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DISTROFIE MUSCOLARI DEI CINGOLI: RISULTATI POSITIVI DI UNA PICCOLA MOLECOLA TERAPEUTICA IN UN NUOVO MODELLO DI STUDIO

Il team di ricerca della Professoressa Dorianna Sandonà, dell’Università di Padova, propone su «Human Molecular Genetics» un nuovo modello murino per lo studio della malattia, più vicino alla realtà rispetto alle cellule in coltura. I risultati emersi utilizzando questo nuovo modello indicano che il correttore CFTR C17 consente un recupero completo della forza degli animali trattati, senza effetti tossici.

Distrofie muscolari dei cingoli molecola terapeutica modello di studio
Distrofie muscolari dei cingoli: risultati positivi di una molecola terapeutica in un nuovo modello di studio. La professoressa Dorianna Sandonà in prima fila al centro.

Una piccola molecola individuata per il trattamento della fibrosi cistica potrebbe essere utile anche per le sarcoglicanopatie, malattie genetiche rare appartenenti al gruppo delle distrofie muscolari dei cingoli per le quali non è al momento disponibile alcuna terapia specifica. Lo suggeriscono i risultati ottenuti in un nuovo modello animale della malattia dal gruppo di ricerca della Professoressa Dorianna Sandonà del Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Padova appena pubblicati sulla rivista scientifica «Human Molecular Genetics»* .

«Una delle grosse difficoltà nello studio delle sarcoglicanopatie è la mancanza di modelli animali adatti, che tuttavia sono fondamentali per valutare l’effetto di potenziali nuovi farmaci – dice Dorianna Sandonà -. Una parte fondamentale di questo lavoro è stata proprio quella di sviluppare un nuovo modello di una di queste malattie, la distrofia dei cingoli indicata come LGMD3, più vicino alla realtà rispetto alle tradizionali colture di cellule. Grazie a questo nuovo modello animale – un topo geneticamente modificato – abbiamo potuto testare per la prima volta in un organismo vivente una piccola molecola già sperimentata con successo nel caso della fibrosi cistica: il correttore CFTR C17».

I risultati ottenuti sono decisamente promettenti: i ricercatori hanno infatti osservato il recupero completo della forza muscolare negli animali malati trattati con il correttore.

Il nuovo modello

Il modello è costituito da topi privi del gene corrispondente a quello che, nell’essere umano, codifica la proteina coinvolta nelle distrofie LGMDR3. In questi animali viene introdotto alla nascita il gene umano, con la mutazione responsabile della malattia. Una volta cresciuti, i topi mostrano effetti analoghi a quelli della distrofia nell’essere umano, come per esempio l’assenza dalla localizzazione sulla membrana delle cellule muscolari di una particolare proteina chiamata sarcoglicano, fondamentale per il corretto funzionamento dei muscoli e, a livello di sintomi, un’evidente riduzione della forza muscolare.

«In molti casi di LGMDR3, la proteina mutata viene prodotta, ma con una forma diversa da quella fisiologica. Per questo motivo, anche se potrebbe comunque svolgere la sua funzione, viene riconosciuta come difettosa dai sistemi di controllo di qualità della cellula ed eliminata prima ancora che possa raggiungere la sua collocazione – spiega Dorianna Sandonà –. Qualcosa di analogo succede nella fibrosi cistica, dove il correttore CFTR C17 si è mostrato in grado di recuperare le proteine dalla forma “sbagliata”, permettendo loro di arrivare al sito di destinazione e ripristinando una situazione simile a quella fisiologica. Da qui l’idea di valutare l’effetto anche nel caso delle sarcoglicanopatie. Il dato più promettente di questo studio – sottolinea Sandonà – è che il trattamento con il correttore dei topi modello di malattia che abbiamo sviluppato permette il recupero completo della forza muscolare, che torna ad essere uguale a quella degli animali sani».

Grazie alla preziosa collaborazione di altri ricercatori dell’Università di Padova, è stata misurata accuratamente la forza muscolare degli animali testati e, parallelamente, non sono stati rilevati effetti tossici causati della sostanza somministrata.

«Questi dati – conclude Dorianna Sandonà – rafforzano l’idea che i correttori CFTR C17 possano rappresentare una valida opzione terapeutica per diverse malattie genetiche, muovendo così un altro importante passo verso la sperimentazione clinica».

