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Acceleratore SuperKEKB: il 20 febbraio la prima collisione elettrone-positrone nell’ambito della raccolta dati Run 2

Continua l’esperimento Belle II nel laboratorio KEK di Tsukuba in Giappone con il contributo del Dipartimento di Fisica dell’Università di Pisa e dell’INFN

l'acceleratore KEKB a Tsukuba, Giappone
l’acceleratore KEKB a Tsukuba, Giappone. Foto Flickr di yellow_bird_woodstock, CC BY-SA 2.0

Il 20 febbraio scorso l’acceleratore SuperKEKB del laboratorio KEK di Tsukuba, in Giappone, ha registrato la prima collisione elettrone-positrone nell’ambito della nuova campagna di raccolta dati “Run 2”.

Continua così l’esperimento Belle II in corso dal 2019 per studiare le proprietà della materia a livello microscopico attraverso le collisioni elettrone-positrone, un fenomeno che genera principalmente mesoni B, ma anche mesoni con charm e leptoni tau. Obiettivo generale degli scienziati è quello di trovare il cosiddetto “cigno nero, ovvero anomalie (come ad esempio nuove particelle e nuovi fenomeni fisici) rispetto al Modello Standard che definisce la fisica così come la conosciamo oggi.

La nuova fase di raccolta dati è partita il 29 gennaio dopo un anno e mezzo di lavori di potenziamento e manutenzione per permettere all’acceleratore di raggiungere luminosità sempre più elevate, e all’esperimento di ricostruire con maggiore precisione ed efficienza gli eventi prodotti.

Il Dipartimento di Fisica dell’Università di Pisa partecipa a Belle II insieme all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) con un gruppo di circa 70 ricercatori e ricercatrici di che fanno parte di otto strutture: i Laboratori Nazionali di Frascati, e le Sezioni di Napoli, Padova, Perugia, Pisa, Roma Tre, Torino e Trieste.

“L’intervento di maggiore rilevanza che ha riguardato Belle II è stata l’installazione di un nuovo rivelatore di tracce nello strato più interno dell’esperimento, e quindi più vicino al punto di interazione fra elettroni e positroni: si tratta di un rivelatore a pixel di silicio che, insieme al rivelatore a strip di silicio Silicon Vertex Detector (SVD) che lo circonda, permette di misurare con altissima precisione il punto di passaggio delle particelle cariche”, spiega Giuliana Rizzo, ricercatrice all’INFN e professoressa all’Università di Pisa, project leader del Silicon Vertex Detector.

“L’intervento ha richiesto il completo smontaggio e rimontaggio del rivelatore SVD, costruito e gestito grazie a un importante contributo italiano, e ha compreso anche l’installazione di un nuovo tubo a vuoto intorno al punto di interazione, e il potenziamento delle schermature del rivelatore dal ‘fondo’ di radiazione prodotto dall’acceleratore in misura maggiore all’aumentare della luminosità. Tutte queste operazioni sono state completate con successo nei tempi stabiliti, permettendo di testare la piena funzionalità del rivelatore con i raggi cosmici e il ripristino delle performance precedenti l’intervento”, conclude Rizzo.

Testo dall’Unità Comunicazione Istituzionale dell’Università di Pisa.

LISA e la scoperta di nuovi campi fondamentali 

Su Nature Astronomy lo studio pubblicato da Andrea Maselli, ricercatore del GSSI, associato INFN, e dai colleghi della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati, dell’Università di Nottingham e della Sapienza di Roma, che suggerisce un nuovo approccio per rilevare con grande accuratezza nuovi campi fondamentali e verificare la teoria della relatività generale grazie a LISA, il rivelatore di onde gravitazionali spaziale, che partirà come missione ESA – NASA nel 2037.

LISA campi fondamentali
Foto 1: Rappresentazione artistica della deformazione spazio-tempo di un EMRI. Un piccolo buco nero che ruota intorno ad un buco nero supermassiccio. (Credits: NASA)

La Relatività Generale di Einstein è la teoria corretta per i fenomeni gravitazionali? È possibile sfruttare tali fenomeni per scoprire nuovi campi fondamentali?

