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Nuove frontiere per il trattamento della SLA: la proteina HuD, un nuovo possibile target terapeutico
Lo studio, pubblicato su Nature Communications e coordinato dal Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza, ha osservato un coinvolgimento della proteina HuD nei difetti della giunzione neuromuscolare, tra i primi segni distintivi della patologia. I risultati aprono allo sviluppo di nuove terapie mirate.

La SLA è una malattia neurodegenerativa progressivamente invalidante, dovuta alla compromissione graduale dei neuroni motori, le cellule nervose che stimolano la contrazione muscolare permettendo il movimento e altre funzioni importanti. Quando nei pazienti i neuroni motori degenerano, i muscoli volontari non ricevono più stimoli dal cervello e si atrofizzano, portando così alla paralisi completa. Attualmente, si utilizzano trattamenti capaci di ridurre i sintomi della malattia ma non esiste una cura per fermarne la progressione.

I difetti della giunzione neuromuscolare – il punto di connessione tra i neuroni motori e il muscolo – sono tra i primi segni distintivi della SLA.

Da quanto emerge dalla ricerca, condotta dal gruppo di Alessandro Rosa del Dipartimento di Biologia e biotecnologie della Sapienza in collaborazione con l’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) e l’Università di Pittsburgh, ci sarebbe un legame tra la disregolazione di una specifica proteina, denominata HuD, e i disturbi della giunzione neuromuscolare nei pazienti affetti da SLA.

“I risultati ottenuti individuano in questa proteina un ruolo cruciale in un momento precoce della malattia suggerendola quindi come un possibile target in ambito terapeutico”, ha sottolineato Alessandro Rosa.

La ricerca ha mostrato come livelli elevati di proteina HuD possano portare a difetti alla giunzione neuromuscolare con conseguente degenerazione dei neuroni motori. Riducendo quindi i livelli della proteina con terapie mirate si potrebbero limitare i disturbi della giunzione neuromuscolare nei pazienti.

Questa evidenza è stata confermata in vivo in un modello animale, il moscerino Drosophila melanogaster, in cui la sovraespressione della proteina causa difetti nella locomozione, mentre la sua riduzione migliora il fenotipo motorio.

Il progetto è stato finanziato dal PNRR nell’ambito del Centro Nazionale 3 – Sviluppo di terapia genica e farmaci con tecnologia a RNA. Per il Dipartimento di Biologia e Biotecnologie hanno contribuito al lavoro anche Alessio Colantoni e Monica Ballarino.

Riferimenti bibliografici:

“HuD impairs neuromuscular junctions and induces apoptosis in human iPSC and Drosophila ALS models” – Beatrice Silvestri, Michela Mochi, Darilang Mawrie, Valeria de Turris, Alessio Colantoni, Beatrice Borhy, Margherita Medici, Eric Nathaniel Anderson, Maria Giovanna Garone, Christopher Patrick Zammerilla, Marco Simula, Monica Ballarino, Udai Bhan Pandey & Alessandro Rosa, Nature Communications, volume 15, Article number: 9618 (2024) doi: https://www.nature.com/articles/s41467-024-54004-8

Foto di Konstantin Kolosov

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

DIMOSTRATO PER LA PRIMA VOLTA UN LEGAME DIRETTO TRA MICROBIOTA INTESTINALE E SISTEMA NERVOSO PERIFERICO

Lo studio apre nuove prospettive terapeutiche per le lesioni dei nervi ed è il risultato di una collaborazione internazionale tra le ricercatrici di NICO – Università di Torino, Università di Padova e Università di Hannover.

Il microbiota intestinale, costituito da un insieme di microorganismi tra cui batteri, virus e funghi, colonizza il tratto gastrointestinale umano e influisce in modo decisivo sulla salute. Negli ultimi decenni sono stati dimostrati gli effetti del microbiota su altri organi e le alterazioni di questo complesso ecosistema – note come disbiosi – sono state collegate all’insorgenza di diverse patologie.

Ora, per la prima volta, c’è la conferma di un legame diretto tra microbiota intestinale e sistema nervoso periferico. In particolare, lo studio pubblicato di recente sulla rivista scientifica Gut Microbes dimostra come la totale o parziale assenza del microbiota intestinale interferisca negativamente sullo sviluppo dei nervi periferici e del loro bersaglio, il muscolo scheletrico.

La ricerca è frutto di una collaborazione internazionale tra l’Università di Torino – con le professoresse Giulia Ronchi, Giovanna Gambarotta e Stefania Raimondo del NICO – Neuroscience Institute Cavalieri Ottolenghi e del Dipartimento di Scienze Cliniche e Biologiche, insieme al prof. Salvatore Oliviero del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi UniTo ­- unitamente alla prof.ssa Matilde Cescon del Dipartimento di Medicina Molecolare dell’Università di Padova e nella persona della prof.ssa Kirsten Haastert-Talini per l’Università di Hannover in Germania.

Stefania Raimondo - Giulia Ronchi - Giovanna Gambarotta (NICO-UNITO)
Stefania Raimondo – Giulia Ronchi – Giovanna Gambarotta (NICO-UNITO)

Lesioni dei nervi periferici: cause, incidenza e strategie terapeutiche

Incidenti stradali, sportivi, domestici o sul lavoro e (non ultimi) anche interventi chirurgici. Sono queste le cause più frequenti delle lesioni dei nervi periferici che in Italia raggiungono un’incidenza di 400.000 casi all’anno.

legame tra microbiota intestinale e sistema nervoso periferico Immagini acquisite al microscopio elettronico che mostrano due fibre mieliniche a confronto. A parità di diametro dell’assone (A), i nervi che si sono sviluppati in totale assenza di microbiota mostrano una guaina mielinica più spessa (M) rispetto ai nervi che si sono sviluppati in presenza di un normale microbiota
Immagini acquisite al microscopio elettronico che mostrano due fibre mieliniche a confronto. A parità di diametro dell’assone (A), i nervi che si sono sviluppati in totale assenza di microbiota mostrano una guaina mielinica più spessa (M) rispetto ai nervi che si sono sviluppati in presenza di un normale microbiota

«Malgrado i notevoli progressi della ricerca e della microchirurgia ricostruttiva – che oggi puntano su ingegneria tissutale e nuovi biomateriali – il recupero delle funzioni nervose e muscolari dopo una lesione è spesso solo parziale, influendo negativamente sulla qualità della vita dei pazienti. È quindi necessario – sottolineano Matilde Cescon dell’Università di Padova e Giulia Ronchi del NICO – Università di Torino – approfondire la conoscenza dei complessi meccanismi neurobiologici che regolano la rigenerazione dei nervi. Indagare il ruolo del microbiota intestinale in condizioni patologiche o di lesioni va proprio in questa direzione: aprire strade inesplorate che offrano nuove prospettive terapeutiche, con importanti ricadute cliniche».

Questo studio, che dimostra per la prima volta l’esistenza di un asse intestino – sistema nervoso periferico, è il punto di partenza per il progetto Gut-NeuroMuscle, finanziato dal programma PRIN – Progetti di Rilevante Interesse Nazionale con cui il Ministero della Ricerca sostiene la ricerca di base, che ha l’obiettivo di esplorare l’interazione tra microbiota e rigenerazione nervosa.

legame tra microbiota intestinale e sistema nervoso periferico Grafico “a vulcano” ottenuto in seguito a sequenziamento dell’RNA messaggero, nel quale ogni puntino rappresenta un gene la cui espressione è deregolata nei neuroni sensitivi che si sono sviluppati in totale assenza di microbiota (in rosso quelli espressi di più, in blu quelli espressi di meno)
Grafico “a vulcano” ottenuto in seguito a sequenziamento dell’RNA messaggero, nel quale ogni puntino rappresenta un gene la cui espressione è deregolata nei neuroni sensitivi che si sono sviluppati in totale assenza di microbiota (in rosso quelli espressi di più, in blu quelli espressi di meno)

Gut-NeuroMuscle (Intestino e sistema neuromuscolare: studio dell’impatto del microbiota sulla rigenerazione nervosa e reinnervazione muscolare dopo lesione del nervo periferico) vede coinvolti due gruppi di ricerca composti dalle prof.sse Giulia Ronchi e Giovanna Gambarotta (NICO – Università di Torino) e dalla prof.ssa Matilde Cescon (Università di Padova) e la dott.ssa Sonia Calabrò (Università di Padova).

Giulia Ronchi - Giovanna Gambarotta - Stefania Raimondo (NICO-UNITO)
Giulia Ronchi – Giovanna Gambarotta – Stefania Raimondo (NICO-UNITO)

Link alla ricerca: www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/19490976.2024.2363015

Titolo: “Gut microbiota depletion delays somatic peripheral nerve development and impairs neuromuscular junction maturation – «Gut Microbes»- 2024

Autori: Matilde Cescon, Giovanna Gambarotta, Sonia Calabrò, Chiara Cicconetti, Francesca Anselmi, Svenja Kankowski, Luisa Lang, Marijana Basic, Andre Bleich, Silvia Bolsega, Matthias Steglich, Salvatore Oliviero, Stefania Raimondo, Dario Bizzotto, Kirsten Haastert-Talini & Giulia Ronchi

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

“M-Wall”: un’attrazione da Luna Park per mantenere in forma gli astronauti sulla Luna

Un team di scienziati dell’Università Statale di Milano ha ideato come tenere in allenamento, all’interno dei moduli abitativi spaziali e attraverso una corsa che sembrerebbe impossibile, i futuri astronauti che stazioneranno a lungo sulla Luna, aiutandoli a mantenere le funzioni corporee a livello terrestre. La pubblicazione su Royal Society Open Science.

Milano, 2 maggio 2024 – L’uomo sta per tornare sulla Luna. E questa volta per restarci a lungo, come prevede il programma Artemis della NASA. Ma vivere in condizioni di microgravità come quelle presenti sul nostro satellite ha effetti negativi sul corpo umano: indebolimento muscolare, perdita di densità ossea, problemi di circolazione.

Ora però i ricercatori dell’Università degli Studi di Milano hanno individuato un sistema che potrà permettere agli astronauti di allenarsi anche sulla Luna e prevenire così l’insorgenza di questi disturbi fisici. 

Correre sulla Luna è infatti impossibilese un’astronauta ci provasse, finirebbe per saltellare più che muoversi in avanti. Ma la ricerca, pubblicata sulla rivista Royal Society Open Science, ha dimostrato che un astronauta potrebbe però correre orizzontalmente sulla parete verticale di un cilindro di 10 metri di diametro, come quelle all’interno dei cosiddetti Muri delle morte (Wall of Death) nei quali si esibiscono i motociclisti.

“Sulla Terra, per un uomo è impossibile correre dentro questi cilindri perché la potenza muscolare della corsa è insufficiente a raggiungere prestazioni tali da contrastare la gravità terrestre e rimanere ‘attaccati’ alla parete” spiega Alberto Minetti, professore ordinario di Fisiologia all’Università Statale di Milano e coordinatore dello studio. Nella nostra sperimentazione, invece, abbiamo simulato le condizioni gravitarie lunari, che sono 1/6 di quelle terrestri. Abbiamo noleggiato un’attrazione simile a quelle che si trovano al Luna Park, ribattezzata “M-Wall” dal gruppo di ricerca su suggerimento ESA (European Space Agency), e un braccio telescopico per edilizia, estensibile fino a 40 metri di altezza. A questo braccio abbiamo sospeso alcuni volontari con un’imbragatura a bande elastiche, tese al punto di sgravare il peso corporeo di 5/6 del valore terrestre. Dopo una breve familiarizzazione, i volontari sono riusciti a correre orizzontalmente ad altezza costante sul muro verticale, proprio come i motociclisti acrobatici sulla Terra, continua Minetti, con una velocità dai 19 ai 22 km/ora.

