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SLA: nuove prospettive terapeutiche da una molecola attualmente impiegata nella sperimentazione clinica contro la leucemia

Un nuovo studio coordinato dalla Sapienza e dall’Istituto Italiano di Tecnologia di Roma e pubblicato su Nature Communications ha individuato in un farmaco impiegato in terapie sperimentali contro il cancro un possibile approccio terapeutico per il trattamento della Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA).

La Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA) è una malattia neurodegenerativa causata dalla progressiva perdita di motoneuroni, le cellule predisposte al controllo dei movimenti volontari dei muscoli.  A oggi non esiste una cura efficace per questa rara patologia.

In un recente studio coordinato dalla Sapienza Università di Roma e dall’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) di Roma, pubblicato sulla rivista Nature Communications e finanziato da un progetto ERC-Synergy, è stato scoperto che un farmaco già impiegato in terapie sperimentali contro il cancro potrebbe avere effetti benefici anche sulla SLA, aprendo nuove importanti prospettive terapeutiche.

I ricercatori, coordinati da Irene Bozzoni del Dipartimento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin della Sapienza e del centro CLNS2 di IIT di Roma, sono partiti dallo studio di specifiche condizioni che determinano la formazione nelle cellule di strutture chiamate granuli da stress. La funzione di tali strutture è quella di proteggere temporaneamente le molecole di RNA e di proteine fino alla risoluzione dello stato di stress. Circa il 10% dei casi totali di SLA sono causati da mutazioni in proteine che in molti casi sono componenti dei granuli da stress. Queste alterazioni provocano la produzione di proteine aberranti che trasformano i granuli in aggregati tossici per i motoneuroni. In particolare nella SLA, così come in altre malattie neurodegenerative, ciò che risulta alterato sono il numero, la composizione e le dinamiche di formazione e dissociazione di questi granuli.

Il gruppo di ricercatori ha scoperto che una specifica modifica chimica dell’RNA, nota come N6-metiladenosina (m6A), ha un ruolo cruciale nell’alterazione delle dinamiche di formazione e dissociazione dei granuli in forme particolarmente aggressive di SLA: la malattia è caratterizzata da livelli di m6A aumentati e il loro ripristino a livelli fisiologici è in grado di ristabilire le normali proprietà dei granuli da stress.

“Siamo riusciti a diminuire i livelli di m6A utilizzando una molecola (STM2457) attualmente impiegata nella sperimentazione clinica per la cura di tumori leucemici – spiega Irene Bozzoni – Questa scoperta apre alla possibilità di utilizzarla anche come nuovo approccio terapeutico per il trattamento della SLA”.

I risultati dello studio rappresentano un prezioso contributo per la comprensione dei meccanismi cellulari alla base della patologia e, soprattutto, individuano nelle modifiche dell’RNA promettenti target terapeutici per contrastare la SLA.

Riferimenti bibliografici:

M6A reduction relieves FUS-associated ALS granules – Di Timoteo et al.

Nature Communications – DOI: 10.1038/s41467-024-49416-5

microscopio cellule invecchiamento
Sclerosi Laterale Amiotrofica – SLA: nuove prospettive terapeutiche da una molecola attualmente impiegata nella sperimentazione clinica contro la leucemia. Foto PublicDomainPictures

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

PARKINSON E SCAMBIO DI INFORMAZIONI INTRACELLULARE

Ricercatori dei dipartimenti di Scienze Biomediche e di Scienze del Farmaco dell’Università di Padova, pionieri nello sviluppo di sensori per studiare la comunicazione intracellulare, mostrano il tallone di Achille del morbo di ParkinsonLo studio pubblicato su «Nature Communications»

La suddivisione in compartimenti cellulari con funzioni definite ha permesso alle cellule eucariotiche di evolversi adattandosi rapidamente alle condizioni ambientali e rappresenta uno degli aspetti più affascinanti della biologia moderna. Le funzioni distintive di ogni organello vengono mantenute attraverso l’isolamento e la concentrazione di specifici ioni, metaboliti ed enzimi evitando così la mescolanza indiscriminata dei loro contenuti.

Tuttavia, per poter assicurare il corretto svolgimento di tutte le funzioni cellulari i diversi compartimenti devono potersi “parlare” e scambiare informazioni in modo preciso e strettamente controllato al fine di garantire il coordinamento efficace delle attività cellulari.

Questo livello di regolazione si attua in specifici “siti di contatto” tra le membrane di diversi organelli, che rappresentano il collo di bottiglia attraverso il quale il flusso di sostanze viene dosato accuratamente e dinamicamente e che sfida la concezione tradizionale di compartimentalizzazione cellulare.

Tra gli organelli cellulari, i mitocondri e i lisosomi sono lo yin e yang del controllo energetico e metabolico e la loro comunicazione è critica per la sopravvivenza cellulare: difetti nel loro scambio di informazioni contribuiscono allo sviluppo di patologie di grande impatto sociale.

Ricercatori dei Dipartimenti di Scienze Biomediche e di Scienze del Farmaco dell’Università di Padova hanno pubblicato lo studio “A SPLICS reporter reveals α-synuclein regulation of lysosome-mitochondria contacts which affects TFEB nuclear translocation” sulla prestigiosa rivista «Nature Communications» dove, attraverso una nuova metodologia sviluppata nei loro laboratori ed ampiamente riconosciuta a livello internazionale, hanno potuto osservare come avviene la comunicazione tra questi due organelli chiave (mitocondri e lisosomi) e come la proteina alfa-sinucleina, coinvolta nell’insorgenza di  malattie neurodegenerative come il morbo di Parkinson e la malattia di Alzheimer, interferisce con questa comunicazione portando alla morte delle cellule neuronali.

«Gli strumenti molecolari che abbiamo sviluppato si sono rivelati indispensabili – spiega il Prof. Tito Calì del Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Padova – per la comprensione del linguaggio attraverso cui i diversi compartimenti cellulari si scambiano informazioni vitali. Riuscire a decifrare questo linguaggio permetterà non solo di far luce sui meccanismi molecolari alla base del funzionamento cellulare, ma anche di capire quando questa comunicazione viene meno, e perché, nelle diverse condizioni patologiche evidenziando così il tallone di Achille di una specifica malattia ed aprendo la strada allo sviluppo di nuovi farmaci mirati.»

Tito Calì
il Prof. Tito Calì del Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Padova

«Nello specifico, lo studio che abbiamo condotto, ha permesso di identificare che alfa sinucleina, modificando le distanze che intercorrono tra i mitocondri, la centrale energetica delle cellule e i lisosomi, gli inceneritori cellulari, regola il trasferimento di segnali, gli ioni calcio, essenziali per il benessere delle nostre cellule – spiega la Prof.ssa Marisa Brini del Dipartimento di Scienze del Farmaco dell’Università di Padova – La perdita di questa funzione, dovuta per esempio all’ accumulo incontrollato di alfa-sinucleina nel sistema nervoso centrale, risulta in un indebolimento dei meccanismi protettivi che le nostre cellule possiedono per eliminare proteine/organelli  non funzionanti, con conseguente danno cellulare e sviluppo di malattie neurodegenerative».

Marisa Brini
la Prof.ssa Marisa Brini del Dipartimento di Scienze del Farmaco dell’Università di Padova

La disponibilità per la comunità scientifica di strumenti che permettono la comprensione dei meccanismi molecolari più fini alla base della comunicazione intracellulare apre la strada all’identificazione di nuovi bersagli farmacologici finora non esplorati.

Link alla ricerca: https://www.nature.com/articles/s41467-024-46007-2

Titolo: “A SPLICS reporter reveals α-synuclein regulation of lysosome-mitochondria contacts which affects TFEB nuclear translocation” – «Nature Communications» 2024

Autori: Flavia Giamogante, Lucia Barazzuol, Francesca Maiorca, Elena Poggio, Alessandra Esposito, Anna Masato, Gennaro Napolitano, Alessio Vagnoni, Tito Calì & Marisa Brini.

Come la proteina  alfa-sinucleina, coinvolta nell’insorgenza di malattie neurodegenerative come il morbo di Parkinson e la malattia di Alzheimer, interferisca nello scambio di informazioni intracellulare portando alla morte delle cellule neuronali. Foto di Konstantin Kolosov

Testo e foto di Marisa Brini e Tito Calì dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

SLA: alla Statale di Milano un finanziamento per lo studio di nuovi biomarcatori

Laura Calabresi, docente di Farmacologia, studierà il metabolismo del colesterolo nel plasma e nel liquido cerebrospinale per identificare nuovi biomarcatori della malattia.

Il finanziamento, un Pilot Grant erogato da AriSLA, è di oltre 58mila euro.

Milano, 10 gennaio 2024 –  Laura Calabresi, docente di Farmacologia del Dipartimento di Scienze Farmacologiche e Biomolecolari dell’Università degli Studi di Milano, si è aggiudicata un finanziamento annuale di oltre 58mila euro da Fondazione AriSLA, il più importante ente non profit che finanzia in Italia la ricerca sulla SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica), gravissima malattia neurodegenerativa che solo nel nostro Paese coinvolge circa 6mila persone e che ad oggi non ha una terapia efficace.

Si tratta di uno dei tre “Pilot Grant” annuali finanziati da AriSLA tramite il bando 2023 per sperimentare idee innovative ed originali, che andranno a identificare dei nuovi biomarcatori, fondamentali sia per la diagnosi della SLA che per comprendere la sua progressione nel tempo, in modo da poter intervenire in modo più tempestivo e mirato.

Lo studio ‘Chol-ALS’ (Investigating brain cholesterol esterification in Amyotrophic Lateral Sclerosis / Esterificazione del colesterolo nel cervello di pazienti con la SLA) ha l’obiettivo di studiare il metabolismo del colesterolo nel plasma e nel liquido cerebrospinale nei pazienti affetti da SLA, verificando se l’esterificazione del colesterolo è alterata nella SLA e se questa alterazione è collegata alla gravità e alla progressione della malattia.

Il colesterolo svolge un ruolo fondamentale nelle funzioni del cervello e alterazioni nel suo metabolismo nel sistema nervoso centrale sono state associate a diversi disturbi neurodegenerativi, tra cui la malattia di Alzheimer. Il trasporto del colesterolo nel cervello è operato da lipoproteine simili a quelle che circolano nel sangue (HDL), e pertanto chiamate particelle HDL-simili. Come avviene per le HDL plasmatiche, le lipoproteine ​​cerebrali vengono assemblate attraverso l’attività dei trasportatori di membrana del colesterolo e subiscono un rimodellamento mediato da specifici enzimi e proteine ​​di trasporto. Per rendere la molecola di colesterolo ancora più lipofila e adatta alla conservazione ed al trasporto tramite lipoproteine, la molecola del colesterolo viene esterificata nei fluidi biologici principalmente tramite la lecitina colesterolo aciltransferasi (LCAT), che svolge quindi un ruolo importante nel rimodellamento delle HDL. Nonostante ci siano alcune ipotesi secondo cui gli esteri del colesterolo sarebbero alterati nella SLA, il processo di esterificazione non è mai stato studiato in questi pazienti. Per studiare il metabolismo del colesterolo saranno analizzati quindi il trasporto del colesterolo e la struttura delle lipoproteine nel plasma e nel liquido cerebrospinale di pazienti con SLA, correlando i risultati con la gravità della malattia e la sua progressione.

Lo studio ‘Chol-ALS’ è uno dei sette progetti selezionati attraverso il bando AriSLA 2023: la Fondazione ha investito complessivamente quasi 1 milione di euro per lo sviluppo dei nuovi studi di ricerca focalizzati sulla Sclerosi Laterale Amiotrofica.

Laura Calabresi SLA biomarcatori
Laura Calabresi, che si è aggiudicata il Pilot Grant per lo studio del metabolismo del colesterolo nel plasma e nel liquido cerebrospinale e per l’identificazione di nuovi biomarcatori della SLA

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano

IL CODICE DELLA MEMORIA: L’ERC CONSOLIDATOR GRANT AL PROGETTO DI RICERCAA ATCOM
Il neuroscienziato Roberto Bottini si è aggiudicato il finanziamento dell’European Research Council. Studierà il linguaggio della mente attraverso i movimenti oculari. La ricerca potrà aiutare la diagnosi precoce delle malattie neurodegenerative.

Trento, 23 novembre 2023 – Gli occhi sono lo specchio della mente? Parte da questa domanda il progetto di ricerca di Roberto Bottini, docente al Centro interdipartimentale Mente/Cervello – Cimec, che ha appena ricevuto il finanziamento dell’European Research Council. Il riconoscimento viene assegnato attraverso una selezione su base competitiva, in cui l’unico criterio di valutazione è l’eccellenza scientifica del progetto e il curriculum di chi lo propone. Questa volta, sul bando 2023 della categoria ERC Consolidator Grant destinata a ricercatori e ricercatrici con esperienza tra i sette e i dodici anni dal conseguimento del dottorato di ricerca e con un curriculum scientifico promettente, il tasso di successo è stato del 14,5%. Su 2.130 candidati, il Consiglio europeo della ricerca ne ha selezionati 308, per un totale di 627 milioni di euro. I finanziamenti rientrano nel programma Horizon Europe.
I progetti che si svolgeranno in un ateneo italiano sono 15. Con quello di oggi, l’Ateneo di Trento raggiunge quota 41 riconoscimenti complessivi in tutti gli ultimi programmi europei (Horizon Europe, Horizon 2020, Settimo programma quadro).
Per Roberto Bottini, neuroscienziato cognitivo, è il secondo premio europeo. Il primo nel 2019, l’Erc Starting Grant, per ricercatori con alle spalle dai due ai sette anni di esperienza maturata dopo il conseguimento del dottorato di ricerca.

Il progetto vincitore
Il titolo della ricerca è “Atcom – An attentional code for memory”. L’obiettivo è capire come funziona la memoria umana, qual è il meccanismo da cui nascono i ricordi e le connessioni tra le nozioni acquisite, partendo dai movimenti oculari delle persone. Trovare una sorta di codice attenzionale alla base delle strutture mnemoniche, un po’ come il DNA per le proteine o il codice morse per il linguaggio.
Lo studio, che ha ottenuto un finanziamento di due milioni di euro, si svolgerà utilizzando metodi e tecnologie innovative.

«I movimenti oculari sono un indicatore per l’attenzione. Stanno diventando sempre di più uno strumento diagnostico importante. Quello che vogliamo fare è leggere la mente e riuscire a capire a cosa le persone stanno pensando seguendo questi movimenti con un tracciatore a infrarossi, un eye tracker», spiega Bottini.
«In questo senso gli occhi sono un po’ lo specchio della mente. Riflettono la struttura dei pensieri, ciò che lega diversi concetti e idee. Questo è quello che intendo quando parlo di codice della memoria. Noi sappiamo che Parigi è la capitale della Francia, oppure associamo un certo piatto ad una vacanza. I ricordi possono essere collegati tra di loro in modo diverso. Può esserci un rapporto di causa-effetto, due cose possono essere simili tra di loro oppure opposte, o ancora c’è una relazione di parte con il tutto. Queste relazioni che mettono in contatto le nostre idee, i nostri concetti, sono lo scheletro del nostro pensiero, il tessuto che lega tutto quello che conosciamo. Capire come questo tessuto emerge a livello cerebrale è una sfida ancora aperta».
L’indagine prevede anche l’utilizzo di strumentazioni di brain-imaging per le neuroimmagini del cervello umano, dalla risonanza magnetica alla magnetoencefalografia. In alcuni studi saranno inoltre raccolti dati neurali grazie a dispositivi cerebrali impiantati temporaneamente in alcuni pazienti per motivi medici.
Scoprire e tradurre questo codice neurale può essere utile nella diagnosi precoce delle malattie neurodegenerative. Si tratta di comprendere il meccanismo di quella che viene chiamata relational memory, la capacità di ricordare associazioni tra oggetti, luoghi, persone o eventi. Quella che in pratica aiuta a ricordare la strada di casa o il compleanno di una persona cara. Questo tipo di memoria è il tessuto connettivo che per primo viene danneggiato in patologie come l’Alzheimer.
Infine studiare il codice neurale alla base della memoria e dell’apprendimento può servire a capire quanto l’intelligenza degli esseri umani sia simile e diversa rispetto alle moderne reti neurali artificiali.
Roberto Bottini
Roberto Bottini, vincitore dell’ERC Consolidator Grant per il progetto di ricerca Atcom – An attentional code for memory, per comprendere il codice della memoria

 

Testo e foto dall’Ufficio stampa e Relazioni esterne Direzione Comunicazione e Relazioni esterne dell’Università di Trento

Capire i meccanismi molecolari dell’invecchiamento per combattere la SLA e altre malattie neurodegenerative: individuato un nuovo ruolo dell’enzima Suv39 nella regolazione dell’espressione di TDP-43

Una nuova ricerca coordinata congiuntamente dall’Università degli studi di Cagliari e dalla Sapienza Università di Roma ha evidenziato una base molecolare comune dell’invecchiamento e di patologie neurodegenerative come la SLA. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Cell Death and Discovery.

L’invecchiamento è l’insieme dei cambiamenti che avvengono nelle cellule e nei tessuti con l’avanzare dell’età aumentando il rischio di malattie e morte. Questi cambiamenti seguono una sequenza programmata comune e sono principalmente caratterizzati dal deterioramento delle funzioni cognitive e dal declino delle capacità locomotorie.

Tali manifestazioni coincidono con i sintomi delle malattie neurodegenerative, come la sclerosi laterale amiotrofica (SLA), l’Alzheimer e il Parkinson, suggerendo che questo tipo di patologie condividono una base molecolare comune con il processo di invecchiamento.

I risultati di uno studio che ha approfondito le interconnessioni tra invecchiamento e malattie degenerative sono stati di recente pubblicati sulla rivista Cell Death and Discovery. Lo studio è stato coordinato da Fabian Feiguin del Dipartimento di Scienze della vita e dell’ambiente dell’Università di Cagliari e da Laura Ciapponi del Dipartimento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin della Sapienza Università di Roma.

La ricerca è stata finanziata da Fondazione AriSLA, principale ente non profit che finanzia la ricerca scientifica sulla SLA in Italia, e da AFM-Telethon.

In particolare, lo studio ha analizzato le modifiche epigenetiche che si verificano con l’invecchiamento. Si tratta di cambiamenti nella struttura della cromatina, sostanza localizzata nel nucleo cellulare composta da DNA e proteine, che influenzano l’espressione genica, ovvero il processo attraverso cui l’informazione contenuta in un gene viene convertita in una proteina, senza cambiare la sequenza del DNA. Queste modifiche possono alterare i livelli di espressione di fattori di rischio per malattie neurodegenerative.

“Nel nostro studio – spiega Fabian Feiguin dell’Università di Cagliari – abbiamo scoperto per la prima volta che la proteina TDP-43, che ha un ruolo centrale nella patogenesi della SLA, riduce gradualmente la sua espressione man mano che invecchiano i cervelli del comune moscerino della frutta (Drosophila melanogaster) e del modello murino”.

Lo studio ha individuato un nuovo ruolo dell’enzima Suv39 che, attraverso il meccanismo di metilazione, determina la modificazione chimica di una specifica proteina istonica (componente principale della cromatina), andando a influire sulla regolazione dell’espressione genica.

“Il nostro lavoro – spiega Marta Marzullo del team della Sapienza – ha evidenziato che durante l’invecchiamento sia nel moscerino della frutta che nel modello murino la metiltransferasi Suv39 agisce sul gene TDP-43 riducendone l’espressione”.

“Sorprendentemente – sottolinea Laura Ciapponi dell’ateneo romano– quando abbiamo inattivato genicamente o chimicamente l’attività di Suv39 abbiamo osservato livelli più elevati di TDP-43, e soprattutto una significativa riduzione del declino locomotorio dipendente dall’età”.

Secondo le autrici e gli autori i risultati raggiunti dallo studio, dunque, individuano un nuovo ruolo dell’enzima Suv39 nella regolazione dell’espressione di TDP-43 e della senescenza locomotoria, e suggeriscono inoltre che la modulazione delle attività enzimatiche coinvolte in queste modifiche epigenetiche potrebbe essere un approccio promettente per comprendere e potenzialmente trattare le malattie neurodegenerative legate all’invecchiamento, come la SLA.

“Siamo soddisfatti di aver sostenuto questo filone di ricerca che ha contribuito ad aggiungere conoscenza sui meccanismi molecolari legati all’insorgenza della SLA – commenta Mario Melazzini, presidente di Fondazione AriSLA, ente co-finanziatore dello studio – L’importanza di svolgere studi sul ruolo della TDP-43 è stata evidenziata recentemente anche dal piano strategico della ricerca sulla SLA del NINDS (National Institute of Neurological Disorders and Stroke), il principale istituto degli NIH americani per la ricerca neurologica. In linea con questa visione, riteniamo strategico continuare a supportare la ricerca di base, finalizzata a fornire risposte concrete ai pazienti”.

Riferimenti bibliografici: 

Marzullo, M., Romano, G., Pellacani, C. et al. Su(var)3-9 mediates age-dependent increase in H3K9 methylation on TDP-43 promoter triggering neurodegeneration. Cell Death Discov. 9, 357 (2023). DOI: https://doi.org/10.1038/s41420-023-01643-3

microscopio cellule invecchiamento
Foto PublicDomainPictures 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

ZePrion: in orbita per sviluppare nuovi farmaci 

Lanciato verso la Stazione Spaziale Internazionale l’esperimento ZePrion, che avrà il compito di confermare il meccanismo molecolare alla base di un innovativo protocollo farmaceutico per contrastare le malattie da prioni. Sviluppato da un gruppo internazionale di ricercatori, tra cui le scienziate e gli scienziati italiani delle università di Milano-Bicocca e Trento, della Fondazione Telethon, dell’INFN Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e dell’Istituto di Biologia e Biotecnologia Agraria del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR-IBBA), l’esperimento potrebbe avere ricadute importanti anche per altre malattie.

Lancio di NG-19 con l'esperimento ZePrion. Foto NASA
Lancio di NG-19 con l’esperimento ZePrion. Foto NASA

Un esperimento lanciato con successo oggi, mercoledì 2 agosto 2023, verso la Stazione Spaziale Internazionale (ISS), potrebbe portare ad una validazione del meccanismo di funzionamento di un protocollo del tutto innovativo per lo sviluppo di nuovi farmaci contro gravi malattie neurodegenerative e non solo. Frutto di una collaborazione internazionale che coinvolge diversi istituti accademici e l’azienda israeliana SpacePharma, l’esperimento ZePrion vede un fondamentale contributo dell’Italia attraverso l’Università Milano-Bicocca, l’Università di Trento, la Fondazione Telethon, l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), e l’Istituto di Biologia e Biotecnologia Agraria del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR-IBBA). Decollato con la missione spaziale robotica di rifornimento NG-19 dalla base di Wallops Island, in Virginia (USA), ZePrion si propone di sfruttare le condizioni di microgravità presenti in orbita per verificare la possibilità di indurre la distruzione di specifiche proteine nella cellula, interferendo con il loro naturale meccanismo di ripiegamento (folding proteico). L’arrivo di NG-19 e ZePrion sulla ISS è previsto per venerdì 4 agosto, quando in Italia saranno all’incirca le 8:00.

Il successo dell’esperimento ZePrion fornirebbe un possibile modo per confermare il meccanismo molecolare alla base di una nuova tecnologia di ricerca farmacologica denominata Pharmacological Protein Inactivation by Folding Intermediate Targeting (PPI-FIT), sviluppata da due ricercatori delle Università Milano-Bicocca e di Trento e dell’INFN. L’approccio PPI-FIT si basa sull’identificazione di piccole molecole (dette ligandi), in grado di unirsi alla proteina che costituisce il bersaglio farmacologico durante il suo processo di ripiegamento spontaneo, evitando così che questa raggiunga la sua forma finale.

“La capacità di bloccare il ripiegamento di specifiche proteine coinvolte in processi patologici apre la strada allo sviluppo di nuove terapie per malattie attualmente incurabili”,

spiega Pietro Faccioli, professore dell’Università Milano-Bicocca, ricercatore dell’INFN, coordinatore dell’esperimento e co-inventore della tecnologia PPI-FIT.

Un tassello finora mancante per la validazione della tecnologia è la possibilità di ottenere un’immagine ad alta risoluzione del legame tra le piccole molecole terapeutiche e le forme intermedie delle proteine bersaglio (quelle che si manifestano durante il ripiegamento), in grado di confermare in maniera definitiva l’interruzione del processo di ripiegamento stesso. In genere, questo tipo di immagine viene ottenuta analizzando con una tecnica chiamata cristallografia a raggi X cristalli formati dal complesso ligando-proteina. Nel caso degli intermedi proteici, però, gli esperimenti necessari non sono realizzabili all’interno dei laboratori sulla Terra, in quanto la gravità genera effetti che interferiscono con la formazione dei cristalli dei corpuscoli composti da ligando e proteina, quando questa non abbia ancora raggiunto la sua forma definitiva. Questo ha spinto le ricercatrici e i ricercatori della collaborazione ZePrion a sfruttare la condizione di microgravità che la Stazione Spaziale Internazionale mette a disposizione.

“Esiste infatti chiara evidenza che la microgravità presente in orbita fornisca condizioni ideali per la creazione di cristalli di proteine”, illustra Emiliano Biasini, biochimico dell’Università di Trento e altro co-inventore di PPI-FIT, “ma nessun esperimento ha provato fino ad ora a generare cristalli di complessi proteina-ligando in cui la proteina non si trovi in uno stato definitivo”.

Esattamente quanto si propone di fare l’esperimento ZePrion, lavorando in modo specifico sulla proteina prionica, balzata tristemente agli onori della cronaca negli anni Novanta durante la crisi del ‘morbo della mucca pazza’. Questa malattia è infatti causata da una forma alterata della proteina prionica chiamata prione, coinvolta in gravi malattie neurodegenerative dette appunto ‘da prioni’ tra le quali la malattia di Creutzfeld-Jakob o l’insonnia fatale familiare.

“Anche grazie al sostegno di Fondazione Telethon, che da sempre supporta le mie ricerche per individuare nuove terapie contro queste malattie, abbiamo l’opportunità di validare del meccanismo di funzionamento della tecnologia PPI-FIT, che potrebbe rappresentare veramente un punto di svolta in questo settore”, aggiunge Biasini.

“In orbita sarà possibile generare cristalli formati da complessi tra una piccola molecola e una forma intermedia della proteina prionica, che in condizioni di gravità ‘normale’ non sarebbero stabili. Questi cristalli potranno poi essere analizzati utilizzando la radiazione X prodotta con acceleratori di particelle, per fornire una fotografia tridimensionale del complesso con un dettaglio di risoluzione atomico. Campioni non cristallini ottenuti alla SSI verranno inoltre analizzati per Cryo-microscopia Elettronica di trasmissione (Cryo/EM)”, sottolinea Pietro Roversi, ricercatore CNR-IBBA.

ZePrion si compone di un vero e proprio laboratorio biochimico in miniatura (lab-in-a-box) realizzato da SpacePharma, che opererà a bordo della Stazione Spaziale Internazionale e verrà controllato da remoto. Oltre alla componente italiana, la collaborazione ZePrion si avvale della partecipazione delle scienziate e degli scienziati dell’Università di Santiago di Compostela.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca.

UNIVERSITÀ DI PADOVA: UNA NUOVA STRATEGIA TERAPEUTICA PER CONTRASTARE LA MALATTIA DI HUNTINGTON, PATOLOGIA NEURODEGENERATIVA DI ORIGINE GENETICA

Grazie al supporto di Telethon, il team di ricerca dell’Ateneo patavino guidato dal Professor Graziano Martello ha individuato alcuni geni chiave per proteggere le cellule in questa grave malattia neurodegenerativa.

All’Università di Padova è stata individuata una nuova potenziale strategia terapeutica per la malattia di Huntington, una grave patologia neurodegenerativa di origine genetica per la quale non esistono ancora terapie efficaci. È quanto emerge dallo studio “Genome-wide screening in pluripotent cells identifies Mtf1 as a suppressor of mutant huntingtin toxicity” appena pubblicato su Nature Communications dal gruppo di ricerca guidato dal Professor Graziano Martello del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova, responsabile del Laboratorio di cellule staminali pluripotenti e finanziato dalle Fondazioni Telethon e Armenise-Harvard.

Al centro della foto Graziano Martello, a sinistra Sonia Amato e a destra Anna Gambetta strategia terapeutica malattia genetica Huntington
Al centro della foto Graziano Martello, a sinistra Sonia Amato e a destra Anna Gambetta

Alla base della malattia di Huntington c’è un difetto genetico che porta all’accumulo di una proteina chiamata huntingtina, che nel tempo si traduce nella morte progressiva delle cellule di specifiche zone del cervello. I sintomi iniziali possono essere bruschi mutamenti dell’umore, apatia e depressione, a cui si aggiungono disturbi progressivi dell’equilibrio e del coordinamento motorio. Il difetto genetico responsabile è noto da oltre 30 anni e, grazie al lavoro di ricercatori di tutto il mondo, sono stati chiariti numerosi aspetti del processo neurodegenerativo che ne consegue. Tuttavia, ad oggi, non disponiamo ancora di una terapia in grado di contrastarne i danni.

«Volendo usare un’analogia – spiega Graziano Martello – siamo come di fronte ai tornado: sappiamo come si formano e perché, ma non abbiamo gli strumenti per controllarne il comportamento ed evitare che causino distruzione. Traslando l’esempio su questa malattia ci siamo quindi concentrati sulla ricerca di nuovi bersagli terapeutici. Partendo dal concetto generale che tutte le nostre cellule hanno meccanismi di protezione contro diverse forme di stress, abbiamo polarizzato la nostra attenzione su alcuni geni per valutarne la funzione “protettiva” nei confronti della malattia di Huntington».

Utilizzando come modello della patologia cellule staminali cresciute in laboratorio, i ricercatori dell’Università di Padova hanno scandagliato l’intero patrimonio genetico umano alla ricerca di geni in grado di proteggere le cellule malate.

«Ne abbiamo identificato uno, chiamato Mtf1, che ha dimostrato questa capacità protettiva in diversi modelli di malattia di Huntington, quali il pesce zebra o il topo, nei quali era stata introdotta la stessa mutazione genetica responsabile della patologia nell’uomo – sottolineano Giorgia Ferlazzo, che ha dedicato il suo dottorato in Medicina Molecolare a questo progetto, e Anna Gambetta, ricercatrice e collaboratrice del professor Martello -. In entrambi i casi abbiamo visto che fornendo questo gene alle cellule, tramite vettori virali o le “istruzioni” genetiche sotto forma di RNA messaggero (mRNA), si otteneva un miglioramento o addirittura l’arresto dello sviluppo della malattia».

«Questi risultati positivi – commenta Sonia Amato, dottoranda in Neuroscienze e co-autrice dello studio – sono stati confermati anche in un modello “umano”, cioè in cellule neuronali malate ottenute a partire da cellule staminali umane ricavate da un campione donato da un paziente.  Anche in questo caso Mtf1 si è dimostrato in grado di ridurre alcuni dei difetti caratteristici della malattia di Huntington: un risultato incoraggiante, che ci spinge a continuare su questa strada per sviluppare in futuro una nuova strategia terapeutica».

«La strada per arrivare a una terapia nei pazienti è però ancora molto lunga. Innanzitutto dovremo migliorare la modalità di somministrazione di questi geni terapeutici nell’uomo. Nei modelli animali abbiamo usato vettori virali o mRNA, ossia quegli strumenti diventati di uso comune per i vaccini contro il COVID-19 – conclude Graziano Martello –. Ora ci interessa capire se questi strumenti siano adeguati anche per la cura di malattie neurodegenerative. Abbiamo già brevettato la nostra scoperta e ora intendiamo fondare una start-up con la sola missione di trasformare queste scoperte scientifiche in un nuovo approccio terapeutico, colmando così il gap che esiste tra ricerca universitaria e sviluppo industriale».

Finanziato dalla Fondazione Telethon, lo studio ha visto la collaborazione di diverse università e centri di ricerca, italiani ed europei.

 

Link all’articolo: https://www.nature.com/articles/s41467-023-39552-9

Titolo: “Genome-wide screening in pluripotent cells identifies Mtf1 as a suppressor of mutant huntingtin toxicity” – «Nature Communications» 2023

Autori: Giorgia Maria FerlazzoAnna Maria GambettaSonia AmatoNoemi CannizzaroSilvia AngiolilloMattia ArboitLinda DiamanteElena CarbogninPatrizia RomaniFederico La TorreElena GalimbertiFlorian PflugMirko LuoniSerena GiannelliGiuseppe PepeLuca CapocciAlba Di PardoPaola VanzaniLucio ZennaroVania BroccoliMartin LeebEnrico MoroVittorio Maglione & Graziano Martello

 

biomarcatori immunoterapia
Foto di Konstantin Kolosov

 

Testo e foto dagli Uffici Stampa dell’Università di Padova e Fondazione Telethon

Il segreto per sconfiggere Alzheimer e Parkinson nascosto nella laguna di Venezia? Un nuovo studio sul botrillo, pubblicato su Cells, per comprendere le malattie neurodegenerative

Padova – Milano, 20 aprile 2023 – Ad oggi, non conosciamo ancora quali siano le cause di malattie come l’Alzheimer o la Malattia di Parkinson; di conseguenza, le terapie a disposizione non sono purtroppo in grado di arrestare o rallentare la patologia. Ciò vale per tutte le cosiddette “malattie neurodegenerative”, che comprendono anche nomi noti, quali la Sclerosi Laterale Amiotrofica, e meno noti come la Demenza o Sindrome Fronto-Temporale (FTD).

botrillo (Botryllus schlosseri) per comprendere le malattie neurodegenerative
Nuovo studio sul botrillo (Botryllus schlosseri) per comprendere le malattie neurodegenerative. Foto di Géry PARENT, in pubblico dominio

Ma un inatteso aiuto potrebbe arrivare da un piccolo animale marino, l’invertebrato di nome botrilloun animaletto che cresce e si riproduce a basse profondità in mari quali il Mediterraneo e, in particolare in zone ricche in nutrienti e calde dell’Adriatico, come la Laguna di Venezia. Si tratta di un essere vivente molto semplice che presenta al suo interno anche un cervello rudimentale, costituito da poco meno di un migliaio di neuroni. Tuttavia tale organismo appartiene al gruppo di animali considerati i parenti più prossimi ai vertebrati (il gruppo a cui anche l’uomo appartiene) e, anche per tale motivo, i ricercatori lo stanno studiando da tempo.

Team internazionale di ricercatori  – Università di Stanford, California (dr.ssa Chiara Anselmi) e Università Statale di Milano (proff. Alberto Priori e Tommaso Bocci) – coordinato dalla prof.ssa Lucia Manni del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova ha pubblicato lo studio Multiple Forms of Neural Cell Death in the Cyclical Brain Degeneration of A Colonial Chordate sulla rivista scientifica «Cells» che evidenzia come questo invertebrato contenga tutti i geni coinvolti nelle malattie neurodegenerative umane e, durante il suo ciclo vitale, le sue cellule nervose invecchino esattamente come nell’uomo.

“Il botrillo, che abbiamo studiato attraverso microscopia elettronica e analisi dell’espressione genica, va incontro naturalmente a neurodegenerazione secondo modalità che potrebbero aiutare la ricerca nell’uomo a trovare strategie, o farmaci, per fermare gravi malattie neurodegenerative”, spiega la prof.ssa Lucia Manni, autore referente dello studio. “In particolare, i neuroni del botrillo mostrano diversi tipi di morte cellulare, così come avviene nelle malattie neurodegenerative umane. Inoltre, geni criticamente coinvolti in queste malattie sono espressi nelle diverse fasi del ciclo vitale del botrillo secondo tempistiche che ricordano molto il progredire delle malattie nell’uomo. Per esempio, geni tipici dei disordini conformazionali, come l’Alzheimer e il Parkinson, sono espressi nel botrillo in tempi che richiamano nell’uomo il passaggio della malattia da una fase di degenerazione pre-clinica alla comparsa di sindromi specifiche nell’uomo”.

“Questi risultati potrebbero aprire inediti scenari sia nell’identificazione di un minimo comune denominatore fra patologie umane molto dissimili fra di loro, sia nell’impiego di nuove metodiche di stimolazione elettrica cerebrale non invasiva per la prevenzione e la cura della neurodegenerazione”, dice il prof. Alberto Priori del Dipartimento di Scienze della Salute dell’Università Statale di Milano e co-autore della ricerca.

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Testo dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.

Un nuovo studio, pubblicato su Brain, suggerisce che la rigidità muscolare nella malattia di Parkinson abbia alla base la disfunzione di un circuito neuronale

Un nuovo studio internazionale, pubblicato sulla rivista Brain e coordinato dal Dipartimento di Neuroscienze umane della Sapienza, suggerisce una nuova ipotesi interpretativa della rigidità muscolare nella malattia di Parkinson.

neuroni rigidità muscolare Parkinson
Immagine di Colin Behrens

Uno dei tratti caratteristici della Malattia di Parkinson è la rigidità muscolare, un aumento patologico del tono muscolare che si manifesta con una contrazione sostenuta e involontaria, che costituisce una invalidante limitazione della mobilità, talvolta associata a dolore cronico. Ad oggi sono ancora poco chiari i meccanismi alla base del fenomeno, del quale non è disponibile neanche una misura strumentale affidabile.

Uno studio internazionale, coordinato dalla Sapienza in collaborazione con la University College di Londra e il National Institutes of Health (NIH), Bethesda (USA), introduce una nuova ipotesi interpretativa secondo cui la rigidità è legata alla disfunzione di uno specifico circuito neuronale che include connessioni funzionali tra midollo spinale, cervelletto e la formazione reticolare del tronco dell’encefalo.

Il lavoro, che chiarisce rilevanti aspetti fisiopatologici della rigidità, affrontando anche il problema dello studio sperimentale di questo segno clinico, è stato pubblicato sulla rivista Brain.

Grazie a un innovativo protocollo sperimentale che ha visto l’utilizzo di una innovativa strumentazione robotica, associata e sincronizzata a specifiche misure neurofisiologiche e biomeccaniche, è stato possibile valutare con un algoritmo le caratteristiche della muscolatura e l’attività nervosa riflessa di 20 pazienti affetti dalla malattia di Parkinson e 25 soggetti sani di controllo con caratteristiche anagrafiche ed antropometriche simili.

“Il principale traguardo scientifico del nostro studio – spiega Antonio Suppa del Dipartimento di Neuroscienze Umane della Sapienza – consiste nella dimostrazione sperimentale che la rigidità nella Malattia di Parkinson dipende da specifiche alterazioni del controllo nervoso del tono muscolare (es. aumento velocità-dipendente dei riflessi di lunga latenza) che a loro volta riflettono una disfunzione nelle connessioni tra midollo spinale, cervelletto e formazione reticolare del tronco dell’encefalo.”

La Malattia di Parkinson è una patologia neurodegenerativa assai frequente nella popolazione generale (circa 300.000 pazienti in Italia) e purtroppo in continua crescita secondo le ultime stime dell’Organizzazione mondiale della sanità. Una più approfondita conoscenza dei suoi principali segni e sintomi clinici risulta fondamentale anche nell’ottica di una più appropriata pianificazione e programmazione di interventi specifici di sanità pubblica.

Riferimenti:
Rigidity in Parkinson’s disease: Evidence from Biomechanical and Neurophysiological Measures, Francesco Asci, Marco Falletti, Alessandro Zampogna, Martina Patera, Mark Hallett,John Rothwell, e Antonio Suppa,  https://doi.org/10.1093/brain/awad114

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Charme: la molecola di lncRNA che controlla lo sviluppo del cuore
Charme è un lncRNA che controlla lo sviluppo cardiaco attraverso circuiti molecolari che si instaurano nel muscolo grazie alla sua interazione con la proteina Matrin3 

La molecola di RNA è in grado di costruire specifiche reti di interazione per un controllo temporale e spaziale dei processi di formazione del cuore.

È quanto dimostrato da un nuovo studio coordinato dal Dipartimento di Biologia e biotecnologie “Charles Darwin” della Sapienza e pubblicato sulla rivista eLife.

Charme: la molecola di lncRNA che controlla lo sviluppo del cuore 
Crediti per l’immagine: Taliani et al.

Per affrontare la complessità dei processi biologici, le cellule sfruttano molteplici sistemi di regolazione, spesso basati sull’attività di molecole di RNA, come nel caso dei lunghi RNA non codificanti (long non coding RNA, lncRNA) che non producono proteine. Queste molecole sono in grado di costruire specifiche reti di interazione per un controllo temporale e spaziale dei processi biologici.

È il caso di Charme, un lncRNA che controlla lo sviluppo cardiaco attraverso circuiti molecolari che si instaurano nel muscolo grazie alla sua interazione con la proteina Matrin3. Matrin3 è coinvolta in diverse miopatie e in malattie neurodegenerative, come la Sclerosi laterale amiotrofica (SLA).

Un nuovo studio italiano pubblicato sulla rivista internazionale eLife e coordinato dal Dipartimento di Biologia e biotecnologie “Charles Darwin” della Sapienza in collaborazione con l’Istituto italiano di tecnologia e l’European Molecular Biology Laboratory ha rivelato il ruolo chiave di Charme nell’accensione di geni necessari alla maturazione delle cellule del cuore. La presenza di Charme già durante le fasi embrionali dello sviluppo cardiaco, si è rivelata fondamentale per guidare Matrin3 sui giusti contesti genomici, promuovendo la funzionalità e lo sviluppo cardiaco.

“Tra i piani futuri del laboratorio – spiega Monica Ballarino della Sapienza – c’è l’ulteriore caratterizzazione funzionale di Charme che è abbondantemente espresso nel muscolo umano. Questo permetterà una migliore comprensione della fisiologia e dello sviluppo del cuore ed il disegno di nuove strategie diagnostiche e terapeutiche per le patologie cardiache.”

Riferimenti:

The long noncoding RNA Charme supervises cardiomyocyte maturation by controlling cell differentiation programs in the developing heart – Valeria Taliani, Giulia Buonaiuto, Fabio Desideri, Adriano Setti, Tiziana Santini, Silvia Galfrè, Leonardo Schirone, Davide Mariani, Giacomo Frati, Valentina Valenti, Sebastiano Sciarretta, Emerald Perlas, Carmine Nicoletti, Antonio Musarò, Monica Ballarino – eLife 2023 https://doi.org/10.7554/eLife.81360

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma