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PASSI IN AVANTI NELLA VALUTAZIONE DEL POTENZIALE TERAPEUTICO DELLA STIMOLAZIONE MAGNETICA TRANSCRANICA (TMS): IDENTIFICATA UNA NUOVA REGIONE CEREBRALE COINVOLTA NELL’INIBIZIONE DELLE REAZIONI DI PAURA E DI ANSIA

In un recente studio ricercatori e ricercatrici dell’Università di Torino hanno fatto un passo avanti nell’impiego della Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS) per modulare le risposte di paura e ansia. Questa scoperta apre nuove strade nel trattamento di disturbi legati all’ansia e alla risposta allo stress, evidenziando il potenziale della TMS come strumento terapeutico innovativo e efficace.

Una nuova ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica eLife ha testato con successo una procedura di neurostimolazione per disinnescare le reazioni corporee di allarme associate alla memoria traumatica. La sperimentazione è stata condotta dal ricercatore Eugenio Manassero insieme al team di ricerca coordinato dal Prof. Benedetto Sacchetti del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Torino e dalla Prof.ssa Raffaella Ricci del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Torino.

In seguito a un’esperienza traumatica, nel cervello si forma un ricordo dell’evento che racchiude due principali componenti: la rappresentazione consapevole di ciò che è accaduto e la valenza emotiva associata all’episodio. Quest’ultima si manifesta attraverso modificazioni delle risposte corporee (come l’aumento del battito cardiaco e della sudorazione). Queste modificazioni degli stati corporei sono percepite come spiacevoli dalla persona, provocando sentimenti di paura o di panico, e possono talvolta evolversi in veri e propri sintomi di patologie, quali il disturbo post-traumatico o il disturbo d’ansia.

I ricercatori e le ricercatrici hanno applicato una sessione di Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS) focalizzata sulla corteccia prefrontale anteriore (aPFC) una settimana dopo che i partecipanti allo studio avevano appreso la valenza avversiva di uno stimolo. La tecnica di TMS è una tecnica di stimolazione cerebrale in grado di modulare l’attività di specifiche aree del cervello in maniera non dolorosa e non invasiva. In questo studio, per la prima volta, la TMS è stata applicata alla parte mediale della corteccia prefrontale anteriore (aPFC), un’area presente quasi esclusivamente nella specie umana e nei primati non-umani. Quando, dopo la neurostimolazione, veniva ripresentato ai partecipanti lo stimolo minaccioso, il gruppo stimolato nella aPFC mostrava risposte corporee di allarme nettamente inferiori rispetto al gruppo di controllo sottoposto ad una stimolazione placebo. Sorprendentemente, l’attenuazione delle risposte emotive persisteva in modo duraturo anche nel lungo termine, senza più dover ricorrere alla neurostimolazione. Questo effetto di attenuazione si verificava nonostante il ricordo consapevole degli stimoli minacciosi non venisse in alcun modo danneggiato. Infine, un confronto tra i risultati ottenuti stimolando la aPFC e quelli derivanti dalla stimolazione della corteccia prefrontale dorsolaterale, una regione studiata precedentemente, ha rivelato che la aPFC appare essere un candidato decisamente più promettente per regolare le iper-reazioni di allarme verso stimoli minacciosi.

“Questa ricerca – spiega Eugenio Manassero – riveste un’importanza significativa dal punto di vista clinico, poiché mette in luce un nuovo strumento che potrebbe in futuro affiancarsi in modo complementare e sinergico ad altre strategie terapeutiche per aiutare tutte le persone che hanno vissuto esperienze traumatiche o che soffrono di un disturbo d’ansia. Tenendo conto di quanto sia fondamentale migliorare la qualità dei trattamenti in un’ottica di promozione della salute e del benessere della collettività, questa ricerca potrebbe aprire una nuova frontiera in questa direzione”.

Simulazione degli effetti della TMS sul tessuto neurale della corteccia prefrontale anteriore
Simulazione degli effetti della Stimolazione Magnetica Transcranica – TMS sul tessuto neurale della corteccia prefrontale anteriore: un nuovo studio indica il potenziale terapeutico dello strumento per ansia e stress

Riferimenti bibliografici:

Eugenio Manassero, Giulia Concina, Maria Clarissa Chantal Caraig, Pietro Sarasso, Adriana Salatino, Raffaella Ricci, Benedetto Sacchetti, Medial anterior prefrontal cortex stimulation downregulates implicit reactions to threats and prevents the return of fear, eLife (2024) 13:e85951, DOI: https://doi.org/10.7554/eLife.85951

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

DISTURBI DELLA MEMORIA: IDENTIFICATO IL PROCESSO CON IL CUI IL CERVELLO DISTINGUE E CONSERVA EVENTI SIMILI; I NEURONI INIBITORI NELL’AMIGDALA AIUTEREBBERO A MANTENERE DISTINTI I RICORDI DI EVENTI SIMILI

Una ricerca condotta da un team di ricerca del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Torino potrebbe fornire informazioni utili per sviluppare nuove strategie terapeutiche per i disturbi della memoria.

Formare ricordi di eventi simili costituisce una vera e propria sfida per il nostro cervello. È essenziale che ogni evento venga memorizzato in maniera separata per preservarne la specificità. Tuttavia, è altrettanto importante riconoscere e ricordare gli aspetti comuni tra gli eventi. Se questo delicato processo viene compromesso, le persone rischiano di confondere un evento con un altro, perdendo così la chiarezza e la specificità dei propri ricordi.

Un nuovo studio pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Cell Reports ha identificato un intricato processo cerebrale che consente di distinguere e memorizzare eventi simili in maniera separatamantenendo al contempo le somiglianze tra di essi. La ricerca è stata condotta principalmente dalle ricercatrici Giulia ConcinaLuisella Milano e Annamaria Renna coordinate dal Prof. Benedetto Sacchetti del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Torino.

I ricercatori hanno studiato l’attività cerebrale durante l’apprendimento di due eventi distinti ma con elementi in comune, scoprendo che nell’amigdala, una regione cerebrale chiave per la formazione dei ricordi, gruppi separati di neuroni si attivano per memorizzare separatamente eventi distinti. Tuttavia, alcuni neuroni rispondono a entrambi gli eventi, aiutando a ricordarne le somiglianze. Il numero di questi neuroni comuni è regolato da un particolare tipo di cellule chiamate neuroni inibitori. Bloccando queste cellule, i ricercatori hanno notato come il numero di neuroni comuni aumentasse notevolmente causando la confusione e sovrapposizione dei due eventi. Secondo i ricercatori, in conclusione, i neuroni inibitori contribuiscono quindi a mantenere distinti i ricordi di eventi simili.

La ricerca è stata condotta adottando un approccio multidisciplinare che ha integrato metodologie di analisi comportamentale, biologia molecolare, microscopia ad alta risoluzione e modulazione dell’attività cerebrale. In particolare, grazie all’utilizzo della tecnica innovativa della “marcatura chemogenetica”, i ricercatori hanno potuto visualizzare i neuroni coinvolti nella percezione sia degli aspetti distintivi di due eventi, sia delle loro caratteristiche comuni. Questa analisi ha permesso anche di individuare le cellule in grado di limitare il numero di neuroni condivisi, ovvero i neuroni inibitori. Infine, combinando le tecniche di marcatura chemogenetica e di inattivazione dell’attività neuronale, i ricercatori hanno selettivamente bloccato queste cellule, notando che ciò portava i soggetti a confondere gli eventi tra di loro.

“Questa ricerca – spiega il Prof. Benedetto Sacchetti – riveste un’importanza significativa poiché mette in luce l’esistenza di neuroni il cui ruolo è quello di mantenere separate le memorie di eventi distinti ma con aspetti in comune, consentendo così di conservare i ricordi di tali eventi in modo preciso e nitido. Considerando che una delle caratteristiche tipiche dei disturbi della memoria, come le demenze e il disturbo post-traumatico da stress, è la tendenza a confondere gli eventi passati, questa ricerca potrebbe fornire nuove informazioni utili per sviluppare nuove strategie terapeutiche.”

memoria amigdala processo
Immagine di Bernstein0275, CC BY-SA 4.0

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

IL CODICE DELLA MEMORIA: L’ERC CONSOLIDATOR GRANT AL PROGETTO DI RICERCAA ATCOM
Il neuroscienziato Roberto Bottini si è aggiudicato il finanziamento dell’European Research Council. Studierà il linguaggio della mente attraverso i movimenti oculari. La ricerca potrà aiutare la diagnosi precoce delle malattie neurodegenerative.

Trento, 23 novembre 2023 – Gli occhi sono lo specchio della mente? Parte da questa domanda il progetto di ricerca di Roberto Bottini, docente al Centro interdipartimentale Mente/Cervello – Cimec, che ha appena ricevuto il finanziamento dell’European Research Council. Il riconoscimento viene assegnato attraverso una selezione su base competitiva, in cui l’unico criterio di valutazione è l’eccellenza scientifica del progetto e il curriculum di chi lo propone. Questa volta, sul bando 2023 della categoria ERC Consolidator Grant destinata a ricercatori e ricercatrici con esperienza tra i sette e i dodici anni dal conseguimento del dottorato di ricerca e con un curriculum scientifico promettente, il tasso di successo è stato del 14,5%. Su 2.130 candidati, il Consiglio europeo della ricerca ne ha selezionati 308, per un totale di 627 milioni di euro. I finanziamenti rientrano nel programma Horizon Europe.
I progetti che si svolgeranno in un ateneo italiano sono 15. Con quello di oggi, l’Ateneo di Trento raggiunge quota 41 riconoscimenti complessivi in tutti gli ultimi programmi europei (Horizon Europe, Horizon 2020, Settimo programma quadro).
Per Roberto Bottini, neuroscienziato cognitivo, è il secondo premio europeo. Il primo nel 2019, l’Erc Starting Grant, per ricercatori con alle spalle dai due ai sette anni di esperienza maturata dopo il conseguimento del dottorato di ricerca.

Il progetto vincitore
Il titolo della ricerca è “Atcom – An attentional code for memory”. L’obiettivo è capire come funziona la memoria umana, qual è il meccanismo da cui nascono i ricordi e le connessioni tra le nozioni acquisite, partendo dai movimenti oculari delle persone. Trovare una sorta di codice attenzionale alla base delle strutture mnemoniche, un po’ come il DNA per le proteine o il codice morse per il linguaggio.
Lo studio, che ha ottenuto un finanziamento di due milioni di euro, si svolgerà utilizzando metodi e tecnologie innovative.

«I movimenti oculari sono un indicatore per l’attenzione. Stanno diventando sempre di più uno strumento diagnostico importante. Quello che vogliamo fare è leggere la mente e riuscire a capire a cosa le persone stanno pensando seguendo questi movimenti con un tracciatore a infrarossi, un eye tracker», spiega Bottini.
«In questo senso gli occhi sono un po’ lo specchio della mente. Riflettono la struttura dei pensieri, ciò che lega diversi concetti e idee. Questo è quello che intendo quando parlo di codice della memoria. Noi sappiamo che Parigi è la capitale della Francia, oppure associamo un certo piatto ad una vacanza. I ricordi possono essere collegati tra di loro in modo diverso. Può esserci un rapporto di causa-effetto, due cose possono essere simili tra di loro oppure opposte, o ancora c’è una relazione di parte con il tutto. Queste relazioni che mettono in contatto le nostre idee, i nostri concetti, sono lo scheletro del nostro pensiero, il tessuto che lega tutto quello che conosciamo. Capire come questo tessuto emerge a livello cerebrale è una sfida ancora aperta».
L’indagine prevede anche l’utilizzo di strumentazioni di brain-imaging per le neuroimmagini del cervello umano, dalla risonanza magnetica alla magnetoencefalografia. In alcuni studi saranno inoltre raccolti dati neurali grazie a dispositivi cerebrali impiantati temporaneamente in alcuni pazienti per motivi medici.
Scoprire e tradurre questo codice neurale può essere utile nella diagnosi precoce delle malattie neurodegenerative. Si tratta di comprendere il meccanismo di quella che viene chiamata relational memory, la capacità di ricordare associazioni tra oggetti, luoghi, persone o eventi. Quella che in pratica aiuta a ricordare la strada di casa o il compleanno di una persona cara. Questo tipo di memoria è il tessuto connettivo che per primo viene danneggiato in patologie come l’Alzheimer.
Infine studiare il codice neurale alla base della memoria e dell’apprendimento può servire a capire quanto l’intelligenza degli esseri umani sia simile e diversa rispetto alle moderne reti neurali artificiali.
Roberto Bottini
Roberto Bottini, vincitore dell’ERC Consolidator Grant per il progetto di ricerca Atcom – An attentional code for memory, per comprendere il codice della memoria

 

Testo e foto dall’Ufficio stampa e Relazioni esterne Direzione Comunicazione e Relazioni esterne dell’Università di Trento

Migliorare la memoria è una questione di allenamento ripetuto, ma nel tempo

Un nuovo studio firmato dalla Sapienza ha scoperto che il coinvolgimento di aree diverse del cervello nella memorizzazione, alla base del ricordo, è legato alla distribuzione nel tempo dell’apprendimento. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista PNAS.

migliorare la memoria allenamento
Migliorare la memoria è una questione di allenamento ripetuto, ma nel tempo. Foto di Dariusz Sankowski

L’apprendimento migliora se un’esperienza viene distribuita nel tempo piuttosto che essere concentrata in un’unica soluzione. Questo vale nello studio, ma anche nell’ambito della pubblicità e di tanti altri aspetti della vita quotidiana.

Un team di ricerca della Sapienza ha svelato per la prima volta che la maggiore efficienza di un apprendimento ripartito nel tempo dipende dal fatto che il cervello utilizza circuiti cerebrali diversi a seconda della modalità di apprendimento, indipendentemente da ciò che deve essere appreso. Inoltre, i ricercatori hanno dimostrato che la stimolazione artificiale dei circuiti responsabili dell’apprendimento distribuito nel tempo si traduce in un miglioramento della memoria.

In particolare lo studio, pubblicato sulla rivista PNAS, ha messo in evidenza, che lo striato, una struttura del cervello che si pensava coinvolta principalmente in funzioni motorie (ad esempio il Parkinson), ha un ruolo anche in funzioni cognitive complesse.

“Inoltre – spiega Andrea Mele, coordinatore dello studio – abbiamo visto che la sua stimolazione esogena durante l’apprendimento, migliora la durata della memoria nei topi”.

Lo studio è molto importante sia da un punto di vista teorico, perché include tra le aree del cervello responsabili del ricordo regioni cui prima erano attribuite altre funzioni, sia da un punto di vista traslazionale perché suggerisce la possibilità di migliorare la memoria attraverso una stimolazione artificiale del cervello, aprendo nuove prospettive nel trattamento di patologie neurodegenerative come l’Alzheimer.

Riferimenti:

The neural substrate of spatial memory stabilization depends on the distribution of the training sessions – Valentina Mastrorilli, Eleonora Centofante, Federica, Arianna Rinaldi and Andrea Mele – PNAS 2022 https://doi.org/10.1073/pnas.2120717119

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Secondo il World Alzheimer Report del 2016, le persone con demenza erano 47 milioni in tutto il mondo e, con l’invecchiamento della popolazione, la cifra è destinata ad aumentare fino ad oltre 131 milioni entro il 2050. La demenza è un disturbo caratterizzato da un declino significativo delle funzioni cognitive (memoria, linguaggio, orientamento spazio-temporale, ecc.) e questo interferisce con il funzionamento lavorativo, sociale e domestico della persona affetta (Gale, Acar & Daffner, 2018).

In una società come la nostra, in cui si è perennemente impegnati nei propri progetti e nel riuscire a portarli a termine, e quindi in attività che richiedono l’impiego di funzioni cognitive sofisticate, questo comporta una immediata svalutazione di chi riceve una tale diagnosi. Infatti, la persona con demenza viene oggettivata, ritenuta inferiore e i rapporti interpersonali dal tipo io-tu si trasformano in io-esso (Dewing, 2008). Inoltre, si crea un divario tra “noi”, i sani e i competenti e “loro”, i danneggiati (Kitwood & Bredin 1992). Dunque, sembra che l’Altro non venga più percepito come un soggetto con proprie emozioni, desideri e bisogni, bensì come un oggetto. 

È importante, allora, interrogarsi su quale sia lo stato che può propriamente essere definito “essere una persona”. Nel far ciò, Kitwood (1992) sostiene che l’essere persona (personhood) abbia una natura sociale, è una condizione, uno status che viene conferito dagli altri e pertanto nasce nella relazione con l’Altro. Infatti, il percorso che permette al bambino di acquisire alcuni attributi dell’essere umano ha una natura sociale, il neonato ha bisogno di una figura che si prenda cura di lui. In particolare, il bambino impara a relazionarsi con gli altri, con le varie situazioni e ad avere una certa visione di se stesso, grazie ai legami significativi che gli forniscono sicurezza e supporto. La personhood non è una proprietà individuale, per il suo sviluppo sono necessari gli altri. 

Se si considera la persona nella sua interezza e se ci si concentra sulla natura relazionale della personhood e non soltanto sull’aspetto cognitivo, la persona con demenza non ha perso i suoi attributi essenziali dell’essere umano e ha ancora dei bisogni e delle emozioni. Di conseguenza, anche il modo in cui ci si relaziona può avere un impatto negativo che mina i bisogni della persona con demenza, o positivo che ne sostiene il benessere. 

 

Cinque bisogni psicologici

Kitwood (1997) individua cinque bisogni dell’essere umano che risultano essenziali in una persona con demenza e questi sono tenuti insieme da un unico centro che è l’amore (figura).

demenza persone fiore bisogni okrae Alessia Colafrancesco Tom Kitwood
Il fiore dei bisogni, rivisitazione del fiore di Kitwood (1997), a cura di @okrae_ – Alessia Colafrancesco

Come mostrato in figura, i bisogni sono: il conforto, l’attaccamento, l’inclusione, l’occupazione e l’identità.
Il conforto corrisponde alla tenerezza, al calore, ciò che può lenire l’ansia e la paura.
Riguardo al secondo bisogno, l’uomo ha necessità di avere legami di attaccamento, soprattutto in condizioni di fragilità come nella demenza. Kitwood spiega come il pioniere degli studi in questo campo, ovvero Bowlby, sostenga che i legami di attaccamento che si creano tra il bambino e chi si prende cura di lui, formano una rete di sicurezza che garantisce il benessere dell’individuo. Come nell’infanzia in cui predomina l’incertezza, anche nella demenza l’incertezza e l’ansia diventano predominanti ed è di fondamentale importanza avere dei legami significativi.

Il terzo bisogno riguarda l’inclusione, ovvero il sentirsi parte di un gruppo. Purtroppo, le persone con demenza si trovano spesso isolate, non hanno un gruppo a cui appartenere e, talvolta, perdono anche i loro familiari. Come conseguenza la persona potrebbe regredire. Invece, se il bisogno venisse soddisfatto, ciò potrebbe portare un miglioramento delle condizioni della persona (Kitwood, 1997).
L’occupazione consiste nel sentirsi impegnati in qualcosa, nell’avere un progetto e portarlo a termine. Questo fa sentire l’essere umano competente e utile. Nella demenza, anche se le funzioni cognitive vengono meno, il bisogno di occupazione persiste. Infine, vi è l’identità, il sapere chi si è e avere un senso di continuità con il passato. Essa dipende anche dagli altri e dalla loro percezione che hanno su di noi. Pertanto, in una condizione in cui varie fonti dell’identità vengono perse, è ancora più importante il ruolo che hanno gli altri nel conferire un’identità alla persona con demenza.

Personal Enhancer e Personal Detraction

demenza
Foto di Gerd Altmann

Nel Dementia Care Mapping, strumento di osservazione e di valutazione per la demenza, vengono mostrati i comportamenti che potrebbero soddisfare questi bisogni (Personal Enhancer) e quelli che li potrebbero minare (Personal Detraction) (Brooker & Surr, 2006).
Come sostengono gli autori, il conforto può essere soddisfatto stando vicino alla persona con demenza con calore e assecondando i suoi ritmi; può essere minato attraverso l’intimidazione, il rifiuto e non assecondando i ritmi. Riguardo all’attaccamento, è importante essere autentici e riconoscere le emozioni e i comportamenti dell’altro senza accusare o mentire. Invece, un esempio per soddisfare il bisogno di inclusione è il ridere con e non il ridere di. Inoltre, fra i comportamenti negativi vi sono la stigmatizzazione e l’ignorare. Collaborare e facilitare la persona con demenza senza imposizioni e senza sostituirsi potrebbe aiutarla ad appagare il bisogno di sentirsi occupato. Infine, per favorire il benessere dell’individuo e sostenere la sua identità, bisognerebbe avere un atteggiamento di rispetto, accettazione e celebrazione. Diversamente, con il disprezzo e relazionandosi come se l’Altro fosse un bambino, si potrebbe ottenere l’effetto contrario.

Cambiare prospettiva

Foto di silviarita

È difficile poter comprendere del tutto il punto di vista di una persona con demenza, dato che nessuno è mai tornato indietro da questa esperienza per poterla raccontare ma, come sostiene Kitwood (1997), ci sono dei modi per provare a farlo. Degli esempi potrebbero essere la lettura di scritti di persone con demenza in fasi non gravi; ascoltare le esperienze di coloro che hanno avuto vissuti simili, come succede nella depressione e nelle meningiti; oppure attraverso l’immaginazione poetica, ovvero utilizzando storie di fantasia scritte con un linguaggio poetico. Infatti, come sostiene l’autore, il linguaggio poetico, essendo meno lineare e più condensato rispetto al linguaggio abituale, risulta essere un mezzo più potente per comunicare un vissuto.

Eccone un esempio:

“Qualche volta intravedi un volto familiare, ma, non appena ti avvicini, il viso svanisce o si trasforma in un demone. Ti senti disperatamente perso, solo, sconcertato, spaventato. […] Ma la cosa peggiore è che tu sai che non è sempre stato così. Dietro la nebbia e l’oscurità c’è un vago ricordo del buon tempo in cui sapevi dov’eri e chi eri, quando ti sentivi vicino agli altri, e quando eri in grado di portare a termine i compiti quotidiani con abilità e grazia.” (T. Kitwood, 1997, p. 17)

Kitwood mostra come la persona con demenza possa provare diverse emozioni e sentimenti, come il sentirsi soli e spaventati. Altri esempi potrebbero essere la paura dell’abbandono e dell’umiliazione, ansia, frustrazione, senso di inutilità, rabbia, confusione, terrore, disperazione e depressione. Si può passare da uno stato all’altro senza un percorso lineare e alcuni di essi possono presentarsi simultaneamente con diversa intensità. Nel suo lavoro, Kitwood (p. 20-21) riporta anche un racconto di fantasia in cui una donna con demenza grave e in assistenza residenziale viene presa in carico con un approccio che segue il suo modello centrato sulla persona, attento ai cinque bisogni. 

Sei in un giardino, all’inizio di una giornata estiva. L’aria è calda e dolce e trasporta un dolce profumo di fiori e una leggera nebbia aleggia intorno. Non riesci a distinguere la forma di tutto, ma sei consapevole di alcuni bei colori, blu, arancione, rosa e viola; l’erba è verde come lo smeraldo. Non sai dove ti trovi, ma non importa. In qualche modo ti senti “a casa” e c’è un senso di armonia e pace. Mentre cammini, diventi consapevole delle altre persone. Molti di loro sembrano conoscerti; è una gioia essere accolti così calorosamente e per nome. Ce ne sono uno o due che ritieni di conoscere bene. […] La fiamma della vita ora brucia luminosa e allegramente dentro di te. Non è sempre stato così. Da qualche parte, nel profondo, ci sono vaghi ricordi di tempi di solitudine opprimente e paura gelida. Quando è stato, non lo sai; forse era in un’altra vita. Ora c’è compagnia ogni volta che vuoi e tranquillità quando lo preferisci. Questo è il posto a cui appartieni, con queste persone meravigliose che sono come una specie di famiglia.”

Così Kitwood immagina l’esperienza di una donna accolta in maniera calorosa e secondo l’approccio suddetto. Questo mette in evidenza quanto possa essere benefico per una persona con demenza sentire riconosciuti e soddisfatti i propri bisogni. Un approccio che faccia sentire maggiormente supportati e meno soli, che potrebbe aprire un nuovo capitolo fatto di piaceri e gioia

 

 

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BIBLIOGRAFIA

Brooker, D. J., & Surr, C. (2006). Dementia Care Mapping (DCM): initial validation of DCM 8 in UK field trials. International journal of geriatric psychiatry, 21(11), 1018–1025.

Dewing, J. (2008). Personhood and dementia: revisiting Tom Kitwood’s ideas. International journal of older people nursing, 3(1), 3–13.

Kitwood, T., (1997). The experience of dementia. Aging and Mental Health, 1, 13-22.

Kitwood, T., & Bredin, K. (1992). Towards a Theory of Dementia Care: Personhood and Well-being. Ageing and Society, 12, 269-287.

Martin, P.,  Comas-Herrera, A., Knapp, M., Guerchet, M. & Karagiannidou, M. (2016). World Alzheimer report 2016: improving healthcare for people living with dementia: coverage, quality and costs now and in the future. Alzheimer’s Disease International

Ipermemoria: un ricordo per ogni giorno. Nel cervello di “chi non dimentica” svelato il meccanismo che ordina la memoria

Un nuovo studio italiano, pubblicato sulla rivista Cortex, rivela l’esistenza di un’area cerebrale che permette alle persone dotate di ipermemoria autobiografica di “datare” i ricordi

Foto di Alexas_Fotos 

Un nuovo studio interamente italiano e pubblicato sulla rivista Cortex ha rilevato cosa rende il cervello degli individui “ipermemori” capace di ricordare anche i più piccoli dettagli di ogni giorno della loro vita. Grazie all’analisi di questi individui sono state identificate le aree del cervello specificamente deputate a dare una dimensione temporale ai ricordi, organizzando quelle informazioni che nelle persone comuni restano memorie indistinte e sfocate.

La ricerca, condotta presso i laboratori della Fondazione Santa Lucia IRCCS di Roma, è stata coordinata dall’equipe composta dai ricercatori Patrizia Campolongo, Valerio Santangelo, Tiziana Pedale e Simone Macrì, e ha coinvolto la Sapienza Università di Roma, l’Istituto Superiore di Sanità e l’Università di Perugia.

Per realizzare lo studio è stato chiesto a 8 soggetti ipermemori, già protagonisti nel 2018 di un altro lavoro della stessa equipe di ricerca, di ricordare un evento molto lontano nel tempo, di circa 20 anni prima. L’attività neuronale di questi 8 soggetti è stata quindi rilevata in tempo reale attraverso la risonanza magnetica funzionale, una tecnica non invasiva che permette ai ricercatori di osservare il cervello in azione e identificarne le aree più attive durante il ricordo dell’evento passato. Al gruppo di ipermemori è stato affiancato un gruppo di controllo composto da 21 persone senza particolari abilità o deficit della memoria.

I ricercatori hanno poi utilizzato una tecnica molto innovativa, chiamata Multivoxel Pattern Analysis (MVPA) per verificare che la migliore rappresentazione neurale dei ricordi nelle persone ipermemori fosse associata al ruolo funzionale di specifiche aree del cervello.

“I risultati dell’indagine – spiegano gli autori – hanno mostrato che nel discriminare tra ricordi autobiografici vecchi e nuovi, per le persone con ipermemoria si rileva un’elevata specializzazione della porzione ventro-mediale della corteccia prefrontale del cervello, un’area che si ritiene sia deputata all’organizzazione delle funzioni cognitive superiori. Questa stessa regione del cervello sembra essere meno precisa nelle persone con una memoria normale, fino a farci “confondere” la dimensione temporale del ricordo, vecchio o nuovo”.

“La memoria autobiografica permette di rievocare esperienze relative a tutto l’arco della vita consentendoci di conferire una dimensione temporale e narrativa alla nostra esistenza – continuano gli autori – e qui per la prima volta al mondo sono stati studiati i meccanismi neurobiologici associati alla dimensione temporale dei ricordi tramite una metodologia innovativa e, soprattutto, in un gruppo di persone ‘speciali’”.

Il dato che emerge da questo nuovo avanzamento scientifico è cruciale, non solo per l’analisi delle doti speciali di queste persone, ma soprattutto per aprire nuove frontiere di ricerca per la neuroriabilitazione della memoria e per la ricerca sulle funzioni mnesiche, in pazienti con una lesione del sistema nervoso centrale.

“Comprendere i sistemi neurobiologici alla base dell’iper-funzionamento della memoria – concludono i ricercatori – fornisce importanti indicazioni su quali aree è necessario intervenire per stimolare il ripristino di un funzionamento adeguato della memoria in persone con deficit o lesioni neurologiche”.

Riferimenti:

Enhanced cortical specialization to distinguish older and newer memories in highly superior autobiographical memory – Valerio Santangelo, Tiziana Pedale, Simone Macrì, Patrizia Campolongo. – Cortex 2020 https://doi.org/10.1016/j.cortex.2020.04.029

 

Il testo viene congiuntamente da: Ufficio Stampa Sapienza Università di Roma, Ufficio Stampa Fondazione Santa Lucia IRCCS, Ufficio stampa Istituto Superiore di Sanità, Ufficio Comunicazione Istituzionale, Social media e Grafica Università degli Studi di Perugia