Stipendi, carriera e livelli di stress: la fotografia della qualità del lavoro in Italia con l’indagine di Italian Lives
Nuovi dati dall’indagine longitudinale e pluriennale “Italian Lives”, promossa dal dipartimento di Sociologia e ricerca sociale dell’Università di Milano-Bicocca
Milano, 21 settembre 2023 – Più della metà dei lavoratori italiani lamenta scarse prospettive di carriera e livelli di impegno fisico e di stress troppo elevati sul posto di lavoro. Mentre la maggioranza degli intervistati percepisce come abbastanza adeguati: retribuzione, orari, riconoscimento del merito e supporto relazionale. Emerge una qualità disuguale del lavoro italiano. Per le donne delle generazioni X e Millennials, l’ingresso nel mondo occupazionale avviene tre anni in ritardo rispetto ai maschi. E impiegano un mese in più a uscire dal primo episodio di disoccupazione.
Sono alcuni degli ultimi dati restituiti da “Italian Lives” (Ita.Li), l’indagine longitudinale e pluriennale quanti-qualitativa promossa dall’Istituto IASSC del dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale dell’Università di Milano-Bicocca, che si basa su un campione di 5mila famiglie, per un totale di 9mila individui che appartengono a 280 Comuni di tutta Italia. Un sondaggio realizzato nel 2019 per ricostruire il corso di vita di tutti i membri delle famiglie selezionate dal momento della nascita a quello dell’intervista, in relazione a diversi ambiti, tra i quali la mobilità geografica, l’istruzione, la carriera lavorativa, la costituzione delle unioni e la nascita dei figli.
I dati sono stati presentati nel pomeriggio di oggi, 21 settembre 2023, all’Università di Milano-Bicocca durante l’incontro di inaugurazione della settima edizione del Festival delle Trasformazioni, la rassegna di eventi, dibattiti e mostre organizzata dal dipartimento di Sociologia e ricerca sociale dell’ateneo milanese e da Rete Cultura Vigevano, che quest’anno ha come tema principale “Vita & lavoro: gli orizzonti del domani” e continuerà fino al 1° ottobre. L’incontro è stato aperto dai saluti della rettrice dell’Università di Milano-Bicocca, Giovanna Iannantuoni, e della direttrice del dipartimento di Sociologia e ricerca sociale, Sonia Stefanizzi.
Dalle domande di Ita.Li dedicate alla qualità del lavoro, rivolte a circa 4mila soggetti
«emergono gli aspetti ritenuti meno attraenti – spiega Serafino Negrelli, docente dell’Ateneo, direttore dell’Istituto IASSC e direttore scientifico del Festival – che potrebbero essere all’origine del crescente mismatch tra domanda e offerta, ovvero di scelte di rifiuto, dimissioni e/o cambiamento da parte dei lavoratori. Il Bollettino Excelsior di settembre, realizzato da Unioncamere con Anpal riporta che dei 531mila profili di offerte di lavoro, ben il 48 per cento resterà vacante».
E così, dai dati raccolti si ricavache il 54,4 per cento del campione ritiene scarse le prospettive di carriera. Il 56,2 per cento ritiene che il lavoro lo impegni molto fisicamente e il 59,3 per cento si sente sotto pressione per ritmi e scadenze temporali.
«Un dato confermato purtroppo da livelli ormai intollerabili di infortuni e morti»,
sottolinea Negrelli. Il 60 per cento del campione concorda invece che la retribuzione sia adeguata, che il lavoro svolto abbia un adeguato riconoscimento, che gli orari di lavoro, al di là dei ritmi stressanti, si concilino abbastanza con gli impegni familiari e sociali e il 58,2 per cento degli intervistati sostiene di ricevere supporto e aiuto da colleghi e vertici.
Dalle analisi condotte sempre sui dati Ita.Li da Mario Lucchini,Davide Bussi, Carlotta Piazzoni, rispettivamente professore e ricercatori del dipartimento di Sociologia dell’Università di Milano-Bicocca, emerge
«un innalzamento progressivo dell’età di completamento degli studi e un conseguente ritardo dell’ingresso nel mercato del lavoro, della costituzione delle unioni matrimoniali e della genitorialità».
Le donne nelle generazioni più recenti, X e Millennials
«studiano di più rispetto ai coetanei maschi ed entrano più tardi nel mercato del lavoro. Più nello specifico, le donne appartenenti alle ultime generazioni mostrano un’età mediana di ingresso nel mercato del lavoro che si attesta a 24 anni, tre anni in più rispetto ai coetanei uomini».
Tale differenza di genere è da imputare alla persistenza di stereotipi, norme, modelli culturali e carenza di domanda di lavoro che penalizzano in primo luogo le donne meridionali. Va comunque sottolineato che nelle generazioni più recenti l’età mediana delle donne al Sud si è ridotta significativamente, segno di un profondo cambiamento culturale e di un allentamento della specializzazione dei ruoli di genere».
Anche in riferimento al fenomeno della disoccupazione si delinea
«un divario di genere: la durata mediana di fuoriuscita dal primo episodio di ricerca di lavoro è di un mese in più per le donne rispetto ai coetanei uomini. Il divario si attesta a due mesi per gli episodi di disoccupazione successivi al primo. La mobilità di lavoro cresce nel volgere delle coorti, segno che le traiettorie lavorative diventano più differenziate e incerte. Classe sociale e area geografica continuano ad essere importanti fattori di eterogeneità nel condizionare i tempi delle transizioni e i pattern di mobilità di lavoro e di carriera».
Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca
liberamente ispirato dagli scritti sull’ideologia del lavoro di Roland Paulsen
Durata 77’
DAL 15 GIUGNO AL CINEMA CON FANDANGO DISTRIBUZIONE
After Work – Opzioni per lo streaming
SINOSSI LUNGA
Nel 2013, due ricercatori di Oxford hanno pubblicato “The Future of Employment” (Il futuro dell’occupazione), in cui hanno analizzato la possibilità che diverse professioni vengano sostituite da algoritmi informatici nei prossimi 20 anni. Questo studio, molto citato, è giunto alla conclusione che il 47% dei lavori statunitensi è ad alto rischio. Ad esempio, c’è una probabilità del 99% che gli addetti al telemarketing e i sottoscrittori di assicurazioni perdano il loro lavoro a favore degli algoritmi. Il 97% di probabilità che entro il 2033 i cassieri saranno sostituiti da macchine. Per gli autisti di autobus le probabilità sono l’89%.
La maggior parte dei lavori esistenti oggi potrebbe scomparire nel giro di qualche anno. Man mano che l’intelligenza artificiale supera l’uomo in un numero sempre maggiore di compiti, sostituirà l’uomo in un numero sempre maggiore di lavori. Si profila un’era di disoccupazione tecnologica, in cui gli scienziati informatici e gli ingegneri del software ci toglieranno essenzialmente il lavoro, e il numero totale di posti di lavoro diminuirà in modo costante e permanente.
La nostra società è una società basata sul lavoro. Fin dall’infanzia ci viene insegnato ad essere orientati al risultato e ad essere competitivi. Mentre impariamo a lavorare, tendiamo a mettere da parte tutti gli altri aspetti dell’essere umano. Possiamo pensare a un futuro diverso?
Uno sguardo al futuro prossimo ci dice che nel XXI secolo potremmo assistere alla creazione della classe dei non lavoratori, caratterizzata da persone che si sentono irrilevanti, senza valore economico perché non possono fare nulla di meglio dell’IA o di un robot e, diventando sostituibili, potrebbero finire per essere privi di una forza politica collettiva.