Il lavoro di questo piccolo ma intraprendente gruppo, formato da cinque persone coordinate da Dorianna Sandonà, che da anni si occupa di malattie genetiche rare – in particolare delle sarcoglicanopatie – è stato reso possibile grazie al supporto di AFM (Association Française contre les Myopathies), MDA (Muscular Dystrophy Association) e Fondazione Telethon. Con un nuovo finanziamento della Fondazione Telethon, la Professoressa Sandonà guida dal primo ottobre di quest’anno un nuovo progetto per lo sviluppo di piattaforme in cui creare muscoli artificiali utilizzando direttamente le cellule dei pazienti.

Proprio in questi giorni è in corso sulle reti RAI la trentaduesima edizione della Maratona televisiva di Fondazione Telethon per sostenere la ricerca sulle malattie genetiche rare. Grazie al sostegno degli italiani è possibile raggiungere anche risultati come questo. Fino al 31 dicembre sarà possibile donare chiamando da rete fissa o inviando un sms al numero solidale 45510.

*Link alla ricerca, https://academic.oup.com/hmg/advance-article/doi/10.1093/hmg/ddab260/6367978

Titolo: “CFTR corrector C17 is effective in muscular dystrophy, in vivo proof of concept in LGMDR3” – «Human Molecular Genetics» – 2021

Autori: Martina Scano, Alberto Benetollo, Leonardo Nogara, Michela Bondì, Francesco Dalla Barba, Michela Soardi, Sandra Furlan, Eylem Emek Akyurek, Paola Caccin, Marcello Carotti, Roberta Sacchetto, Bert Blaauw and Dorianna Sandonà*.

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Padova

Su “Brain, Behavour and Inflammation” uno studio di Statale e Fondazione Don Gnocchi che verifica come l’infezione con il parassita Leishmania possa avere un ruolo protettivo contro lo sviluppo della malattia.

Alzheimer infezione parassitaria Leishmania
Immagine di Tumisu

La malattia di Alzheimer colpisce prevalentemente individui anziani, ha un’eziologia ancora sconosciuta ed è una condizione neurodegenerativa caratterizzata da una progressiva demenza da severa infiammazione, per la quale non esiste ancora alcuna cura. Diversi studi hanno mostrato come i meccanismi infiammatori, probabilmente scatenati dalla presenza di placche di amiloide nel cervello, siano secondari all’attivazione di un sistema multiproteico intracellulare chiamato inflammasoma.

Un recente articolo pubblicato sul New York Times ha rivelato come in una tribù amazzonica studiata per anni non vi fosse alcun segno di Alzheimer negli anziani, nonostante la presenza del solo fattore di rischio generico noto: ApoE4; il giornalista ipotizzava come ciò potesse essere collegato alla presenza di infezioni parassitarie.

Stimolati da questa osservazione, l’Università degli Studi di Milano e Fondazione Don Gnocchi, con i docenti dell’Ateneo, Mario Clerici, Donatella Taramelli e Nicoletta Basilico e la dottoressa Marina Saresella, del Laboratorio di Medicina molecolare e Biotecnologia della Fondazione,  e Helen Banks, del Centre for Research on Health and Social Care Management (Cergas) dell’Università Bocconi, hanno condotto uno studio che ha verificato la possibilità che l’infezione con Leishmania, un parassita endemico in Amazzonia, possa inibire l’attivazione dell’inflammasoma e lo sviluppo di infiammazione in cellule stimolate con amiloide, o di pazienti con malattia di Alzheimer. I risultati, pubblicati sulla prestigiosa rivista Brain, Behavour and Inflammation hanno confermato questa ipotesi: l’infezione con parassiti impedisce lo sviluppo di infiammazione e potrebbe avere un possibile ruolo protettivo contro lo sviluppo della malattia.

L’idea di utilizzare composti derivati da parassiti come farmaci immunomodulatori in malattie autoimmuni era già stata avanzata in precedenza. Recenti risultati ottenuti in modelli animali hanno evidenziato che questo tipo di approccio potrebbe essere di beneficio anche in malattie umane; quest’ultimo studio suggerisce la possibile utilità anche per la malattia di Alzheimer.

 

Comunicato Stampa Università degli Studi di Milano La Statale