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IL CODICE DELLA MEMORIA: L’ERC CONSOLIDATOR GRANT AL PROGETTO DI RICERCAA ATCOM
Il neuroscienziato Roberto Bottini si è aggiudicato il finanziamento dell’European Research Council. Studierà il linguaggio della mente attraverso i movimenti oculari. La ricerca potrà aiutare la diagnosi precoce delle malattie neurodegenerative.

Trento, 23 novembre 2023 – Gli occhi sono lo specchio della mente? Parte da questa domanda il progetto di ricerca di Roberto Bottini, docente al Centro interdipartimentale Mente/Cervello – Cimec, che ha appena ricevuto il finanziamento dell’European Research Council. Il riconoscimento viene assegnato attraverso una selezione su base competitiva, in cui l’unico criterio di valutazione è l’eccellenza scientifica del progetto e il curriculum di chi lo propone. Questa volta, sul bando 2023 della categoria ERC Consolidator Grant destinata a ricercatori e ricercatrici con esperienza tra i sette e i dodici anni dal conseguimento del dottorato di ricerca e con un curriculum scientifico promettente, il tasso di successo è stato del 14,5%. Su 2.130 candidati, il Consiglio europeo della ricerca ne ha selezionati 308, per un totale di 627 milioni di euro. I finanziamenti rientrano nel programma Horizon Europe.
I progetti che si svolgeranno in un ateneo italiano sono 15. Con quello di oggi, l’Ateneo di Trento raggiunge quota 41 riconoscimenti complessivi in tutti gli ultimi programmi europei (Horizon Europe, Horizon 2020, Settimo programma quadro).
Per Roberto Bottini, neuroscienziato cognitivo, è il secondo premio europeo. Il primo nel 2019, l’Erc Starting Grant, per ricercatori con alle spalle dai due ai sette anni di esperienza maturata dopo il conseguimento del dottorato di ricerca.

Il progetto vincitore
Il titolo della ricerca è “Atcom – An attentional code for memory”. L’obiettivo è capire come funziona la memoria umana, qual è il meccanismo da cui nascono i ricordi e le connessioni tra le nozioni acquisite, partendo dai movimenti oculari delle persone. Trovare una sorta di codice attenzionale alla base delle strutture mnemoniche, un po’ come il DNA per le proteine o il codice morse per il linguaggio.
Lo studio, che ha ottenuto un finanziamento di due milioni di euro, si svolgerà utilizzando metodi e tecnologie innovative.

«I movimenti oculari sono un indicatore per l’attenzione. Stanno diventando sempre di più uno strumento diagnostico importante. Quello che vogliamo fare è leggere la mente e riuscire a capire a cosa le persone stanno pensando seguendo questi movimenti con un tracciatore a infrarossi, un eye tracker», spiega Bottini.
«In questo senso gli occhi sono un po’ lo specchio della mente. Riflettono la struttura dei pensieri, ciò che lega diversi concetti e idee. Questo è quello che intendo quando parlo di codice della memoria. Noi sappiamo che Parigi è la capitale della Francia, oppure associamo un certo piatto ad una vacanza. I ricordi possono essere collegati tra di loro in modo diverso. Può esserci un rapporto di causa-effetto, due cose possono essere simili tra di loro oppure opposte, o ancora c’è una relazione di parte con il tutto. Queste relazioni che mettono in contatto le nostre idee, i nostri concetti, sono lo scheletro del nostro pensiero, il tessuto che lega tutto quello che conosciamo. Capire come questo tessuto emerge a livello cerebrale è una sfida ancora aperta».
L’indagine prevede anche l’utilizzo di strumentazioni di brain-imaging per le neuroimmagini del cervello umano, dalla risonanza magnetica alla magnetoencefalografia. In alcuni studi saranno inoltre raccolti dati neurali grazie a dispositivi cerebrali impiantati temporaneamente in alcuni pazienti per motivi medici.
Scoprire e tradurre questo codice neurale può essere utile nella diagnosi precoce delle malattie neurodegenerative. Si tratta di comprendere il meccanismo di quella che viene chiamata relational memory, la capacità di ricordare associazioni tra oggetti, luoghi, persone o eventi. Quella che in pratica aiuta a ricordare la strada di casa o il compleanno di una persona cara. Questo tipo di memoria è il tessuto connettivo che per primo viene danneggiato in patologie come l’Alzheimer.
Infine studiare il codice neurale alla base della memoria e dell’apprendimento può servire a capire quanto l’intelligenza degli esseri umani sia simile e diversa rispetto alle moderne reti neurali artificiali.
Roberto Bottini
Roberto Bottini, vincitore dell’ERC Consolidator Grant per il progetto di ricerca Atcom – An attentional code for memory, per comprendere il codice della memoria

