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Come si sono formati gli Appennini? Nella ricerca pubblicata sulla rivista Tectonics, un approccio innovativo allo studio dei sedimenti consente di ricostruire l’evoluzione della catena montuosa

Uno studio recentemente pubblicato su Tectonics e condotto dall’INGV e dalle Università Sapienza e Roma Tre ha evidenziato un nuovo potenziale indicatore basato sulle caratteristiche geometriche delle particelle che costituiscono le rocce. Il modello consentirà di definire con maggiore precisione l’età e le trasformazioni geologiche dei bacini sedimentari.

Campionamento a) Esempio di depositi analizzati nello studio b) campionamento per analisi della mineralogia delle argille, c) frustoli legnosi, d) campionamento per analisi di anisotropia della suscettività magnetica
Come si sono formati gli Appennini? Campionamento:
a) Esempio di depositi analizzati nello studio b) campionamento per analisi della mineralogia delle argille, c) frustoli legnosi, d) campionamento per analisi di anisotropia della suscettività magnetica

Una collaborazione tra ricercatori dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), della Sapienza Università di Roma e dell’Università Roma Tre ha permesso di sviluppare un modello innovativo per ricostruire l’evoluzione delle catene montuose.

È quanto emerge dallo studio “Magnetic fabric as a marker of thermal maturity in sedimentary basins: A new approach for reconstructing the tectono‐thermal evolution of fold‐and‐ thrust‐belts”, recentemente pubblicato sulla rivista scientifica Tectonics.

Per stabilire l’età e le trasformazioni delle catene montuose, i geo-scienziati prendono in esame la maturità termica dei sedimenti, ovvero il riscaldamento cui le rocce e in particolare alcuni indicatori in esse presenti – come i minerali delle argille e i frustoli di legno – sono stati sottoposti nel tempo geologico.

“La maturità termica dei sedimenti riflette il grado di evoluzione della materia organica e le trasformazioni dei minerali argillosi durante la diagenesi da seppellimento”, spiega Chiara Caricchi, ricercatrice dell’INGV e prima autrice dell’articolo. “Tale maturità termica è influenzata da fattori come temperatura e tempo, ed è un concetto fondamentale per comprendere la formazione di risorse energetiche come il petrolio e il gas naturale”.

La diagenesi è un processo geologico che coinvolge i cambiamenti chimici, fisici e biologici che i sedimenti subiscono dopo la loro deposizione e prima della loro litificazione, ovvero la loro trasformazione in roccia. Questo processo avviene a temperature relativamente basse (fino a circa 200 °C) e a pressioni moderate (2-3 bar), e può durare milioni di anni.

L’affidabilità di una ricostruzione dell’evoluzione delle catene montuose dipende dal numero di indicatori termici utilizzabili, che non sono sempre disponibili.

I ricercatori di INGV, Sapienza e Roma Tre hanno individuato un nuovo potenziale indicatore basato sulle caratteristiche geometriche delle particelle che costituiscono una roccia e le loro relazioni di orientamento reciproco. Queste informazioni si ottengono a partire da una proprietà, la cosiddetta “anisotropia della suscettibilità magnetica” (AMS), che si riferisce alla tendenza dei minerali a predisporsi prevalentemente in piani perpendicolari alla direzione di deposizione e successiva compattazione dei sedimenti. Un processo che avviene quando i sedimenti vengono progressivamente ricoperti da altri depositi più recenti e poi portati in profondità nella crosta, dove sono soggetti a temperature e pressioni crescenti, per poi riemergere in superficie durante la formazione delle catene montuose.

“Le nostre analisi si prefiggono di rispondere alla domanda ‘Fino a che profondità sono stati sepolti i sedimenti analizzati prima di essere riportati in superficie dalla formazione degli Appennini?’, ovvero ‘A quali massime temperature sono stati sottoposti?”, spiega Leonardo Sagnotti, ricercatore dell’INGV e co-autore dell’articolo. “L’AMS è una proprietà che si misura nei laboratori di paleomagnetismo con strumentazione dedicata e che mette in relazione la variabilità della suscettività magnetica con la direzione in cui essa viene misurata, che dipende – a sua volta – dall’orientazione preferenziale dei minerali che costituiscono il sedimento”.

“Il nostro studio si è concentrato nell’Appennino settentrionale, in un’area compresa tra Umbria e Toscana, dove abbiamo prelevato campioni di sedimenti tra loro coerenti per le analisi di AMS e diffrazione a raggi X”, aggiunge Luca Aldega, ricercatore di Sapienza Università Sapienza di Roma e co-autore dell’articolo. “I dati delle analisi indicano che l’AMS di questi sedimenti argillosi può essere messa in diretta correlazione con i processi di deposizione e compattazione, come suggeriscono gli indicatori di maturità termica, riflettendo così l’evoluzione dei sedimenti durante il seppellimento sedimentario e/o tettonico”.