“M-Wall”: un’attrazione da Luna Park per mantenere in forma gli astronauti sulla Luna. Gallery

Un astronauta, correndo su una parete anche a velocità leggermente inferiori, genera una gravità artificiale laterale ben più alta di quella che agisce verticalmente sul nostro satellite. Questo, sulla Luna, gli permetterebbe di tenersi in allenamento e combattere così lo scadimento delle condizioni osteomuscolari, cardiocircolatorie e di controllo neuromotorio indotte dalla permanenza prolungata in ipogravità. Infatti, l’analisi biomeccanica e, indirettamente, energetica della corsa hanno mostrato che l’intensità della locomozione e le forze di impatto al contatto possono mantenere la massa muscolare e la densità ossea a livelli ‘terrestri’. Inoltre questo esercizio a corpo libero coinvolgerà il senso dell’equilibrio e quindi anche il controllo motorio.

“Si prevede che saranno sufficienti due sessioni di pochi minuti al giorno e che si potranno utilizzare le pareti dei moduli abitativi degli astronauti (che sono previsti circolari), riducendo al minimo l’extra spazio necessario al soggiorno sul nostro satellite”, conclude Alberto Minetti.

Testo, video e foto dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.

RICERCATORI DELL’UNIVERSITÀ DI TORINO IDENTIFICANO DUE PROTEINE COINVOLTE NELLA CACHESSIA NEOPLASTICA

I risultati dello studio, pubblicati sulla rivista Cell Reports Medicine, suggeriscono un nuovo approccio terapeutico per trattare una sindrome, associata a molte patologie croniche, che ancora rappresenta un’esigenza medica.

cachessia neoplastica UniTo graphical abstract due proteine

Gli scienziati del Dipartimento di eccellenza di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute dell’Università di Torino, che lavorano al Molecular Biotechnology Center di via Nizza 52, hanno identificato il ruolo chiave di due proteine nella promozione della cachessia neoplastica e dell’atrofia muscolare. I risultati dello studio, coordinato dal Prof. Paolo E. Porporato del Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze della Salute e sostenuto da Fondazione AIRC per la Ricerca sul Cancro, sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Cell Reports Medicine.

La cachessia è una sindrome associata a molte patologie croniche, caratterizzata da un forte calo del peso corporeo e da una crescente atrofia muscolare, che incide drasticamente sulla qualità di vita e sulla prognosi dei pazienti. In ambito oncologico questa condizione affligge la maggior parte dei pazienti con malattia in stadio avanzato e rappresenta la causa di morte in almeno il 20% dei casi. Anche a causa delle scarse conoscenze alla base della cachessia neoplastica, attualmente non esistono cure specifiche ed efficaci.

Le cellule che costituiscono i tessuti del nostro corpo rispondono a stimoli dell’ambiente circostante con flussi di proteine che si attivano e inattivano, lungo specifiche vie di segnalazione cellulare. La ridotta attività di una di queste vie di segnalazione, chiamata “BMP-Smad”, induce una diminuzione della forza e della massa muscolare ed è uno dei meccanismi biologici noti alla base della cachessia neoplastica.

I ricercatori dell’Università di Torino hanno aggiunto un tassello a questo quadro, identificando due proteine coinvolte nella riduzione di questa via di segnalazione: l’ormone eritroferrone (ERFE) e la proteina intracellulare FKBP12. Grazie a una stretta collaborazione con l’Università di Padova e l’Ospedale San Raffaele di Milano, gli scienziati hanno osservato l’aumento dell’ormone ERFE nei muscoli di pazienti oncologici. Inoltre, in modelli sperimentali di cachessia neoplastica hanno trovato che tale aumento è indotto da uno stato persistente di infiammazione.

Una volta identificato ERFE come ulteriore inibitore della segnalazione del BMP-Smad, i ricercatori hanno valutato un possibile approccio terapeutico per riattivare questa via. Il gruppo ha in particolare studiato l’effetto della molecola FK506, che a basso dosaggio lega e rimuove la proteina FKBP12. Allentando il freno rappresentato dalla proteina FKBP12, la molecola FK506 riattiva la via del segnale del BMP-Smad nel muscolo. In particolare la Dott.ssa Erica Mina, prima autrice dell’articolo, ha individuato gli effetti positivi della molecola FK506 sul muscolo. Basse dosi di FK506 sono in grado di ripristinare la sintesi proteica e prevenire l’atrofia di fibre muscolari in vitro e in modelli sperimentali di cachessia neoplastica. FK506 impedisce la perdita del peso corporeo, proteggendo anche dalle alterazioni dell’apparato neuromuscolare: una condizione chiave per il miglioramento della qualità di vita in caso di cachessia.

I dati raccolti con questa ricerca, sostenuta da Fondazione AIRC, sono un interessante punto di partenza per la comprensione dei meccanismi alla base della cachessia neoplastica. Ulteriori studi saranno necessari per una futura applicazione clinica. Sarà, infatti, necessario sviluppare un approccio farmacologico che colpisca solo il muscolo, per garantire un effetto specifico del trattamento.

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

Un nuovo studio, pubblicato su Brain, suggerisce che la rigidità muscolare nella malattia di Parkinson abbia alla base la disfunzione di un circuito neuronale

Un nuovo studio internazionale, pubblicato sulla rivista Brain e coordinato dal Dipartimento di Neuroscienze umane della Sapienza, suggerisce una nuova ipotesi interpretativa della rigidità muscolare nella malattia di Parkinson.

neuroni rigidità muscolare Parkinson
Immagine di Colin Behrens

Uno dei tratti caratteristici della Malattia di Parkinson è la rigidità muscolare, un aumento patologico del tono muscolare che si manifesta con una contrazione sostenuta e involontaria, che costituisce una invalidante limitazione della mobilità, talvolta associata a dolore cronico. Ad oggi sono ancora poco chiari i meccanismi alla base del fenomeno, del quale non è disponibile neanche una misura strumentale affidabile.

Uno studio internazionale, coordinato dalla Sapienza in collaborazione con la University College di Londra e il National Institutes of Health (NIH), Bethesda (USA), introduce una nuova ipotesi interpretativa secondo cui la rigidità è legata alla disfunzione di uno specifico circuito neuronale che include connessioni funzionali tra midollo spinale, cervelletto e la formazione reticolare del tronco dell’encefalo.

Il lavoro, che chiarisce rilevanti aspetti fisiopatologici della rigidità, affrontando anche il problema dello studio sperimentale di questo segno clinico, è stato pubblicato sulla rivista Brain.

Grazie a un innovativo protocollo sperimentale che ha visto l’utilizzo di una innovativa strumentazione robotica, associata e sincronizzata a specifiche misure neurofisiologiche e biomeccaniche, è stato possibile valutare con un algoritmo le caratteristiche della muscolatura e l’attività nervosa riflessa di 20 pazienti affetti dalla malattia di Parkinson e 25 soggetti sani di controllo con caratteristiche anagrafiche ed antropometriche simili.

“Il principale traguardo scientifico del nostro studio – spiega Antonio Suppa del Dipartimento di Neuroscienze Umane della Sapienza – consiste nella dimostrazione sperimentale che la rigidità nella Malattia di Parkinson dipende da specifiche alterazioni del controllo nervoso del tono muscolare (es. aumento velocità-dipendente dei riflessi di lunga latenza) che a loro volta riflettono una disfunzione nelle connessioni tra midollo spinale, cervelletto e formazione reticolare del tronco dell’encefalo.”

La Malattia di Parkinson è una patologia neurodegenerativa assai frequente nella popolazione generale (circa 300.000 pazienti in Italia) e purtroppo in continua crescita secondo le ultime stime dell’Organizzazione mondiale della sanità. Una più approfondita conoscenza dei suoi principali segni e sintomi clinici risulta fondamentale anche nell’ottica di una più appropriata pianificazione e programmazione di interventi specifici di sanità pubblica.

Riferimenti:
Rigidity in Parkinson’s disease: Evidence from Biomechanical and Neurophysiological Measures, Francesco Asci, Marco Falletti, Alessandro Zampogna, Martina Patera, Mark Hallett,John Rothwell, e Antonio Suppa,  https://doi.org/10.1093/brain/awad114

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

UN NUOVO STUDIO, PUBBLICATO SU NATURE COMMUNICATIONS, CHE VEDE PROTAGONISTI VIMM – UNIVERSITÀ DI PADOVA VA AD INDIVIDUARE UN NUOVO GENE CHE REGOLA L’INTEGRITÀ DEL MUSCOLO SCHELETRICO

Lo studio del gruppo di ricerca guidato da Marco Sandri, Principal Investigator dell’Istituto Veneto di Medicina Molecolare (VIMM) e Professore dell’Università di Padova è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista “Nature Communications”.

Anais Franco e Marco Sandri al VIMM gene integrità muscolo scheletrico
Anaïs Franco Romero e Marco Sandri al VIMM

La perdita di forza è una condizione condivisa da molteplici e frequenti situazioni fisiopatologiche e che impatta fortemente sulla qualità della vita dei soggetti. L’ invecchiamento, l’immobilizzazione, la malnutrizione, le infezioni, i tumori, il diabete e l’obesità, le patologie epatiche, cardiache, renali e polmonari sono tutte condizioni che frequentemente inducono la perdita di massa muscolare – processo noto con il termine di atrofia muscolare – e l’insorgenza di uno stato di debolezza ed affaticamento che causa anche una minore risposta alle terapie.

Purtroppo, i meccanismi molecolari che inducono l’atrofia muscolare non sono ancora completamente definiti, e ad oggi non esistono terapie atte a prevenirla o contrastarla. Un aiuto importante può arrivare dalla ricerca, e in particolare da quella rivolta a conoscere e studiare i geni che hanno un ruolo nella regolazione della massa muscolare, con il fine di identificare nuovi bersagli per future terapie farmacologiche.

Tuttavia, un ostacolo importante a questo tipo di ricerca nasce dall’elevato numero di geni sconosciuti tra quelli che codificano le proteine: dei 20.000 geni conosciuti, più di 5.000 sono infatti inesplorati (i cosiddetti geni oscuri o dark genes).

Uno degli scopi del laboratorio del Prof. Marco SandriPrincipal Investigator dell’Istituto Veneto di Medicina Molecolare (VIMM) e Professore Ordinario in Patologia Clinica e Direttore del Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Padova è proprio quello di studiare i “geni oscuri” e capirne la loro funzione all’interno del muscolo scheletrico.

In quest’ottica, i risultati pubblicati sulla prestigiosa rivista “Nature Communications” dal Gruppo di ricerca del Prof. Sandri, contenuti all’interno dello studio coordinato da Anaïs Franco Romero e Jean Philipe Leduc-Gaudet (primi co-autori dello studio) hanno portato all’identificazione di un nuovo gene – chiamato MYTHO (Macroautophagy and YouTH Optimizer) – importante per l’integrità del muscolo scheletrico e in particolare del processo di degradazione delle proteine e degli organelli.

Questo processo cellulare deve funzionare correttamente e in modo bilanciato: un eccesso di degradazione proteica potrebbe infatti portare a una diminuzione della massa muscolare, mentre al contrario un blocco di questo processo potrebbe portare ad un accumulo di organelli e di proteine danneggiate che impediscono una normale contrazione muscolare.

Nello specifico, i ricercatori hanno visto come l’inibizione acuta di questo nuovo gene abbia un ruolo protettivo in caso di tumore, immobilizzazione e assenza di nutrimenti. Tuttavia, poiché la funzione di questo gene è critica per la pulizia della cellula, non si può ridurre la sua funzione per periodi prolungati perché si causa un accumulo di materiale non degradato, risultando in una degenerazione cellulare e diminuzione della forza muscolare. Quest’ultima situazione sembra verificarsi in una malattia muscolare genetica chiamata Distrofia muscolare di tipo 1 (DM1), in cui i ricercatori hanno trovato una riduzione di espressione di questo nuovo gene.

“La scoperta di nuovi geni che controllano la qualità dei nostri muscoli apre nuovi orizzonti non solo terapeutici – con la possibilità di sviluppare nuovi farmaci che preservino la forza – ma anche diagnostici” ha sottolineato Marco Sandri.

“Grazie alla conoscenza di questi geni e del loro funzionamento saremo in grado di identificare nuove cure per tutti i pazienti che hanno malattie ereditarie, di cui non si conosce il gene mutato”.

Lo studio, sostenuto in Italia da Fondazione Cariparo e in Francia dalla Fondazione AFM Telethon è stato condotto in stretta collaborazione con un team di ricercatori della prestigiosa McGill University di Montreal, diretto da Gilles Gouspillou Sabah NA Hussain.

 

Titolo dello studio:

MYTHO is a novel regulator of skeletal muscle autophagy and integrity

Nature Communications – 2023

Link alla pubblicazone:

https://www.nature.com/articles/s41467-023-36817-1

Autori:

Jean-Philippe Leduc-Gaudet,  Anaïs Franco-Romero,  Marina Cefis, Alaa Moamer, Felipe E. Broering, Giulia Milan, Roberta Sartori, Tomer Jordi Chaffer, Maude Dulac, Vincent Marcangeli, Dominique Mayaki, Laurent Huck, Anwar Shams, José A Morais, Elise Duchesne, Hanns Lochmuller, Marco Sandri, Sabah NA Hussain, Gilles Gouspillou.

 

Testo e immagini dagli Uffici Stampa VIMM e dell’Università di Padova

NUOVE SCOPERTE SUI MECCANISMI MOLECOLARI ALLA BASE DELLE MALATTIE NEURODEGENERATIVE

Due ricerche del laboratorio di Maria Pennuto (UNIPD-VIMM) e Manuela Basso (UNITRENTO) pubblicati su «Nature Communications»

Gli studi del team di ricerca guidato dalla Prof.ssa Maria Pennuto (Università di Padova e VIMM) e dalla Prof.ssa Manuela Basso (Università di Trento) sulla malattia di Kennedy hanno portato a nuove scoperte ed evidenze sui meccanismi molecolari alla base della malattia.

Nuovi risultati per il team di ricerca guidato dalla Prof.ssa Maria Pennuto – Principal Investigator del VIMM e Professore Associato dell’Università degli Studi di Padova – che da diversi anni sta investigando il coinvolgimento del muscolo scheletrico nella malattia neurodegenerativa nota come malattia di Kennedy.

Se è stato dimostrato e provato da molti studi internazionali che questa malattia – causata da una mutazione del recettore degli ormoni (androgeni) – parte da processi patologici che iniziano nel muscolo scheletrico e che causano la perdita dei neuroni che regolano il movimento volontario, sono emerse nuove evidenze da una prima ricerca dal titolo “Defective excitation-contraction coupling and mitochondrial respiration precede mitochondrial Ca2+ accumulation in spinobulbar muscular atrophy skeletal muscle”, pubblicata sulla rivista «Nature Communications».

Realizzata e condotta dal team della Prof.ssa Pennuto con Caterina Marchioretti, Giulia Zanetti e Marco Pirazzini, la ricerca dimostra che nella malattia di Kennedy ci sono alterazioni precoci della capacità dei muscoli di contrarsi e di produrre energia, che si traduce in una progressiva alterazione della capacità dei muscoli di produrre la forza necessaria ad effettuare un movimento senza stancarsi precocemente.

L’altro risultato, pubblicato sempre su «Nature Communications», emerge dallo studio con titolo “LSD1/PRMT6-targeting gene therapy to attenuate androgen receptor toxic gain-of-function ameliorates spinobulbar muscular atrophy phenotypes in flies and mice” – frutto del lavoro del team della Prof. Pennuto con Ramachandram Prakasam e Roberta Andreotti e di Manuela Basso con Angela Bonadiman dell’Università di Trento) – in cui si spiega che questi fenomeni sono dovuti alla presenza nel muscolo di fattori che interagiscono con la proteina mutata.

A partire da questa evidenza, il gruppo di ricerca ha generato delle piccole molecole capaci di ridurre l’espressione di quei fattori che interagiscono con la proteina mutata, dimostrando che così facendo si migliora lo stato di salute dei muscoli e dei neuroni da loro contattati.

«Le malattie neurodegenerative sono una vasta categoria di condizioni patologiche che va da disordini cognitivi a motori, e dove i sintomi clinici sono dovuti al malfunzionamento di specifiche popolazioni del sistema nervoso centrale. Ciò che è attualmente oggetto di indagine è il meccanismo, o meglio i meccanismi molecolari alla base di queste malattie – sottolinea Maria Pennuto. Un concetto che è emerso negli ultimi anni è che molto spesso le malattie neurodegenerative sono multi-sistemiche e non coinvolgono solo i neuroni, ma diversi tipi di cellule e organi oltre al sistema nervoso. Queste due ricerche ci portano un passo avanti verso la comprensione di questi meccanismi, andando a identificare nuovi target terapeutici che verranno sviluppati dai gruppi coinvolti nei prossimi anni».

«In questi anni ci siamo chieste come poter preservare la funzione fisiologica del recettore degli androgeni, eliminando quella tossica legata alla mutazione. In questo studio siamo riuscite a realizzare questo nostro obiettivo e siamo pronte a investire i prossimi anni per traslare questo nostro approccio dalla ricerca di base alla clinica» afferma Manuela Basso.

Il progetto di ricerca della prof.ssa Maria Pennuto sulla malattia di Kennedy è iniziato nel 2013, quando ha ricevuto un finanziamento di oltre 500.000 euro da parte della Provincia Autonoma di Trento, nell’ambito del programma per le carriere dell’Istituto Telethon-Dulbecco (DTI), che le ha permesso di creare un gruppo di ricerca indipendente per lo studio di questa patologia.

LINK AI PAPER SU NATURE COMMUNICATIONS:

https://www.nature.com/articles/s41467-023-36185-w

https://www.nature.com/articles/s41467-023-36186-9

malattie neurodegenerative malattia di Kennedy
Nuove scoperte sui meccanismi molecolari alla base delle malattie neurodegenerative

MARIA PENNUTO

Maria Pennuto si è laureata con lode in Scienze Biologiche nel 1996 all’Università “La Sapienza” di Roma. Nel 2000 ha ottenuto il diploma di dottore di ricerca in “Biologia cellulare (Cellulare e Molecolare)” (XIII ciclo) all’Università degli Studi di Milano. Dal 2001 al 2004, ha svolto un post-dottorato nel laboratorio del Dr Lawrence Wrabetz (San Raffaele, Milano), dove ha investigato i meccanismi molecolari alla base della malattia della mielina periferica Charcot-Marie-Tooth tipo 1B. Nel 2005 si è recata al National Institute of Neurological Disorders and Stroke (National Institutes of Health, NIH, Bethesda, MD) negli USA, dove ha svolto attività di ricerca come visiting post-dottorato nel laboratorio del Dr Kenneth Fischbeck, investigando i meccanismi molecolari alla base delle malattie del motoneurone. Nel 2008 ha ottenuto la posizione di Staff Scientist al Dipartimento di Neurologia della University of Pennsylvania (UPenn, Philadelphia, PA USA), dove ha continuato la propria attività di ricerca sulle malattie neurodegenerative.

Nel 2009 la Professoressa Pennuto è rientrata in Italia con una posizione di ricercatore indipendente al Dipartimento di “Neuroscience and Brain Technologies” dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova. Qui ha diretto l’unità di ricerca sulle basi molecolari delle malattie neuromuscolari degenerative quali SBMA e SLA. Nel 2013 ha vinto il premio alla carriera Dulbecco Telethon (DTI) e ha ottenuto una posizione di Ricercatore di tipo B al Centro di Biologia Integrata dell’Università di Trento. Nel 2017 Maria ha ottenuto una posizione di Professore Associato all’Università degli Studi di Padova. A partire dal 2018 è capo unità nell’Istituto Veneto di Medicina Molecolare (VIMM), Padova.

Maria Pennuto
Maria Pennuto

MANUELA BASSO

Manuela Basso si è laureata con lode e dignità di Stampa in Biotecnologie Mediche presso l’Università degli Studi di Torino nel 2002 con una tesi realizzata presso il Bioindustry Park del Canavese. Nel 2008 ha ottenuto il diploma di dottore di ricerca in Life Science presso l’università inglese The Open University e l’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri lavorando sulla Sclerosi Laterale Amiotrofica. Dal 2008 al 2012 ha svolto un post-dottorato nel laboratorio del Dr Rajiv Ratan, presso il Burke Neurological Institute e il Weill Medical College, Cornell University, New York. Dal 2012 al 2013 è stata promossa alla posizione di Instructor alla Cornell University dove ha studiato i meccanismi molecolari coinvolti nella morte neuronale.

Nel novembre 2013 è rientrata in Italia con chiamata diretta dall’Università di Trento e ha iniziato a dirigere il suo gruppo di ricerca. Ad oggi Manuela Basso è professore Associato presso il Dipartimento di Biologia Cellulare, Computazionale e Integrata (Dipartimento CIBIO).

Manuela Basso. Foto © UniTrento, di Federico Nardelli

Testo e foto dagli Uffici Stampa dell’Università degli Studi di Padova, di Trento e VIMM sulla scoperta dei meccanismi molecolari alla base delle malattie neurodegenerative.

DA UNA RICERCA SVOLTA IN COLLABORAZIONE TRA VIMM E UNIVERSITÀ DI PADOVA UN POSSIBILE BERSAGLIO MOLECOLARE PER CONTRASTARE LA CACHESSIA TUMORALE

Il gruppo di ricerca guidato da Bert Blaauw ha mostrato che l’attivazione della via di comunicazione cellulare Akt-mTOR può aiutare a recuperare la perdita di massa e forza muscolari dovuta alla cachessia.

Bert Blaauw bersaglio molecolare cachessia tumorale
Bert Blaauw, Principal Investigator presso l’Istituto Veneto di Medicina Molecolare (VIMM) e Professore Associato dell’Università di Padova, alla guida del gruppo di ricerca per lo studio pubblicato ul Journal of Cachexia, Sarcopenia and Muscle, che individua un possibile bersaglio molecolare per contrastare la cachessia tumorale – PI Vimm PRESS

Chiarire i meccanismi molecolari del deperimento muscolare associato a cachessia, una sorta di “esaurimento” del muscolo e del tessuto adiposo al quale vanno incontro molti pazienti con cancro, e individuare possibili meccanismi di contrasto di questo fenomeno. Sono alcuni degli obiettivi del gruppo di ricerca guidato da Bert Blaauw, Principal Investigator presso l’Istituto Veneto di Medicina Molecolare (VIMM) e Professore Associato dell’Università di Padova.

I risultati dello studio, pubblicati recentemente sul Journal of Cachexia, Sarcopenia and Muscle, hanno mostrato un possibile bersaglio molecolare sul quale lavorare per aiutare i pazienti colpiti da cachessia tumorale a recuperare massa e forza muscolari.

Nel progetto, sostenuto da Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro, i ricercatori sono partiti dallo studio di una via di comunicazione cellulare, chiamata via Akt-mTOR e già nota per il suo ruolo nel mantenimento dell’equilibrio funzionale del muscolo.

“Si tratta di una via che, quando è attiva, promuove la crescita delle fibre muscolari. Allo stesso tempo, però, è noto che questa via è attiva anche in vari tumori. Per questo motivo alcune componenti di tale via sono il bersaglio di numerosi farmaci antitumorali, che hanno tuttavia come effetto collaterale un aumento del deperimento muscolare”, ha spiegato Bert Blaauw. “Obiettivo della nostra ricerca è capire meglio che cosa succede alla via Akt-mTOR nel muscolo scheletrico in una situazione di cachessia tumorale, sia quando la si inibisce, sia quando la si riattiva”.

Nei soggetti con tumore che mostrano deperimento muscolare, i ricercatori hanno osservato che la via Akt-m TOR è meno attiva del normale. Inoltre, in esperimenti con animali di laboratorio, hanno dimostrato che la riattivazione della via tramite modifiche genetiche ha portato a un recupero quasi completo non solo della massa muscolare, ma anche della forza. Il recupero ha anche riguardato una serie di caratteristiche molecolari che si erano alterate nel corso del deperimento.

L’attenzione dei ricercatori si è inoltre concentrata sulle modalità per attivare la via Akt-mTOR. Tra queste vi è l’esercizio fisico, anche se resta da capire quali tipi di esercizi siano più efficaci a questo scopo e per quanto tempo debbano essere praticati per ottenere un risultato.

“Avere questa informazione permetterebbe di costruire piani mirati di attività fisica per i pazienti colpiti da cachessia, in modo che debbano fare solo quanto è strettamente necessario per avere un beneficio muscolare” sottolinea Blaauw. Un’altra opzione potrebbe essere farmacologica“Ci sono gruppi di ricerca nel mondo che stanno lavorando a tecniche per veicolare farmaci in maniera precisa per un determinato tessuto. In futuro queste tecniche potrebbero, per esempio, permettere l’attivazione di Akt-mTOR solo nel muscolo scheletrico durante la cachessia tumorale” conclude Blaauw.

 

Titolo dell’articolo: Activation of Akt–mTORC1 signalling reverts cancer-dependent muscle wasting, 2021

Autori: Geremia A, Sartori R, Baraldo M, Nogara L, Balmaceda V, Dumitras GA, Ciciliot S, Scalabrin M, Nolte H, Blaauw B.

Link alla ricercahttps://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/jcsm.12854

 

 

BERT BLAAUW

Bert Blaauw ha avviato il suo laboratorio indipendente nel 2012, dopo aver ottenuto la posizione di Assistente Professore presso l’Università di Padova e di Principal Investigator presso l’Istituto Veneto di Medicina Molecolare (VIMM).

Blaauw ha pubblicato numerosi articoli di ricerca peer-reviewed, ha collaborato come autore senior ad articoli di membri del suo team di ricerca come primi autori e ha contribuito ad oltre 80 articoli di ricerca sulla fisiologia muscolare, il signaling e la conoscenza del muscolo scheletrico.

Negli ultimi 10 anni, il team del prof. Blaauw ha avuto parecchi riconoscimenti a livello internazionale per gli studi sulla determinazione della funzione muscolare adulta a vari livelli (in vivo, ex vivo, in vitro), prestando particolare attenzione alla via di segnalazione Akt-mTORC1.

In particolare, è stato dimostrato come l’attivazione del percorso Akt-mTORC1 nel muscolo scheletrico si verifica in tutti i modelli di crescita muscolare (Frontier in Physiology, 2017), e che la sua attivazione è sufficiente per aumentare la massa e la funzione muscolare (FASEB J, 2009).

È stato inoltre dimostrato che questo percorso del muscolo scheletrico è fondamentale per il mantenimento della giunzione neuromuscolare durante l’omeostasi muscolare (JSCM 2019).

Bert Blaauw ha anche contribuito come autore senior a studi volti ad aumentare la comprensione del ruolo dell’attività muscolare e di come questo influisca sui muscoli sani (Mol Metabolism 2015, Acta Physiologica 2020) e su quelli malati (Redox Biology 2019, JSCM 2021).

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Padova

Trattamento dei tumori infantili: nuove possibilità di cura grazie ai meccanismi di regolazione basati sull’RNA

Un gruppo di ricercatori della Sapienza Università di Roma, in collaborazione con l’Istituto italiano di tecnologia (IIT), ha scoperto come l’interazione tra due specifiche molecole di RNA favorisca in laboratorio la crescita di cellule di rabdomiosarcoma, uno dei tumori maligni più ricorrenti in età pediatrica. I risultati dello studio sostenuto da Fondazione AIRC sono stati pubblicati sulla rivista Molecular Cell e aprono nuove strade al trattamento di tumori maligni infantili.

tumori infantili RNA
Trattamento dei tumori infantili: nuove possibilità di cura grazie ai meccanismi di regolazione basati sull’RNA. Foto di RyanMcGuire

L’interesse della scienza per gli RNA circolari (circRNA) è in crescita per le caratteristiche peculiari di questa classe emergente di molecole e per il loro ruolo in diverse condizioni patologiche tra cui il cancro.

In uno studio del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza Università  di Roma e dell’Istituto italiano di tecnologia (IIT), i ricercatori hanno individuato un inedito meccanismo molecolare alla base della regolazione dell’espressione di diverse proteine. Si tratta dell’interazione tra molecole di RNA (in particolare tra un RNA circolare, circZNF609, e alcuni RNA messaggeri). In esperimenti di laboratorio i ricercatori hanno scoperto che, in un caso specifico, l’interazione con l’mRNA che contiene le istruzioni per la proteina CKAP5, a sua volta coinvolta nel controllo della duplicazione cellulare, regola la capacità proliferativa delle cellule di rabdomiosarcoma, un tumore maligno pediatrico.

I risultati dello studio sostenuto dalla Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro sono stati pubblicati sulla rivista Molecular Cell e rappresentano un ulteriore progresso nella comprensione delle diverse funzioni che l’RNA svolge nelle cellule. In particolare, è stata così chiarita una nuova rilevante funzione delle molecole di RNA circolari.

Nello specifico, i ricercatori hanno dimostrato come questo meccanismo di regolazione genica sia capace di regolare la crescita delle cellule di rabdomiosarcoma, uno dei tumori maligni più ricorrenti in età pediatrica e che fa parte dei cosiddetti sarcomi dei tessuti molli, tumori che si sviluppano nei muscoli, nel grasso e nel tessuto connettivo.

Spiega Irene Bozzoni della Sapienza, coordinatrice dello studio: “Impedendo l’interazione tra le due molecole di RNA, siamo riusciti a rendere le cellule tumorali in coltura più sensibili a diversi trattamenti chemioterapici generalmente usati nella cura del rabdomiosarcoma, ma spesso inefficaci nei casi più gravi”.

Si è inoltre evidenziato che questo meccanismo è presente anche in altri tipi di tumore, come la leucemia mieloide cronica e il neuroblastoma, rendendo questo circuito molecolare un interessante candidato per nuove terapie mediche basate sull’RNA.

Tali risultati sottolineano l’importanza dello studio delle interazioni tra RNA non codificanti e mRNA per l’identificazione di nuovi meccanismi di regolazione di importanti processi cellulari.

Riferimenti:

Circular RNA ZNF609/CKAP5 mRNA interaction regulates microtubule dynamics and tumorigenicity – Francesca Rossi, Manuel Beltran, Michela Damizia, Chiara Grelloni, Alessio Colantoni, Adriano Setti, Gaia Di Timoteo, Dario Dattilo, Alvaro Centrón-Broco, Carmine Nicoletti, Maurizio Fanciulli, Patrizia Lavia, Irene Bozzoni – Mol. Cell 2021 https://doi.org/10.1016/j.molcel.2021.11.032

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

DISTROFIE MUSCOLARI DEI CINGOLI: RISULTATI POSITIVI DI UNA PICCOLA MOLECOLA TERAPEUTICA IN UN NUOVO MODELLO DI STUDIO

Il team di ricerca della Professoressa Dorianna Sandonà, dell’Università di Padova, propone su «Human Molecular Genetics» un nuovo modello murino per lo studio della malattia, più vicino alla realtà rispetto alle cellule in coltura. I risultati emersi utilizzando questo nuovo modello indicano che il correttore CFTR C17 consente un recupero completo della forza degli animali trattati, senza effetti tossici.

Distrofie muscolari dei cingoli molecola terapeutica modello di studio
Distrofie muscolari dei cingoli: risultati positivi di una molecola terapeutica in un nuovo modello di studio. La professoressa Dorianna Sandonà in prima fila al centro.

Una piccola molecola individuata per il trattamento della fibrosi cistica potrebbe essere utile anche per le sarcoglicanopatie, malattie genetiche rare appartenenti al gruppo delle distrofie muscolari dei cingoli per le quali non è al momento disponibile alcuna terapia specifica. Lo suggeriscono i risultati ottenuti in un nuovo modello animale della malattia dal gruppo di ricerca della Professoressa Dorianna Sandonà del Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Padova appena pubblicati sulla rivista scientifica «Human Molecular Genetics»* .

«Una delle grosse difficoltà nello studio delle sarcoglicanopatie è la mancanza di modelli animali adatti, che tuttavia sono fondamentali per valutare l’effetto di potenziali nuovi farmaci – dice Dorianna Sandonà -. Una parte fondamentale di questo lavoro è stata proprio quella di sviluppare un nuovo modello di una di queste malattie, la distrofia dei cingoli indicata come LGMD3, più vicino alla realtà rispetto alle tradizionali colture di cellule. Grazie a questo nuovo modello animale – un topo geneticamente modificato – abbiamo potuto testare per la prima volta in un organismo vivente una piccola molecola già sperimentata con successo nel caso della fibrosi cistica: il correttore CFTR C17».

I risultati ottenuti sono decisamente promettenti: i ricercatori hanno infatti osservato il recupero completo della forza muscolare negli animali malati trattati con il correttore.

Il nuovo modello

Il modello è costituito da topi privi del gene corrispondente a quello che, nell’essere umano, codifica la proteina coinvolta nelle distrofie LGMDR3. In questi animali viene introdotto alla nascita il gene umano, con la mutazione responsabile della malattia. Una volta cresciuti, i topi mostrano effetti analoghi a quelli della distrofia nell’essere umano, come per esempio l’assenza dalla localizzazione sulla membrana delle cellule muscolari di una particolare proteina chiamata sarcoglicano, fondamentale per il corretto funzionamento dei muscoli e, a livello di sintomi, un’evidente riduzione della forza muscolare.

«In molti casi di LGMDR3, la proteina mutata viene prodotta, ma con una forma diversa da quella fisiologica. Per questo motivo, anche se potrebbe comunque svolgere la sua funzione, viene riconosciuta come difettosa dai sistemi di controllo di qualità della cellula ed eliminata prima ancora che possa raggiungere la sua collocazione – spiega Dorianna Sandonà –. Qualcosa di analogo succede nella fibrosi cistica, dove il correttore CFTR C17 si è mostrato in grado di recuperare le proteine dalla forma “sbagliata”, permettendo loro di arrivare al sito di destinazione e ripristinando una situazione simile a quella fisiologica. Da qui l’idea di valutare l’effetto anche nel caso delle sarcoglicanopatie. Il dato più promettente di questo studio – sottolinea Sandonà – è che il trattamento con il correttore dei topi modello di malattia che abbiamo sviluppato permette il recupero completo della forza muscolare, che torna ad essere uguale a quella degli animali sani».

Grazie alla preziosa collaborazione di altri ricercatori dell’Università di Padova, è stata misurata accuratamente la forza muscolare degli animali testati e, parallelamente, non sono stati rilevati effetti tossici causati della sostanza somministrata.

«Questi dati – conclude Dorianna Sandonà – rafforzano l’idea che i correttori CFTR C17 possano rappresentare una valida opzione terapeutica per diverse malattie genetiche, muovendo così un altro importante passo verso la sperimentazione clinica».

Il lavoro di questo piccolo ma intraprendente gruppo, formato da cinque persone coordinate da Dorianna Sandonà, che da anni si occupa di malattie genetiche rare – in particolare delle sarcoglicanopatie – è stato reso possibile grazie al supporto di AFM (Association Française contre les Myopathies), MDA (Muscular Dystrophy Association) e Fondazione Telethon. Con un nuovo finanziamento della Fondazione Telethon, la Professoressa Sandonà guida dal primo ottobre di quest’anno un nuovo progetto per lo sviluppo di piattaforme in cui creare muscoli artificiali utilizzando direttamente le cellule dei pazienti.

Proprio in questi giorni è in corso sulle reti RAI la trentaduesima edizione della Maratona televisiva di Fondazione Telethon per sostenere la ricerca sulle malattie genetiche rare. Grazie al sostegno degli italiani è possibile raggiungere anche risultati come questo. Fino al 31 dicembre sarà possibile donare chiamando da rete fissa o inviando un sms al numero solidale 45510.

*Link alla ricerca, https://academic.oup.com/hmg/advance-article/doi/10.1093/hmg/ddab260/6367978

Titolo: “CFTR corrector C17 is effective in muscular dystrophy, in vivo proof of concept in LGMDR3” – «Human Molecular Genetics» – 2021

Autori: Martina Scano, Alberto Benetollo, Leonardo Nogara, Michela Bondì, Francesco Dalla Barba, Michela Soardi, Sandra Furlan, Eylem Emek Akyurek, Paola Caccin, Marcello Carotti, Roberta Sacchetto, Bert Blaauw and Dorianna Sandonà*.

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Padova