Il lavoro uscito oggi su Nature Astronomy, condotto da Andrea Maselli, ricercatore del GSSI, associato INFN, assieme a ricercatori della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati, dell’Università di Nottingham, e della Sapienza Università di Roma, mostra che le osservazioni di onde gravitazionali da parte dell’interferometro spaziale LISA (Laser Interferometer Space Antenna) saranno in grado di rivelare la presenza di nuovi campi fondamentali con grande accuratezza.

Il campo gravitazionale è, secondo la Relatività Generale, espressione della curvatura dello spazio-tempo creata dalla presenza di massa o energia che altera lo spazio circostante.

Nuovi campi fondamentali associati alla gravità, in particolare quelli scalari, sono alla base di modelli teorici sviluppati per spiegare una grande varietà di scenari fisici. Potrebbero ad esempio fornire indizi sull’espansione accelerata dell’Universo o sulla materia oscura, oppure essere manifestazioni a bassa energia di una descrizione consistente e completa della gravità e delle particelle elementari.

Le osservazioni di oggetti astrofisici caratterizzati da campi gravitazionali deboli e piccole curvature spazio-temporali non hanno mostrato finora alcuna indicazione dell’esistenza di questi campi. Tuttavia, diversi modelli suggeriscono che deviazioni dalla Relatività Generale, o interazioni tra la gravità e nuovi campi, siano più rilevanti quando la curvatura dello spazio-tempo è molto grande. Per questa ragione, l’osservazione di onde gravitazionali – che ha aperto una nuova finestra sul regime di campo gravitazionale forte – rappresenta un’opportunità unica per scoprire nuovi campi fondamentali.

LISA campi fondamentali
Foto 2: EMRI: Sezione di un’orbita percorsa da un oggetto stellare attorno a un buco nero massivo (Credits: N. Franchini)

LISA, il rivelatore di onde gravitazionali spaziale sviluppato per osservare onde gravitazionali da sorgenti astrofisiche, permetterà di studiare nuove famiglie di sorgenti astrofisiche, diverse da quelle osservate da Virgo e LIGO, come gli Extreme Mass Ratio Inspirals (EMRI).

“Gli EMRI, sistemi binari in cui un oggetto compatto con massa stellare – un buco nero o una stella di neutroni – orbita attorno ad un buco nero milioni di volte più massivo del nostro Sole, sono infatti tra le sorgenti che ci si aspetta di osservare con LISA, e rappresentano un’arena preziosissima per studiare il regime di campo forte della gravità. – spiega Andrea Maselli, primo autore del paper – Il corpo più piccolo di un EMRI compie decine di migliaia di cicli orbitali prima di cadere nel buco nero supermassivo, emettendo così segnali di lunga durata che permettono di misurare anche le più piccole deviazioni dalle predizioni della teoria di Einstein e del modello standard delle particelle”.

Gli autori dello studio hanno sviluppato uno nuovo approccio per modellizzare il segnale emesso dagli EMRI, studiando per la prima volta in modo rigoroso se e come LISA possa scoprire l’esistenza di campi scalari accoppiati all’interazione gravitazionale, e misurare la carica scalare, una grandezza che quantifica il campo associato al corpo più piccolo del sistema binario.

Il nuovo approccio sviluppato è “agnostico” rispetto alla teoria che predice l’esistenza del campo scalare, poichè non dipende dall’origine della carica o dalla natura dell’oggetto compatto.  L’analisi mostra anche come future misure della carica scalare potranno essere tradotte in vincoli molto stringenti sulle deviazioni della Relatività Generale o del Modello Standard.

LISA, che partirà come missione ESA-NASA nel 2037, opererà in orbita attorno al Sole, in una costellazione di tre satelliti distanti milioni di chilometri l’uno dall’altro, osservando onde gravitazionali emesse a bassa frequenza, in una banda non accessibile agli interferometri terrestri a causa del rumore ambientale. Lo spettro visibile di LISA aprirà una nuova finestra sull’evoluzione degli oggetti compatti in una grande varietà di sistemi astrofisici del nostro Universo.

Riferimenti:

Detecting fundamental fields with LISA observations of gravitational waves from extreme mass-ratio inspirals – Andrea Maselli, Nicola Franchini, Leonardo Gualtieri, Thomas P. Sotiriou, Susanna Barsanti, Paolo Pani – Nature Astronomy DOI: https://doi.org/10.1038/s41550-021-01589-5

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Possibili indizi di nuova fisica nei primi risultati di Muon g-2

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Una nuova e precisa misura delle proprietà magnetiche del muone – particella elementare appartenente alla famiglia dei leptoni, molto simile all’elettrone, ma con una massa circa 200 volte maggiore – fornisce nuova evidenza a favore dell’esistenza di fenomeni fisici non descritti dal Modello Standard, la teoria di riferimento per la spiegazione dei processi subatomici. L’atteso risultato, ottenuto al temine della prima campagna di analisi dei dati acquisiti dall’esperimento Muon g-2, è stato annunciato oggi, mercoledì 7 aprile, nel corso di una presentazione svoltasi presso il Fermi National Accelerator Laboratory (FermiLab) di Batavia, vicino Chicago, il centro statunitense per le ricerche in fisica delle particelle, che ospita l’esperimento. La collaborazione internazionale responsabile di Muon g-2, di cui l’INFN è uno dei principali membri sin dalla sua nascita, è riuscita a ottenere una misura del cosiddetto momento magnetico anomalo del muone con una precisione senza precedenti, confermando le discrepanze con le previsioni del Modello Standard già evidenziate in un precedente esperimento condotto al Brookhaven National Laboratory, vicino New York, e conclusosi nel 2001.

La presente misura di Muon g-2 raggiunge una significatività statistica di 3.3 sigma, o deviazioni standard, e la sua combinazione con il risultato dell’esperimento predecessore porta la significatività della discrepanza a 4,2 sigma, poco meno delle 5 sigma considerate la soglia per poter annunciare una scoperta. Questo risultato fondamentale rappresenta un importante ed entusiasmante indizio della possibile presenza di forze o particelle ancora sconosciute, questione che da decenni alimenta discussioni tra i ricercatori.

“La misura di altissima precisione che abbiamo ottenuto con il nostro esperimento era da lungo tempo attesa da tutta la comunità internazionale della fisica delle particelle. In attesa dei risultati delle analisi sui vari set di dati acquisiti recentemente dall’esperimento e su quelli che verranno raccolti nel prossimo futuro, ci offre già un possibile spiraglio verso una nuova fisica”, afferma Graziano Venanzoni co-portavoce dell’esperimento Muon g-2 e ricercatore della Sezione INFN di Pisa. “L’INFN può ritenersi orgoglioso di questa impresa, avendo svolto un ruolo determinate in tutto l’esperimento. Un successo in buona parte merito dei giovani ricercatori i quali, con il loro talento, idee ed entusiasmo, hanno consentito di ottenere questo primo importante risultato”.

I muoni, che sono generati naturalmente nell’interazione dei raggi cosmici con l’atmosfera terrestre, possono essere prodotti in gran numero dall’acceleratore del Fermilab e iniettati all’interno dell’anello di accumulazione magnetico di Muon g-2, del diametro di 15 metri, dove vengono fatti circolare migliaia di volte con velocità prossima a quella della luce. Come gli elettroni, anche i muoni sono dotati di spin e possiedono un momento magnetico, ovvero producono un campo magnetico del tutto analogo a quello di un ago di bussola. All’interno dell’anello di Muon g-2, il momento magnetico dei muoni acquista un moto di precessione attorno alla direzione del campo magnetico, analogo a quello di una trottola in rotazione. L’esperimento misura con altissima precisione la frequenza di questo moto di precessione dei muoni. Il Modello Standard prevede che per ogni particella il valore del momento magnetico sia proporzionale a un certo numero, detto ‘fattore giromagnetico g’, e che il suo valore sia leggermente diverso da 2, da qui il nome ‘g-2’ o ‘anomalia giromagnetica’ dato a questo tipo di misura. Il risultato di Muon g-2 evidenzia una differenza tra il valore misurato di ‘g-2’ per i muoni e quello previsto dal Modello Standard, la cui previsione si basa sul calcolo delle interazioni dei muoni con particelle “virtuali” che si formano e si annichilano continuamente nel vuoto che li circonda. La discrepanza tra il risultato sperimentale e il calcolo teorico potrebbe quindi essere dovuta a particelle e interazioni sconosciute di cui il Modello Standard non tiene conto. Con il risultato presentato oggi, ottenuto grazie al primo set di dati raccolti da Muon g-2 (Run 1), l’esperimento ha quindi compiuto un importante passo verso la conferma dell’esistenza di fenomeni di nuova fisica.