 

Testo e foto dall’Ufficio stampa e Relazioni esterne Direzione Comunicazione e Relazioni esterne dell’Università di Trento

LINGUAGGIO DELLA MAMMA E CERVELLO DEI NEONATI

Dallo studio dell’Università di Padova pubblicato su Science Advances si evince che il cervello del neonato sembra essere strutturato per ricordare e rispondere in modo diverso alla lingua che ha ascoltato già prima della nascita. Questa risposta “forte” indica una sorta di “privilegio” linguistico che modella le prime fasi dell’apprendimento del linguaggio.

Sappiamo per esperienza che è molto più facile imparare una lingua da bambini che da adulti e lo studio delle cosiddette “finestre di opportunità” dimostra che i primi mesi e anni di sviluppo sono fondamentali per l’acquisizione del linguaggio. Imparare una seconda lingua da adulti è molto più difficile, inoltre l’acquisizione del linguaggio inizia già durante il periodo di gravidanza durante il quale il feto può sentire il suono che si propaga – benché distorto – all’ interno del grembo materno. I bambini, quindi, hanno già avuto una certa esposizione alla lingua parlata dalla loro mamma anche prima di nascere.

Nello studio dal titolo Prenatal experience with language shapes the brain pubblicato su Science Advances i ricercatori hanno indagato quanto il cervello dei neonati sia influenzato da questa precedente esposizione al linguaggio.

«Ci siamo chiesti – affermano gli autori della ricerca – come cambia l’attività del cervello dei neonati dopo aver sentito delle frasi nella loro lingua o in altre lingue e abbiamo ipotizzato che questi cambiamenti siano la base neurale dell’apprendimento della lingua madre. Siamo quindi passati a misurare l’attività neurale dei neonati mentre ascoltavano frasi in francese, la loro lingua madre, così come in spagnolo e inglese, due lingue sconosciute. Tutto questo mediante l’elettroencefalografia, una tecnica standard di misurazione dell’attività neuronale. Il nostro studio mostra che l’attività neuronale è più complessa dopo l’esposizione alla lingua materna e conserva una memoria delle risposte neuronali date in passato. Infatti, queste risposte diventano più frequenti».

Per misurare questa forma di complessità nel dominio temporale abbiamo utilizzato una tecnica chiamata Detrended Fluctuation Analysis (DFA) che aiuta a capire quanto bene un sistema “ricorda” ciò che è successo prima e lo fa misurando quanto un processo sia simile a sé stesso a diverse scale di tempo. Possiamo chiamare auto-similare un processo in cui piccole variazioni si ripresentano allo stesso modo anche su scale temporali più lunghe (come quando una melodia si ripete in modo riconoscibile); all’opposto processi completamente aleatori (come i numeri generati dal lancio di un dado) non mostrano nessun tipo di regolarità, o memoria, e quindi hanno una complessità minore nella loro struttura temporale.

Il risultato principale della DFA è un numero α, chiamato “esponente di Hurst”: è questo α a contenere la chiave della “memoria” del segnale neuronale. Più grande è α per un segnale, più le esperienze passate influenzano ciò che accade dopo il che corrisponde a processi. Più grande è α per un segnale, più le esperienze passate influenzano ciò che accade dopo il che corrisponde a processi neuronali più complessi.

«Abbiamo scoperto che quando a un neonato viene fatto ascoltare il linguaggio a cui è stato esposto durante la gravidanza, la sua attività cerebrale mostra un picco di α, cosa che non accade quando invece la lingua è diversa. Questo fatto – dice Judit Gervain del Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione dell’Università di Padova – indica che nel cervello dei neonati, l’esposizione alla lingua materna innesca processi cerebrali di natura complessa, dinamiche neuronali che probabilmente sono associate all’elaborazione e apprendimento della lingua. Questi processi sono molto meno forti quando i neonati sentono un’altra lingua, e possiamo concludere che siano stati generati ed evoluti durante lo sviluppo prenatale. In altre parole, il cervello del neonato sembra essere strutturato per ricordare e rispondere in modo diverso alla lingua che ha ascoltato già prima della nascita e questa maggiore risposta indica una sorta di “privilegio” linguistico che modella le prime fasi dell’apprendimento del linguaggio. Si tratta di una rivelazione – conclude la professoressa Gervain – che mette in luce la straordinaria capacità di adattamento del cervello, soprattutto in relazione con la grande complessità del linguaggio umano».

Judit Gervain
Judit Gervain, del Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione dell’Università di Padova

Link alla ricerca: https://www.science.org/doi/10.1126/sciadv.adj3524

Titolo: “Prenatal experience with language shapes the brain” Science Advances 2023

Autori: Benedetta Mariani, Giorgio Nicoletti, Giacomo Barzon, Maria Clemencia Ortiz Barajas, Mohinish Shukla, Ramón Guevara, Samir Simon Suweis, Judit Gervain.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova sullo studio circa linguaggio della mamma e  cervello dei neonati.

A NOVE MESI I BAMBINI IMPARANO LA GRAMMATICA DALLA PROSODIA, CIO LA MELODIA DEL PARLATO

Pubblicato su Science Advances lo studio congiunto dei ricercatori delle Università di Padova e Barcellona che rivela come i bambini siano in grado di iniziare a imparare la grammatica della lingua molto prima di quanto si pensasse finora, già a nove mesi, e lo fanno prestando attenzione alla prosodia, cioè la melodia del linguaggio.

Il linguaggio umano ha un’incredibile forza espressiva. Ciò è dovuto alla nostra abilità di pronunciare frasi lunghe e complesse in cui le parole che sono correlate insieme possono essere talvolta molto distanti tra loro. Ad esempio comprendiamo benissimo che nella frase “Lei dorme bene”, “Lei” è il soggetto di “dorme”, ma è altrettanto vero che capiamo lo stesso legame nella frase “Lei, che non beve caffè, dorme bene” in cui le parole “Lei” e “dorme” sono separate da altre.

Gli adulti sono esperti con la lingua perciò non ci sorprende affatto che possano facilmente capire e produrre frasi come queste. Ma come funziona per i bambini molto piccoli, quelli che stanno appena imparando la lingua? Come fa il loro cervello a trovare le regolarità tra parole che sono separate da altre in una frase? Dato che ci sono infinite possibili parole che potrebbero star bene insieme, sembra un compito davvero arduo quello di tenere traccia di tutte le possibilità.

Fino ad ora i ricercatori pensavano che i bambini fossero in grado di imparare le relazioni tra parole distanti soltanto dopo il primo anno di età, cioè dopo aver iniziato a parlare. Un recente studio dal titolo “Prosodic cues enhance infants’ sensitivity to nonadjacent regularities”, pubblicato sulla rivista «Science Advances», dimostra invece che i bambini sono in grado di imparare queste relazioni già a nove mesi.

La ricerca, condotta da Ruth de Diego Balaguer e Ferran Pons dell’Istituto di Neuroscienze dell’Università di Barcellona, in collaborazione con Anna Martinez-Alvarez e Judit Gervain, dell’Università di Padova e del CNRS di Parigi, mostra come il cervello sia già sensibile a queste regolarità all’età di 9 mesi. La pubblicazione suggerisce che i bambini siano in grado di risolvere questo compito principalmente ascoltando molto attentamente la prosodia, cioè la melodia del linguaggio. Attraverso le osservazioni del loro comportamento e monitorando le risposte cerebrali i ricercatori hanno notato che quando le parole, tra loro dipendenti, venivano pronunciate con una tonalità più alta – marcate cioè con l’intonazione – i bambini riuscivano a capire meglio le dipendenze tra le parole distanti.

«Lo studio suggerisce – dice Judit Gervain del Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione dell’Università di Padova – che i bambini siano in grado di iniziare a imparare la grammatica della lingua molto prima di quanto si pensasse finora, e che lo fanno prestando attenzione alla sonorità del linguaggio.

Judit Gervain
Judit Gervain

Gli autori hanno esaminato la sensibilità di bambini di 9 mesi alle dipendenze non adiacenti, quindi alle dipendenze come quella tra il soggetto “I bambini” e il verbo “giocano” in una frase come “I bambini della vicina di mia nonna giocano nel giardino”, dove il soggetto e il verbo sono separati da altre parole. Invece di usare una vera lingua, i ricercatori hanno creato una lingua inventatacomposta di sequenze trisillabiche secondo la struttura AXB, in cui le sillabe A e B predicevano l’uno l’altro, mentre X variava ogni volta, per esempio “petabu” oppure “pegobu”. Non solo, hanno modulato la stessa lingua inventata in due varianti: la prima in cui le sillabe contenenti le dipendenze avevano una modulazione più acuta (intonata), l’altra in cui l’intonazione era identica in tutte le sillabe (monotona).