Il dibattito sulle conseguenze di questa situazione è dominato da esperti di tecnologia ed economisti e spesso dipinto come una distopia fantascientifica. Ciò che manca è la prospettiva umana, nel senso di uno sguardo a ciò che questo significherà per noi come esseri umani. L’approccio di questo documentario è quindi puramente esistenziale e mira a esplorare come saremo e cosa faremo quando non dovremo più lavorare.
Il paradosso del lavoro è che molte persone odiano il proprio lavoro, ma sono molto più infelici se non fanno nulla. Oppure, sono infelici perché non guadagnano abbastanza? O perché c’è una pressione culturale intorno a loro?
Attraverso storie contemporanee, in quattro diversi angoli del mondo, After Work porta allo spettatore utili elementi per disegnare scenari futuri, raccontando aspetti iperbolici e paradigmatici dell’ideologia, dell’etica del lavoro, del rapporto tra esistenza e lavoro, in – Kuwait, Corea del Sud, Stati Uniti e Italia – società con modelli di sviluppo molto distanti tra loro.
una produzione FASAD PRODUCTION AB
una coproduzione
PROPAGANDA ITALIA con RAI CINEMA
e INDIE FILM
CAST
Insegnante – YOO GA YEON
Fabbricante – YOO DEUG YOUNG
Proprietario del giardino di Valsanzibio – ARMANDO PIZZONI
Direttore generale del Centro sviluppo etica del lavoro – JOSH DAVIS
Filosofo – ELIZABETH S. ANDERSON
Socio dirigente di Gallup – PA SINYAN
Filosofo – NOAM CHOMSKY
Autista Amazon – ASTRID MOSS
Sceneggiatore – MEQDAD AL KOUT
Autore e professore universitario – MAI AL NAKIB
Impiegata pubblica – FATIMA
Allevatrice di cavalli – RORY MARZOTTO
Uomo d’affari – FERDINANDO BUSINARO
Sociologo – LUCA RICOLFI
Ex dipendente – JEONG BOSEONG
CREW
Regia di ERIK GANDINI
Direttore della fotografia FREDRIK WENZEL, FSF
Montaggio e Musiche JOHAN SÖDERBERG
Produttore musicale e arrangiamenti CHRISTOFFER BERG
Sound Design JØRGEN BERGSUND, RIKARD STRØMSODD
Sound recordist CHIARA ANDRICH
CREDITI
Prodotto da Fasad Production AB
In coproduzione con Propaganda Italia / Marina Marzotto a.g.i.c.i & Mattia Oddone con Rai Cinema
Indie film / Carsten Aanonsen
SVT / Axel Arnö & Asta Dalman
Film i Väst / Jenny Luukkonen
VPRO / Commissioning Editor Barbara Truyen
GEO Television / Arno Becker & Simone Theilmann
In associazione con YLE / Jenny Westergård
Con la partecipazione di RTS Radio Télévision Suisse Department of Documentaries Steven Artels & Bettina Hofmann
Con il contributo di MiC- Ministero Italiano della Cultura
Svenska Filminstitutet / Klara Grunning
Nordisk Film & Tv Fond / Karolina Lidin
Norsk Filminstitutt / Eirin Gjørv
Fritt Ord Foundation / Bente Roalsvig NRK / Fredrik Færden
Consulenti di produzione NFI Ravn Wikhaug & Benedikte Danielsen
Produttore associato Costanza Julia Bani
Produttore delegato
per Propaganda Italia Cristina Rajola
Durata 77’
Distributore Fandango
I DIVERSI STATI IN AFTER WORK
USA
‘No Vacation Nation’ – Secondo uno studio condotto dal Project Time Off della US Travel Association, nel 2018 i lavoratori americani hanno lasciato sul tavolo 768 milioni di giorni di vacanza non utilizzati. Ciò si traduce in una stima di 65,5 miliardi di dollari di mancati benefici, ovvero una media di 571 dollari per dipendente. Inoltre, lo studio ha rilevato che più della metà dei lavoratori americani (55%) non ha utilizzato tutti i giorni di ferie nel 2018 e il 24% ha dichiarato di non averne usufruito affatto. Ciò suggerisce che molti lavoratori americani non sono in grado o non sono disposti a prendere le ferie a cui hanno diritto, perpetuando la cultura del superlavoro e la reputazione di “No Vacation Nation”.
Gli americani hanno un rapporto unico con il lavoro. Il concetto di “sogno americano” è stato a lungo associato all’idea di lavorare sodo e raggiungere il successo. Questa mentalità ha creato una cultura in cui il lavoro è spesso visto come l’obiettivo finale, con poca enfasi sul tempo libero. Di conseguenza, gli Stati Uniti sono noti come la “nazione senza vacanze”. Mentre molti altri Paesi sviluppati garantiscono ai loro lavoratori ferie retribuite, negli Stati Uniti non esiste una legge federale che imponga ai datori di lavoro di fornire ferie retribuite.
KUWAIT
L’impiego pubblico in questo paese comporta privilegi unici: il rischio di essere licenziati è praticamente inesistente e le promozioni si basano sull’età anziché sul rendimento. La vita quotidiana nel settore pubblico è caratterizzata da un notevole esubero di personale e dalla mancanza di compiti. Questo modello si ripercuote sull’etica del lavoro e sulla produttività e, secondo l’OMS, il Kuwait è il Paese più fisicamente inattivo del mondo, anche se tutti hanno un impiego e sono ben retribuiti. Il sistema di distribuzione delle ricchezze petrolifere del Paese è stato paragonato a un reddito di base (UBI), ma con un impegno lavorativo ’’simulato’’ come contropartita. La scarsa intensità di lavoro in edifici all’avanguardia, il clima caldo disagevole e i vasti centri commerciali rendono il Kuwait un luogo congeniale per analizzare una probabile idea di lavoro del futuro.
COREA DEL SUD
Un’etica del lavoro unica, che affonda le sue radici nel confucianesimo, è alla base della miracolosa crescita della Corea del Sud, dalla povertà estrema al successo informatico. Tuttavia, la cultura del lavoro si è rivelata un rischio per la salute e un problema sociale che è considerato la causa del calo delle nascite, delle alte statistiche sui suicidi e del fenomeno della Gwarosa, la “morte per eccesso di lavoro”. Il ministro del Lavoro coreano Kim Joung Joo (forse l’unico ministro del Lavoro al mondo con la missione di far lavorare meno le persone) ha lanciato diverse campagne per cambiare le abitudini lavorative tossiche. A lei si deve l’iniziativa “Diritto al riposo”, che ha ridotto la settimana lavorativa da 68 ore a un massimo di 52. L’ultima direttiva del governo garantisce che i computer in tutti i principali luoghi di lavoro vengano spenti automaticamente alle 18.00. Parallelamente, vengono realizzate campagne pubblicitarie che invitano i lavoratori a non rimanere in ufficio fino a tardi. In una di queste appaiono lavoratori esausti che ricevono consigli su occupazioni alternative: cucinare, fare formazione, dipingere un quadro, passare del tempo con i bambini e la famiglia. L’immaginazione collettiva di una società sovraccarica di lavoro è esaurita al punto che sono necessarie immagini prodotte dall’esterno per ispirare idee su ciò che potrebbe essere la vita al di là del lavoro?
ITALIA
Con l’obiettivo di raggiungere un altro livello di riflessione sull’esistenza senza lavoro, l’attenzione iniziale si concentra sul piccolo gruppo di persone iper-ricche appartenenti a dinastie imprenditoriali industriali che hanno vissuto per diverse generazioni senza dover lavorare. Come si presenta la vita quotidiana di queste persone? Che cosa hanno imparato dovendo scegliere la propria vita, esplorando creativamente ciò che ha senso per loro? Quali sono le intuizioni e i consigli di cui possono beneficiare i futuri disoccupati? Un aspetto che rende l’Italia ancora più interessante è che offre un ulteriore livello di complessità. Qui non sono solo i super-ricchi a non lavorare. All’interno della classe media italiana si trova il più grande gruppo di “NEET” (Neither in Employment, Education or Training) in Europa. Questo gruppo rappresenta il 28,9% degli italiani tra i 20 e i 34 anni, rispetto a una media del 16,5% in Europa e dell’8% in Svezia.
NOTE DI REGIA
Ho un incubo personale ricorrente: arrivare alla fine della mia vita e con rimpianto, rendermi conto di aver lavorato troppo. Essere colpito, troppo tardi, dalla consapevolezza di aver sbagliato a stabilire le priorità per tutta la mia esistenza a causa di un’idea, radicata in me, che fa parte della cultura di cui sono il prodotto. Il lavoro è un’idea normale come l’aria che respiriamo, quindi difficile da mettere in discussione. La nostra società è una società basata sul lavoro. Fin dall’infanzia ci viene insegnato a seguire l’etica del lavoro, a istruirci per prepararci a trovare un lavoro.
Ho sempre visto il documentario come un modo per catturare, esporre e dare un senso al mio tempo (La teoria svedese dell’amore, The Rebel Surgeon, Videocracy, Surplus). Con After Work ho voluto fare un passo avanti, cercando di documentare una realtà che non è ancora completamente accaduta. Attraverso il metodo del What-if? Cosa faremo quando non dovremo più lavorare?
Questo film non è fatto con l’intenzione di ritrarre le cose come sono. Piuttosto come potrebbero essere.
È girato nel presente, con l’obiettivo di creare una proiezione nel futuro. Il futuro attraverso il presente.
CATTURARE CIÒ CHE POTREBBE ESSERE
Un importante punto di partenza per questo progetto è la distinzione del filosofo tedesco Herbert Marcuse tra pensiero unidimensionale – attenersi solo a “ciò che è” – e pensiero bidimensionale – abbracciare anche “ciò che potrebbe essere”. Marcuse vedeva nell’arte la chiave per dare vita alla seconda dimensione in un’epoca in cui le razionalizzazioni aprivano la strada al dominio del pensiero unidimensionale. O all’evasione come cura alla sorta di alienazione che la vita moderna, il consumo e il lavoro noioso portavano con sé. Per Marcuse l’arte ha il dovere di invitare a immaginare un mondo migliore. Non solo per criticare o per distrarre.
Quando ho iniziato a girare After Work c’era questa mia chiara intenzione: la maggior parte del dibattito sul futuro del lavoro è dominato da tecnici e teorici, esperti di IA e automazione. A me non interessa la tecnologia, il mio approccio con After Work è esistenziale. Ho cercato di evitare quasi completamente la prospettiva tecnologica, concentrandomi invece sui personaggi, sulla prospettiva umana. Sono incuriosito dalle possibilità di una vita post-lavorativa, di un’esistenza libera dal lavoro. Esplorare questo enigma: riusciremo a liberarci dal workismo, dalla convinzione quasi religiosa che il lavoro debba essere il fulcro della nostra esistenza? O continueremo a lavorare per il gusto di lavorare?
Una delle ispirazioni per After Work mi è venuta leggendo il sociologo svedese Roland Paulsen e i suoi scritti su quella che lui chiama ‘’L’ideologia del lavoro’’, ‘’un insieme di paure, valori e idee che giustificano il fatto che dovremmo continuare a lavorare tanto, o anche di più, indipendentemente da quanto la tecnologia diventi efficace.’’
Perché l’ideologia del lavoro sia così forte, perché queste paure e questi valori siano così presenti è una sorta di enigma, un mistero che mi ha ispirato in questo film. Con questa domanda ho esplorato diverse società che sono interessanti se ci si interroga sul ruolo del lavoro. Siamo in grado di immaginare un futuro diverso, con una nuova idea di lavoro più compatibile con il futuro?
E si può trovare un modello nel presente? Magari proprio tra quelli che non ci aspettiamo che possano insegnarci qualcosa? Come per esempio i super ricchi e i privilegiati.
Mi piace pensare a After Work come a un film guidato dalle idee, più che dai personaggi. Eppure ho trovato persone immensamente affascinanti con intuizioni nate da esperienze reali negli Stati Uniti, la “No Vacation Nation”, l’unico paese del mondo sviluppato senza leggi che garantiscano le ferie.
E in Corea del Sud, dove il governo sta cercando di affrontare il problema del sovraccarico di lavoro attraverso drastici interventi statali, e dove c’è l’unico ministro del Lavoro al mondo con la missione di far lavorare meno le persone.
In Kuwait, dove i cittadini privilegiati potrebbero lavorare meno, ma viene chiesto loro di far finta di lavorarein cambio di un reddito garantito.
E in Italia, il mio Paese d’origine, dove esiste una cultura dell’anti-lavoro e dell’edonismo all’interno della categoria dei giovani definiti NEET – giovani tra i 20 e i 34 anni che non hanno un lavoro, né un’istruzione, né una formazione– che in Italia costituiscono 1/3 della gioventù. Considerata dalla leadership del Paese come preoccupante, ma che potrebbe contenere i semi di una potenziale etica anti-lavoro.
SULL’ESTETICA DI AFTER WORK
La collaborazione con Fredrik Wenzel, pluripremiato direttore della fotografia (due volte vincitore della Palma d’Oro come DOP di The Square e Triangle of Sadness di Ruben Östlund), ha aperto nuove frontiere. Abbiamo iniziato a utilizzare semplici telecamere fisse in ambienti reali come uffici o centri commerciali. Per le interviste, abbiamo utilizzato sfondi come i grandi uffici vuoti di Seoul, e lo strumento ‘Eye direct’, la stessa tecnica usata da Errol Morris Interrotron, che fa sì che gli occhi degli intervistati siano rivolti direttamente verso l’obiettivo. Il 4K e il formato cinemascope hanno rafforzato la qualità cinematografica del materiale filmico che è stato curato dal montatore e compositore delle musiche Johan Söderberg, mio collaboratore di lunga data.
Johan Söderberg ha composto le musiche che sono state arrangiate da Christoffer Berg e registrate dal vivo nello studio di Ennio Morricone a Roma con un’orchestra di musicisti italiani.
Testo, video e immagini dall’Ufficio Stampa Studio Sottocorno.
IN ITALIA RISCHIO ESCLUSIONE DAL LAVORO PER CHI HA SUBITO ICTUS O INFARTO
Ricercatrici e ricercatori italiani hanno per la prima volta misurato gli effetti economici di shock di salute: riduzione della probabilità di lavorare e perdita reddituale del 10%. La ricerca pubblicata su Labour Economics
In Italia, ictus e infarto hanno effetti a lungo termine sulla possibilità di proseguire la propria storia lavorativa e mantenere il proprio reddito. Un gruppo di ricercatori dell’Università Ca’ Foscari Venezia, Università di Torino, Università di Amsterdam e Dipartimento di Epidemiologia dell’Asl 3 di Torino hanno per la prima volta misurato questi effetti economici nel contesto italiano, riscontrando una riduzione della probabilità di lavorare del 10%, a cui si associa una corrispondente perdita reddituale. Emerge anche come le norme a difesa del lavoro possano offrire una sorta di ‘salvagente’ a chi subisce un brusco peggioramento di salute, facilitando la prosecuzione della propria storia lavorativa. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista scientifica Labour Economics.