Per misurare con precisione il fattore giromagnetico del muone c’è bisogno di acquisire dati altrettanto precisi sulla precessione dello spin di questa particella. Il muone decade molto rapidamente producendo un neutrino, un antineutrino e un elettrone, che viene emesso preferibilmente lungo la direzione dello spin del muone. L’esperimento Muon g-2, utilizzando i 24 calorimetri di cui è dotato, misura energia e tempo di arrivo degli elettroni di decadimento e da questi dati estrae la frequenza di precessione dello spin. “La misura di precisione richiede una sofisticata, continua calibrazione dei calorimetri, ovvero l’iniezione di brevi impulsi laser che ne garantiscano la stabilità della risposta, fino a 1 parte su 10.000”, spiega Michele Iacovacci, ricercatore della collaborazione Muon g-2 e della Sezione INFN di Napoli.

Realizzato in Italia, in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Ottica del CNR, e finanziato dall’INFN, l’innovativo sistema di calibrazione laser ha rappresentato un notevole passo in avanti rispetto a quelli precedentemente in uso ed è stato uno degli ingredienti fondamentali per ottenere il risultato oggi pubblicato su Physical Review Letter.

Oltre allo sviluppo e alla realizzazione di questo sistema l’INFN, tra i fondatori della collaborazione, ha svolto e continua a svolgere un ruolo centrale all’interno dell’esperimento Muon g-2, composta da 200 scienziati provenienti da 35 istituzioni di 7 diversi paesi.

“Possiamo essere fieri del contributo che l’INFN ha saputo offrire a questa importante scoperta, sia nella fase di ideazione e costruzione dell’apparato, che ha visto attive le strutture dell’INFN di Napoli, Pisa, Roma Tor Vergata, Trieste, Udine, e dei Laboratori Nazionali di Frascati, sia in quella successiva di analisi, con contributi originali da parte di validissimi giovani ricercatori”, afferma Marco Incagli, della sezione INFN di Pisa, responsabile nazionale di Muon g-2.

 

Approfondimenti:

Precisamente anomalo
La misura del momento magnetico del muone
di Luca Trentadue
in Asimmetrie 23 Muone

Una vita da mediano
Storia della più elegante, eclettica e robusta tra le particelle
di Filippo Ceradini
in Asimmetrie 23 Muone

Un mare di antimateria
L’equazione di Dirac, dalla meccanica quantistica al modello standard
di Graziano Venanzoni
in Asimmetrie 19 Equazioni

 

Comunicato Stampa dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare

Tra i risultati presentati all’ultima conferenza ICHEP (40th ICHEP conference), spicca l’annuncio di due esperimenti del CERN, ATLASCMS di nuove misure che mostrano il decadimento del bosone di Higgs in due muoni. Il muone è una copia più  pesante dell’elettrone, una delle particelle elementari che costituiscono la materia dell’Universo. Gli elettroni sono classificati come particelle di prima generazione mentre i muoni appartengono alla seconda generazione.

decadimento bosone di Higgs CERN CMS ATLAS Roberto Carlin
Il decadimento del bosone di Higgs in due muoni, così come registrato dai due esperimenti CERN, CMS (a sinistra) e ATLAS (destra). Immagine: CERN

Il processo di decadimento del bosone di Higgs in muoni, secondo la teoria del Modello Standard, è molto raro (un bosone di Higgs su 5000 decade in muoni). Questi risultati sono molto importanti dal momento che indicano per la prima volta che il bosone di Higgs interagisce con particelle elementari della seconda generazione.

Abbiamo intervistato Roberto Carlin, ricercatore dell’INFN e professore dell’Università di Padova che attualmente è il portavoce dell’esperimento CMS (Compact Muon Solenoid) e gli abbiamo posto alcune domande su questo annuncio e sul prossimo futuro dell’esperimento CMS.

 

Un decadimento molto raro del bosone di Higgs al CERN

Recentemente la collaborazione CMS ha annunciato i rilevamenti di un decadimento molto raro del bosone di H –> mumu. Per quale motivo è così importante questa misura?

La materia di cui siamo fatti è formata da elettroni e quark di tipo “up” e “down”, i costituenti dei protoni e dei neutroni. Queste sono le particelle della cosiddetta “prima generazione”. Esistono particelle con massa più grande che compaiono nelle interazioni ad alte energie, e sono instabili, decadendo alla fine nelle particelle più leggere: il muone appunto, una specie di elettrone duecento volte più pesante, che con i quark “strange” e “charm” costituiscono la seconda generazione.

Ne esiste una terza, ancora più pesante, con il tau ed i due quark bottom e top. Sappiamo che è così ma non sappiamo perché. Non sappiamo perché ci siano tre famiglie e perché abbiano masse così diverse. Il quark top, la particella più pesante che conosciamo, ha una massa poco più di 170 volte quella di un atomo di idrogeno e circa 350 mila volte quella di un elettrone.

Però sappiamo che nel Modello Standard, l’attuale teoria che descrive le particelle elementari e le loro interazioni, la massa delle particelle è generata dalla loro interazione con il campo di Higgs. Quindi studiare l’accoppiamento delle particelle con il bosone di Higgs significa studiare il meccanismo che fornisce loro la massa, e potrebbe gettare luce sulle ragioni di tanta diversità.

Dalla terza generazione alla seconda

Finora, dopo la scoperta del bosone di Higgs che data al 2012, si sono studiati i suoi accoppiamenti con le particelle pesanti, di terza generazione: tau, top, bottom (oltre che quelli con i bosoni vettori più pesanti, W e Z, particelle che mediano la forza elettro-debole). E il motivo è chiaro, più pesante la particella, più grande è l’accoppiamento con il bosone di Higgs, e quindi più facile misurarlo. Con questa nuova misura per la prima volta abbiamo avuto indicazioni sull’accoppiamento con i muoni, particelle della seconda generazione, più leggere, ottenendo risultati in accordo, entro le incertezze sperimentali, con le previsioni del Modello Standard.

Una misura molto difficile, solo un bosone di Higgs su 5000 decade in una coppia di muoni, mentre più della metà delle volte decade in una coppia di quark bottom. Il risultato è molto importante e niente affatto scontato: a priori il meccanismo che fornisce massa alle particelle di diversa generazione potrebbe essere più complesso coinvolgendo, per esempio, diversi bosoni di Higgs.

Peter Ware Higgs, insignito del Nobel della Fisica nel 2013, predisse negli anni ’60 l’esistenza del bosone che oggi ne porta il nome. Oggi con l’esperimento CMS del CERN, si rileva un raro decadimento del bosone di Higgs in due muoni. Foto Flickr di Bengt Nyman, CC BY 2.0

Evidenza o Scoperta?

Nell’annuncio si sottolinea che la significatività è di “soli” 3 sigma. Ci potrebbe spiegare per quale motivo 3 sigma non sono sufficienti e quando si pensa di raggiungere la soglia dei 5 sigma?

Intanto direi “già” 3 sigma, non “soli”. Perché una misura di questa significatività non era attesa così presto, ci si aspettava di arrivarci utilizzando anche i dati del “Run 3”, previsto tra il 2022 ed il 2024. Invece la gran mole dei dati forniti negli anni passati da LHC, la grande efficienza e qualità della rivelazione e ricostruzione di muoni in CMS, e l’impiego di strumenti di deep learning, ovvero le tecniche sviluppate nel campo dell’intelligenza artificiale, hanno permesso questo eccellente risultato. Il problema di questa misura è che non solo il segnale è molto raro, abbiamo detto che solo un bosone di Higgs su 5000 decade in due muoni, ma anche che esistono processi diversi che possono imitare il segnale cercato (eventi di fondo), e questi sono migliaia di volte più frequenti del segnale.