“Questa osservazione ci ha permesso di calibrare un modello basato su una correlazione lineare tra il parametro AMS e gli indicatori paleotermici che può essere applicato con successo per definire i livelli di maturità termica nei bacini sedimentari, superando le limitazioni dei metodi classici e vincolando su scala temporale le condizioni di diagenesi delle successioni sedimentarie”, evidenzia Massimo Mattei, ricercatore dell’Università Roma Tre e co-autore dell’articolo.

Correlazione tra Foliazione (parametro AMS) e gli indicatori paleotermici che può essere applicato per definire i livelli di maturità termica nei bacini sedimentari
Correlazione tra Foliazione (parametro AMS) e gli indicatori paleotermici che può essere applicato per definire i livelli di maturità termica nei bacini sedimentari

Ulteriori ricerche future in questa direzione potranno essere utili per migliorare la definizione della correlazione in caso di stadi di maturità termica avanzata e in successioni sedimentarie altamente deformate.

Riferimenti bibliografici:

Caricchi, L. Aldega, L. Sagnotti, F. Cifelli, S. Corrado, M. Mattei, Magnetic Fabric as a Marker of Thermal Maturity in Sedimentary Basins: A New Approach for Reconstructing the Tectono-Thermal Evolution of Fold-and-Thrust-Belts,Tectonics, Tectonics (2024), DOI: https://doi.org/10.1029/2024TC008530

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Cambiamento climatico: il ritiro dei ghiacciai indebolisce le interazioni tra piante e impollinatori, la biodiversità, l’ecosistema

Con il ritiro dei ghiacciai le interazioni tra piante e impollinatori diventano più fragili, rischiando di rendere l’intero ecosistema più vulnerabile ai cambiamenti ambientali in atto e meno resiliente.
È il risultato della ricerca di un’equipe internazionale di scienziati coordinato dall’Università Statale di Milano, effettuata nell’area del ghiacciaio del Monte Miné nelle Alpi Svizzere e pubblicata su
Ecography.

Milano, 12 novembre 2024 – I ghiacciai si stanno ritirando, questo ormai è noto. Ma che cosa succede alla terra una volta libera dal ghiaccio? Che tipo di nuovo ecosistema si viene a formare?

Per capire l’impatto del ritiro dei ghiacciai su biodiversità e funzionamento dei sistemi ecologici, un’équipe internazionale di scienziati dell’Università degli Studi di Milano, in collaborazione con l’Università di Losanna, con l’Università Sapienza di Roma e con l’Università di Modena e Reggio Emilia, ha preso in esame le interazioni tra piante e impollinatori e ha scoperto che il ritiro dei ghiacciai mette a rischio la stabilità delle relazioni tra piante e impollinatori, fondamentali per la biodiversità.

Lo studio, pubblicato sulla rivista Ecography è stato effettuato nell’area del ghiacciaio del Monte Miné nelle Alpi Svizzere, un luogo in cui i ghiacciai si sono costantemente ritirati a causa dell’aumento delle temperature globali.

Utilizzando una modellazione ecologica avanzata basata sulla teoria delle reti che analizza l’ecosistema sulla base delle interazioni tra molte specie diverse, i ricercatori hanno identificato i meccanismi chiave nell’evoluzione di queste interazioni su un arco temporale di 140 anni. È così emerso che le specie di piante in una prima fase formano connessioni altamente specializzate con i loro impollinatori, creano relazioni di mutua dipendenza e “mutua assistenza”. Ad esempio, piante pioniere come l’epilobio (Epilobium fleischeri) sono risultate avere relazioni forti e uniche con impollinatori specifici, assicurando il successo riproduttivo alla pianta e risorse alimentari agli impollinatori.

Tuttavia, con l’arretramento dei ghiacciai e l’aumento della colonizzazione da parte della foresta, hanno iniziato a dominare piante come il rododendro (Rhododendron ferrugineum), una pianta “super-generalista” che interagisce con una più ampia varietà di impollinatori, indebolendo la solidità della rete complessiva.

Nelle prime fasi del ritiro del ghiacciaio, abbiamo riscontrato che molte specie vegetali formavano interazioni specializzate con gli impollinatori, creando una rete molto fitta e robusta. Ma con l’avanzare del ritiro e la maturazione dell’ecosistema, in particolare con l’arrivo della foresta e la scomparsa delle praterie, abbiamo assistito a uno spostamento verso specie più generaliste. Se da un lato queste specie generaliste possono adattarsi a una gamma più ampia di partner, dall’altro formano con loro connessioni più deboli, che potrebbero rendere l’intero ecosistema più vulnerabile ad ulteriori cambiamenti ambientali” spiega Gianalberto Losapio, ricercatore del Dipartimento di Bioscienze dell’Università Statale di Milano e coordinatore della ricerca.