Per misurare le risposte in modo non invasivo, i ricercatori hanno impiegato la spettroscopia nel vicino infrarosso (near-infrared spectroscopy – NIRS). Questa tecnica analizza il modo in cui la luce infrarossa viene riflessa, che dipende dai cambiamenti nel consumo di ossigeno nel flusso sanguigno, per rilevare quali aree cerebrali rispondono alle diverse condizioni sperimentali.

Quando ai bambini veniva presentato un linguaggio monotono, cioè senza alcuna modulazione dell’intonazione, il loro cervello dimostrava un livello ridotto di apprendimento della dipendenza non adiacente. Quando invece la stessa frase veniva proposta nella lingua intonata, in particolare con una tonalità più alta che evidenziava le sillabe A e B collegate tra loro, le risposte neurali indicavano che i bambini erano in grado di imparare le dipendenze.

Questa selettività di recepimento delle dipendenze, attraverso la melodia, permette ai bambini piccoli di imparare la lingua in modo efficiente già prima del loro primo compleanno e che già, in tenerissima età, sono dotati di potenti meccanismi di apprendimento.

Questo studio indica che se una rudimentale sensibilità alle regolarità non-adiacenti potrebbe essere presente già a 9 mesi, un apprendimento robusto e affidabile può essere raggiunto a questa età solo quando sono presenti informazioni melodiche che aiutano il cervello dei bambini a rilevare le parole che costituiscono una dipendenza non-adiacente.

Questi risultati gettano luce sulla comprensione del ruolo della prosodia nell’acquisizione del linguaggio e forniscono evidenza dell’impatto cruciale che hanno i cambiamenti anche sottili di intonazione nel processamento di informazioni statistiche nei bambini molto piccoli.

grammatica linguaggio nove mesi bambino
A nove mesi i bambini imparano la grammatica dalla prosodia. Foto di Lisa Runnels

Link alla ricercahttps://www.science.org/doi/10.1126/sciadv.ade4083

Titolo: “Prosodic cues enhance infants’ sensitivity to nonadjacent regularities” – «Science Advances» 2023

Autori: Anna Martinez-Alvarez, Judit Gervain, Elena Koulaguina, Ferran Pons, Ruth de Diego-Balaguer

Testo e immagini (ove non indicato diversamente) dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova sullo studio congiunto che dimostra come a nove mesi i bambini imparino la grammatica dalla prosodia.

Secondo il World Alzheimer Report del 2016, le persone con demenza erano 47 milioni in tutto il mondo e, con l’invecchiamento della popolazione, la cifra è destinata ad aumentare fino ad oltre 131 milioni entro il 2050. La demenza è un disturbo caratterizzato da un declino significativo delle funzioni cognitive (memoria, linguaggio, orientamento spazio-temporale, ecc.) e questo interferisce con il funzionamento lavorativo, sociale e domestico della persona affetta (Gale, Acar & Daffner, 2018).

In una società come la nostra, in cui si è perennemente impegnati nei propri progetti e nel riuscire a portarli a termine, e quindi in attività che richiedono l’impiego di funzioni cognitive sofisticate, questo comporta una immediata svalutazione di chi riceve una tale diagnosi. Infatti, la persona con demenza viene oggettivata, ritenuta inferiore e i rapporti interpersonali dal tipo io-tu si trasformano in io-esso (Dewing, 2008). Inoltre, si crea un divario tra “noi”, i sani e i competenti e “loro”, i danneggiati (Kitwood & Bredin 1992). Dunque, sembra che l’Altro non venga più percepito come un soggetto con proprie emozioni, desideri e bisogni, bensì come un oggetto. 

È importante, allora, interrogarsi su quale sia lo stato che può propriamente essere definito “essere una persona”. Nel far ciò, Kitwood (1992) sostiene che l’essere persona (personhood) abbia una natura sociale, è una condizione, uno status che viene conferito dagli altri e pertanto nasce nella relazione con l’Altro. Infatti, il percorso che permette al bambino di acquisire alcuni attributi dell’essere umano ha una natura sociale, il neonato ha bisogno di una figura che si prenda cura di lui. In particolare, il bambino impara a relazionarsi con gli altri, con le varie situazioni e ad avere una certa visione di se stesso, grazie ai legami significativi che gli forniscono sicurezza e supporto. La personhood non è una proprietà individuale, per il suo sviluppo sono necessari gli altri. 

Se si considera la persona nella sua interezza e se ci si concentra sulla natura relazionale della personhood e non soltanto sull’aspetto cognitivo, la persona con demenza non ha perso i suoi attributi essenziali dell’essere umano e ha ancora dei bisogni e delle emozioni. Di conseguenza, anche il modo in cui ci si relaziona può avere un impatto negativo che mina i bisogni della persona con demenza, o positivo che ne sostiene il benessere. 

 

Cinque bisogni psicologici

Kitwood (1997) individua cinque bisogni dell’essere umano che risultano essenziali in una persona con demenza e questi sono tenuti insieme da un unico centro che è l’amore (figura).

demenza persone fiore bisogni okrae Alessia Colafrancesco Tom Kitwood
Il fiore dei bisogni, rivisitazione del fiore di Kitwood (1997), a cura di @okrae_ – Alessia Colafrancesco

Come mostrato in figura, i bisogni sono: il conforto, l’attaccamento, l’inclusione, l’occupazione e l’identità.
Il conforto corrisponde alla tenerezza, al calore, ciò che può lenire l’ansia e la paura.
Riguardo al secondo bisogno, l’uomo ha necessità di avere legami di attaccamento, soprattutto in condizioni di fragilità come nella demenza. Kitwood spiega come il pioniere degli studi in questo campo, ovvero Bowlby, sostenga che i legami di attaccamento che si creano tra il bambino e chi si prende cura di lui, formano una rete di sicurezza che garantisce il benessere dell’individuo. Come nell’infanzia in cui predomina l’incertezza, anche nella demenza l’incertezza e l’ansia diventano predominanti ed è di fondamentale importanza avere dei legami significativi.

Il terzo bisogno riguarda l’inclusione, ovvero il sentirsi parte di un gruppo. Purtroppo, le persone con demenza si trovano spesso isolate, non hanno un gruppo a cui appartenere e, talvolta, perdono anche i loro familiari. Come conseguenza la persona potrebbe regredire. Invece, se il bisogno venisse soddisfatto, ciò potrebbe portare un miglioramento delle condizioni della persona (Kitwood, 1997).
L’occupazione consiste nel sentirsi impegnati in qualcosa, nell’avere un progetto e portarlo a termine. Questo fa sentire l’essere umano competente e utile. Nella demenza, anche se le funzioni cognitive vengono meno, il bisogno di occupazione persiste. Infine, vi è l’identità, il sapere chi si è e avere un senso di continuità con il passato. Essa dipende anche dagli altri e dalla loro percezione che hanno su di noi. Pertanto, in una condizione in cui varie fonti dell’identità vengono perse, è ancora più importante il ruolo che hanno gli altri nel conferire un’identità alla persona con demenza.

Personal Enhancer e Personal Detraction

demenza
Foto di Gerd Altmann

Nel Dementia Care Mapping, strumento di osservazione e di valutazione per la demenza, vengono mostrati i comportamenti che potrebbero soddisfare questi bisogni (Personal Enhancer) e quelli che li potrebbero minare (Personal Detraction) (Brooker & Surr, 2006).
Come sostengono gli autori, il conforto può essere soddisfatto stando vicino alla persona con demenza con calore e assecondando i suoi ritmi; può essere minato attraverso l’intimidazione, il rifiuto e non assecondando i ritmi. Riguardo all’attaccamento, è importante essere autentici e riconoscere le emozioni e i comportamenti dell’altro senza accusare o mentire. Invece, un esempio per soddisfare il bisogno di inclusione è il ridere con e non il ridere di. Inoltre, fra i comportamenti negativi vi sono la stigmatizzazione e l’ignorare. Collaborare e facilitare la persona con demenza senza imposizioni e senza sostituirsi potrebbe aiutarla ad appagare il bisogno di sentirsi occupato. Infine, per favorire il benessere dell’individuo e sostenere la sua identità, bisognerebbe avere un atteggiamento di rispetto, accettazione e celebrazione. Diversamente, con il disprezzo e relazionandosi come se l’Altro fosse un bambino, si potrebbe ottenere l’effetto contrario.

Cambiare prospettiva

Foto di silviarita

È difficile poter comprendere del tutto il punto di vista di una persona con demenza, dato che nessuno è mai tornato indietro da questa esperienza per poterla raccontare ma, come sostiene Kitwood (1997), ci sono dei modi per provare a farlo. Degli esempi potrebbero essere la lettura di scritti di persone con demenza in fasi non gravi; ascoltare le esperienze di coloro che hanno avuto vissuti simili, come succede nella depressione e nelle meningiti; oppure attraverso l’immaginazione poetica, ovvero utilizzando storie di fantasia scritte con un linguaggio poetico. Infatti, come sostiene l’autore, il linguaggio poetico, essendo meno lineare e più condensato rispetto al linguaggio abituale, risulta essere un mezzo più potente per comunicare un vissuto.

Eccone un esempio:

“Qualche volta intravedi un volto familiare, ma, non appena ti avvicini, il viso svanisce o si trasforma in un demone. Ti senti disperatamente perso, solo, sconcertato, spaventato. […] Ma la cosa peggiore è che tu sai che non è sempre stato così. Dietro la nebbia e l’oscurità c’è un vago ricordo del buon tempo in cui sapevi dov’eri e chi eri, quando ti sentivi vicino agli altri, e quando eri in grado di portare a termine i compiti quotidiani con abilità e grazia.” (T. Kitwood, 1997, p. 17)

Kitwood mostra come la persona con demenza possa provare diverse emozioni e sentimenti, come il sentirsi soli e spaventati. Altri esempi potrebbero essere la paura dell’abbandono e dell’umiliazione, ansia, frustrazione, senso di inutilità, rabbia, confusione, terrore, disperazione e depressione. Si può passare da uno stato all’altro senza un percorso lineare e alcuni di essi possono presentarsi simultaneamente con diversa intensità. Nel suo lavoro, Kitwood (p. 20-21) riporta anche un racconto di fantasia in cui una donna con demenza grave e in assistenza residenziale viene presa in carico con un approccio che segue il suo modello centrato sulla persona, attento ai cinque bisogni. 

Sei in un giardino, all’inizio di una giornata estiva. L’aria è calda e dolce e trasporta un dolce profumo di fiori e una leggera nebbia aleggia intorno. Non riesci a distinguere la forma di tutto, ma sei consapevole di alcuni bei colori, blu, arancione, rosa e viola; l’erba è verde come lo smeraldo. Non sai dove ti trovi, ma non importa. In qualche modo ti senti “a casa” e c’è un senso di armonia e pace. Mentre cammini, diventi consapevole delle altre persone. Molti di loro sembrano conoscerti; è una gioia essere accolti così calorosamente e per nome. Ce ne sono uno o due che ritieni di conoscere bene. […] La fiamma della vita ora brucia luminosa e allegramente dentro di te. Non è sempre stato così. Da qualche parte, nel profondo, ci sono vaghi ricordi di tempi di solitudine opprimente e paura gelida. Quando è stato, non lo sai; forse era in un’altra vita. Ora c’è compagnia ogni volta che vuoi e tranquillità quando lo preferisci. Questo è il posto a cui appartieni, con queste persone meravigliose che sono come una specie di famiglia.”

Così Kitwood immagina l’esperienza di una donna accolta in maniera calorosa e secondo l’approccio suddetto. Questo mette in evidenza quanto possa essere benefico per una persona con demenza sentire riconosciuti e soddisfatti i propri bisogni. Un approccio che faccia sentire maggiormente supportati e meno soli, che potrebbe aprire un nuovo capitolo fatto di piaceri e gioia

 

 

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BIBLIOGRAFIA

Brooker, D. J., & Surr, C. (2006). Dementia Care Mapping (DCM): initial validation of DCM 8 in UK field trials. International journal of geriatric psychiatry, 21(11), 1018–1025.

Dewing, J. (2008). Personhood and dementia: revisiting Tom Kitwood’s ideas. International journal of older people nursing, 3(1), 3–13.

Kitwood, T., (1997). The experience of dementia. Aging and Mental Health, 1, 13-22.

Kitwood, T., & Bredin, K. (1992). Towards a Theory of Dementia Care: Personhood and Well-being. Ageing and Society, 12, 269-287.

Martin, P.,  Comas-Herrera, A., Knapp, M., Guerchet, M. & Karagiannidou, M. (2016). World Alzheimer report 2016: improving healthcare for people living with dementia: coverage, quality and costs now and in the future. Alzheimer’s Disease International