Una significatività di 3 sigma viene chiamata “evidenza” e significa che, in assenza di segnale, fluttuazioni degli eventi di fondo potrebbero generare un contributo simile a quanto osservato (e quindi un falso segnale) una volta su 700. Una probabilità piccola ma non piccolissima. Lo standard che ci siamo dati per una “osservazione”, al di là di ogni ragionevole dubbio, è di 5 sigma, che rappresenta una probabilità di una volta su qualche milione.

Per arrivare ciò serviranno circa il triplo dei dati attualmente disponibili. Speriamo che il Run 3 ci darà tanto, contiamo almeno di raddoppiare i dati, anche se siamo abituati a risultati migliori dell’atteso. In ogni caso una combinazione dei risultati di ATLAS e CMS alla fine Run 3 dovrebbe permetterci di arrivare a questa nuova soglia.

Una conferma del Modello Standard

Ci sono stati casi di misure a 3 sigma che poi, con l’aumentare del campione di indagine, si sono rivelate semplici fluttuazioni statistiche?

Certamente. Abbiamo detto che con 3 sigma si parla di probabilità pari una volta su 700. Poiché in questi esperimenti facciamo molte misure diverse (CMS ha recentemente celebrato i 1000 articoli scientifici), simili fluttuazioni accadono. Nel caso una fluttuazione di 3 sigma punti a un fenomeno nuovo, inaspettato, siamo perciò molto cauti. Qui si tratta di una misura, molto importante, che conferma entro le incertezze sperimentali quanto previsto dal Modello standard, il risultato inaspettato sarebbe stato la mancanza del segnale, non la sua presenza.

Muon Collider

Se questa scoperta venisse confermata, avremmo una conferma sperimentale dell’accoppiamento del bosone H con leptoni della seconda famiglia. Questa potrebbe avere influenza per lo sviluppo di un acceleratore basato sullo scontro di muoni invece che elettroni?

Queste prime misure indicano che l’accoppiamento del bosone di Higgs con i muoni è compatibile con quello atteso. In questo caso, assumendo valido il Modello Standard, la probabilità di produrre direttamente (in modo risonante) bosoni di Higgs in un collisore di muoni sarebbe circa 40 mila volte maggiore di quella, troppo piccola, che si avrebbe in un collisore di elettroni, e questo renderebbe possibile misurare alcune quantità, come la massa del bosone di Higgs, con altissima precisione.

Aggiornamento del rivelatore CMS

L’acceleratore LHC (Large Hadron Collider) dovrebbe ripartire tra qualche mese, dopo un anno di riposo. Che miglioramenti sono stati apportati al rivelatore CMS in questo periodo?

Il numero di miglioramenti è molto grande. Tra questi, l’elettronica del rivelatore di vertice, il più preciso e vicino al punto di interazione, sta ricevendo vari aggiornamenti approfittando della necessità programmata di rimpiazzarne lo strato interno, il più soggetto a danneggiamenti da radiazioni. Anche l’elettronica del calorimetro per adroni è stata completamente sostituita, aumentandone significativamente le prestazioni.

Inoltre, abbiamo cominciato a installare rivelatori che sono previsti nel piano di aggiornamento per il futuro “High-Luminosity LHC”. In particolare due dischi di rivelatori di muoni basati sulla nuova tecnologia GEM (Gas Electron Multiplier). Avremo quindi un rivelatore ancora migliore, adatto a gestire in maniera ottimale l’alta intensità di collisioni tra protoni che LHC si prepara a fornire (anche lo stesso LHC ha significativi aggiornamenti in questo periodo).

L’impatto del COVID-19

L’emergenza COVID-19 ha costretto università ed enti di ricerca a nuove forme di lavoro a distanza. Vi sono state conseguenze, come ritardi nella programmazione della ripartenza di LHC o negli aggiornamenti al rivelatore?

CMS è una grande collaborazione internazionale, con istituti da 55 paesi di tutto il mondo, e siamo quindi già abituati a lavorare in rete. Praticamente tutti i nostri meeting sono da anni in videoconferenza per facilitare l’accesso remoto. Quindi la transizione a una modalità di telelavoro per alcune  attività, in particolare l’analisi dei dati, è stata forse più facile che in altri contesti. Anche se con difficoltà innegabili, per esempio per persone che hanno dovuto gestire figli a casa. Naturalmente altre attività di aggiornamento dei rivelatori, previste in questo periodo, hanno subito dei ritardi a causa della chiusura del CERN.

Alla fine del lockdown il management degli esperimenti, degli acceleratori e del CERN si è riunito e abbiamo deciso un nuovo programma, che vede la ripresa di LHC ad inizio 2022 invece che a metà 2021. Siamo tuttavia riusciti a ottimizzare i periodi seguenti cosicché la quantità di dati prevista nel prossimo periodo prima della nuova chiusura nel 2025, prevista per installare il grande aggiornamento di “high lumi LHC”, non ne risentirà e ci consentirà di continuare il nostro vastissimo programma di studi, ottenendo sicuramente nuovi importanti risultati.

 

L’esperimento NA62, installato nei laboratori del CERN di Ginevra, ha annunciato un importante risultato ottenuto dalla analisi dei dati raccolti fra il 2016 e il 2018, il ruolo degli scienziati perugini 

 

 

esperimento NA62
L’esperimento NA62 installato presso il CERN (immagine proveniente dalla pagina web: https://na62.web.cern.ch/Home/Home.html)

Nel tardo pomeriggio del 28 luglio 2020, in occasione della quarantesima edizione della International Conference on High Energy Physics (ICHEP), l’esperimento NA62, installato presso i laboratori del CERN di Ginevra, ha annunciato un importante risultato ottenuto dalla analisi dei dati raccolti fra il 2016 e il 2018. 

 L’esperimento NA62 è stato costruito con lo scopo di osservare il decadimento ultra-raro di un kaone carico in un pione carico e una coppia neutrino-antineutrino (K+ → p+ nn), e di misurare la probabilità che esso avvenga dato un generico decadimento del kaone carico. 

La teoria che descrive le interazioni fra particelle elementari, il cosiddetto Modello Standard, prevede che questo decadimento avvenga circa una volta ogni dieci miliardi di decadimenti del kaone carico. La misura della probabilità di decadimento da parte di NA62 può quindi fornire un test di precisione per il Modello Standard, con la possibilità di evidenziare effetti di Nuova Fisica, qualora il risultato della misura sia significativamente diverso dalla predizione teorica. 

L’esperimento NA62 ha annunciato di aver osservato, nei dati raccolti nel 2018, diciassette eventi compatibili con il decadimento cercato, che si aggiungono ai due eventi osservati nei dati 2017 e ad un evento osservato nei dati 2016. Ciò rappresenta la più alta statistica mai raccolta per l’osservazione di questo decadimento, che ha consentito all’esperimento NA62 di poter effettuare la misura più precisa mai realizzata per questa probabilità di decadimento, che risulta essere compatibile con quanto predetto dalla teoria, entro le incertezze sperimentali. 

L’esperimento continuerà a raccogliere dati a partire dal 2021, al fine di migliorare ulteriormente la precisione della misura. 

Alla Collaborazione NA62, che conta circa duecento ricercatori da tutto il mondo, partecipa anche un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Fisica e Geologia dell’Università degli Studi di Perugia (referente: Prof.ssa Giuseppina Anzivino) e della sezione di Perugia dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (referente: Dott.ssa Monica Pepe). 

Il gruppo ha contribuito in maniera fondamentale a tale risultato, attraverso la partecipazione alla costruzione e al mantenimento di uno dei rivelatori chiave dell’esperimento, il RICH, e rivestendo un ruolo da protagonista nell’analisi dei dati che ha portato all’osservazione degli eventi, con due tesi di dottorato sul tema.

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Perugia

Record mondiale di luminosità all’acceleratore di particelle SuperKEKB in Giappone, il ruolo degli scienziati perugini

Luminosità istantanea fornita dall’acceleratore SuperKEKB al rilevatore Belle II in funzione del tempo

Alle 13.34 del 15 Giugno 2020 ora italiana, l’acceleratore SuperKEKB, nel laboratorio KEK a Tsukuba in Giappone, ha stabilito un nuovo record mondiale, raggiungendo la luminosità istantanea di 2.22×1034 cm-2 s -1 . Il precedente record di luminosità era detenuto dal Large Hadron Collider (LHC) del CERN di Ginevra con 2.14×1034 cm-2 s -1 .