Il team ha utilizzato un approccio interdisciplinare unico, concentrandosi sui “motivi di rete”, piccoli schemi di interazione all’interno di una rete più ampia. Si è visto così che con l’arretramento dei ghiacciai e il cambiamento degli ecosistemi, questi piccoli motivi passano dall’essere altamente connessi a diventare più frammentati, il che è un indicatore critico di ridotta resilienza.

Questo studio è stato condotto sulla fronte di un ghiacciaio subalpino, ma il ritiro dei ghiacciai avviene in tutto il mondo. Per comprendere appieno gli impatti globali, abbiamo bisogno di studi simili in altre regioni” conclude Losapio.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.

LE LINCI SELVAGGE (Lynx), un film documentario di Laurent Geslin

Francia / 2022 / 1h30

AL CINEMA L’11, 12 E 13 NOVEMBRE 2024

con il patrocinio di CAI

in collaborazione con WWF

Le linci selvagge (Lynx), documentario di Laurent Geslin poster
il poster del documentario

Dopo essere stato presentato in selezione officiale al Locarno Film Festival, l’affascinante documentario LE LINCI SELVAGGE diretto da Laurent Geslin arriverà nelle sale italiane come evento in sala l’11, 12 e 13 novembre 2024 distribuito da Wanted Cinema.

Fotografo naturalista di fama internazionale, Laurent Geslin esordisce alla regia con questo ispirato documentario – frutto di un lungo lavoro di 9 anni di osservazioni ravvicinate immerso nella natura più selvaggia – girato tra le montagne della Giura, in Svizzera, dove vive un animale superbo, la lince euroasiatica. Predatore importantissimo per l’ecosistema in cui vive, la presenza della lince risulta infatti indispensabile per mantenere stabile il delicato equilibrio della foresta, minacciata dal cambiamento (anche climatico) e dalla presenza dell’uomo.

La lince è una specie protetta a livello nazionale ed europeo, tanto che nella Lista Rossa dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) in Francia è classificata come “in pericolo”, altamente vulnerabile a causa delle sue piccole dimensioni e della frammentazione delle colonie sul territorio europeo. Il documentario LE LINCI SELVAGGE segue una famiglia di linci, la cui vita scorre al ritmo delle stagioni. Tanti gli eventi che si susseguono nel corso della loro esistenza: la nascita dei piccoli, l’apprendimento delle tecniche di caccia, la conquista del territorio e tutte le difficoltà e i pericoli che comporta. Il loro è un universo tanto vicino a noi quanto sconosciuto.

“Con la pellicola posso raccontare storie che era difficile raccontare con la macchina fotografica. Filmare significa dover affrontare più complicazioni, ma mantenendo il mio occhio fotografico, sento di potermi esprimere meglio. Il mondo delle immagini sta cambiando velocemente, con i social network che ci mostrano migliaia di foto ogni giorno. Fare un film significa prendersi il proprio tempo, e questo è ciò che mi attrae”, afferma Laurent Geslin. “Non esistono documentari su questo felino, proprio come non c’erano che poche foto amatoriali prima del mio progetto. Ci sono molti film su leoni, ghepardi, giaguari e altri grandi felini, ma nemmeno uno sulla lince. Tutti i documentari che girano e che magari avete visto sono girati con animali addomesticati o in cattività. E così ho deciso di filmare la lince nel suo habitat. Ma se fotografarla è stato veramente difficile, filmarla lo è ancora di più! È un animale notturno e incredibilmente discreto, infatti, durante la lavorazione è capitato che io l’abbia persa di vista per quasi otto mesi, anche se la cercavo ogni giorno.”

Dopo il grande successo di “La pantera delle nevi” e l’ottimo riscontro di critica e pubblico raccolto dal recente “Pericolosamente vicini“, Wanted torna a proporre un grande film che mostra la natura più selvaggia, autentica e incontaminata e che tratta il tema della convivenza tra popolazione umana e animali selvaggi con LE LINCI SELVAGGE di Laurent Geslin, nei cinema italiani come evento in sala l’11, 12 e 13 novembre 2024.

Gallery con foto © Geslin Laurent

SINOSSI: Nel cuore delle montagne del Giura, uno strano richiamo risuona alla fine dell’inverno. La superba sagoma di una lince boreale si insinua tra i faggi e gli abeti. Sta chiamando la sua compagna. Seguendo la vita di questa coppia e dei suoi gattini, scopriamo un mondo vicino a noi ma poco conosciuto. Una storia autentica in cui camosci, aquile, volpi ed ermellini sono testimoni della vita segreta del più grande felino d’Europa, tuttora minacciato. Il film rivela il ruolo essenziale di questo schivo ma feroce predatore delle foreste, l’equilibrio che ha ristabilito in nell’ambiente e le difficoltà che incontra in un paesaggio in gran parte occupato dall’uomo.

Testi, video e immagini dagli Uffici Stampa Wanted Cinema, Echo Group. Aggiornato il 9 novembre 2024.

L’importanza dell’Accordo di Parigi per le montagne e la loro biodiversità 
Il raggiungimento degli obiettivi definiti dall’accordo di Parigi sul clima favorirebbe in modo cruciale la sopravvivenza dei carnivori e degli ungulati di montagna. Ad affermarlo è uno studio condotto dal Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza e pubblicato sulla rivista Conservation Biology.

Stambecco delle Alpi Capra ibex accordo Parigi montagne biodiversità
L’importanza dell’Accordo di Parigi per le montagne e la loro biodiversità. Stambecco delle Alpi (Capra ibex). Foto di Manfred Werner – Tsui, CC BY-SA 3.0

La montagna rappresenta da sempre un luogo di grande diversità biologica. Pur occupando una minima parte della superficie terrestre, circa il 20%, è in grado di ospitare ben 1/3 della diversità delle specie del mondo e metà di tutti gli hotspot di biodiversità globali.

Gli ambienti montani hanno fornito un rifugio a numerose specie durante i cambiamenti climatici del passato e potrebbero offrirlo anche in futuro, soprattutto a quelle che vivono immediatamente ai margini delle catene montuose. Ma le specie endemiche, già a rischio di estinzione, richiedono comunque imminenti misure di conservazione.

Le misure per limitare il fenomeno del riscaldamento globale (a 1,5 °C e 2 °C rispetto ai livelli preindustriali), stabilite con l’accordo di Parigi del 2015 tra gli Stati membri della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, potrebbero favorire anche la salvaguardia dei mammiferi delle aree montane.

È quanto emerge da un nuovo studio, condotto da Chiara Dragonetti e Valeria Y. Mendez e coordinato da Moreno Di Marco del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza. In particolare, i ricercatori hanno analizzato la situazione dei carnivori e degli ungulati di montagna nel 2050, proiettando al futuro le loro nicchie climatiche, cioè l’insieme delle condizioni climatiche che permettono la sopravvivenza di una determinata specie.

I risultati dello studio, pubblicati sulla rivista Conversation Biology, dimostrano che il rischio per la sopravvivenza dei carnivori e degli ungulati di montagna globalmente non è elevata, e che nessuna specie ha una probabilità di riduzione della propria nicchia climatica superiore al 50%. Il raggiungimento degli impegni dell’accordo di Parigi diminuirebbe però sostanzialmente l’instabilità climatica per le specie montane. Infatti, limitare il riscaldamento globale al di sotto di 1,5 °C comporterebbe una diminuzione della probabilità di contrazione di nicchia del 4% rispetto a uno scenario ad alte emissioni.

“A livello globale i mammiferi di montagna potrebbero essere in media meno in pericolo rispetto ad altri mammiferi – spiega Chiara Dragonetti, prima autrice dello studio – ma ci sono importanti eccezioni da tenere in considerazione, come per tutte le specie altamente endemiche, che non potranno trovare climi adatti altrove”.

Le montagne hanno fornito un rifugio a numerose specie durante i cambiamenti climatici del passato e potrebbero offrirlo anche in futuro, soprattutto a quelle specie che vivono immediatamente ai margini delle catene montuose. Ma le specie endemiche già a rischio di richiedono comunque imminenti misure di conservazione.

“Per proteggere la biodiversità montana saranno quindi necessari – aggiunge Dragonetti – sia una forte politica di mitigazione del clima, sia rapidi interventi di conservazione che abbiano come target le specie già vulnerabili. Inoltre, azioni mirate per un uso più sostenibile del suolo dovrebbero far parte delle politiche internazionali per preservare le montagne tropicali, soprattutto in Africa, Sud-est asiatico e Sud America. Queste sono infatti le zone del mondo con la più alta biodiversità montana, ma anche quelle che affrontano le sfide più grandi in termini di sviluppo e crescita della popolazione”.

“Gli obiettivi climatici definiti dall’accordo di Parigi – conclude Moreno Di Marco, coordinatore del laboratorio Biodiversity & Global Change della Sapienza – derivano da negoziazioni politiche che non sempre trovano riscontro scientifico per quanto riguarda i sistemi biologici. Con questo lavoro dimostriamo che non raggiungere l’accordo di Parigi comporta rischi seri per la biodiversità e per i delicati equilibri ecosistemici degli ambienti montani”.

Riferimenti:
Scenarios of change in the realized climatic niche of mountain carnivores and ungulates – Chiara Dragonetti, Valeria Y. Mendez A, Moreno Di Marco – Conservation Biology (2022)  https://doi.org/10.1111/cobi.14035

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma