Repistat: individuata una nuova molecola capace di rallentare la progressione della retinite pigmentosa
L’Università di Pisa partner dello studio che ha guadagnato la copertina del Journal of Medicinal Chemistry.
Si chiama REPISTAT, è una nuova molecola capace di rallentare la progressione della retinite pigmentosa, una rara patologia genetica che può portare negli anni alla totale cecità. La scoperta arriva da uno studio, che si è guadagnato la copertina del Journal of Medicinal Chemistry. A progettare e sintetizzare la molecola è stato un gruppo di ricerca di chimica farmaceutica dell’Ateneo di Siena in collaborazione, per le prove biologiche, con il Dipartimento di Farmacia dell’Ateneo pisano, e con l’Istituto di Neuroscienze del CNR – Pisa, la University College London e l’Università di Ferrara.
La sperimentazione è stata condotta in vitro e su modelli animali e la speranza è che in futuro REPISTAT possa essere alla base della formulazione di un nuovo farmaco, magari un collirio, capace di ritardare l’evoluzione della malattia.
“La retinite pigmentosa è una rara malattia genetica tuttora priva di una cura risolutiva, a causarla sono circa 200 mutazioni su una sessantina di geni, la cura più efficace è la terapia genica, con costi altissimi però, tanto che sono state attualmente sviluppate delle terapie solo per due mutazioni – spiega la professoressa Ilaria Piano del Dipartimento di Farmacia dell’Università di Pisa – ci sono tuttavia degli elementi che accomunano tutte le forme di retinite pigmentosa, come ad esempio i processi infiammatori, ossidativi o l’apoptosi, cioè il meccanismo che regola la morte programmata delle cellule. La molecola che abbiamo sviluppato è in grado di agire come modulatore epigenetico e attraverso questo meccanismo interviene proprio su questi processi aprendo un’opportunità per trattare su larga scala i pazienti, indipendentemente dalla mutazione genica”.
La ricerca è frutto di RePiSTOP, un progetto di ricerca di interesse nazionale del 2022 finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca.
Link articolo scientifico “Targeting Relevant HDACs to Support the Survival of Cone Photoreceptors in Inherited Retinal Diseases: Identification of a Potent Pharmacological Tool with In Vitro and In Vivo Efficacy”, Journal of Medicinal Chemistry, DOI: 10.1021/acs.jmedchem.4c00477
Testo e immagine dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa
Un nuovo approccio terapeutico per i pazienti affetti da iperplasia surrenalica congenita
L’approccio terapeutico è in grado di impedire l’eccessiva produzione di ormoni androgeni surrenalici alla base dell’insorgenza della malattia. I risultati dello studio internazionale, a cui hanno preso le università Sapienza di Roma e Federico II di Napoli, sono stati pubblicati sul New England Journal of Medicine.
L’iperplasia surrenalica congenita (CAH) è una malattia rara dovuta a una mutazione genetica che provoca la carenza dell’enzima 21-idrossilasi e compromette la sintesi del cortisolo, un ormone fondamentale per le normali funzioni fisiologiche. L’organismo tenta inutilmente di compensare tale carenza e come conseguenza innesca una eccessiva produzione di ormoni androgeni surrenalici, scatenando ulteriori complicanze. Attualmente i pazienti vengono trattati con dosi sopra-fisiologiche di glucocorticoidi che possono causare gravi effetti collaterali come aumento di peso, diabete, malattie cardiovascolari, infertilità e osteoporosi.
Una nuova possibilità si inserisce nel paradigma di trattamento di questa malattia con i risultati della fase 3 di sperimentazione del Crinecerfont, un composto in grado di offrire benefici significativi per pazienti adulti e bambini. I risultati dello studio, pubblicati sul New England Journal of Medicine e presentati durante l’ultima edizione di ENDO, il più importante convegno internazionale riguardante l’endocrinologia, hanno visto il contributo di più di cinquanta centri di ricerca dislocati in dieci paesi, fra cui le università Sapienza di Roma e Federico II di Napoli.
Il nuovo approccio terapeutico è in grado di tenere sotto controllo la produzione di androgeni surrenali senza dover ricorrere a dosi eccessive e dannose di glucocorticoidi.
In particolare è stato visto che tra i 176 pazienti adulti partecipanti allo studio, il gruppo a cui è stato somministrata una terapia a base di Crinecerfont ha mostrato una riduzione del 27,3% nella dose di glucocorticoidi rispetto al 10,3% del gruppo a cui è stato fornito il placebo; mentre il 63% dei partecipanti ha raggiunto dosi ormonali fisiologiche nonostante la malattia (a fronte del 18% del placebo). Gli eventi avversi più comuni sono stati affaticamento, mal di testa, febbre e vomito, ma si sono verificati in modo episodico e simile nei due gruppi.
“Il controllo della malattia è un equilibrio difficile tra le complicazioni dell’eccesso di androgeni, i problemi di crescita e sviluppo, i problemi riproduttivi maschili e femminili, e altri problemi legati all’esposizione cronica con troppi glucocorticoidi a cui sono esposti gli oltre 4000 malati attualmente presenti in Italia”
spiega Andrea Isidori del Dipartimento di Medicina Sperimentale della Sapienza.
“Questo risultato è stato possibile anche grazie alla collaborazione tra centri di endocrinologia pediatrica e dell’adulto, nell’ambito dei percorsi indicati dall’Europa all’interno dei Reference Network (ENDO-ERN) per le malattie rare di cui le Aziende Ospedaliero-Universitarie fanno parte e all’impegno degli Atenei nella Terza Missione.”
“Crinecerfont potrebbe rivoluzionare la gestione dell’iperplasia surrenalica congenita, riducendo significativamente la dose necessaria di glucocorticoidi, e quindi limitando gli effetti collaterali a lungo termine”
aggiunge Rosario Pivonello del Dipartimento di Medicina e Chirurgia della Federico II.
Riferimenti bibliografici:
Phase 3 Trial of Crinecerfont in Adult Congenital Adrenal Hyperplasia – Richard J. Auchus, Oksana Hamidi, Rosario Pivonello, Irina Bancos, Gianni Russo, Selma F. Witchel, Andrea M. Isidori et al. – The New England Journal of Medicine – DOI: 10.1056/NEJMoa2404656
Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
Creato un organoide di osso per studiare trattamenti più efficaci la sindrome di Hurler, una malattia genetica pediatrica rara
Uno studio condotto dalla Fondazione Tettamanti e da Sapienza Università di Roma ha permesso di realizzare, grazie a cellule staminali scheletriche prelevate dai pazienti, una riproduzione dell’architettura della cartilagine e dell’osso (organoide) per studiare trattamenti più efficaci per la sindrome di Hurler, malattia genetica pediatrica rara. La ricerca, pubblicata dalla rivista scientifica internazionale JCI Insight, apre alla possibilità di utilizzare organoidi per lo studio delle malattie genetiche rare.
Per la prima volta è stato creato in laboratorio un organoide di osso, ovvero una riproduzione tridimensionale del tessuto cartilagineo e osseo umano, utilizzando cellule staminali scheletriche di pazienti con la sindrome di Hurler, per studiare i meccanismi e sperimentare trattamenti più efficaci per questa malattia genetica rara pediatrica che colpisce in Europa un bambino su 100.000. E’ stato possibile grazie a una ricerca portata avanti dalla Fondazione Tettamanti di Monza e da la Sapienza Università di Roma, pubblicata sulla rivista scientifica internazionale JCI Insight.
Lo studio vede tra i co-autori il Professor Shunji Tomatsu dell’Università del Delaware, tra i massimi esperti mondiali di mucopolisaccaridosi, gruppo di patologie genetiche rare di cui fa parte la sindrome di Hurler.
Questa patologia è causata dalla mutazione di un gene e dalla conseguente assenza dell’enzima che nell’organismo umano si occupa dello “smaltimento” di alcune catene di zuccheri, dette glicosaminoglicani. L’accumulo di queste molecole danneggia tutti gli organi e i tessuti e, in particolare, le ossa che risultano essere la parte del corpo più resistente alle terapie oggi disponibili: la enzimatica sostitutiva, che consiste nella somministrazione dell’enzima mancante, il trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche e la genica, ovvero l’infusione nel paziente di cellule staminali ematopoietiche del paziente stesso in cui il gene mutato è stato “corretto” in laboratorio.
L’organoide, che replica alcune caratteristiche peculiari delle ossa dei pazienti colpiti da questa patologia, è pertanto un modello prezioso per osservare con precisione ancora maggiore i meccanismi della malattia e su cui sperimentare farmaci più efficaci.
“L’organoide è stato creato a partire da cellule staminali scheletriche, cellule essenziali per generare il tessuto osseo, prelevate dal midollo osseo dei piccoli pazienti,”
spiegano la Professoressa Marta Serafini, FondazioneTettamanti dell’IRCCS San Gerardo dei Tintori di Monza e la Professoressa Mara Riminucci, Dipartimento di Medicina Molecolare, Sapienza Università di Roma:
“Queste cellule hanno generato cartilagine che si è poi trasformata in tessuto osseo e midollo osseo nel modello tridimensionale. È stato osservato, anche attraverso analisi molecolari e istologiche, che l’organoide manifestava delle importanti alterazioni rispetto ai soggetti sani. La ricerca rappresenta un primo passo importante per approfondire lo studio di questa patologia e, in prospettiva, di altre malattie genetiche rare con coinvolgimento scheletrico. È infatti fondamentale sviluppare modelli per studiare malattie rare vista la difficoltà di ottenere e, quindi, di analizzare campioni di tessuto, in particolare da pazienti pediatrici”.
La sindrome di Hurler è la forma più grave di mucopolisaccaridosi di tipo 1, malattia genetica rara che, a sua volta, fa parte della più ampia famiglia delle mucopolisaccaridosi, caratterizzate dall’assenza degli enzimi necessari a metabolizzare e smaltire nelle cellule le molecole di zucchero complesse. L’accumulo di tali molecole danneggia gli organi e i tessuti ed è alla base di gravi sintomi, tra cui problemi nella crescita, deformità scheletriche, malfunzionamento degli organi interni e del sistema nervoso.
Le ossa sono particolarmente resistenti alle terapie oggi in uso per il trattamento della sindrome di Hurler e, pertanto le deformità scheletriche risultano essere uno dei sintomi più gravi di questa patologia. Studiarne i meccanismi, anche attraverso organoidi ossei ricavati da cellule umane, aumenta le possibilità di conoscere la sindrome di Hurler più a fondo e di sperimentare in prospettiva terapie più efficaci.
Aggiunge il Professor Andrea Biondi, direttore scientifico dell’IRCCS San Gerardo dei Tintori: “Vorrei sottolineare l’importanza dei risultati all’interno della ricerca sulle malattie rare ed in particolare quelle metaboliche congenite, che ha nel nuovo IRCCS una delle sue aree più rilevanti di ricerca e sviluppo sia da un punto vista clinico che sperimentale”.
Riferimenti bibliografici:
Modeling skeletal dysplasia in Hurler syndrome using patient-derived bone marrow osteoprogenitor cells –
Samantha Donsante, Alice Pievani, Biagio Palmisano, Melissa Finamore, Grazia Fazio, Alessandro Corsi, Andrea Biondi, Shunji Tomatsu, Rocco Piazza, Marta Serafinie Mara Riminucci –JCI INSIGHT 2024 DOI: 10.1172/jci.insight.173449
Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
CARDIOMIOPATIA ARITMOGENA: finanziato con 4 milioni di euro il progetto di ricerca IMPACT, coordinato dall’Università di Padova
Finanziato con 4 milioni di euro e coordinato dall’Università di Padova, studierà il ruolo e l’impatto di alterazioni genetiche sulla progressione clinica della cardiomiopatia aritmogena aprendo la strada allo sviluppo di nuove terapie per la gestione clinica della malattia e a un miglioramento della qualità di vita dei pazienti.
Si chiama IMPACT – Cardiogenomics meets Artificial Intelligence: a step forward in arrhythmogenic cardiomyopathy diagnosis and treatment – il progetto di ricerca della durata di 36 mesi finanziato con 4 milioni di euro dall’European Innovation Council per la cardiogenomica. La missione dell’European Innovation Council, istituito dalla Commissione europea nel 2021, è quella di individuare e sviluppare tecnologie innovative per la ricerca.
Il team internazionale – coordinato dalla professoressa Alessandra Rampazzo del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova e composto da Universiteit Maastricht (dottoressa Martina Calore), Universitair Medisch Centrum Utrecht (dottoressa Anneline te Riele), Gruppo Lutech (dottoressa Barbara Alicino), Consorzio Italbiotec (dottoressa Melissa Balzarotti), Ksilink (dottor Peter Sommer) e Italfarmaco (dottor Christian Steinkuhler) – studierà lo sviluppo di nuove terapie per la cardiomiopatia aritmogena (ACM), una malattia genetica che colpisce il cuore e che rappresenta una delle principali cause di aritmie ventricolari e morte cardiaca improvvisa. Con un’incidenza di 1 su 5000, può essere considerata una malattia cardiovascolare di grande rilevanza.
Del gruppo padovano guidato da Alessandra Rampazzo fanno parte il professor Libero Vitiello e la dottoressa Martina Calore del dipartimento di Biologia che si focalizzeranno sull’analisi di modelli in vivo e in vitro di malattia allo scopo di identificare dei bersagli terapeutici, la professoressa Milena Bellin sempre del dipartimento di Biologia che valuterà l’effetto patogeno di varianti genetiche utilizzando microtessuti cardiaci umani generati da cellule staminali pluripotenti coltivate in laboratorio, la professoressa Paola Braghetta del dipartimento di Medicina Molecolare e il dottor Nicola Facchinello del CNR-Istituto di Neuroscienze che metteranno a disposizione le competenze istologiche e biochimiche per studiare i meccanismi molecolari che controllano la funzionalità cardiaca nei modelli di malattia.
La cardiomiopatia aritmogena è una patologia degenerativa che interessa il cuore, frequentemente coinvolta nella morte improvvisa di atleti e adolescenti. Il segno istopatologico caratterizzante è la sostituzione fibroadiposa del miocardio, che pregiudica il funzionamento del muscolo cardiaco portando all’insorgenza di aritmie ventricolari. Ad oggi non è disponibile alcuna terapia per prevenire o almeno rallentare le progressive modificazioni del tessuto cardiaco.
Numerosi sono i geni le cui mutazioni sono certamente coinvolte in questa patologia, alcuni dei quali scoperti dal gruppo di ricerca della professoressa Alessandra Rampazzo. Tuttavia, molte delle alterazioni genetiche identificate nel DNA dei pazienti affetti sono di significato incerto e non ancora direttamente correlati alla patologia, e quindi di utilità limitata sia per i genetisti che per i medici.
«Grazie ai finanziamenti ottenuti da Horizon Europe, il nostro progetto di ricerca si propone di aprire nuove prospettive terapeutiche basandosi sui risultati ottenuti nei diversi modelli proposti. Si tratta di un progetto innovativo e multidisciplinare, il cui successo è fortemente sostenuto dalle diverse ma complementari competenze dei partner europei che fanno capo a istituzioni accademiche e aziende leader nel settore informatico, biotecnologico e farmaceutico – dice la professoressa Alessandra Rampazzo del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova, coordinatrice scientifica del team internazionale –. Una tale collaborazione consentirà di raggiungere gli ambiziosi traguardi prefissati. L’obiettivo generale del progetto finanziato dalla comunità europea è quello di integrare e analizzare mediante l’intelligenza artificiale i dati clinici e molecolari provenienti dal registro dei pazienti con ACM con dati provenienti da analisi strutturali e funzionali di modelli cellulari, quali microtessuti cardiaci tridimensionali, e modelli in vivo. Questi risultati ci permetteranno di ottenere una migliore comprensione del ruolo e dell’impatto di alterazioni genetiche sulla progressione clinica della cardiomiopatia aritmogena. Inoltre – conclude Alessandra Rampazzo – il progetto prevede uno screening e una successiva valutazione del potenziale terapeutico di numerosi composti e molecole innovative, sia in modelli cellulari che animali».
La scoperta di nuovi bersagli terapeutici e la comprensione dei meccanismi patogenetici sottostanti non solo potrebbero portare a nuove terapie per l’ACM, ma potrebbero aprire la strada ad una migliore gestione clinica della malattia e a un miglioramento della qualità di vita dei pazienti.
Il meeting di tutti i partecipanti, che ufficializzerà l’avvio del progetto, si terrà a Padova il 26 e 27 ottobre 2023.
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MORTI IMPROVVISE E CARDIOMIOPATIA ARITMOGENA: GIOVEDÌ VERRÀ PRESENTATO IL PROGETTO IMPACT
Giovedì 26 ottobre 2023, dalle ore 14.00, nella Casa della Rampa Carrarese della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo in via Arco Valaresso 32 a Padova verranno presentati partner, competenze e dati preliminari del progetto IMPACT.
Il meeting si concluderà nel primo pomeriggio di venerdì 27 ottobre nella Sala Conferenze di Palazzo del Monte di Pietà in piazza Duomo 14 a Padova della Fondazione Cariparo con la discussione degli aspetti tecnico scientifici del progetto IMPACT.
Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova. Aggiornato il 24 ottobre 2023.
UNIVERSITÀ DI PADOVA: UNA NUOVA STRATEGIA TERAPEUTICA PER CONTRASTARE LA MALATTIA DI HUNTINGTON, PATOLOGIA NEURODEGENERATIVA DI ORIGINE GENETICA
Grazie al supporto di Telethon, il team di ricerca dell’Ateneo patavino guidato dal Professor Graziano Martello ha individuato alcuni geni chiave per proteggere le cellule in questa grave malattia neurodegenerativa.
All’Università di Padova è stata individuata una nuova potenziale strategia terapeutica per la malattia di Huntington, una grave patologia neurodegenerativa di origine genetica per la quale non esistono ancora terapie efficaci. È quanto emerge dallo studio “Genome-wide screening in pluripotent cells identifies Mtf1 as a suppressor of mutant huntingtin toxicity” appena pubblicato su Nature Communications dal gruppo di ricerca guidato dal Professor Graziano Martello del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova, responsabile del Laboratorio di cellule staminali pluripotenti e finanziato dalle Fondazioni Telethon e Armenise-Harvard.
Alla base della malattia di Huntington c’è un difetto genetico che porta all’accumulo di una proteina chiamata huntingtina, che nel tempo si traduce nella morte progressiva delle cellule di specifiche zone del cervello. I sintomi iniziali possono essere bruschi mutamenti dell’umore, apatia e depressione, a cui si aggiungono disturbi progressivi dell’equilibrio e del coordinamento motorio. Il difetto genetico responsabile è noto da oltre 30 anni e, grazie al lavoro di ricercatori di tutto il mondo, sono stati chiariti numerosi aspetti del processo neurodegenerativo che ne consegue. Tuttavia, ad oggi, non disponiamo ancora di una terapia in grado di contrastarne i danni.
«Volendo usare un’analogia – spiega Graziano Martello – siamo come di fronte ai tornado: sappiamo come si formano e perché, ma non abbiamo gli strumenti per controllarne il comportamento ed evitare che causino distruzione. Traslando l’esempio su questa malattia ci siamo quindi concentrati sulla ricerca di nuovi bersagli terapeutici. Partendo dal concetto generale che tutte le nostre cellule hanno meccanismi di protezione contro diverse forme di stress, abbiamo polarizzato la nostra attenzione su alcuni geni per valutarne la funzione “protettiva” nei confronti della malattia di Huntington».
Utilizzando come modello della patologia cellule staminali cresciute in laboratorio, i ricercatori dell’Università di Padova hanno scandagliato l’intero patrimonio genetico umano alla ricerca di geni in grado di proteggere le cellule malate.
«Ne abbiamo identificato uno, chiamato Mtf1, che ha dimostrato questa capacità protettiva in diversi modelli di malattia di Huntington, quali il pesce zebra o il topo, nei quali era stata introdotta la stessa mutazione genetica responsabile della patologia nell’uomo – sottolineano Giorgia Ferlazzo, che ha dedicato il suo dottorato in Medicina Molecolare a questo progetto, e Anna Gambetta, ricercatrice e collaboratrice del professor Martello -. In entrambi i casi abbiamo visto che fornendo questo gene alle cellule, tramite vettori virali o le “istruzioni” genetiche sotto forma di RNA messaggero (mRNA), si otteneva un miglioramento o addirittura l’arresto dello sviluppo della malattia».
«Questi risultati positivi – commenta Sonia Amato, dottoranda in Neuroscienze e co-autrice dello studio – sono stati confermati anche in un modello “umano”, cioè in cellule neuronali malate ottenute a partire da cellule staminali umane ricavate da un campione donato da un paziente. Anche in questo caso Mtf1 si è dimostrato in grado di ridurre alcuni dei difetti caratteristici della malattia di Huntington: un risultato incoraggiante, che ci spinge a continuare su questa strada per sviluppare in futuro una nuova strategia terapeutica».
«La strada per arrivare a una terapia nei pazienti è però ancora molto lunga. Innanzitutto dovremo migliorare la modalità di somministrazione di questi geni terapeutici nell’uomo. Nei modelli animali abbiamo usato vettori virali o mRNA, ossia quegli strumenti diventati di uso comune per i vaccini contro il COVID-19 – conclude Graziano Martello –. Ora ci interessa capire se questi strumenti siano adeguati anche per la cura di malattie neurodegenerative. Abbiamo già brevettato la nostra scoperta e ora intendiamo fondare una start-up con la sola missione di trasformare queste scoperte scientifiche in un nuovo approccio terapeutico, colmando così il gap che esiste tra ricerca universitaria e sviluppo industriale».
Finanziato dalla Fondazione Telethon, lo studio ha visto la collaborazione di diverse università e centri di ricerca, italiani ed europei.
Malattie genetiche rare, parte la prima ricerca italiana sulla sindrome di Kleefstra
Il progetto “Drop by drop” punta a studiare le alterazioni genetiche alla base della malattia, testando alcuni farmaci in laboratorio. La presentazione della ricerca (kick-off meeting) ha riunito i ricercatori dei tre partner Policlinico di Milano, Università degli Studi di Milano ed ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, e i rappresentanti dell’Associazione Italiana Sindrome di Kleefstra. Il finanziamento della Fondazione Regionale per la Ricerca Biomedica è di oltre 1 milione di euro.
Bergamo, 30 maggio 2023 – È stato presentato martedì 30 maggio all’ospedale Papa Giovanni XXIII un progetto di ricerca che punta a nuove conoscenze, anche di carattere terapeutico, sullasindrome di Kleefstra, malattia genetica rara che si manifesta fin dall’infanzia con ritardo nello sviluppo psicomotorio, disabilità intellettiva, riduzione del tono muscolare, associati spesso ad anomalie del comportamento e neurologiche, epilessia, tratti autistici, difetti congeniti cardiaci e renali.
Obiettivo del progetto è anzitutto quello di costruire un registro ufficiale italiano per questa malattia, che resterà a disposizione dell’Associazione Italiana Sindrome di Kleefstra e garantirà una migliore conoscenza delle caratteristiche della condizione, per una migliore diagnosi, assistenza e per lo sviluppo di progetti futuri. Sarà poi creata una biobanca delle linee cellulari a scopo di ricerca, insieme a una “mappatura” delle mutazioni dei geni responsabili della sindrome in ciascun paziente. Le ricercatrici infine testerannoin laboratorio, attraverso modelli cellulari in vitro (organoidi), i possibili effetti benefici di molecole selezionate. Si punta a capire come una particolare classe di molecole possa ripristinare la corretta conformazione della cromatina che risulta alterata nella sindrome di Kleefstra e in altre 80 condizioni circa (cromatinopatie) che condividono alcune manifestazioni tipiche con la sindrome di Kleefstra, come disabilità intellettiva e anomalie del neurosviluppo.
Uno dei fattori che fa la differenza sul fronte delle malattie rare è la capacità di mettere in rete competenze e conoscenze. Il progetto ha tra i suoi punti di forza la complementarietà, dal punto di vista dell’approccio alla genetica, dei tre centri clinici e di ricerca lombardi partner del progetto. Donatella Milani, medico genetista del Policlinico di Milano ha una forte competenza nell’ambito della definizione clinica e della gestione di condizioni sindromiche rare, in particolare afferenti ai disturbi del neurosviluppo. Il gruppo dell’Università Statale di Milano, con Valentina Massa, docente di Biologia Applicata e Cristina Gervasini, docente di Genetica Medica, entrambe del Dipartimento di Scienze della Salute, si occuperà dello sviluppo e utilizzo di modelli cellulari 2D e 3D (organoidi). L’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo è uno dei centri di riferimento in Italia per la diagnosi genetica delle malattie pediatriche rare e ultrarare.
“Indagare una malattia rara è sempre una sfida – ha spiegato Laura Pezzoli biologa genetista del Laboratorio di Genetica Medica dell’ASST Papa Giovanni XXIII e principal investigator del progetto -. Ogni piccolo passo in avanti rappresenta un progresso importante sia per i genitori che hanno già ricevuto una diagnosi per il figlio, sia per le famiglie ancora in cerca di un corretto inquadramento clinico per la condizione del proprio bambino”.
Scoperta recentemente dalla ricercatrice olandese Tjitske Kleefstra, da cui ha preso il nome, questa malattia genetica rara conta pochissime diagnosi. Si calcola siano tra 1.000 e 2.000 nel mondo, 58 delle quali in Italia.
Il progetto è stato accolto con entusiasmo da Mariella Priano, Presidente dell’Associazione Italiana Sindrome di Kleefstra: “A nome dei bimbi e ragazzi senza voce ringraziamo la Fondazione Regionale per la Ricerca Biomedica e Regione Lombardia per il finanziamento, le ricercatrici per aver promosso la prima ricerca italiana della Sindrome di Kleefstra, sindrome rara e ancora poco conosciuta ed il genetista prof. Romano Tenconi che ci ha messo in contatto con loro. Sapere che un giorno l’impegno e la perseveranza delle ricercatrici potrà condurre alla tanto auspicata ‘pillola magica’ costituisce un’utile iniezione di fiducia e speranza per sopportare la sofferenza dei nostri figli”.
È proprio ispirandosi al motto dell’associazione che i ricercatori hanno deciso di chiamare questo progetto “Drop by drop”, una sintesi perfetta per rendere l’immagine del lavoro metodico con cui, a piccoli passi a volte impercettibili – goccia dopo goccia appunto – vengono indagate le malattie genetiche rare.
“Drop by drop” ha ricevuto un importante finanziamento di 1.157.500 euro da FRRB- Fondazione Regionale per la Ricerca Biomedica, attraverso il bando “Unmet Medical Needs” 2022.
“FRRB è lieta di finanziare un progetto che risponde pienamente ad uno degli obiettivi principali del Bando Unmet Medical Needs: la necessità di sviluppare terapie per il trattamento di malattie rare, tramite un approccio di precisione basato su caratteristiche genotipiche e fenotipiche dei pazienti, al fine di migliorare la conoscenza e la diagnosi di tali malattie e di sviluppare una cura” afferma Veronica Comi, Direttore Generale della Fondazione Regionale per la Ricerca Biomedica. “Il progetto sarà realizzato da un team multidisciplinare e complementare, che con le proprie competenze, potrà dare slancio alla caratterizzazione della sindrome di Kleefstra e di altre cromatinopatie e allo sviluppo di approcci terapeutici. Inoltre, il progetto sarà coordinato da 3 donne; ciò conferma l’efficacia delle misure implementate da FRRB nei propri bandi per promuovere la partecipazione e affermare la carriera di responsabili scientifici di genere femminile nella ricerca biomedica” conclude Comi.
Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.
Identificata la causa della malattia genetica rara della piccola Bea nel gene ARHGAP36
La prestigiosa rivista Nature Communications ha pubblicato il lavoro internazionale che ha studiato la malattia rara relativa al caso della piccola Bea.
Nel 2010 Bea venne visitata nell’Ambulatorio di Genetica Clinica Pediatrica dell’Ospedale Infantile Regina Margherita di Torino perché presenta delle tumefazioni alle articolazioni. Le radiografie e la TAC rilevarono rapidamente una situazione molto particolare, una serie di “calcificazioni” che stavano progressivamente trasformando la cartilagine in osso. Bea era una bimba vivace ed intelligente, ma ben presto le articolazioni si bloccarono, rendendo impossibili i movimenti di braccia e gambe. Gli esami radiologici mostrarono un quadro sempre più grave: nessuno specialista aveva mai visto un caso come quello di Bea in tutto il mondo. La famiglia creò una Onlus, si adoperò per far conoscere il caso e la zia pubblicò #Leggera come una piuma – Il Mondo di Bea (Pathos edizioni) per far conoscere la malattia. I mezzi di comunicazione si interessarono al caso e Bea venne conosciuta da molte persone che accompagnarono la famiglia nel lungo percorso di malattia della bambina.
Dopo 13 anni e centinaia di esperimenti, un gruppo internazionale di ricercatori, coordinati dalla dott.ssa Elisa Giorgio ricercatrice dell’Università di Pavia e di Fondazione Mondino IRCCS, è riuscito ad identificare la causa della malattia di Bea, chiarendo come questa sia una malattia genetica non solo rarissima, ma semplicemente unica.La ricerca è iniziata attraverso la collaborazione tra i Pediatri che hanno inizialmente approfondito il quadro clinico (Prof. Giovanni Battista Ferrero, Prof.ssa Margherita Silengo, Università di Torino) ed il laboratorio di Genetica Medica e malattie rare del prof. Alfredo Brusco (Dipartimento di Scienze Mediche; Università di Torino; Città della Salute e della Scienza, Torino). Per capire il complesso meccanismo alla base della malattia è stata necessaria una collaborazione con diversi centri italiani (Dott. Marco Tartaglia, Ospedale Pediatrico Bambin Gesù, Roma; Prof. Massimo Delledonne, Università di Verona) ed esteri (Prof. Malte Spielmann, Università di Lubecca e Kiel, Germania).
Inizialmente erano state approfondite le cause note di malattie genetiche associate alle calcificazioni ectopiche, quadri clinici caratterizzati da formazione di osso in tessuti normalmente non ossificati, come muscoli, tendini e legamenti. Questi disturbi sono solitamente causati da una mutazione genetica, come nella Fibrodisplasia ossificante progressiva (FOP), una rara malattia genetica in cui i muscoli e i tessuti molli vengono gradualmente sostituiti dalle ossa. La FOP è causata da una mutazione nel gene ACVR1, responsabile dell’informazione necessaria per formare tessuto osseo nei vari distretti scheletrici. Quando questo gene è mutato, invia un segnale anomalo a vari tessuti che progressivamente calcificano e si trasformano in osso
LA RICERCA
La malattia di Bea aveva molte similitudini con la FOP, ma si era presentata nelle prime settimane di vita con un’evoluzione molto rapida ed invalidante. Le analisi genetiche avevano da subito escluso questa malattia.
Nel frattempo il gruppo di ricerca aveva identificato, con una serie di approfondimenti, un’anomalia cromosomica unica, mai descritta in letteratura caratterizzata dalla presenza di un segmento del cromosoma 2 doppio, inserito sul cromosoma X della bambina.
Questa anomalia dei cromosomi, ovvero l’inserzione di una regione di un cromosoma su un altro, può portare a un’espressione genica alterata. Questi eventi sono rari, molto eterogenei tra loro, ed è assai complesso capirne le conseguenze biologiche. Solo negli ultimi anni la tecnologia ha messo a disposizione dei ricercatori degli approcci estremamente complessi per poter studiare queste anomalie cromosomiche.
L’attività di ricerca ha permesso di capire che il pezzo di cromosoma 2 in più conteneva delle regioni in grado di attivare i geni sul cromosoma X nei tessuti sbagliati. In particolare, si è dimostrato che il gene ARHGAP36 produce una proteina in quantità molto più elevate dell’atteso, ma soprattutto nel tessuto sbagliato, la cartilagine. Proprio questo gene induce la formazione si tessuto osseo dove non dovrebbe essere presente.
“Questo studio è la dimostrazione di come la collaborazione tra gruppi di ricerca con competenze diverse sia la chiave per ottenere successi scientifici” spiega la dott.ssa Giorgio. “La ricerca ha bisogno di tempo e si costruisce sulle conoscenze che a mano a mano gli scienziati accumulano; nel 2010 non avevamo i mezzi tecnologici, né le conoscenze di base per capire la malattia di Bea”. Proprio la Dott.ssa Giorgio nel 2015 aveva scoperto un meccanismo simile a quello che causa la malattia di Bea (chiamato in gergo tecnico “adozione di un enhancer”) come causa di una rara forma di malattia neurodegenerativa, l’ADLD, adesso uno dei filoni di ricerca del suo laboratorio a Pavia.
La definizione del meccanismo biologico alla base del quadro clinico ha permesso di dare alla famiglia della bambina una risposta attesa da molti anni, una risposta che permette, come in tutte le malattie rare, di porre fine all’odissea diagnostica, complessa e dolorosa che caratterizza queste patologie.
LE PROSPETTIVE
Studiando le malattie rare come quella di Bea, gli scienziati possono trovare percorsi e meccanismi che potrebbero essere coinvolti anche in malattie più comuni. Lo studio identifica un gene ARHGAP36 come implicato nella formazione ossea, un’informazione del tutto sconosciuta fino ad ora. Studiando questo gene e la sua funzione è possibile che capiremo meglio le malattie ossee nella popolazione generale. Al momento è troppo presto per pensare ad un utilizzo pratico della ricerca fatta, ma i ricercatori coinvolti sono entusiasti di aver contribuito a risolvere uno dei casi più difficili di malattia genetica rara conosciuta, quello della piccola Bea.
Enhancer hijacking at the ARHGAP36 locus is associated with connective tissue to bone transformation.
Melo US, Jatzlau J, Prada-Medina CA, Flex E, Hartmann S, Ali S, Schöpflin R , Bernardini L, Ciolfi A, Moeinzadeh M-H, Klever M-K, Altay A, Vallecillo-Garcia P, Carpentieri G, Delledonne M, Ort M-J, Schwestka M, Ferrero GB, Tartaglia M, Brusco A, Gossen M, Strunk D, Geißler S, Mundlos S, Stricker S, Knaus P, Giorgio E, Spielmann M. – https://www.nature.com/articles/s41467-023-37585-8
Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino
L’articolo sulle trombofilie ereditarie inaugura una nuova rubrica, con la quale rispondere alle domande dei lettori. Si è quindi approfondito l’argomento, non senza alcune difficoltà, dal momento che si tratta di una malattia rara. Come indicato anche altrove, i nostri articoli hanno scopo informativo e divulgativo, e non sostituiscono in alcun modo il parere, la diagnosi o l’intervento del medico o di altri operatori sanitari: in caso di bisogno invitiamo a rivolgervi a loro.
Le trombofilie ereditarie
Le trombofilie ereditarie consistono in anomalie coagulatorie genetiche che favoriscono l’eccessiva formazione di trombi ed emboli venosi (le vene sono i vasi sanguigni che riportano il sangue verso il cuore). Il trombo è un aggregato solido di componenti del sangue quali piastrine, globuli rossi, globuli bianchi e fibrina che si forma nei vasi sanguigni o nelle cavità cardiache aderendo alle pareti. Il trombo può staccarsi e propagarsi, comportando l’ostruzione di vasi importanti, o può frammentarsi e dar luogo ad emboli. Questi ultimi sono formazioni anomale insolubili di origine varia (lipidica, trombotica o gassosa) che circolano nel torrente sanguigno e possono ostruire un vaso. I meccanismi alla base delle trombofilie ereditarie e i fattori di rischio correlati all’insorgenza della malattia sono diversi in base alla sede della trombosi (vene o arterie).
Il deficit congenito della proteina S è una malattia ematologica rara ereditaria, dovuta a difetti del gene PROS1. Il difetto riguarda il processo di coagulazione, cioè quel meccanismo protettivo necessario per evitare eccessive perdite ematiche che metterebbero in pericolo la sopravvivenza. La proteina S è presente nel plasma sanguigno in forma libera, svolgendo una funzione anticoagulante, o legata a proteine del cosiddetto sistema del complemento. La forte associazione tra carenza della proteina S, ereditaria o acquisita, e l’aumentato rischio di trombosi venose evidenzia il ruolo importante di questa proteina nel controllo dell’inizio e dell’avvio della cascata coagulativa, nonché della sua regolazione. In altre parole, come si evince dalla letteratura scientifica, la proteina S aiuta a prevenire l’eccessiva coagulazione del sangue.
Come si manifestano le trombofilie ereditarie da deficit della proteina S?
La malattia, caratterizzata da trombosi delle vene per la ridotta sintesi e/o attività della proteina S, ha una trasmissione autosomica dominante, cioè causata da un’alterazione presente nel corredo di cromosomi non sessuali. I dati sulla prevalenza della malattia non sono del tutto noti. Il deficit parziale (eterozigosi, presenza di un solo gene difettoso) di proteina S ha un’incidenza stimata tra 0,16 e 0,21% nella popolazione generale; la forma grave (omozigosi, presenza di entrambi i geni difettosi) ha prevalenza, al momento, sconosciuta per le difficoltà diagnostiche della patologia. Occasionalmente, il deficit da proteina S può essere acquisito come conseguenza di altre patologie o terapie.
Dati epidemiologici non del tutto disponibili. Immagine di Adrian
Condizioni fisiologiche e patologiche
I livelli di proteina S nel plasma sanguigno fluttuano anche in base all’età, al sesso, oltre che per influenze genetiche o acquisite come lo stato ormonale e il metabolismo lipidico. La trombofilia ereditaria da deficit congenito della proteina S può presentare tre manifestazioni, come è stato definito dalla International Society on Thrombosis and Hemostasis (ISTH), in base alla quantità della proteina S libera e totale, nonché dell’attività. Il tipo 1 e il tipo 3 sono carenze quantitative, con livelli bassi di antigene libero; il tipo 2 è un deficit qualitativo, con livelli normali di proteina S totale e libera.
Secondo loHuman Phenotype Ontology, i segni clinici e i sintomi più frequenti negli omozigoti sono porpora fulminante o trombosi venosa massiva nei primi momenti della vita neonatale. La porpora fulminante causa coagulazione del sangue estesa e morte dei tessuti, mettendo a rischio la vita del paziente. Invece, i pazienti eterozigoti sono di solito asintomatici nell’età adulta. In tal caso, gli eventi trombotici sono principalmente dovuti all’immobilizzazione protratta, ad interventi chirurgici o alla gravidanza.
La diagnosi si basa sull’identificazione dei sintomi caratteristici della patologia, una dettagliata storia individuale e familiare, una valutazione clinica e diversi test specialistici (per esempio, la misurazione dell’attività anticoagulante della proteina S, dei livelli di proteina S totale o libera). La diagnosi prenatale, nel caso in cui si presenti una storia familiare positiva per le malattie trombotiche, è possibile e si basa sull’identificazione della mutazione patogenetica sul DNA estratto dai villi coriali.
La più significante causa di morbilità è la predisposizione alla formazione di trombi a livello delle gambe, dell’intestino, dei polmoni, dell’encefalo. Non c’è (al momento), infatti, una vera e propria terapia per i pazienti. Il trattamento d’elezione prevede terapie anticoagulanti. La scelta del farmaco più idoneo, del dosaggio e della durata della terapia varia da paziente a paziente. I fattori da tenere in considerazione ai fini terapeutici sono diversi: severità e frequenza dei trombi, potenziale interazione tra farmaco e alimentazione, l’età, lo stato di salute generale. La terapia, in alcuni casi, può durare tutta la vita e, associata ad un controllo adeguato, riduce significativamente il rischio di tromboembolia.
Giuseppe Luca Rizzo non rinuncia, oggi, all’amore per lo sport. E perché dovrebbe? Luca è affetto da emofilia A. L’emofilia è una malattiagenetica rara provocata dalla mancanza dei fattori indispensabili per la coagulazione del sangue. Quando era piccolo, la sua condizione non gli consentiva di praticare niente. Poi, crescendo e conoscendo se stesso, lo sport è entrato a far parte della sua quotidianità. Ad una passione se ne aggiunse subito un’altra: la musica. Sport e musica hanno aiutato Luca ad affrontare le sfide legate alla malattia e ad aprirsi alle nuove. Attualmente, la vita delle persone affette da emofilia è migliorata grazie allo sviluppo di nuove terapie di profilassi, capaci di fornire un’efficace protezione dal rischio di sanguinamenti. Luca non aveva mai parlato volentieri della sua malattia, finché nel 2021 sentì l’esigenza di uscire allo scoperto. Luca sapeva che tante persone si limitavano nello sport a causa della malattia. Pianificò, allora, un viaggio in bicicletta per trasmettere un messaggio: con l’emofilia si può fare quasi tutto. L’esperienza, condivisa con la compagna, ha avuto una grande risonanza, tanto da indurlo ad organizzare altri viaggi.
La coagulazione del sangue è un meccanismo protettivo per evitare eccessive perdite ematiche che metterebbero in pericolo la sopravvivenza. L’emofilia si eredita, in modalità recessiva, attraverso il cromosoma X: si manifesta solo nei maschi, mentre le donne possono essere portatrici sane. Essa è caratterizzata dalla carenza di uno specifico fattore della coagulazione. Esistono principalmente due forme di emofilia, la A e la B. Nel primo caso, è carente il Fattore otto (FVIII), mentre nel secondo il Fattore nove (FIX). L’emofilia A è più diffusa (prevalenza 1: 10.000) dell’emofilia B (prevalenza 1:30.000). Le manifestazioni dipendono dipendono dalla gravità della malattia, che è determinata in base alla gravità della carenza di attività del fattore coagulante. Si parla di emofilia grave quando il valore dell’attività del fattore coagulante è inferiore all’1%.
Le persone affette da emofilia, in genere, oltre alle problematiche tipiche dello stato emorragico, presentano anche altre complicanze: per esempio, sanguinamenti dolorosi e prolungati a livello dei muscoli e delle articolazioni. Tali complicanze, se non sono trattate tempestivamente e in maniera adeguata, possono portare a patologie articolari (artropatie) croniche e disabilità.
La cura dell’emofilia ha avuto grandi sviluppi negli ultimi decenni. Le misure di prevenzione specifica prevedono la somministrazione del farmaco contenente i fattori della coagulazione mancanti. Le due principali terapie per l’emofilia sono quella “on demand” (al bisogno, cioè al momento del sanguinamento) e la profilassi, che prevede la somministrazione costante del fattore carente. In Italia, uno tra i paesi più evoluti dal punto di vista clinico-terapeutico, viene utilizzata l’autoinfusione domiciliare. Come si legge su OMaR (Osservatorio Malattie Rare),
“In molte regioni italiane, dal 1976, il trattamento domiciliare è stato reso possibile grazie a leggi regionali ad hoc che permettono, dopo idoneo corso di formazione, di abilitare i pazienti e/o i loro assistenti ad eseguire la terapia a domicilio senza la presenza del personale sanitario”.
Comunque, anche tale terapia è invasiva perché i pazienti devono ripeterla periodicamente per tutta la vita.
L’azienda californiana BioMarin Pharmaceutical due anni fa iniziò, in diversi Paesi del mondo (inclusa l’Italia con l’Ospedale Maggiore del Policlinico di Milano), un trial clinico di Fase III con il farmaco con nome commerciale Roctavian (terapia genica denominata valoctocogene roxaparvovec). Il percorso regolatorio di Roctavian ha previsto il processo di valutazione da parte dell’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) e i pareri del Comitato per i Medicinali per Uso Umano (CHMP) e del Comitato per le Terapie Avanzate (CAT). Il 7 settembre 2022, la Commissione Europea ha concesso al farmaco Roctavian l’autorizzazione condizionata all’immissione in commercio per il trattamento dell’emofilia A grave. Tale tipo di autorizzazione garantisce che il farmaco approvato soddisfi i rigorosi standard UE su sicurezza, efficacia e qualità. Come si legge sul sito Epicentro dell’Istituto Superiore di Sanità
“le autorità regolatorie ricorrono a questo strumento se il beneficio della disponibilità immediata di un farmaco supera chiaramente il rischio legato al fatto che non tutti i dati sono ancora disponibili, normalmente richiesti per le autorizzazioni standard”.
Una volta concessa, le aziende sono obbligate a fornire entro determinate scadenze, ulteriori dati per confermare che i benefici continuano a superare nettamente gli eventuali rischi.
Il farmaco è designato come orfano, cioè destinato alla cura di una malattia rara, la cui realizzazione, da parte delle aziende farmaceutiche, non consente ricavi per recuperare i costi sostenuti per il loro sviluppo. Tale denominazione garantisce a Roctavian un periodo di 10 anni di esclusività di mercato ed esclude la competitività di farmaci simili con la stessa indicazione terapeutica.
Roctavian è un medicinale per terapia avanzata denominato “prodotto di terapia genica”. La strategia alla base della terapia è fornire all’organismo una copia corretta del gene difettoso. Il farmaco è usato nei pazienti adulti affetti da emofilia A in forma grave che non hanno anticorpi per il FVIII e contro il virus che trasporta il gene del fattore mancante. Il tipo di virus utilizzato nel medicinale (detto virus adeno-associato) non provoca malattie nell’uomo. Roctavian è somministrato, in una struttura attrezzata, con infusione endovenosa un’unica volta. Esso fornisce al paziente il gene grazie a cui le cellule del fegato possono iniziare a produrre il FVIII senza che sia più necessario ricorrere alle infusioni periodiche (Osservatorio Malattie Avanzate).
Il dato che emerge dal trial, che ha coinvolto 134 pazienti, riguarda il numero annuo di episodi emorragici: si è ridotto di circa l’85% e con esso anche il tasso medio di infusioni di FVIII. Parallelamente, l’attività del FVIII nei pazienti che hanno ricevuto Roctavian si è mantenuta stabile nel tempo a due anni dalla somministrazione.
Il farmaco consentirà di ampliare le scelte terapeutiche del medico, potendo considerare anche un’infusione una tantum che protegge dalle emorragie per diversi anni.
STUDIO DI UNITO IN COLLABORAZIONE CON TOKAI UNIVERSITY APRE NUOVE FRONTIERE PER IL TRATTAMENTO DELLE MALATTIE RARE
La ricerca utilizza modelli computerizzati di proteine generati con AlphaFold, la più recente e rivoluzionaria tecnologia di intelligenza artificiale, per verificare la fattibilità e pianificare rapidamente una strategia terapeutica personalizzata per pazienti pediatrici affetti da una malattiagenetica rara (IAHSP), caratterizzata da grave spasticità agli arti. Pubblicato dal Drug Discovery Today, il lavoro supporta HelpOlly, onlus torinese nata per trovare una cura a una bambina di 4 anni affetta da IAHSP.
Una ricerca realizzata dal gruppo di ricerca CASSMedChem del Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute dell’Università degli Studi di Torino — specializzato nella chimica farmaceutica —, in collaborazione con il Department of Molecular Life Sciences della Tokai University in Giappone, ha individuato un metodo innovativo per chiarire a livello molecolare l’effetto delle mutazioni alla base delle malattie genetiche rare. Lo studio, che si focalizza su una forma ultra-rara di paralisi spastica di origine genetica chiamata IAHSP, è stato pubblicato dalla rivista scientifica Drug Discovery Today di Elsevier.
Attraverso l’utilizzo di AlphaFoldDB, un database di strutture proteiche 3D costruite con sistemi basati su reti neurali, i ricercatori sono riusciti a ottenere alcuni modelli di varianti mutate della proteina (alsina) responsabile della patologia, tipiche di ogni paziente affetto da IAHSP. La validità dei modelli proposti è stata verificata tramite una serie di dati sperimentali fornitidal prof. Shinji Hadano in Giappone, noto esperto di alsina e delle patologie correlate. In pratica, lo studio permette di visualizzare e ispezionare le strutture dell’alsina, delle sue varianti patogene e di analizzarle con strumenti di modellizzazione molecolare, spesso online e liberamente accessibili. La strategia proposta dai ricercatori di UniTo si è dimostrata relativamente semplice, in grado di fornire un guadagno di conoscenza in tempi brevi e con impiego limitato di risorse.
Lo studio, intitolato AI-based protein structure databases have the potential to accelerate rare diseases research: AlphaFoldDB and the case of IAHSP/Alsin, è firmato da Matteo Rossi Sebastiano, Giuseppe Ermondi, Shinji Hadano e Giulia Caron e supporta una Onlus torinese, HelpOlly, nata per trovare una cura per Olivia, una bambina di 4 anni affetta da IAHSP e in lotta contro il tempo per combattere la grave forma di spasticità degenerativa che l’ha colpita. I risultati ottenuti, pertanto, si inseriscono in uno specifico programma di drug discovery.
Nel corso dello studio sono stati analizzati 7 casi clinici di IAHSP. I modelli tridimensionali delle corrispondenti proteine mutate e una serie di strumenti computazionali hanno permesso di comprendere i meccanismi patogenetici di ogni singola mutazione. Approcciare questi casi clinici solo con metodi sperimentali tradizionali avrebbe richiesto anni e ingenti fondi, mentre con questo procedimento si può analizzare la situazione di ogni singolo paziente in poco tempo, delegando alla dimostrazione sperimentale, ovviamente necessaria, solo la conferma finale.
Questo tipo di strategia verificata per la IAHSP è trasferibile ad altre malattie genetiche. Secondo gli autori, integrare quest’approccio nel processo diagnostico, a valle dell’analisi genetica, permetterebbe di comprendere immediatamente i meccanismi patogenetici, valutare la fattibilità di un intervento farmacologico e accelerare la ricerca di una cura personalizzata per ogni paziente.
“Spesso siamo portati a pensare all’intelligenza artificiale come a qualcosa di futuristico e lontano— sottolinea Matteo Rossi Sebastiano, ricercatore del gruppo CassMedChem, Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute di UniTo — ma è fondamentale comprendere come l’applicazione di tali strumenti nel campo della Salute, rappresenti in realtà una rivoluzione in atto, un alleato prezioso e dagli effetti sempre più concreti. Fino a qualche mese fa era inimmaginabile poter dare una “faccia” alla maggior parte delle proteine, men che meno studiarne le varianti patologiche rare. Oggi possiamo, nell’arco di qualche settimana, gettare le basi per strategie terapeutiche personalizzate. Non a caso, la prestigiosa rivista Nature ha definito AlphaFold come metodo dell’anno. È un orgoglio che UniTo sia tra le prime università a fare ricerca con AlphaFold”.
“Le proteine sono macromolecole che garantiscono il corretto funzionamento delle cellule. In molti casi basta la sostituzione di un singolo aminoacido dovuto a una mutazione nel DNA per compromettere il funzionamento di una proteina e della intera cellula. Pertanto — aggiunge Giuseppe Ermondi, docente di Chimica Farmaceutica, Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze pe la Salute di UniTo — è di fondamentale importanza la conoscenza della struttura proteica a livello atomico. Non a caso gli sviluppatori di tutte le principali tecniche di determinazione sperimentale della struttura delle proteine sono stati insigniti del premio Nobel (la crio-microscopia elettronica nel 2018, la risonanza magnetica nucleare nel 2002 e la cristallografia nel lontano 1962). Quando non è possibile ottenere delle strutture sperimentali ci vengono in aiuto alcune tecniche computazionali di predizione della struttura delle proteine. Nel 2013, ancora una volta il premio Nobel ha premiato gli sviluppatori di tecniche di calcolo basate sulla dinamica molecolare che permettono di studiare il comportamento delle proteine e dei loro mutanti a partire dalla struttura a livello atomico.”
“Il primo passo per trovare un trattamento farmacologico verso una malattia genetica consiste nell’ottenere un modello computazionale ragionevole della struttura chimica della proteina responsabile della patologia — spiega Giulia Caron, docente di Chimica Farmaceutica, Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze pe la Salute di UniTo e coordinatrice dello studio — Questo passaggio può essere complesso e scoraggiare ulteriori studi soprattutto per quelle malattie in cui i casi clinici sono pochi e uno diverso dall’altro. D’altro canto, come ricercatori di UniTo, abbiamo il dovere di utilizzare tutti gli strumenti e le competenze a nostra disposizione per dare speranza ai pazienti e ai loro familiari. Ci siamo quindi concentrati sulla tecnologia AlphaFold (disponibile solamente da fine luglio 2021) e l’abbiamo applicata alla coppia alsina/IAHSP per provare a dare qualche prima risposta concreta alla HelpOlly. Con questo studio abbiamo dimostrato che la IAHSP nella forma di Olivia è quantomeno potenzialmente trattabile da un punto di vista farmacologico e pertanto abbiamo applicato una procedura computazionale di drug discovery e individuato una molecola molto promettente per il trattamento della patologia di Olivia. A questo punto però i computer non bastano più e quindi sono in corso una serie di validazioni sperimentali sia dal prof. Hadano in Giappone, sia in altri Dipartimenti dell’Università degli Studi di Torino”.
Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Torino sul nuovo studio relativo al trattamento delle malattie rare.