PARKINSON E SCAMBIO DI INFORMAZIONI INTRACELLULARE
Ricercatori dei dipartimenti di Scienze Biomediche e di Scienze del Farmaco dell’Università di Padova, pionieri nello sviluppo di sensori per studiare la comunicazione intracellulare, mostrano il tallone di Achille del morbo di Parkinson. Lo studio pubblicato su «Nature Communications»
La suddivisione in compartimenti cellulari con funzioni definite ha permesso alle cellule eucariotiche di evolversi adattandosi rapidamente alle condizioni ambientali e rappresenta uno degli aspetti più affascinanti della biologia moderna. Le funzioni distintive di ogni organello vengono mantenute attraverso l’isolamento e la concentrazione di specifici ioni, metaboliti ed enzimi evitando così la mescolanza indiscriminata dei loro contenuti.
Tuttavia, per poter assicurare il corretto svolgimento di tutte le funzioni cellulari i diversi compartimenti devono potersi “parlare” e scambiare informazioni in modo preciso e strettamente controllato al fine di garantire il coordinamento efficace delle attività cellulari.
Questo livello di regolazione si attua in specifici “siti di contatto” tra le membrane di diversi organelli, che rappresentano il collo di bottiglia attraverso il quale il flusso di sostanze viene dosato accuratamente e dinamicamente e che sfida la concezione tradizionale di compartimentalizzazione cellulare.
Tra gli organelli cellulari, i mitocondri e i lisosomi sono lo yin e yang del controllo energetico e metabolico e la loro comunicazione è critica per la sopravvivenza cellulare: difetti nel loro scambio di informazioni contribuiscono allo sviluppo di patologie di grande impatto sociale.
Ricercatori dei Dipartimenti di Scienze Biomediche e di Scienze del Farmaco dell’Università di Padova hanno pubblicato lo studio “A SPLICS reporter reveals α-synuclein regulation of lysosome-mitochondria contacts which affects TFEB nuclear translocation” sulla prestigiosa rivista «Nature Communications» dove, attraverso una nuova metodologia sviluppata nei loro laboratori ed ampiamente riconosciuta a livello internazionale, hanno potuto osservare come avviene la comunicazione tra questi due organelli chiave (mitocondri e lisosomi) e come la proteina alfa-sinucleina, coinvolta nell’insorgenza di malattie neurodegenerative come il morbo di Parkinson e la malattia di Alzheimer, interferisce con questa comunicazione portando alla morte delle cellule neuronali.
«Gli strumenti molecolari che abbiamo sviluppato si sono rivelati indispensabili – spiega il Prof. Tito Calì del Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Padova – per la comprensione del linguaggio attraverso cui i diversi compartimenti cellulari si scambiano informazioni vitali. Riuscire a decifrare questo linguaggio permetterà non solo di far luce sui meccanismi molecolari alla base del funzionamento cellulare, ma anche di capire quando questa comunicazione viene meno, e perché, nelle diverse condizioni patologiche evidenziando così il tallone di Achille di una specifica malattia ed aprendo la strada allo sviluppo di nuovi farmaci mirati.»
«Nello specifico, lo studio che abbiamo condotto, ha permesso di identificare che alfa sinucleina, modificando le distanze che intercorrono tra i mitocondri, la centrale energetica delle cellule e i lisosomi, gli inceneritori cellulari, regola il trasferimento di segnali, gli ioni calcio, essenziali per il benessere delle nostre cellule – spiega la Prof.ssa Marisa Brini del Dipartimento di Scienze del Farmaco dell’Università di Padova – La perdita di questa funzione, dovuta per esempio all’ accumulo incontrollato di alfa-sinucleina nel sistema nervoso centrale, risulta in un indebolimento dei meccanismi protettivi che le nostre cellule possiedono per eliminare proteine/organelli non funzionanti, con conseguente danno cellulare e sviluppo di malattie neurodegenerative».
La disponibilità per la comunità scientifica di strumenti che permettono la comprensione dei meccanismi molecolari più fini alla base della comunicazione intracellulare apre la strada all’identificazione di nuovi bersagli farmacologici finora non esplorati.
Capire i meccanismi molecolari dell’invecchiamento per combattere la SLA e altre malattie neurodegenerative: individuato un nuovo ruolo dell’enzima Suv39 nella regolazione dell’espressione di TDP-43
Una nuova ricerca coordinata congiuntamente dall’Università degli studi di Cagliari e dalla Sapienza Università di Roma ha evidenziato una base molecolare comune dell’invecchiamento e di patologie neurodegenerative come la SLA. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Cell Death and Discovery.
L’invecchiamento è l’insieme dei cambiamenti che avvengono nelle cellule e nei tessuti con l’avanzare dell’età aumentando il rischio di malattie e morte. Questi cambiamenti seguono una sequenza programmata comune e sono principalmente caratterizzati dal deterioramento delle funzioni cognitive e dal declino delle capacità locomotorie.
Tali manifestazioni coincidono con i sintomi delle malattie neurodegenerative, come la sclerosi laterale amiotrofica (SLA), l’Alzheimer e il Parkinson, suggerendo che questo tipo di patologie condividono una base molecolare comune con il processo di invecchiamento.
I risultati di uno studio che ha approfondito le interconnessioni tra invecchiamento e malattie degenerative sono stati di recente pubblicati sulla rivista Cell Death and Discovery. Lo studio è stato coordinato da Fabian Feiguin del Dipartimento di Scienze della vita e dell’ambiente dell’Università di Cagliari e da Laura Ciapponi del Dipartimento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin della Sapienza Università di Roma.
La ricerca è stata finanziata da Fondazione AriSLA,principale ente non profit che finanzia la ricerca scientifica sulla SLA in Italia, e da AFM-Telethon.
In particolare, lo studio ha analizzato le modifiche epigenetiche che si verificano con l’invecchiamento. Si tratta di cambiamenti nella struttura della cromatina, sostanza localizzata nel nucleo cellulare composta da DNA e proteine, che influenzano l’espressione genica, ovvero il processo attraverso cui l’informazione contenuta in un gene viene convertita in una proteina, senza cambiare la sequenza del DNA. Queste modifiche possono alterare i livelli di espressione di fattori di rischio per malattie neurodegenerative.
“Nel nostro studio – spiega Fabian Feiguindell’Università di Cagliari – abbiamo scoperto per la prima volta che la proteina TDP-43, che ha un ruolo centrale nellapatogenesidella SLA, riduce gradualmente la sua espressione man mano che invecchiano i cervelli del comune moscerino della frutta (Drosophilamelanogaster) e del modello murino”.
Lo studio ha individuato un nuovo ruolo dell’enzima Suv39 che, attraverso il meccanismo di metilazione, determina la modificazione chimica di una specifica proteina istonica (componente principale della cromatina), andando a influire sulla regolazione dell’espressione genica.
“Il nostro lavoro – spiega Marta Marzullo del team della Sapienza – ha evidenziato che durante l’invecchiamento sia nel moscerino della frutta che nel modello murino la metiltransferasi Suv39 agisce sul gene TDP-43 riducendone l’espressione”.
“Sorprendentemente – sottolinea Laura Ciapponi dell’ateneo romano– quando abbiamo inattivato genicamente o chimicamente l’attività di Suv39 abbiamo osservato livelli più elevati di TDP-43, e soprattutto una significativa riduzione del declino locomotorio dipendente dall’età”.
Secondo le autrici e gli autori i risultati raggiunti dallo studio, dunque, individuano un nuovo ruolo dell’enzima Suv39 nella regolazione dell’espressione di TDP-43 e della senescenza locomotoria, e suggeriscono inoltre che la modulazione delle attività enzimatiche coinvolte in queste modifiche epigenetiche potrebbe essere un approccio promettente per comprendere e potenzialmente trattare le malattie neurodegenerative legate all’invecchiamento, come la SLA.
“Siamo soddisfatti di aver sostenuto questo filone di ricerca che ha contribuito ad aggiungere conoscenza sui meccanismi molecolari legati all’insorgenza della SLA – commenta Mario Melazzini, presidente di Fondazione AriSLA, ente co-finanziatore dello studio – L’importanza di svolgere studi sul ruolo della TDP-43 è stata evidenziata recentemente anche dal piano strategico della ricerca sulla SLA del NINDS (National Institute of Neurological Disorders and Stroke), il principale istituto degli NIH americani per la ricerca neurologica. In linea con questa visione, riteniamo strategico continuare a supportare la ricerca di base, finalizzata a fornire risposte concrete ai pazienti”.
Riferimenti bibliografici:
Marzullo, M., Romano, G., Pellacani, C. et al. Su(var)3-9 mediates age-dependent increase in H3K9 methylation on TDP-43 promoter triggering neurodegeneration. Cell Death Discov.9, 357 (2023). DOI: https://doi.org/10.1038/s41420-023-01643-3
Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
Scoperto un nuovo tipo di astrociti, definiti astrociti glutammatergici: si tratta di cellule cerebrali essenziali per la memoria, l’apprendimento e il controllo del movimento
Uno studio pubblicato da Nature che ha tra i suoi protagonisti l’Università di Roma Tor Vergata e la Fondazione Santa Lucia IRCCS di Roma evidenzia l’esistenza di un terzo tipo di cellule cerebrali essenziali, finora sconosciute, che si pongono a metà tra i neuroni e la glia.
Roma, 12 settembre 2023 – Uno studio, svolto presso l’Università di Losanna (UNIL) in Svizzera e presso la Fondazione Santa Lucia IRCCS di Roma con il contributo in tutte le sue fasi della ricercatrice Ada Ledonne – seconda autrice del lavoro – ha scoperto una terza tipologia di cellule cerebrali essenziali che agiscono sui circuiti cerebrali legati alla memoria, all’attenzione e al controllo del movimento.
Lo studio, pubblicato da Nature, ha individuato una particolare tipologia di astrociti, cellule tra i componenti della “glia” ossia la parte non-neuronale del cervello che fornisce struttura, nutrimento e regola l’ambiente all’interno dell’encefalo. Gli astrociti scoperti dal gruppo di ricerca sono però differenti perché presentano caratteristiche neuronali e sono in grado di mettere in circolo il glutammato, un neurotrasmettitore. Questa caratteristica, mai osservata prima di questo studio, pone questi astrociti a metà tra le cellule gliali e le cellule neuronali ed evidenzia l’esistenza di una terza categoria di cellule, finora sconosciuta, necessaria al buon funzionamento del cervello.
Lo studio è stato diretto dal prof. Andrea Volterra, professore emerito presso l’Università di Losanna e visiting faculty presso il Wyss Center for Bio and Neuroengineering di Ginevra, in passato anche visiting scientist presso la Fondazione Santa Lucia IRCCS di Roma. Lo studio è stato condotto da un team internazionale di ricercatori che ha avuto tra i suoi protagonisti, sia in Italia sia in Svizzera, la farmacologa e neuroscienziata Ada Ledonne, attualmente ricercatrice presso l’Università di Roma Tor Vergata e anche presso la Fondazione Santa Lucia IRCCS, nel laboratorio di Neurologia Sperimentale diretto dal neurologo prof. Nicola Biagio Mercuri, professore di Neurologia presso l’Università di Roma Tor Vergata, il quale ha contribuito a questo studio.
“I risultati ottenuti” spiega la dott.ssa Ledonne “dimostrano che gli astrociti glutammatergici influenzano l’attività neuronale, la neurotrasmissione e la plasticità sinaptica in importanti circuiti cerebrali, quali il circuito cortico-ippocampale e il sistema dopaminergico nigrostriatale, con implicazioni nella regolazione di processi di apprendimento e memoria, controllo del movimento, e insorgenza di crisi epilettiche”.
Le cellule scoperte sono coinvolte anche nei meccanismi di plasticità sinaptica neuronale, ossia nei meccanismi che regolano la forza della comunicazione tra i neuroni. In particolare lo studio pubblicato su Nature dimostra che gli astrociti glutammatergici sono essenziali per una forma di plasticità (chiamata potenziamento a lungo termine) che è alla base dei processi di apprendimento. Infatti, interferendo con la funzione di questo nuovo tipo di astrociti nei modelli sperimentali si ha un danneggiamento della memoria.
L’identificazione di questa nuova tipologia di cellule cerebrali con caratteristiche intermedie tra astrociti e neuroni risolve le precedenti controversie sulla capacità degli astrociti di effettuare rilascio vescicolare di trasmettitori. In questo modo costituisce un notevole avanzamento della conoscenza dei meccanismi di funzionamento del cervello.
“Nello studio pubblicato su Nature è stato anche evidenziato un ruolo importante degli astrociti glutammatergici nel controllo del circuito cerebrale che regola il movimento – il sistema dopaminergico nigrostriatale – la cui alterazione funzionale è alla base della malattia di Parkinson” commenta la dott.ssa Ada Ledonne.
I risultati ottenuti sono pertanto estremamente utili alla comprensione dei meccanismi che portano allo sviluppo di diverse patologie neurologiche e la creazione di nuove terapie che, agendo su questo meccanismo appena scoperto, possano influenzare il decorso di varie malattie cerebrali.
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Una nuova cellula “ibrida” per consolidare la memoria e regolare i circuiti cerebrali
Un nuovo studio internazionale, realizzato in collaborazione con la Sapienza Università di Roma, ha scoperto una sottopopolazione di cellule neuronali, fondamentali nel controllo delle attività cerebrali. I risultati dello studio, pubblicati sulla rivista Nature, aprono nuove strade per il trattamento di malattie neurologiche come l’epilessia o il Parkinson.
Il cervello funziona grazie ai neuroni e alla loro capacità di elaborare e trasmettere informazioni. Per supportarli in questo compito le cellule gliali svolgono una serie di funzioni strutturali, energetiche e immunitarie. Alcune di queste, conosciute come astrociti, circondano le sinapsi, ovvero i punti di contatto in cui i neurotrasmettitori vengono rilasciati per diffondere le informazioni tra i neuroni.
Per questo motivo, i neuroscienziati suggeriscono da tempo che gli astrociti potrebbero avere un ruolo attivo nella trasmissione sinaptica e partecipare alla elaborazione delle informazioni.
Una ricerca internazionale, coordinata da Andrea Volterra dell’Università di Losanna in collaborazione con un gruppo di neuroscienziati della Sapienza e del Wyss Center di Ginevra, ha portato alla scoperta di una nuova sottopopolazione di astrociti, un ibrido per composizione e funzione tra i due tipi di cellule cerebrali finora conosciute, i neuroni e le cellule gliali, che sono in grado di controllare il livello di comunicazione e di eccitazione dei neuroni.
“Lo studio – afferma Maria Amalia Di Castro del Dipartimento di Fisiologia e Farmacologia della Sapienza – dimostra che il sottogruppo risponde a stimolazioni selettive con rapido rilascio di glutammato in aree spazialmente delimitate che ricordano le sinapsi. Il rilascio di glutammato da parte di queste cellule specializzate esercita un’influenza sulla trasmissione sinaptica e regola i circuiti neuronali”.
I ricercatori hanno osservato a livello sperimentale che, senza questo meccanismo funzionale, il processo neurale coinvolto nella memorizzazione a lungo termine, risulta compromesso.
Le implicazioni di questa scoperta si estendono anche ai disturbi cerebrali come l’epilessia o il Parkinson. Interrompendo specificamente gli astrociti glutammatergici, il gruppo di ricerca ha dimostrato che risulta compromesso sia il consolidamento della memoria, che gli effetti negativi di alcune patologie come l’epilessia, con un aumento delle crisi da parte dei pazienti.
Infine, lo studio dimostra che gli astrociti glutamatergici hanno anche un ruolo nella regolazione dei circuiti cerebrali coinvolti nel controllo del movimento e potrebbero offrire bersagli terapeutici per la malattia di Parkinson.
Riferimenti bibliografici:
Specialized astrocytes mediate glutamatergic gliotransmission in the CNS – Roberta de Ceglia, Ada Ledonne, David Gregory Litvin, Barbara Lykke Lind, Giovanni Carriero, Emanuele Claudio Latagliata, Erika Bindocci, Maria Amalia Di Castro, Iaroslav Savtchouk, Ilaria Vitali, Anurag Ranjak, Mauro Congiu, Tara Canonica, William Wisden, Kenneth Harris, Manuel Mameli, Nicola Mercuri, Ludovic Telley & Andrea Volterra – Nature 2023. https://www.nature.com/articles/s41586-023-06502-w
Crediti Foto: Fondazione Santa Lucia IRCCS. Testi e immagini dall’Ufficio Stampa di Ateneo Università di Roma Tor Vergata e dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma. Aggiornato il 28 Settembre 2023.
Un nuovo studio, pubblicato su Brain, suggerisce che la rigidità muscolare nella malattia di Parkinson abbia alla base la disfunzione di un circuito neuronale
Un nuovo studio internazionale, pubblicato sulla rivista Brain e coordinato dal Dipartimento di Neuroscienze umane della Sapienza, suggerisce una nuova ipotesi interpretativa della rigidità muscolare nella malattia di Parkinson.
Uno dei tratti caratteristici della Malattia di Parkinson è la rigidità muscolare, un aumento patologico del tono muscolare che si manifesta con una contrazione sostenuta e involontaria, che costituisce una invalidante limitazione della mobilità, talvolta associata a dolore cronico. Ad oggi sono ancora poco chiari i meccanismi alla base del fenomeno, del quale non è disponibile neanche una misura strumentale affidabile.
Uno studio internazionale, coordinato dalla Sapienza in collaborazione con la University College di Londra e il National Institutes of Health (NIH), Bethesda (USA), introduce una nuova ipotesi interpretativa secondo cui la rigidità è legata alla disfunzione di uno specifico circuito neuronale che include connessioni funzionali tra midollo spinale, cervelletto e la formazione reticolare del tronco dell’encefalo.
Il lavoro, che chiarisce rilevanti aspetti fisiopatologici della rigidità, affrontando anche il problema dello studio sperimentale di questo segno clinico, è stato pubblicato sulla rivista Brain.
Grazie a un innovativo protocollo sperimentale che ha visto l’utilizzo di una innovativa strumentazione robotica, associata e sincronizzata a specifiche misure neurofisiologiche e biomeccaniche, è stato possibile valutare con un algoritmo le caratteristiche della muscolatura e l’attività nervosa riflessa di 20 pazienti affetti dalla malattia di Parkinson e 25 soggetti sani di controllo con caratteristiche anagrafiche ed antropometriche simili.
“Il principale traguardo scientifico del nostro studio – spiega Antonio Suppa del Dipartimento di Neuroscienze Umane della Sapienza – consiste nella dimostrazione sperimentale che la rigidità nella Malattia di Parkinson dipende da specifiche alterazioni del controllo nervoso del tono muscolare (es. aumento velocità-dipendente dei riflessi di lunga latenza) che a loro volta riflettono una disfunzione nelle connessioni tra midollo spinale, cervelletto e formazione reticolare del tronco dell’encefalo.”
La Malattia di Parkinson è una patologia neurodegenerativa assai frequente nella popolazione generale (circa 300.000 pazienti in Italia) e purtroppo in continua crescita secondo le ultime stime dell’Organizzazione mondiale della sanità. Una più approfondita conoscenza dei suoi principali segni e sintomi clinici risulta fondamentale anche nell’ottica di una più appropriata pianificazione e programmazione di interventi specifici di sanità pubblica.
Riferimenti: Rigidity in Parkinson’s disease: Evidence from Biomechanical and Neurophysiological Measures,Francesco Asci, Marco Falletti, Alessandro Zampogna, Martina Patera, Mark Hallett,John Rothwell, e Antonio Suppa, https://doi.org/10.1093/brain/awad114
Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
Scoperto un nuovo meccanismo di attivazione del nostro sistema immunitario cerebrale Le ricercatrici e i ricercatori della Sapienza e dell’IIT svelano un meccanismo fondamentale per l’attivazione della microglia, un gruppo di cellule del sistema nervoso ancora poco compreso. Queste scoperte gettano le basi per possibili nuovi trattamenti contro il dolore neuropatico, spesso riscontrato in seguito alla chemioterapia.
Un team di ricercatori e ricercatrici guidato da Silvia Di Angelantonio del Dipartimento di Fisiologia e farmacologia “V. Erspamer” della Sapienza e del laboratorio Nanotechnologies for neurosciences, coordinato da Giancarlo Ruocco dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT), in collaborazione con la Columbia University, ha pubblicato un articolo sulla rivista Cell Reports dove ha messo in luce un nuovo meccanismo di attivazione della microglia, una tipologia di cellule che costituisce la prima linea di difesa nel cervello. Questa scoperta potrebbe costituire la base di nuovi approcci da impiegare contro il dolore neuropatico, spesso riscontrato in seguito ai trattamenti chemioterapici, in cui la microglia è coinvolta.
La microglia è una tipo di cellula presente nel cervello, dove svolge funzione immunitaria, ossia difende il sistema nervoso da ciò che potrebbe danneggiarlo, come patogeni, cellule tumorali o infiammazione. Quando non sono presenti minacce, le cellule della microglia sono presenti nel cosiddetto “stato non attivato” o “di sorveglianza” caratterizzato da un gran numero di ramificazioni che vengono sfruttate proprio per sorvegliare l’ambiente del cervello alla ricerca di segnali di pericolo che, una volta trovati, faranno acquisire alla microglia il suo “stato attivato” passando da una forma ramificata a una forma tondeggiante, conformazione con il quale può svolgere la sua funzione di difesa.
Il gruppo ha scoperto il ruolo fondamentale che hanno i microtubuli, elementi fondamentali per dare la forma alle cellule, in questa conversione da stato non attivato a stato attivato.
Nella microglia non attivata i microtubuli si allineano parallelamente, mentre in quella attivata si dispongono a raggiera, simile a una ruota di bicicletta. Questa riorganizzazione dei microtubuli è fondamentale per l’attivazione della microglia, infatti, bloccando questo processo nel corso dei loro esperimenti, il team ha notato che la microglia non riusciva più ad attivarsi.
Mentre la microglia ramificata non attivata e quella tondeggiante attivata sono entrambe essenziali per la salute del cervello, la microglia che rimane bloccata nello stato attivato contribuisce all’infiammazione cerebrale e alla progressione di malattie neurodegenerative come Parkinson e Alzheimer.
Inoltre, la microglia è implicata nello sviluppo del dolore neuropatico, spesso riscontrato in pazienti trattati con la terapia chemioterapica. Ciò è dovuto al fatto che alcuni farmaci chemioterapici vanno ad attaccare i microtubuli per distruggere le cellule cancerogene. Il problema è che spesso questi farmaci colpiscono non solo le cellule tumorali, ma anche quelle sane, generando quindi il dolore.
“Il futuro sarà lo sviluppo di nuovi approcci terapeutici mirati a modulare in maniera specifica i cambiamenti dei microtubuli della microglia, senza andare a intaccare le altre cellule – conclude Silvia Di Angelantonio, coordinatrice dello studio – Questo nell’ottica di prevenire o contrastare l’attivazione patologica della microglia. Siamo solo all’inizio di questo percorso, ma ci stiamo muovendo in questo senso”.
Riferimenti:
Microglia reactivity entails microtubule remodeling from acentrosomal to centrosomal arrays – Rosito M, Sanchini C, Gosti G, Moreno M, De Panfilis S, Giubettini M, Debellis D, Catalano F, Peruzzi G, Marotta R, Indrieri A, De Leonibus E, De Stefano ME, Ragozzino D, Ruocco G, Di Angelantonio S, Bartolini F. – Cell Reports 2023 Feb 28 42(2): 112104. DOI: https://doi.org/10.1016/j.celrep.2023.112104
Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
DA UN PICCOLO INVERTEBRATO MARINO, IL BOTRILLO, UN AIUTO PER CAPIRE MEGLIO ALZHEIMER E PARKINSON
Con l’avanzare dell’età nel Botryllus schlosseri si osserva una riduzione del numero di neuroni e delle abilità comportamentali, come nell’uomo.
Inoltre il suo cervello manifesta geni la cui espressione caratterizza malattie neurodegenerative umane quali l’Alzheimer e il Parkinson. Pubblicato su PNAS lo studio delle Università di Stanford, Padova e Cham Zuckerberg Biohub
I tunicati, invertebrati marini molto comuni nei nostri mari, sono i parenti più stretti dei vertebrati, di cui fa parte anche l’uomo. Tra i tunicati il botrillo, Botryllus schlosseri, forma piccole colonie in cui gli individui adulti si dispongono come i petali di un fiore. Nella colonia, che può essere formata anche da centinaia di fiori, ciascun individuo adulto presenta ai lati del corpo uno o più piccoli individui in crescita (le sue gemme), derivate per riproduzione asessuata. Gli adulti vengono settimanalmente riassorbiti e sostituiti dalle loro gemme nel frattempo maturate. Questo processo di sostituzione è ciclico e siccome ogni “genitore” produce più di una gemma, la colonia cresce di dimensioni in maniera veloce e continua. Tuttavia, se gli adulti hanno vita breve e sono continuamente sostituiti da nuovi individui, la colonia non vive in eterno: nella Laguna veneta muoiono tipicamente dopo 1-2 anni, ma in laboratorio si possono mantenere in vita anche per periodi molto più lunghi.
Questi animali semplici, i botrilli, sono al centro dell’articolo dal titolo “Two distinct evolutionary conserved neural degeneration pathways characterized in a colonial chordate” pubblicato da un team di ricercatori del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova e dell’Università di Stanford, in collaborazione con il Cham Zuckerberg Biohub di San Francisco, sulla rivista scientifica «PNAS» perché presentano una degenerazione del cervello simile a quella umana. Capire quindi quali siano i processi che portano al decadimento del loro sistema nervoso, anche da un punto di vista evolutivo, può esser d’aiuto nel comprendere neuropatologie, spesso invalidanti, che coinvolgono un numero crescente di persone.
Lo studio
Il botrillo, come detto, ci offre la straordinaria possibilità di studiare la degenerazione del cervello sia nel breve periodo, ovvero nel processo ciclico (settimanale) di riassorbimento degli individui adulti che comporta di fatto un loro rapido invecchiamento, sia nel lungo periodo, ovvero nel processo di invecchiamento dell’intera colonia, che vede nel tempo diminuire la sua capacità di produrre nuovi individui ed espandersi.
La ricerca – coordinata da Chiara Anselmi, dottorata all’Ateneo patavino e ora post-doc all’Università di Stanford, Lucia Manni del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova, Ayelet Voskoboynik e Irv Weissman dell’Università di Stanford – ha utilizzato colonie prelevate nella Laguna Veneta e allevate alla Stazione Idrobiologica di Chioggia e al Dipartimento di Biologia dell’Ateneo patavino oltre a quelle prese dalla Hopkins Marine Station, nella baia di Monterey in California.
Dalle analisi fatte emerge che la degenerazione del cervello del botrillo ha fortissime analogie con il decadimento del cervello umano: sia nella neurodegenerazione breve (settimanale) che in quella lunga (relativo all’invecchiamento della colonia). In entrambi i processi, nell’animale si osserva una riduzione del numero di neuroni e una diminuzione delle abilità comportamentali.
«È stato davvero sorprendente per noi vedere che nella degenerazione breve degli individui adulti il cervello cominciava a diminuire di volume qualche giorno prima del loro riassorbimento completo ovvero della loro morte. Dopo tre giorni di vita – dice la professoressa Lucia Manni del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova – il numero di neuroni nel cervello cominciava a diminuire, così come la loro capacità di rispondere a stimoli come il tocco della loro bocca, il sifone, attraverso cui l’acqua entra per la nutrizione e la respirazione. Questi stessi segni di invecchiamento erano poi presenti anche in individui di colonie neoformate rispetto a quelli presenti in colonie di soli 6 mesi. Eravamo quindi in presenza di due processi di neurodegenerazione la cui presenza non era mai stata sospettata, uno veloce e uno lento, nello stesso organismo».
Ma ciò che è ancor più interessante è che durante entrambi i processi degenerativi il cervello dell’animale manifesta geni la cui esressione caratterizza malattie neurodegenerative umane come l’Alzheimer e il Parkinson.
«Ancor più incredibile è stato poi verificare che entrambi i processi di neurodegenerazione erano associati all’aumento di espressione di geni che caratterizzano le malattie neurodegenerative nell’uomo come l’Alzheimer, il Parkinson, la malattia di Huntington, la demenza frontotemporale e altre ancora – sottolinea Chiara Anselmi dell’Università di Stanford –. Molti di questi geni erano espressi in entrambi i processi neurodegenerativi, mentre una piccola parte li differenziava. Questi geni, pertanto, svolgono un ruolo anche in questi semplici animali e questo piccolo invertebrato può rappresentare una risorsa per comprendere come l’evoluzione abbia forgiato i processi neurodegenerativi e quali siano le relazioni tra invecchiamento e perdita della funzionalità neuronale».
«Approfondire ora lo studio dell’invecchiamento e della neurodegenerazione in questo animale ci porterà a capire come il botrillo riesca a controllare e coordinare la neurodegenerazione ciclica rispetto a quella associata all’invecchiamento – concludono gli autori –. Questo potrebbe svelarci qualcosa di inaspettato rispetto alla nostra possibilità di governare i processi neurodegenerativi nell’uomo».
Il progetto di ricerca è stato finanziato dall’Università di Padova (Progetti di Ricerca di Ateneo, Dottorato di Ricerca, Iniziative di Cooperazione Universitaria), Fondazione “Aldo Gini”, Università di Stanford (School of Medecine Deans’s Postdoctoral Fellowship), l’NIH, il Chan Zuckerberg investigator program, e le Fondazioni “Stinehart-Reed” e “Larry L. Hillblom”.
Titolo: Two distinct evolutionary conserved neural degeneration pathways characterized in a colonial chordate – “PNAS” – 2022
Autori: Chiara Anselmi, Mark Kowarsky, Fabio Gasparini, Federico Caicci, Katherine J. Ishizuka, Karla J. Palmeri, Tal Raveh, Rahul Sinha, Norma Neff, Steve R. Quake, Irving L. Weissman, Ayelet Voskoboynik, Lucia Manni
Testo e foto dall’Università degli Studi di Padova
Telemedicina: un algoritmo analizza la scrittura dei pazienti e fornisce informazioni utili sul loro stato di salute
Un nuovo studio, coordinato dal Dipartimento di Neuroscienze umane della Sapienza, ha proposto un innovativo sistema di monitoraggio a distanza dei pazienti neurologici basato sull’analisi della scrittura attraverso algoritmi di machine learning. I risultati del lavoro sono stati pubblicati sulla rivista Frontiers in Aging Neuroscience.
La scrittura a mano è un compito cognitivo e motorio acquisito di particolare complessità, che offre un’interessante finestra di osservazione sulle funzioni del cervello. Per questo motivo, il monitoraggio della scrittura fornisce informazioni biologiche utili, soprattutto nei pazienti neurologici: i disturbi della scrittura sono infatti frequentemente osservati in pazienti affetti da malattie neurodegenerative, tra cui la malattia di Parkinson (micrografia) e la malattia di Alzheimer (agrafia).
Un team di ricerca interdisciplinare, coordinato da Antonio Suppa del Dipartimento di Neuroscienze Umane della Sapienza, ha proposto l’analisi della scrittura attraverso l’intelligenza artificiale come un innovativo sistema per il monitoraggio da remoto, in telemedicina, di pazienti neurologici. Il sistema, basato sull’accuratezza di algoritmi di machine learning nel rilevare alcuni “pattern” di scrittura attribuibili all’invecchiamento fisiologico di soggetti sani, è un’alternativa alla consueta valutazione clinica ambulatoriale.
Lo studio, realizzato con la collaborazione dei dipartimenti di Ingegneria dell’informazione, elettronica e telecomunicazioni della Sapienza, dell’IRCCS Neuromed e del Dipartimento di Neurologia dell’Università di Cincinnati in Ohio, è stato pubblicato sulla rivista Frontiers in Aging Neuroscience.
I ricercatori hanno reclutato 156 soggetti sani e destrimani e li hanno suddivisi in tre classi di età: 51 giovani tra i 18 e i 32 anni, 40 adulti di età compresa tra 37 e 57 anni e, infine, 63 soggetti in età adulta avanzata, ovvero tra i 62 e i 90 anni. A ognuno di essi è stato chiesto di scrivere con una penna a sfera nera il proprio nome e cognome per 10 volte su un foglio di carta bianca e, successivamente, di fotografare il proprio campione di scrittura con uno smartphone e inviarlo ai ricercatori.
“Il principale traguardo scientifico del nostro studio – spiega Antonio Suppa – consiste nella accuratezza dell’analisi automatica della scrittura con algoritmi di intelligenza artificiale, in grado di obiettivare la progressiva riduzione di ampiezza dei caratteri dovuta all’invecchiamento fisiologico e, quindi, di attribuire ogni campione di scrittura a una specifica fascia d’età dell’autore”.
“Sebbene ricerche precedenti avessero già dimostrato cambiamenti nella destrezza della scrittura legati all’aumento dell’età, per analizzare una grande quantità di dati nell’ambito della telemedicina si rendevano necessari approcci basati su tecniche di analisi più complesse come il machine learning”.
“L’analisi della scrittura con algoritmi di intelligenza artificiale – aggiunge Simone Scardapane, co-autore dello studio– è stata svolta grazie all’utilizzo di una rete neurale convoluzionale – ovvero una rete artificiale specializzata per l’elaborazione di immagini e segnali digitali – in grado di convertire automaticamente i caratteri in parametri di interesse.
Si tratta di un metodo semplice, ecologico, a basso costo e di facile utilizzo in diversi ambiti. Infatti, oltre alle notevoli implicazioni nel campo neurologico, può contribuire, ad esempio, alla datazione storica di un determinato documento, grazie alla valutazione automatica dell’età della persona che lo ha scritto. In particolare, in ambito medico-legale potrebbe facilitare la datazione di un testamento al momento della stesura o della firma.
“Il nostro auspicio – conclude Francesco Asci, co-autore dello studio – è che l’analisi della scrittura da remoto e mediante algoritmi di intelligenza artificiale possa costituire in futuro un innovativo biomarker di invecchiamento, con un impatto rilevante nel campo della diagnostica di malattie neurodegenerative e in accordo con i metodi della telemedicina”.
Riferimenti: Handwriting Declines With Human Aging: A Machine Learning Study – Francesco Asci, Simone Scardapane, Alessandro Zampogna, Valentina D’Onofrio, Lucia Testa, Martina Patera, Marco Falletti, Luca Marsili, Antonio Suppa – Frontiers in Aging Neuroscience (2022) https://doi.org/10.3389/fnagi.2022.889930
Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
Migliorare la memoria è una questione di allenamento ripetuto, ma nel tempo
Un nuovo studio firmato dalla Sapienza ha scoperto che il coinvolgimento di aree diverse del cervello nella memorizzazione, alla base del ricordo, è legato alla distribuzione nel tempo dell’apprendimento. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista PNAS.
L’apprendimento migliora se un’esperienza viene distribuita nel tempo piuttosto che essere concentrata in un’unica soluzione. Questo vale nello studio, ma anche nell’ambito della pubblicità e di tanti altri aspetti della vita quotidiana.
Un team di ricerca della Sapienza ha svelato per la prima volta che la maggiore efficienza di un apprendimento ripartito nel tempo dipende dal fatto che il cervello utilizza circuiti cerebrali diversi a seconda della modalità di apprendimento, indipendentemente da ciò che deve essere appreso. Inoltre, i ricercatori hanno dimostrato che la stimolazione artificiale dei circuiti responsabili dell’apprendimento distribuito nel tempo si traduce in un miglioramento della memoria.
In particolare lo studio, pubblicato sulla rivista PNAS, ha messo in evidenza, che lo striato, una struttura del cervello che si pensava coinvolta principalmente in funzioni motorie (ad esempio il Parkinson), ha un ruolo anche in funzioni cognitive complesse.
“Inoltre – spiega Andrea Mele, coordinatore dello studio – abbiamo visto che la sua stimolazione esogena durante l’apprendimento, migliora la durata della memoria nei topi”.
Lo studio è molto importante sia da un punto di vista teorico, perché include tra le aree del cervello responsabili del ricordo regioni cui prima erano attribuite altre funzioni, sia da un punto di vista traslazionale perché suggerisce la possibilità di migliorare la memoria attraverso una stimolazione artificiale del cervello, aprendo nuove prospettive nel trattamento di patologie neurodegenerative come l’Alzheimer.
Riferimenti:
The neural substrate of spatial memory stabilization depends on the distribution of the training sessions – Valentina Mastrorilli, Eleonora Centofante, Federica, Arianna Rinaldi and Andrea Mele – PNAS 2022 https://doi.org/10.1073/pnas.2120717119
Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
PFAS E DANNI NEURONALI POSSONO ESSERE COINVOLTI NELL’INSORGERE DELLE ANOMALIE DEL SISTEMA NERVOSO CENTRALE E NEL PARKINSON
Studio Università di Padova-VIMM pubblicato sulla prestigiosa rivista «Environment International». I PFAS si integrano con le membrane neuronali e il sistema nervoso è a rischio durante la fase dello sviluppo embrionale. I dati preliminari suggeriscono anche un coinvolgimento delle cellule implicate nel processo degenerativo del Parkinson.
Un gruppo di ricerca guidato dal professor Carlo Forestadell’Università di Padova ha recentemente pubblicato sulla rivista «Environment International» –con il titolo “Impairment of human dopaminergic neurons at different developmental stages by perfluoro-octanoic acid (PFOA) and differential human brain areas accumulation of perfluoroalkyl chemicals” – l’ultimo studio sugli gli effetti dei PFAS sul sistema nervoso.
Lo studio, iniziato dalle relazioni tra inquinamento da PFAS e anomalie congenite del sistema nervoso o disturbi comportamentali e neurologici come l’Alzheimer, l’autismo e i disturbi dell’attenzione e iperattività, è stato sviluppato per indagare se in cellule neuronali di specifiche aree del cervello si riscontrasse un accumulo di PFAS.
In collaborazione con il Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Padova – nell’ambito del “Programma di donazione del corpo alla scienza” coordinato dal professor Raffaele De Caro e dal professor Andrea Porzionato – sono stati effettuati prelievi di diverse aree del tessuto cerebrale. In presenza di significative concentrazioni plasmatiche di PFOA, PFOS e PFHxS sono stati riscontrati importanti segni di accumulo di queste sostanze soprattutto in aree costituite da particolari neuroni detti dopaminergici, come l’ipotalamo.
I risultati dello studio sono giunti da uno studio impegnativo e metodico, che ha coinvolto diversi Dipartimenti dell’Università di Padova e del Veneto Institute of Molecular Medicine (VIMM) per verificare gli effetti biologici di queste sostanze sui neuroni dopaminergici attraverso la coltivazione in laboratorio di cellule staminali neuronali a diversi stadi di differenziamento, fino al neurone dopaminergico maturo.
In particolare, è stato osservato che i PFAS a concentrazioni simili a quelle ritrovate nelle aree cerebrali si integrano con le membrane neuronali, modificandone la struttura e la stabilità. L’effetto dei PFAS è più evidente quanto più precoce è lo stadio di maturazione.
Sono ora in corso studi per determinare quali sono le conseguenze funzionali di queste osservazioni.
«Per la prima volta si è dimostrato che nell’uomo queste sostanze chimiche possono modificare la funzione delle cellule nervose – commenta il professor Carlo Foresta – Ulteriori studi sono necessari per quantificare le conseguenze sulla salute delle persone. Le osservazioni che dimostrano una maggior sensibilità delle cellule neuronali non ancora mature fanno pensare che gli effetti dei PFAS possano essere più evidenti durante le fasi più sensibili dello sviluppo del sistema nervoso come nell’embrione».
«I dati preliminari suggeriscono un coinvolgimento delle cellule implicate nel processo degenerativo del Parkinson – dice il Professor Angelo Antonini, Responsabile dell’Unità Parkinson e Malattie Rare Neurologiche della Clinica Neurologica dell’Università di Padova – Ancora non sappiamo se i PFAS possono poi determinare un’alterazione nei processi di degradazione della proteina alfa-sinucleina alla base di questa malattia. Tuttavia confermano una vulnerabilità di questi nuclei cerebrali e che i fattori ambientali insieme al profilo genetico giocano un ruolo importante probabilmente come fattore scatenante nel processo degenerativo».
«Si tratta di una collaborazione fra più gruppi universitari e team di ricerca, tra cui il mio gruppo al VIMM, che ha messo a punto la coltura di cellule staminali umane differenziate in neuroni dopaminergici che sono stati utilizzati nello studio per dimostrare l’effetto nocivo dei PFAS – conclude il Principal Investigator del VIMM Mario Bortolozzi-. La nostra expertise biofisica ed elettrofisiologica ci ha permesso di verificare che tali colture fossero funzionali, cioè in grado di “sparare” i cosiddetti potenziali d’azione, una sorta di firma autografa del neurone».
Autori: Andrea Di Nisio, Micaela Pannella, Stefania Vogatisi, Stefania Sut, Stefano Dall’Acqua, Maria Santa Rocca, Angelo Antonini, Andrea Porzionato, Raffaele De Caro, Mario Bortolozzi, Luca De Toni, Carlo Foresta
Titolo: Impairment of human dopaminergic neurons at different developmental stages by perfluoro-octanoic acid (PFOA) and differential human brain areas accumulation of perfluoroalkyl chemicals – «Environment International» 2021
Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università di Padova, circa lo studio pubblicato su Environment International che spiega come PFAS e danni neuronali possano essere coinvolti nell’insorgere di anomalie del sistema nervoso centrale e Parkinson
Effetto Michelangelo: quando l’arte diventa propedeutica alla neuroriabilitazione
Intervista al Professor Marco Iosa
Siamo spesso portati a pensare che arte e scienza siano due entità separate. Eppure, mai come nell’ultimo trentennio, arte e scienza si sono intrecciate e fuse fino a costituire una nuova disciplina: la neuroestetica (Zeki, 2002). Figlia delle neuroscienze cognitive, la neuroestetica si è posta fin dalla sua nascita l’obiettivo di indagare i meccanismi neurobiologici alla base dell’esperienza estetica. Negli ultimi anni, grazie ai sempre più numerosi studi di neuroimaging, la neuroestetica ci ha consentito di ottenere nuovi e interessanti punti di vista sulla nostra percezione e fruizione dell’arte in tutte le sue forme, dalla musica alla poesia passando per la pittura (Zeki, 2002; Verrusio et al., 2015). In altri termini, ci ha permesso di capire cosa succede nel nostro cervello quando osserviamo, ad esempio, la splendida Nascita di Venere di Botticelli o quando ascoltiamo una sinfonia di Mozart.
Sebbene la scienza moderna sia ancora lontana dal capire quali siano i processi neurali responsabili dell’esperienza estetica, essa può fornirci molte risposte in merito ai cambiamenti cerebrali che si osservano quando fruiamo attivamente dell’arte. È stato infatti dimostrato che godere dell’estetica di un’opera d’arte universalmente riconosciute come dall’elevato valore artistico, suscita un generale senso di piacere stimolando l’attivazione di processi percettivi, cognitivi ed emozionali che si traducono nell’attivazione di diverse aree cerebrali (Di Dio et al., 2016, Coccagna et al., 2020). Le aree di cui si parla hanno a che vedere, però, non solo con il piacere e la motivazione ma anche con il movimento (Umiltà et al., 2012). Osservare l’immagine di una mano che afferra un oggetto, per esempio, attiva nel cervello dell’osservatore la stessa rappresentazione motoria grazie al sistema dei neuroni specchio, che permettono di capire l’intenzione che sottende il movimento (Urgesi et al., 2006). Non è sorprendente, quindi, che la neuroestetica trovi sempre maggiori applicazioni in campo clinico o riabilitativo.
Recentemente, diversi studi condotti su pazienti affetti dal morbo di Parkinson, hanno dimostrato che l’ascolto di musica classica migliora sia la qualità della scrittura che le capacità motorie generali dei pazienti durante l’esecuzione di specifici compiti (Véron-Delor et al., 2020; Victorini et al., 2020), un fenomeno noto nella comunità scientifica come “Effetto Mozart” (Rauscher et al., 1993). Analogamente alla musico-terapia, anche l’arte-terapia trova ampio spazio nella neuroriabilitazione. Tuttavia, fino ad oggi, la maggior parte degli studi in ambito clinico non ha tratto vantaggio dall’utilizzo di capolavori artistici a scopo riabilitativo, bensì si sono limitati a far riprodurre ai pazienti disegni che non avessero nulla a che vedere con opere d’arte. Sebbene questi studi abbiano avuto buoni risultati, essi non hanno considerato i benefici sensorimotori che si sarebbero potuti trarre dalla riproduzione di vere e proprie opere d’arte. La riproduzione di capolavori artistici, infatti, avrebbe potuto potenziare l’efficacia della terapia riabilitativa sfruttando l’alto potere evocativo delle opere stesse. Ma quanti sarebbero stati in grado di riprodurre L’annunciazione di Leonardo da Vinci o La vocazione di San Matteo di Caravaggio?
L’escamotage trovato da un team di ricercatori italiani guidati dal Professor Tieri dell’IRCCS Santa Lucia in collaborazione con l’Università di Roma La Sapienza è stato quello di utilizzare la realtà virtuale, un tipo di tecnologia che permette di “replicare” la realtà quanto più accuratamente possibile, superando molti limiti fisici. I ricercatori hanno pensato di sfruttare questa tecnologia a favore di una terapia riabilitativa per persone affette da emiplegia (ovvero l’incapacità di utilizzo di un arto o parte del corpo) conseguente ad un ictus cerebrale. I ricercatori hanno chiesto ai pazienti di utilizzare l’arto paralizzato per muovere un cursore sulla tela virtuale con lo scopo di dipingere nel minor tempo possibile le opere che gli venivano presentate. Al contrario, ad altri pazienti è stato chiesto di dipingere una tela che avesse gli stessi colori e la stessa brillantezza dell’opera d’arte ma non rappresentasse nessuna opera artistica. I risultati ottenuti da questa ricerca hanno importanti implicazioni cliniche.
All’interno dell’ambiente virtuale, infatti, i pazienti a cui era stato chiesto di riprodurre l’opera hanno riportato non solo un minor affaticamento fisico durante l’esecuzione, ma anche un minor numero di errori durante la riproduzione delle tele. Questo effetto è stato particolarmente pronunciato nel corso dell’esecuzione dell’opera michelangiolesca La Creazione di Adamo, che ha ispirato gli autori della ricerca nella coniazione del nome di questo sorprendente effetto. Complessivamente, quindi, questo studio, introducendo la realtà virtuale nell’ambito della riabilitazione neurologica, fa luce sull’importanza di utilizzare l’arte come strumento di motivazione e riabilitazione per pazienti affetti da disordini neurologici.
Abbiamo chiesto al Professor Marco Iosa – coautore di questo studio – di rispondere ad alcune nostre domande per ScientifiCult.
Nel vostro ultimo lavoro recentemente pubblicato su Frontiers in Psychology avete dimostrato che la riproduzione di opere d’arte mediante l’utilizzo della realtà virtuale influenza positivamente l’esecuzione di esercizi durante la procedura di neuroriabilitazione. In particolare, avete osservato non solo che i pazienti riescono a terminare il compito in un tempo minore e con un minor grado di affaticamento, ma anche che i pazienti colpiti da emiplegia eseguono un minor numero di errori durante la riproduzione delle opere se confrontati con pazienti in una condizione di controllo. Durante l’esperimento sono state presentate ai soggetti diverse opere d’arte pittoriche che coprivano diversi periodi artistici, dal Rinascimento al Cubismo: eppure, avete osservato un effetto maggiore quando è stata presentata “La creazione di Adamo” di Michelangelo… saprebbe spiegare perché si osserva questo effetto proprio dopo la presentazione di questa specifica opera pittorica? Potrebbe essere legato al fatto che proprio in quest’opera, più che nelle altre, è maggiormente rappresentato uno sforzo fisico dei soggetti, messo ulteriormente in evidenza dalla loro accentuata muscolatura?
L’interazione con l’opera d’arte effettivamente portava ad una performance motoria migliore, malgrado il compito fosse identico a quello utilizzato come controllo, ovvero colorare tutta la tela. Inoltre i soggetti percepivano una minore fatica quando sulla tela compariva il capolavoro. L’effetto era abbastanza comune a tutti i quadri che abbiamo mostrato, ma leggermente più marcato per alcuni, in particolare la Creazione di Adamo della Cappella Sistina di Michelangelo. I motivi potrebbero essere svariati.
In primis, come dice lei, la rappresentazione dei corpi e della loro muscolatura in un gesto dinamico, con le braccia allungate e le due dita che cercano di toccarsi può aver attivato i cosiddetti “mirror neurons” (i neuroni specchio), ovvero quei neuroni delle aree motorie che si attivano non solo nel compimento di un’azione, ma anche quando l’azione viene vista compiersi da altri soggetti. Un altro fattore che può giocare un ruolo importante è l’iconografia di un dipinto. La “Creazione di Adamo” è un’opera classica, ben nota ai più, con i personaggi che si distinguono in modo deciso rispetto allo sfondo. Un’opera cubista di Picasso, invece, potrebbe essere di più complessa interpretazione ed essere più soggetta al gusto personale influenzato dalle conoscenze artistiche dell’osservatore. Non che l’opera michelangiolesca non contenga messaggi nascosti (è ad esempio ancora oggetto di dibattito cosa rappresenti il manto che circonda Dio: c’è chi dice la sezione di un cervello umano oppure chi sostiene sia un utero dopo il parto). Tuttavia, quello principale è chiaramente rappresentato dai personaggi esteticamente riprodotti con perfette proporzioni anatomiche durante il ben noto gesto delle braccia protese fino alle dita che si sfiorano.
Nella discussione del vostro lavoro evidenziate che resta ancora da chiarire se la capacità della bellezza di un’opera d’arte di attivare specifiche aree del cervello agisca come “priming” (ovvero, come una sorta di innesco) per la performance motoria successiva o se, al contrario, agisca in parallelo a quei processi cognitivi che hanno a che vedere con il livello di partecipazione emotiva. Alla luce delle conoscenze e della letteratura attuale, quale delle due alternative, secondo la sua opinione, potrebbe essere la più valida, e perché?
A noi interessava principalmente che l’approccio fosse efficace per la neuroriabilitazione del paziente colpito da ictus che doveva recuperare funzionalità al suo arto superiore e i nostri risultati sono stati promettenti rispetto a questo. Va certamente chiarito il meccanismo neurale con cui questo è avvenuto per rendere l’intervento ancora più efficace.
La letteratura scientifica ci svela sempre più che i meccanismi di percezione ed azione sono più interconnessi di quanto pensavamo in precedenza, quando si ipotizzava che prima si percepiva uno stimolo poi si interagiva con esso. Ora è noto che il modo in cui lo percepiamo dipende anche dall’interazione che vogliamo compiere con esso. Per questo motivo penso che nel nostro esperimento i processi cognitivi e quelli motori andassero insieme: se da una parte, infatti, l’opera d’arte veniva rivelata grazie al movimento, dall’altra era proprio movimento che avveniva per svelare l’opera d’arte.
Quanto peso pensa possa avere la sensibilità della persona verso l’arte affinché si osservi il cosiddetto “Effetto Michelangelo” che avete osservato nel vostro studio? In altre parole, lei pensa che osservereste gli stessi effetti in soggetti sperimentali non amanti dell’arte?
Questo è un aspetto che vorremmo studiare in futuro. Le prestazioni dei soggetti sono state generalmente migliori con l’arte, ma con alcune opere più note e di più immediata comprensione le prestazioni sono state migliori. Nei prossimi studi vorremmo caratterizzare i soggetti rispetto alla loro conoscenza dell’arte ed alla sensibilità che hanno verso essa, per poi provare anche altri “canali”, ovvero altri stimoli considerati belli, proprio per cercare delle alternative efficaci a dei pazienti che non dovessero essere responsivi agli stimoli artistici.
Vorremmo provare con immagini di paesaggi, di persone e magari anche dei familiari dei pazienti, per usare un diverso canale emotivo, sempre con un fine neuroriabilitativo.
Voi avete definito i risultati del vostro lavoro “Effetto Michelangelo” perché ha dei tratti comuni con il cosiddetto “Effetto Mozart”, identificato in seguito ad alcuni studi che hanno dimostrato come l’ascolto della Sonata di Mozart in Re maggiore migliori la performance comportamentali dei soggetti sperimentali (Hughes et al., 2001). Lei pensa che sia possibile combinare i due effetti per avere un miglioramento più rapido ed efficace o i due fenomeni coinvolgono processi cognitivi diversi?
Per i nostri pazienti con ictus, spesso anziani e taluni con eventuali problemi cognitivi, eviterei di stimolare troppi canali contemporaneamente, per non indurre il soggetto in confusione. Credo sia meglio far concentrare la loro attenzione su un unico stimolo.
Ciò che invece certamente potrebbe essere utile è un approccio “patient-tailored”, ovvero pensato su misura per il soggetto. Non è infatti detto che un approccio, sebbene efficace in generale, poi lo sia per tutti. Potrebbe essere utile scegliere un approccio piuttosto che un altro (musicale con l’effetto Mozart o artistico con l’effetto Michelangelo) a seconda del paziente che si ha davanti, vedendo a quale risponde meglio, quale lo motiva di più nel partecipare attivamente alla sua neuroriabilitazione. Infatti, una partecipazione attiva è un fattore prognostico favorevole al recupero cognitivo e motorio di questi pazienti.
L’Effetto Michelangelo da voi riportato è stato testato con opere d’arte famose: i soggetti sottoposti alla vostra sperimentazione impiegano meno tratti e meno tempo nel completare l’opera rispetto alla condizione di controllo con stimoli non artistici. Ritenete che la conoscenza e la memoria relativa ai quadri proposti possano rappresentare un ruolo determinante in merito ai risultati da voi riportati, e quindi anche rispetto all’Effetto Michelangelo?
Nello specifico hanno tratti più precisi sulla tela, uscendo di meno fuori dalla tela virtuale. Sul tempo dipende, sicuramente sembrano percepire una fatica inferiore quando interagiscono con l’arte. Abbiamo utilizzato quadri celebri ed è probabile che i soggetti già li conoscessero, però non abbiamo notato differenze significative, ad esempio, tra opere italiane (di artisti come Michelangelo, Leonardo da Vinci, Caravaggio, etc.) ed opere straniere che potevano essere meno note (ad esempio fra gli stimoli presentati ai pazienti vi erano La grande onda di Kanagawa dell’artista giapponese Hokusai o La danza di Matisse). Ci sarà molto da lavorare nei prossimi studi per capire quali fattori entrano in gioco, soprattutto per migliorare il trattamento che abbiamo proposto rendendolo sempre più efficace per i nostri pazienti.
Riferimenti bibliografici:
Coccagna, M., Avanzini, P., Portera, M., Vecchiato, G., Sironi, V., Salvi, F., … & Mazzacane, S. (2020). Neuroaesthetics of Art Vision: an Experimental Approach to the Sense of Beauty.
Di Dio, C., Ardizzi, M., Massaro, D., Di Cesare, G., Gilli, G., Marchetti, A., & Gallese, V. (2016). Human, nature, dynamism: the effects of content and movement perception on brain activations during the aesthetic judgment of representational paintings. Frontiers in human neuroscience, 9, 705.
Rauscher, F. H., Shaw, G. L., & Ky, C. N. (1993). Music and spatial task performance. Nature, 365(6447), 611-611.
Véron-Delor, L., Pinto, S., Eusebio, A., Azulay, J. P., Witjas, T., Velay, J. L., & Danna, J. (2020). Musical sonification improves motor control in Parkinson’s disease: a proof of concept with handwriting. Annals of the New York Academy of Sciences, 1465(1), 132-145.
Verrusio, W., Ettorre, E., Vicenzini, E., Vanacore, N., Cacciafesta, M., & Mecarelli, O. (2015). The Mozart effect: a quantitative EEG study. Consciousness and cognition, 35, 150-155.
Victorino, D. B., Scorza, C. A., Fiorini, A. C., Finsterer, J., & Scorza, F. A. (2020). “Mozart effect” for Parkinson’s disease: music as medicine. Neurological Sciences, 1-2.
Umiltà, M. A., Berchio, C., Sestito, M., Freedberg, D., & Gallese, V. (2012). Abstract art and cortical motor activation: an EEG study. Frontiers in human neuroscience, 6, 311.
Urgesi, C., Moro, V., Candidi, M., & Aglioti, S. M. (2006). Mapping implied body actions in the human motor system. Journal of Neuroscience, 26(30), 7942-7949.
Zeki, S. (2002). Neural Concept Formation & Art Dante, Michelangelo, Wagner Something, and indeed the ultimate thing, must be left over for the mind to do. Journal of Consciousness Studies, 9(3), 53-76.