatura-dipendente, si ottengono anidride carbonica, metano e acqua. Ma le condizioni per una completa degradazione raramente si verificano nell’ambiente marino.
In più, i polimeri più comunemente utilizzati non sono facilmente biodegradabili: sono soggetti alla deformazione e alla frammentazione in micro e nanoplastiche. Le nanoplastiche misurano da 0,001 a 0,1 µm (ossia da 1 a 100 nanometri). Entrambe permangono nell’ambiente per secoli e possono essere ingerite da invertebrati e piccoli pesci, entrando così nella catena alimentare, di cui fa parte anche l’uomo. Oltre alla plastica, bisogna considerare che si tratta di una complessa combinazione di sostanze chimiche, tra cui vi sono anche gli additivi per conferire resistenza e flessibilità alle materie plastiche.
Quante sono le specie di animali che subiscono l’inquinamento da plastica? Vi sono specie più esposte di altre? Per esempio, studi di laboratorio sulle ostriche, invertebrati marini filtratori, hanno riscontrato che le plastiche possono danneggiare, tra le altre cose, il loro sistema riproduttivo. I particolati agiscono negativamente anche sulle cellule del sistema immunitario, sulla composizione del microbiota e sulle funzionalità neuro-endocrine sia in specie acquatiche che in animali di laboratorio.
Nel rapporto ISTISAN 21|2 “Strategie di campionamento di microplastiche negli ambienti acquatici e metodi di pretrattamento” dell’Istituto Superiore di Sanità, si legge:
la tossicità e l’impatto sulla salute umana delle microplastiche non sono del tutto conosciute perché la loro caratterizzazione e classificazione non sono standardizzate.
Anche l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (European Food Safety Authority, in sigla EFSA) ha esaminato la letteratura scientifica esistente sull’argomento, rilevando l’insufficienza dei dati relativi alla presenza, alla tossicità e al destino delle microplastiche e nanoplastiche negli alimenti ai fini di una valutazione completa del rischio. Tuttavia, l’EFSA riconosce che l’argomento richiede un’attenzione particolare.
Attraverso la catena alimentare, la plastica ingerita dagli animali può arrivare direttamente sulla nostra tavola. Le microplastiche sono state trovate nella birra, nel miele e nell’acqua del rubinetto.
Per cui, non sorprende se di recente sono state trovate tracce di plastica anche all’interno del corpo umano. Come riporta Margherita Ghiara nel suo articolo “Microplastiche ovunque, anche nel sangue”, è noto da tempo alla comunità scientifica come il tessuto polmonare o le deiezioni di adulti e bambini possano contenere tracce di microplastiche.
Inoltre, un gruppo di ricercatori della Vrije Universiteit Amsterdam e dell’Amsterdam University Medical Center ha confermato la presenza di tracce di microplastica nel sangue umano. La ricerca, pubblicata sulla rivista scientificaEnvironment International, è stata condotta dall’ecotossicologa Heather Leslie e dalla chimica analitica Marja Lamoree. Lo studio, eseguito su una popolazione di 22 donatori volontari, ha evidenziato la presenza di polimeri particolarmente utilizzati in prodotti di uso comune. In aggiunta a sangue, polmoni e feci, nel 2021 sono stati riscontrati frammenti microplastici anche nella placenta umana.
Tuttavia, stabilire se le microplastiche provochino danni o meno è molto difficile. Infatti, la natura del rischio dipende sia dalle caratteristiche fisiche e dalla composizione chimica delle microplastiche, sia dal tempo necessario per biodegradarsi. Studi precedentemente effettuati in vitro hanno dimostrato alcune possibili implicazioni derivanti dall’esposizione a microplastiche, ma i punti da chiarire sono ancora molti.
All’elenco degli organi in cui sono state trovate microplastiche si aggiunge anche il cervello. Infatti, nei pesci sono state trovate tracce di plastica nel cervello e questo è stato collegato ad alterazioni fisiche e chimiche del sistema nervoso, nonché a variazioni comportamentali. Nel giugno 2020 i ricercatori del Neurotoxicology Research Group dell’Università di Utrecht riportarono in unareviewi principali effetti, fino ad allora noti, delle particelle di plastica sul sistema nervoso non-umano, avanzando l’ipotesi che esse potessero entrare nel circolo sanguigno e attraversare la barriera ematoencefalica (struttura che regola selettivamente il passaggio sanguigno di sostanze chimiche da e verso il cervello).
La dottoressa Verena Kopatz e altri ricercatori dell’Università di Vienna e i collaboratori da Stati Uniti, Ungheria e Olanda hanno scoperto particelle di plastica nel cervello di topo dopo due ore dall’ingestione di acqua contenente microplastiche. I risultati sono stati ottenuti mediante studi sui topi e simulazioni matematiche al computer. Lo studio prevedeva la somministrazione di acqua contenente polistirene, il tipo di plastica più comune degli imballaggi alimentari.
Le domande aperte sono ancora molte: il meccanismo osservato nel modello murino e simulato matematicamente al computer sarà lo stesso nell’essere umano? Quanta plastica è necessaria per causare un danno? Qual è il ruolo delle microparticelle di plastica negli stati infiammatori e patologici del cervello?
Nel mentre che la ricerca scientifica sul tema va avanti, bisognerebbe ridurre l’esposizione e l’uso della plastica allo stretto indispensabile.
Quali alternative o soluzioni?
Per ridurre l’esposizione alle microplastiche, è importante limitare l’uso di prodotti di plastica monouso e utilizzare alternative come bottiglie riutilizzabili e contenitori per alimenti in vetro o acciaio inossidabile.
Possibili soluzioni sono l’introduzione di un’alternativa alle microplastiche primarie con materiali diversi e la riduzione delle microplastiche secondarie, incrementando la raccolta e il riciclo dei materiali plastici. Motivati dalle preoccupazioni per l’ambiente e per la salute delle persone, diversi Stati membri dell’UE hanno già emanato o proposto divieti nazionali sugli usi intenzionali delle microplastiche nei prodotti di consumo. I divieti riguardano principalmente l’uso di microgranuli nei cosmetici che vengono lavati via dopo l’uso, in cui le microplastiche sono utilizzate come agenti abrasivi e leviganti. L’Unione Europea vuole diventare pioniere nella lotta globale all’inquinamento ambientale, in particolare per quanto riguarda la plastica. Ricerca scientifica e politiche mirate potrebbero davvero ridurre il volume e l’impatto ambientale di alcuni prodotti di plastica.
la copertina del libro Quello che sai sulla plastica è sbagliato, di Simone Angioni, Stefano Bertacchi e Ruggero Rollini, pubblicato da Gribaudo (2023)
Per rispondere ad alcune domande sulle microplastiche, non perderti la mostra “Invisible – L’impronta nascosta delle microplastiche” al Festival della Scienza di Genova, visitabile dal 26 ottobre al 3 novembre. Mediante esperienze interattive sarà possibile esplorare le caratteristiche chimico-fisiche delle microplastiche e capire quali sono le principali fonti nascoste, imparare che cosa si intende con il termine plastisfera e cosa possiamo fare per migliorare la situazione come singole persone e come società.
INQUINAMENTO DA NANOPLASTICHE: MONICA PASSANANTI, RICERCATRICE UNIVERSITÀ DI TORINO, VINCE UNO DEGLI STARTING GRANTS 2020
Il progetto della ricercatrice del Dipartimento di Chimica dell’Università di Torino ha ottenuto dall’organismo dell’Unione Europea un finanziamento di oltre 1.600.000 euro per i prossimi 5 anni.
Monica Passananti
Il 3 settembre 2020, lo European Research Council (ERC), organismo dell’Unione Europea che attraverso finanziamenti competitivi sostiene l’eccellenza scientifica, ha pubblicato la lista dei progetti che hanno vinto uno degli Starting Grants per l’anno 2020.
Su un totale di 3272 proposte, di cui 432 selezionate, tra le 20 italiane il progetto NaPuE – Impact of Nanoplastics Pollution on aquatic and atmospheric Environments di Monica Passananti, ricercatrice del Dipartimento di Chimica dell’Università di Torino e docente di chimica ambientale, che ha ottenuto un finanziamento di 1.624.751 euro per i prossimi 5 anni. Il progetto studierà l’impatto delle nanoplastiche sull’ambiente determinando come queste possano interagire con le componenti abiotiche nell’acqua marina e nell’atmosfera e come possano modificare con i processi naturali.
L’inquinamento da plastica raggiunge le più remote aree della Terra: detriti plastici sono stati trovati quasi ovunque dalle Alpi all’Antartide e anche nell’atmosfera. Tra questi contaminanti ci sono le cosiddette nanoplastiche, non visibili ad occhio nudo, che possono essere prodotte attraverso la degradazione di pezzi di plastica più grandi o possono entrare direttamente nell’ambiente a causa di uno smaltimento non corretto.
Ancora poco si conosce su come agiscono le nanoplastiche nell’ambiente e la loro presenza negli oceani è stata dimostrata solo di recente, pertanto i rischi ambientali e sanitari non sono ancora definiti. A causa della piccola dimensione e della grande superficie esposta su cui si dispongono, le interazioni delle nanoplastiche con le specie chimiche e le forme di vita presenti in natura, possono essere significativamente differenti rispetto ai detriti più grandi.
Il progetto, che si svilupperà in cinque anni, si svolgerà presso l’Università di Torino e l’Università di Helsinki in Finlandia e si avvarrà di esperimenti di laboratorio per determinare cosa producono le nanoplastiche, quando reagiscono con la luce solare e le specie chimiche in acqua di mare e nell’atmosfera. Svilupperà una procedura di raccolta e analisi, attraverso la spettrometria di massa e tecniche di misurazione degli aerosol, un passo cruciale per analizzare quanto le nanoplastiche siano presenti nell’ambiente. Infine, valuterà il loro potenziale impatto sui processi fotochimici naturali, sugli scambi mare-atmosfera e sul ciclo del carbonio.
La ricerca fornirà importanti informazioni sulla reattività e sui meccanismi di trasformazione delle nanoplastiche nell’ambiente. I risultati saranno fondamentali per comprendere quale sia l’impatto sull’ecosistema dell’inquinamento da nanoplastiche e saranno decisivi nello sviluppare strategie per risolvere i problemi relativi all’inquinamento da plastica.
“Penso che questo progetto e in generale la ricerca sull’impatto delle plastiche sull’ambiente sia importante – ha dichiarato la professoressa Monica Passananti – perché l’inquinamento da plastica è un problema globale, infatti piccoli frammenti sono stati trovati anche nelle aree più remote della Terra. Spesso l’attenzione è focalizzata sui detriti grandi e visibili che inquinano i nostri suoli e mari, tuttavia il problema dell’inquinamento da nanoplastiche è spesso sottovalutato. Non sono visibili ad occhio nudo, ma il fatto che siano così piccole le rende potenzialmente più pericolose per l’ecosistema”.
“Il nuovo riconoscimento dell’European Research Council alla professoressa Monica Passananti – ha dichiarato il Rettore Stefano Geuna – conferma ancora una volta l’eccellenza del lavoro dei ricercatori del nostro Ateneo nei diversi ambiti disciplinari. Studiare l’inquinamento delle nanoplastiche è oggi fondamentale per lo sviluppo sostenibile del pianeta e per ridurre i rischi ambientali e l’impatto sulla salute”.
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Testo e foto dall’Università degli Studi di Torino sull’ottenimento di uno degli Starting Grants dell’ERC da parte del progetto NaPuE sull’inquinamento da nanoplastiche, di Monica Passananti.