La luminosità di un acceleratore esprime la capacità dell’apparato di produrre collisioni tra particelle e pertanto rappresenta uno dei principali elementi per ottenere nuove scoperte nel campo della fisica. In SuperKEKB avvengono collisioni tra elettroni e positroni ad un’energia prossima alla massa della risonanza Y(4S) (10.58 GeV) dove è copiosa la produzione di mesoni B, D e di leptoni t.

L’esperimento Belle II ha come obbiettivo principale la ricerca di effetti di nuova fisica, al di là del Modello Standard, nella produzione e nel decadimento di tale particelle.

Belle II è il risultato di una collaborazione internazionale di circa 1.000 fisici e ingegneri provenienti da 115 università e laboratori di 26 Paesi. L’Italia partecipa attraverso l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e le Università collegate, tra cui la Sezione di Perugia INFN e l’Ateneo perugino.

Claudia Cecchi, Maurizio Biasini, Elisa Manoni

Il gruppo perugino dell’esperimento Belle II, guidato dalla Professoressa Claudia Cecchi del Dipartimento di Fisica e Geologia dell’Università degli Studi di Perugia, contribuisce attivamente alla presa dati dell’esperimento, al mantenimento di una parte del rivelatore in particolare del Calorimetro Elettromagnetico (ECL) per la misura dell’energia di fotoni ed elettroni e ricopre ruoli di responsabilità nell’analisi dei dati per la ricerca di decadimenti rari che potrebbero dare informazioni fondamentali sulla ricerca di Nuova Fisica oltre il modello Standard. Il gruppo si avvale inoltre della collaborazione del Professor Maurizio Biasini, docente dello stesso Dipartimento, e della Dottoressa Elisa Manoni, ricercatrice della Sezione di Perugia dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare.

Sebbene il Modello Standard descriva correttamente il comportamento delle particelle sub-atomiche note, numerose teorie predicono nuove particelle e ci sono osservazioni di natura astrofisica che suggeriscono l’esistenza di materia ed energia oscure. Inoltre è tutt’ora aperta la questione di quale sia l’origine dell’asimmetria materia-antimateria dell’universo. Nuove particelle, con massa molto grande, possono essere prodotte direttamente se si dispone di energia sufficiente, oppure possono essere osservate indirettamente attraverso gli effetti quantistici con cui modificano i processi di produzione e decadimento delle particelle già note e questo secondo approccio è quello seguito dal collisore SuperKEKB e dall’esperimento Belle II. Questi effetti quantistici sono tanto più rari quanto è maggiore la massa della nuova particella che li genera ed è quindi necessaria una grande quantità di dati per osservarli, per cui la luminosità fornita dal collisore è un fattore cruciale in questa ricerca. L’esperimento Belle II, in circa 10 anni di presa dati, accumulerà una luminosità integrata 50 volte maggiore (corrispondente alla produzione di 50 miliardi di coppie di mesoni B) rispetto ai suoi predecessori Belle e Babar. I dati raccolti fino ad ora hanno già permesso di porre un limite interessante nell’ambito della ricerca della materia oscura e sono stati pubblicati.

Per raggiungere l’alta luminosità necessaria, SuperKEKB adotta l’innovativo schema a nano-beam secondo il quale si fanno collidere fasci di elettroni e positroni organizzati in pacchetti lunghi ed estremamente sottili che si scontrano con un angolo d’incrocio relativamente grande. Questo record di luminosità è stato ottenuto integrando lo schema a nano-beam con il crab-waist, una tecnica quest’ultima che consente di contenere la distribuzione nello spazio delle fasi delle particelle nei fasci interagenti e di stabilizzare le collisioni.

È doveroso ricordare che lo schema a nano-beam ed il crab-waist sono stati concepiti e realizzati grazie ad un lavoro pioneristico del gruppo di fisica degli acceleratori dei Laboratori Nazionali di Frascati guidati dal fisico italiano Pantaleo Raimondi, anche nel contesto del progetto, poi non realizzato, dell’acceleratore SuperB.

 

Perugia, 26 giugno 2020

 

 

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Perugia