Cosa accade dopo un ictus o un infarto? Il lavoratore può veder aumentare il proprio “costo fisso” di lavorare e essere indotto a uscire dal mercato del lavoro. Alcuni potrebbero desiderare di continuare a lavorare, ma riducendo le ore lavorate. Infine, ci sono persone che potrebbero desiderare di continuare a lavorare mantenendo lo stesso impegno orario. Dal punto di vista del datore di lavoro, le reazioni potrebbero puntare a riduzioni di orario, mancate progressioni retributive, o persino la dismissione del lavoratore. Lo studio analizza proprio le conseguenze economiche di due imprevedibili e fulminei shock di salute.
“Purtroppo gli effetti degli shock di salute sulla vita lavorativa sono permanenti – spiega Francesca Zantomio, professoressa di Economia all’Università Ca’ Foscari Venezia e coautrice dello studio – nel contesto italiano è molto difficile per chi esce dal mercato del lavoro riuscire a rientrarci in un momento successivo. Inoltre, non c’è margine di aggiustamento delle ore lavorate, margine che permetterebbe di rimanere attivi ad una parte di soggetti che invece, ad orario invariato, faticano a continuare l’impiego preesistente. Perché il part-time volontario è molto poco diffuso. Né osserviamo reazioni di transizione ad altre forme di lavoro, o altri datori di lavoro”.
A livello di reddito ci sono strumenti di protezione, come la pensione di inabilità. “Non troviamo evidenza che aumenti la probabilità di smettere di lavorare e al contempo di non ricevere alcun sussidio – spiega Irene Simonetti, ricercatrice di Economia all’Università di Amsterdam e coautrice dello studio – né troviamo evidenza che gli operai (più a rischio di perdere la propria capacità reddituale) usino in maniera opportunistica strumenti di welfare, quando dotati di capacità lavorativa residua”.
“Infine – spiega Michele Belloni, professore di Economia all’Università degli Studi di Torino e coautore dello studio – i nostri risultati evidenziano come la normativa di protezione del lavoro in vigore fino al 2012 sia riuscita a favorire l’inclusione lavorativa di chi ha subito un peggioramento di salute”.
Lo studio si basa sui dati amministrativi relativi a lavoratori italiani tra il 1990 e il 2012, a cui sono agganciati dati ospedalieri che permettono di osservare le loro eventuali ospedalizzazioni non programmate e dovute a infarto o ictus. Dal 2012 sono entrate in vigore riforme normative di alleggerimento della protezione lavorativa che, secondo i ricercatori, potrebbero aver contribuito ad esacerbare disuguaglianze reddituali e di benessere nella vita dei lavoratori italiani.
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L’articolo:
Irene Simonetti, Michele Belloni, Elena Farina, Francesca Zantomio (2022) Labour Market Institutions and Long Term Adjustments to Health Shocks: Evidence from Italian Administrative Records, Labour Economics (2022), doi: https://doi.org/10.1016/j.labeco.2022.102277
Testo dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino
Abitare con i nonni rende più bilanciata la divisione del lavoro domestico all’interno della coppia
Un’indagine su dati ISTAT realizzata da due studiosi dell’Università di Bologna e dell’Università di Padova mostra come la presenza in casa dei nonni aiuti ad alleggerire il peso dei lavori domestici più routinari, che ancora oggi gravano spesso sulle spalle delle donne.
Quando i nonni vivono sotto lo stesso tetto con genitori e nipoti, la divisione delle faccende domestiche all’interno della coppia è più egualitaria e quindi meno sbilanciata a sfavore delle donne. È la conclusione di uno studio pubblicato sulla rivista GENUS e firmato da Marco Albertini (Università di Bologna) e Marco Tosi (Università di Padova).
Gli studiosi hanno analizzato la distribuzione asimmetrica dei compiti domestici all’interno delle coppie di genitori italiani in relazione ai rapporti tra nonni, genitori e nipoti. Una distribuzione che non viene alterata da incontri faccia a faccia più o meno frequenti con i nonni non conviventi, ma diventa invece più bilanciata all’interno della coppia quando i nonni sono parte stabile del nucleo familiare.
“In termini di equità nella divisione del lavoro domestico, avere dei nonni che vivono in casa ha un effetto comparabile a quello di pagare un aiutante domestico e maggiore di quello di una baby sitter assunta”, spiega Marco Albertini. “Esternalizzare il lavoro domestico tende dunque a favorire l’equità di genere all’interno delle coppie”.
Negli ultimi anni, il ruolo dei nonni è diventato sempre più centrale, sia nell’influenzare le scelte riproduttive delle coppie, sia nel favorire la conciliazione tra vita familiare e vita lavorativa. Diversi studi hanno mostrato, ad esempio, come la presenza dei nonni in famiglia favorisca la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, o anche come vada ad incentivare il benessere sia dei nipoti e che dei nonni stessi. Un’attenzione minore è stata però dedicata a come i rapporti tra nonni, genitori e nipoti possano influenzare la divisione del lavoro domestico all’interno delle coppie.
Nell’ambito dei compiti familiari, negli ultimi decenni si è assistito infatti ad una distribuzione progressivamente più equa rispetto alla cura dei figli, in particolare tra le coppie con un alto livello di istruzione. Lo stesso non è però accaduto per quanto riguarda la distribuzione dei compiti domestici più routinari come cucinare, pulire la casa, fare il bucato e occuparsi della spesa: compiti che ancora oggi, in genere, vengono portati avanti in larga parte dalle donne.
Per capire se questo fenomeno possa essere influenzato dalla presenza dei nonni in famiglia, gli studiosi hanno quindi realizzato un’analisi a partire dai dati del rapporto ISTAT “Famiglie e Soggetti sociali”. Lo studio ha mostrato che la presenza dei nonni nell’ambito domestico aiuta le coppie ad esternalizzare i compiti più intensi e routinari, che gravano spesso sulle spalle delle donne. E se l’ammontare di lavoro domestico diminuisce, le coppie hanno meno necessità di negoziare la suddivisione dei compiti e meno possibilità di suddividerli in modo disuguale.
“In un contesto come quello italiano, in cui la convivenza estesa tra generazioni è parte di una cultura di legami familiari forti e tradizionalismo, le famiglie composte da tre generazioni conviventi hanno una divisione dei compiti domestici più egualitaria, dovuta al supporto che i nonni forniscono all’interno del nucleo familiare”, conferma Marco Tosi. “In questo senso, una più equa divisione del lavoro domestico è dovuta al fatto che le madri tendono a beneficiare in modo maggiore del vivere in casa con i nonni”.
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista GENUS con il titolo “Grandparents, family solidarity and the division of housework: evidence from the Italian case”. Gli autori sono Marco Albertini, professore al Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna, e Marco Tosi, ricercatore al Dipartimento di Scienze Statistche dell’Università di Padova.
UNO STUDIO DIMOSTRA IL LEGAME TRA SALUTE MENTALE DELLE DONNE E CONDIZIONI DI LAVORO
Un nuovo studio svolto dall’Università di Trieste, Università di Torino e Università Milano Bicocca in collaborazione con il King’s College di Londra ha dimostrato per la prima volta come la qualità del lavoro e le condizioni lavorative incidano sulla salute mentale delle donne che lavorano nel Regno Unito.
20 giugno 2022 – Una ricerca svolta nel Regno Unito da un team di ricercatori italiani e inglesi ha dimostrato il nesso di causalità tra laqualità del lavoro e la salute mentale dei lavoratori, soprattutto nelle donne. Lo studio, pubblicato sulla rivista Labour Economics, è stato condotto dai docenti di Economia Politica Michele Belloni dell’Università di Torino,Elena Meschi dell’Università Milano Bicocca e da Ludovico Carrino, ricercatore del King’s College di Londra e dell’Università di Trieste.
Le analisi attuate hanno impiegato dati provenienti da oltre 26.000 lavoratori britannici (donne e uomini) che hanno svolto lo stesso lavoro tra il 2010 e il 2015. Pur mantenendo lo stesso lavoro, le condizioni all’interno delle quali queste persone hanno operato sono cambiate nel corso del tempo sia a causa del progresso tecnologico che delle fasi di crescita e di decrescita economica, che hanno inciso sull’operato delle aziende in cui lavoravano. Lo studio ha analizzato come la salute mentale dei lavoratori, in generale, abbia reagito nel tempo al cambiamento delle condizioni di lavoro.
Attraverso lo studio, i ricercatori hanno scoperto che le caratteristiche principali di un lavoro che hanno un effetto sulla salute mentale dei suoi dipendenti sono due: la flessibilità di organizzazione degli orari di lavoro e il grado di autonomia che le persone hanno nell’applicare e sviluppare le loro competenze sul posto di lavoro. La ricerca ha rilevato che queste caratteristiche del lavoro hanno conseguenze diverse in base al sesso del lavoratore: in particolare, la salute mentale delle donne appare più sensibile, rispetto a quella degli uomini, a variazioni nella qualità del lavoro. Infine, lo studio sottolinea la grande rilevanza economica e sociale dei risultati per il contesto della figura lavorativa femminile, anche considerato che, in Inghilterra come in Italia, le donne tendono a ricoprire più frequentemente una molteplicità di ruoli cruciali come la cura della casa e dei figli che creano conflitti tra famiglia e lavoro.
L’analisi svolta prova che i miglioramenti nella qualità del lavoro portano a grandi riduzioni della depressione e dell’ansia per le donne. Questa evidenza suggerisce che politiche pubbliche e private che migliorino la salute sul lavoro potrebbero portare a una maggiore efficienza nell’ambito dei servizi sanitari e per il benessere di tutta la società, dato che i costi legati alla salute mentale sono notoriamente molto rilevanti. I dati disponibili per l’Italia, da uno studio realizzato dall’Istituto Superiore di Sanità, basato sul sistema di sorveglianza PASSI [2017-2022] stimano che almeno il 6% degli italiani sotto i 70 anni abbia sintomi depressivi, e che la depressione colpisca le donne da due a tre volte più degli uomini. Nel Regno Unito, la Mental Health Foundation ha recentemente stimato che i problemi di salute mentale costano all’economia britannica, soprattutto a causa della minor produttività del lavoratore, almeno 118 miliardi di sterline l’anno, il 5% del PIL di tutto il Regno Unito.
Ludovico Carrino, ricercatore del King’s College di Londra e dell’Università di Trieste, ha sottolineato: “È necessaria una flessibilità del lavoro che non sia uguale per tutti: le esigenze sono diverse a seconda dell’età e del tipo di lavoro. È importante che essa sia misurata in base alle priorità delle singole persone. Questo studio ha rilevato, ad esempio, che se alcune posizioni lavorative solitamente meno flessibili (ad esempio gli addetti alle vendite, ai servizi ricettivi, e all’assistenza sociale) potessero sperimentare la stessa autonomia degli impiegati addetti al lavoro di ufficio, si osserverebbe una riduzione nel rischio di depressione clinica del 26% come diretta conseguenza. Ci auguriamo dunque che la dimostrazione di questa relazione causale, una tra le prime negli studi empirici, possa avere un impatto reale per lavoratrici e datori di lavoro, sindacati e organizzazioni imprenditoriali, anche alla luce del dibattito politico in corso sulla creazione di migliori posti di lavoro e sulla riduzione delle disuguaglianze nel lavoro femminile nell’era post-Covid”.
Secondo le ricerche effettuate, dichiara Michele Belloni, docente di Economia Politica all’Università di Torino, “la salute mentale delle lavoratrici più giovani (sotto i 35 anni) è risultata migliorata nelle situazioni in cui le stesse potevano sperimentare una maggiore libertà di azione in termini di responsabilità personale e programmi formativi. Per le donne oltre i 50, invece, è stata registrata una migliore salute mentale nel momento in cui esse potevano contribuire in modo creativo al proprio lavoro e lavorare in condizioni dell’ambiente fisico migliori, oltre che disporre di orari di lavoro più flessibili.”
In particolare, la qualità del lavoro ha ripercussioni su vari sintomi di benessere mentale come depressione, ansia, disfunzione sociale (capacità di prendere decisioni e concentrarsi) e fiducia in sé stessi (autostima). Un miglioramento nel grado di responsabilità personale delle lavoratrici, ad esempio, porta a una riduzione nel rischio di depressione clinica del 26% in media tra tutte le età, e un miglioramento negli indici di ansia del 20% per lavoratrici giovani o ultracinquantenni. Altri benefici sono una riduzione nelle disfunzioni sociali fino al 12%, e un miglioramento dell’autostima del 28% tra le giovani e del 45% tra le lavoratrici più anziane. Un miglioramento nell’autonomia sugli orari di lavoro porta a un miglioramento del 11% nei livelli di ansia e del 24% nell’autostima, tra le lavoratrici anziane. Riduzioni nell’esposizione a rischi fisici nel lavoro riduce il rischio depressione del 20% tra le donne giovani, e del 42% tra quelle anziane, mentre riduce l’ansia del 7% tra le giovani e del 11% tra le anziane; risulta inoltre avere un grande beneficio sull’autostima delle lavoratrici anziane (+25%), ma non tra quelle giovani.
Elena Meschi, docente di economia politica all’Università Milano-Bicocca, infine afferma che “dallo studio è inoltre emerso come gli interventi volti a migliorare le condizioni di lavoro possano essere più efficaci per alcune lavoratrici piuttosto che per altre, a seconda del tipo di lavoro che svolgono. In particolare, i risultati segnalano che i benefici maggiori di un miglioramento nella qualità del lavoro si riscontrano nelle donne impegnate in mansioni caratterizzate da alto stress lavorativo. Sono questi i lavori ove si riscontrano contemporaneamente sia elevate esigenze psicologiche, sia bassi livelli di controllo decisionale su come soddisfare queste esigenze”.
Testo dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino
Il benessere psicologico dei lavoratori durante il COVID-19: vulnerabilità e fattori protettivi
Uno studio frutto della collaborazione fra la Sapienza Università di Roma, le università di Trento, Bologna, Mannheim e dell’Università Pontificia Salesiana, ha valutato i costi psicologici del lockdown nei lavoratori in relazione ad alcuni fattori determinanti. I risultati dello studio, pubblicati sulla rivista Current Psychology, forniscono una base importante per l’ideazione e la realizzazione di interventi a supporto dei lavoratori nelle fasi successive della pandemia.
La pandemia da COVID-19 ha avuto un impatto importante su numerosi aspetti della vita delle persone, incluso il lavoro con risvolti determinanti anche sul benessere dei lavoratori. Tra i diversi fattori di disagio vi sono sicuramente lo spettro di una recessione economica, la paura di perdere il posto di lavoro, il cambiamento di abitudini consolidate insieme alla necessaria acquisizione di nuove per far fronte alla situazione emergenziale.
Tuttavia, le alterazioni del funzionamento psicologico riscontrate nei lavoratori non sono né inevitabili né sistematiche, essendo state riscontrate grandi differenze da individuo a individuo, anche tra persone che svolgono le stesse mansioni o appartengono al medesimo ambito professionale. Tutto ciò ha sollevato importanti interrogativi riguardo ai principali fattori di vulnerabilità e di protezione in azione durante questo periodo e, in ultima analisi, sui costi psicologici delle misure di contenimento.
Una nuova ricerca frutto della collaborazione fra la Sapienza di Roma, le università di Trento, Bologna, Mannheim e l’Università Pontificia Salesiana, ha preso in esame il ruolo di una ampia serie di fattori di vulnerabilità personali, di stress e di risorse sociali legati al lavoro, per valutare il benessere dei lavoratori durante l’epidemia da COVID-19. Lo studio si basa sulla teoria della conservazione delle risorse che presuppone la limitatezza delle risorse psicologiche – caratteristiche personali, ambientali e lavorative – alle quali le persone possono attingere per superare le avversità e gli eventi stressanti.
L’indagine, pubblicata sulla rivista Current Psychology. è stata condotta su un ampio campione di circa 600 lavoratori, intervistati nella prima fase di lockdown, dal 22 marzo al 6 aprile 2020, a cui è stato chiesto di rispondere a dei questionari per rilevare le loro caratteristiche psicologiche e il livello di adattamento personale e lavorativo.
I risultati hanno portato alla luce sia vulnerabilità critiche, sia fattori protettivi chiave. Tra le prime, la percezione di insicurezza lavorativa e di precarietà appaiono associate a un peggiore adattamento emotivo, soprattutto per chi possedeva un contratto a tempo determinato. Tra gli elementi protettivi, emergono invece la positività, la stabilità emotiva e la coscienziosità. Tra le singole vulnerabilità e risorse sono state inoltre evidenziate interessanti interazioni: la positività, ad esempio, è risultato un fattore di protezione chiave, in grado di diminuire la percezione dello stress causato dalle vulnerabilità. Così come i sentimenti di frustrazione, rabbia o paura determinati dall’avvento del lockdown sono risultati attenuati in chi possedeva aspettative più positive sul futuro.
“Un elemento di particolare interesse, fra tutti quelli presi in esame, è la possibilità di lavorare da casa – spiega Guido Alessandri della Sapienza, primo nome dello studio. “Chi possedeva un contratto di lavoro a tempo indeterminato, o possedeva comunque una percezione solida della propria posizione lavorativa, ha accolto positivamente questa nuova possibilità. Al contrario per chi avvertiva un forte senso di precarietà e insicurezza lavorativa, è risultata invece molto stressante”.
Infine, gli effetti negativi dello stress economico dovuto alla pandemia sono risultati ridotti grazie ad alcune caratteristiche personali come la dedizione, o dalla natura del rapporto di lavoro come il tipo di contratto in essere o la centralità riconosciuta al lavoro svolto.
I risultati ottenuti consentono di definire con chiarezza la rete di risorse e di vulnerabilità più rilevanti per le diverse tipologie di lavoratori, anche nell’ottica di ideare e realizzare interventi a supporto dei lavoratori nelle fasi successive a questo complicato periodo. Letti nel loro insieme, i fattori determinanti permettono infatti di desumere il profilo dei lavoratori più vulnerabili allo stress indotto dal lockdown, che rischiano di pagare alla lunga un costo maggiore degli altri, perché privi delle risorse necessarie per farvi fronte.
Riferimenti:
Determinants of workers’ well-being during the COVID-19 outbreak: An exploratory study – Guido Alessandri, Lorenzo Filosa, Sabine Sonnentag, Giuseppe Crea, Laura Borgnogni, Lorenzo Avanzi, Luigi Cinque, Elisabetta Crocetti – Current Psychology. 2021 DOI: https://doi.org/10.1007/s12144-021-02408-w
Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
Invecchiamento cognitivo: Il lavoro aiuta il nostro cervello
Anche il tipo di attività lavorativa influisce nell’andamento del declino cognitivo. È quanto rilevato da un nuovo studio che coinvolge SISSA e Università di Padova e che ha preso in esame un ampio campione di popolazione italiana
Trieste, 9 dicembre 2021 – Non sempre il lavoro logora, anzi. Un recente ricerca dimostra che ha un ruolo attivo nel mantenere il nostro cervello in salute. “Abbiamo dimostrato l’influenza che ha l’occupazione sulle prestazioni cognitive” racconta la Professoressa Raffaella Rumiati, neuroscienziata cognitiva della SISSA e autrice del paper Protective factors for Subjective Cognitive Decline Individuals: Trajectories and changes in a longitudinal study with Italian elderly, pubblicato recentemente su European Journal of Neurology. DOI: https://doi.org/10.1111/ene.15183
“Gli studi per identificare i fattori che influiscono sulla nostra attività mentale nel corso dell’invecchiamento sono numerosi ed era già nota l’influenza di altri fattori legati alla qualità della vita come l’istruzione formale e continua. Dalla nostra analisi emerge come alle differenze nell’invecchiamento cognitivo normale e patologico contribuisca anche il tipo di attività lavorativa”.
L’analisi: cervelli resistenti e in declino
Lo studio, condotto da un team di scienziate dell’Università di Padova (Dip. FISPPA), SISSA – Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati e IRCSS Ospedale San Camillo di Venezia, ha quantificato il contributo relativo di fattori demografici (età e sesso), comorbilità, istruzione e tipo di occupazione a ciò che tecnicamente viene chiamato riserva cognitiva, ovvero la capacità di resilienza del cervello rispetto a un danno cerebrale dovuto a una patologia o all’invecchiamento.
I partecipanti sono stati valutati con una serie di test neuropsicologici e successivamente suddivisi in tre tipologie di profili sulla base dei risultati: soggetti a rischio di declino cognitivo, soggetti con declino lieve e soggetti con declino avanzato.
I test sono stati condotti altre due volte a distanza di alcuni anni: successivamente i partecipanti sono stati classificati come “resistenti” o “in declino” a seconda che avessero mantenuto o peggiorato il loro profilo rispetto alla loro performance iniziale.
Istruzione e occupazione lavorativa: importanti per mantenersi giovani
La novità più importante emersa nell’analizzare i risultati è che, oltre all’età e all’istruzione, fattori già studiati nella letteratura sul tema, anche l’occupazione si è rivelata come un predittore delle prestazioni dei partecipanti alle diverse fasi somministrazioni dei test, come spiega la Professoressa Sara Mondini dell’Università di Padova:
“Abbiamo confermato l’osservazione che l’istruzione protegge le persone potenzialmente a rischio di sviluppare il declino cognitivo ma, soprattutto, abbiamo dimostrato che questi stessi individui avevano svolto professioni più complesse degli individui degli altri due gruppi, i soggetti con declino cognitivo lieve e avanzato. Lo studio ha poi evidenziato come il gruppo dei “resistenti” mostrasse in media livelli superiori di istruzione e un’attività lavorativa che prevedeva mansioni più complesse rispetto al gruppo “in declino””.
Un risultato che dimostra i benefici della mobilitazione cognitiva promossa dal life-long learning (l’apprendimento permanente) e, più in generale, come connessione sociale, senso costante di uno scopo e capacità di essere indipendenti contribuiscono alla salute cognitiva e al benessere generale nell’affrontare l’invecchiamento.
Testi dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Padova e SISSA – Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati.
Arrivano i dati della ricerca condotta dall’Istituto IASSC del dipartimento di Sociologia dell’Università di Milano-Bicocca insieme a Ipsos e Istat. Al via la seconda sessione di interviste
Milano, 3 novembre 2021 – Più della metà degli italiani ha difficoltà ad arrivare alla fine del mese. Una famiglia su quattro non può permettersi una settimana di vacanza lontano da casa e una su tre dichiara di ricevere una retribuzione non adeguata ai propri sforzi e al proprio lavoro. E ancora: un italiano su tre non possiede pc né connessione Internet e il 60 per cento degli intervistati non svolge alcuna attività fisica durante la settimana.
Sono alcuni dei dati restituiti da “Ita.Li. – Italian Lives, Indagine sui corsi di vita in Italia”, l’indagine longitudinale quali-quantitativa condotta dall’istituto IASSC (Institute for Advanced Study of Social Change) del dipartimento di Sociologia e ricerca sociale dell’Università di Milano-Bicocca, insieme all’istituto di ricerca Ipsos, e finanziata dal Ministero dell’Università e ricerca mediante i fondi dei Dipartimenti di eccellenza. Una fotografia nitida della società italiana, realizzata tra giugno 2019 e dicembre 2020 attraverso questionari sottoposti a 8.778 soggetti, di età superiore ai 16 anni, appartenenti a 4.900 famiglie, selezionate in oltre 280 comuni italiani attraverso un sistema di campionamento probabilistico sviluppato con l’Istat.
L’obiettivo è la costruzione di una banca dati dinamica sul mutamento sociale intergenerazionale in Italia. L’indagine quantitativa si svilupperà nel tempo in più ondate (“wave”) di rilevazione, attraverso la raccolta di un ampio insieme di informazioni di tipo retrospettivo sui membri delle famiglie coinvolte. La prima wave si è svolta tra giugno 2019 e dicembre 2020 e la seconda è stata avviata a settembre.
Viene così ricostruito il corso di vita di tutti i partecipanti, in relazione alla mobilità geografica o residenziale, all’istruzione, alla carriera lavorativa, allo stato civile, alla composizione della famiglia, con informazioni sulle percezioni e le abitudini dei soggetti coinvolti rispetto a temi quali la salute, la qualità della vita, le risorse, i debiti e i sostegni familiari, l’accesso ad Internet e la partecipazione politica. Un anno fa i ricercatori di Milano-Bicocca avevano reso pubblico un primo focus riguardante un campione selezionato dei partecipanti per fare luce sull’“Italia ai tempi del Covid-19”. Ora vengono resi noti i risultati della prima wave.
Consumi
Il 59 per cento degli intervistati afferma di avere almeno una qualche difficoltà ad arrivare alla fine del mese. Solo l’1,7 per cento vi arriva con facilità. Se il 28 per cento delle famiglie, poco più di una su quattro, non potrebbe permettersi una settimana di vacanza all’anno lontano da casa, il 34 per cento – una su tre – non possiede un pc e il 33 per cento non ha una connessione Internet. Il 26 per cento delle famiglie ritiene che le spese per la casa siano un carico pesante e il 23 per cento dichiara che non sarebbe in grado di fronteggiare spese impreviste di un ammontare pari a circa 800 euro. Se il 14 per cento delle famiglie ha dovuto rinunciare a trattamenti dentistici per motivi economici, l’8 per cento non può permettersi di mangiare carne o pesce almeno una volta ogni due giorni.
Il reddito netto mensile familiare è di 2860 euro. Il 36 per cento degli intervistati dichiara di ricevere una retribuzione non adeguata ai propri sforzi e al proprio lavoro. Il 54 per cento degli intervistati ritiene che il proprio lavoro non dia buone prospettive di avanzamento di carriera e il 35 per cento ritiene di non ricevere il giusto riconoscimento per il lavoro svolto. Il 59 per cento ritiene di essere costantemente sotto pressione per il carico pesante di lavoro e il 40 per cento sostiene di avere pochissima libertà nel decidere come svolgere il proprio lavoro. In media il risparmio annuo delle famiglie è di circa 3900 euro e l’ammontare del debito delle famiglie è di 2700 euro.
Social network
Lo smartphone non manca tra le mura degli italiani, solo il 13 per cento degli intervistati dichiara di non possederne uno. ll social/app più in voga è WhatsApp, utilizzato dal 57 per cento degli intervistati. Al secondo posto figura Facebook, utilizzato dal 47 per cento. Seguono nell’ordine Instagram (26 per cento), Twitter (9 per cento), Telegram e LinkedIn (4 per cento). Solo lo 0,4 per cento degli intervistati ha un profilo TikTok. Tuttavia, il 32 per cento attualmente dichiara di non avere un profilo personale su social network o app.
Salute
Il 60 per cento degli intervistati non svolge mai attività fisica (intesa come sport, giardinaggio, ballo, escursioni o camminate veloci). Il 28 per cento circa, invece, svolge attività fisica almeno una volta a settimana. Il 13 per cento del campione dichiara di avere problemi di salute a lungo termine. Il 39 per cento degli intervistati ha sofferto di insonnia o ha avuto difficoltà ad addormentarsi.
Testo dall’Ufficio Stampa Università di Milano-Bicocca sull’indagine Italian Lives.
“Jeff voleva che Amazon si distinguesse per la sua capacità di inventare”, a raccontarlo Colin Bryar e Bill Carr ne Il libretto rosso di Amazon, pubblicato da Vallardi Editore, poco tempo dopo che nel febbraio di quest’anno Bezos aveva lasciato la guida di Amazon ad Andy Jassy, diventandone presidente esecutivo.
La narrazione è resa interessante poiché entrambi gli autori hanno lavorato a stretto contatto con il fondatore del colosso americano per più di un decennio, riuscendo a interessare il lettore escludendo temi di natura teorica in funzione di pratici modelli di business testati sulla pelle di Amazon e dei suoi lavoratori, che di volta in volta con analisi e pianificazione ne hanno migliorato o scartato i dettagli.
Gli obiettivi e i principi su cui Amazon si fonda sono precisi e mirano, da una parte, a rispondere in modo efficace a una domanda crescente di un determinato cliente target che non segue necessariamente l’andamento di un mercato esistente, dall’altra, far leva sulle competenze interne di chi è chiamato ad essere “amazoniano” per abbracciare la sua intera filosofia aziendale. È Bezos in un discorso pubblico a descrivere l’azienda in questi termini: “La nostra cultura si compone di quattro elementi: la passione per il cliente invece che l’ossessione della concorrenza; la propensione per una vision a lungo termine, con un orizzonte d’investimento più ampio di gran parte dei concorrenti; la passione per l’innovazione, che va di pari passo con la possibilità di sbagliare; infine, l’eccellenza operativa”.
Nulla – come si intuisce nell’analogo Inventa & Sogna pubblicato dalla Sperling & Kupfer nello stesso periodo e basato su lettere che Bezos negli anni ha scritto agli azionisti più qualche sua attenta riflessione -, dalle assunzioni alla comunicazione, dal lancio di nuovi prodotti (come Kindle) e servizi (come quelli digitali di musica e video), era ed è casuale, tanto che essendo metodo collaudato da successi e fallimenti, secondo gli autori, può essere imparato anche da altre aziende piccole o grandi che siano. Bryar e Carr, in questo libro, allora puntano anche alla trasmissione di valori che hanno il potere di completare non solo il lavoro ma anche le interazioni relazionali che nel business possono essere spendibili nel futuro.
Di fatto ad Amazon sanno bene che “il successo [collettivo] può essere raggiunto solo in un ambiente in cui le persone non hanno paura ad esprimersi su eventuali problemi nella loro area di azione”, tenendo sempre d’occhio l’obiettivo di business generale su cui con pazienza dovrà confrontarsi ogni singola (re)azione (che sia di analisi SWOT, di startup o di mantenimento di un progetto innovativo).
Colin Bryar e Bill Carr, Il libretto rosso di Amazon. I segreti del metodo Jeff Bezos raccontati da due insider, Antonio Vallardi Editore 2021, pagg. 352, Euro 15.90
Il libro recensito è stato cortesemente fornito dalla casa editrice.
Posticipare l’ingresso a scuola migliora il rendimento scolastico
Intervista al professor Luigi De Gennaro
Articolo a cura di Valentina Mastrorilli e Giulia Nania
I vincoli sociali spesso ci impongono di seguire delle regole che non vanno di pari passo con il nostro ritmo biologico. Fare tardi la sera e far suonare la sveglia molto presto la mattina può avere conseguenze negative non solo sulla salute fisica e mentale, ma anche sulla sonnolenza diurna e sui processi attentivi. Negli ultimi anni si è posta molta attenzione sulle abitudini di vita degli adolescenti e sulla loro tendenza a rimanere attivi fino a tarda notte, nonostante il giorno dopo debbano entrare a scuola al suono della campanella (Louzada, 2019).
Non si tratta solo di un cambio di abitudini comportamentali, ma piuttosto di un vero e proprio cambiamento fisiologico di alcuni dei meccanismi che regolano il sonno. Nei ragazzi in età adolescenziale, infatti, è stato osservata una variazione di due di questi meccanismi: la regolazione omeostatica del sonno (Jenni et al., 2005) e l’orologio circadiano (Wright et al., 2005). Mentre il primo fa riferimento alla stretta dipendenza tra il bisogno di sonno e il numero di ore trascorse da svegli, il secondo si riferisce al nostro comportamento in risposta all’alternanza delle ore di luce e di buio.
Nel complesso, fattori biologici e sociali spingono i ragazzi a rimanere sempre più spesso svegli fino a tardi. Eppure, la campanella suona sempre alle 8:00. La conseguenza è che molto spesso i ragazzi dormono meno delle 8 ore consigliate dall’American Academy of Sleep Medicine, spesso saltano la scuola e si distraggono durante le lezioni. Quali sarebbero le conseguenze sul rendimento scolastico se si provassero ad adattare gli obblighi scolastici alle esigenze fisiologiche degli adolescenti, facendo suonare la campanella un’ora dopo?
Questo è ciò che si è domandato il gruppo di ricerca del Professor De Gennaro della Sapienza Università di Roma in uno studio della durata di un intero anno scolastico. Il loro lavoro è volto a documentare se, il posticipare quotidianamente l’orario delle lezioni, potesse avere dei benefici sul funzionamento cognitivo degli studenti. Alla ricerca hanno partecipato alcuni ragazzi e ragazze dell’istituto secondario “Ettore Majorana” di Brindisi, suddivisi in due gruppi sperimentali: per uno la campanella suonava alle 8.00, mentre per il secondo gruppo le lezioni iniziavano alle 9.00.
Dai risultati di questa ricerca recentemente pubblicata sulla rivista Nature and Science of Sleep è emerso che, al termine dell’anno scolastico, gli studenti che avevano scelto di inserirsi nel gruppo che iniziava le lezioni alle 9:00 mostravano un notevole miglioramento nel rendimento, una migliore attenzione sostenuta, un minor assenteismo e un minor numero di ritardi. Quindi, è stato dimostrato che il posticipo di un’ora dell’orario delle lezioni può portare ad effetti benefici sulla prestazione accademica.
Abbiamo intervistato il professor Luigi De Gennaro, ordinario di Psicobiologia e Psicologia Fisiologica della Sapienza Università di Roma, che ha risposto alle domande di ScientifiCult.
Dal vostro lavoro è emerso che gli studenti che hanno posticipato l’orario dell’inizio delle lezioni hanno beneficiato di questo ritardo. Questo è stato osservato non solo attraverso il miglioramento del rendimento scolastico e una migliore attenzione sostenuta, ma anche in termini di minor assenteismo e ritardi. Quali sono i meccanismi alla base del sonno che potrebbero aver generato questo miglioramento?
La storia inizia negli anni ’20 con lo studio dei due psicologi Jenkins e Dallenbach. Il loro studio, con soltanto due soggetti partecipanti, prevedeva un compito di memorizzazione di composizioni di tre lettere. Le composizioni dovevano essere memorizzate durante la sera per poi essere recuperate la mattina successiva in due diverse condizioni: dopo una normale notte di sonno e dopo una deprivazione di sonno. Venne osservato che, il mattino successivo alla notte di deprivazione, la prestazione dei due soggetti era enormemente più bassa.
Nacque così il cosiddetto “sleep effect”. L’aspetto più recente, invece, nasce negli anni ’80. In particolare, venne dimostrato come alterazioni del sonno, causate da vari disturbi del sonno oppure da decurtazioni del sonno, andassero a impattare negativamente sul rendimento scolastico. Inoltre, a partire dagli anni ’90 un movimento internazionale ha visto partire degli esperimenti pilota paragonabili al nostro. In conclusione, si può affermare che il posticipo dell’orario scolastico dovrebbe portare a un aumento della durata del sonno e questo dovrebbe impattare su tutte le misure che poi sono oggetto di valutazione.
In questo periodo storico, molti studenti stanno vivendo l’esperienza della didattica a distanza, durante la quale i ragazzi e le ragazze possono seguire le lezioni da casa. Questo implica, dunque, che molti studenti riescono a dormire un po’ di più. Nonostante i limiti e le difficoltà di questo tipo di insegnamento, lei ritiene che questo cambio di abitudini possa influire positivamente sulla rendita scolastica e l’attenzione degli studenti?
A questa domanda non c’è purtroppo una risposta univoca. Diversi team di ricerca nazionali e internazionali hanno condotto e stanno ancora conducendo diverse indagini volte a monitorare le eventuali alterazioni del sonno durante il periodo del confinamento (che ha riguardato l’Italia nei periodi di Marzo-Maggio 2020).
Sintetizzando, potremmo dire che ne è emerso un fenomeno bimodale: una parte della popolazione oggetto degli studi ha mostrato un consistente aumento dei disturbi del sonno e variazioni di fattori associati alla depressione o allo stress; un’altra parte, invece, ne ha per così dire “beneficiato”, ovvero ha dormito di più e ha mostrato meno sonnolenza diurna rispetto ai periodi precedenti. Tra queste persone vi sono sicuramente gli studenti e le studentesse, che hanno beneficiato della generale ristrutturazione dei ritmi sonno-veglia. Non mi riferisco quindi specificatamente agli effetti della didattica a distanza, ma piuttosto alla diversa gestione del ritmo sonno-veglia che è diventato più coerente con i bisogni biologici.
Ricordiamoci che la specie umana, a seguito della rivoluzione industriale e dell’introduzione dell’illuminazione artificiale, ha collettivamente perso all’incirca due ore di sonno, tanto da delineare negli ultimi 150 anni una forma di insoddisfazione cronica del bisogno di sonno. Di conseguenza è evidente che una gestione diversa della giornata, più svincolata dai classici limitatori sociali (quali ad esempio esigenze scolastiche o lavorative) possa portare benefici almeno alla seconda categoria di persone cui prima facevo riferimento. In conclusione, indipendentemente dal fatto che quello della didattica a distanza sia un fenomeno molto complesso, per quanto riguarda l’aspetto del sonno e del ritmo sonno-veglia, in linea generale possiamo dire che molti studenti hanno beneficiato di questo riassetto dei ritmi giornalieri.
Ipotizzando di poter seguire le performance degli studenti nel corso dei vari anni scolastici, lei pensa che questi benefici che voi avete osservato al termine di un anno scolastico possano essere riscontrati anche dopo vari anni? Oppure l’organismo si abitua a questi cambi di ritmi e nel corso del tempo verrebbero persi gli effetti benefici dell’ora di sonno in più?
Non saprei darle una risposta precisa. L’anno successivo a quello della sperimentazione che è stata pubblicata mi sarebbe piaciuto condurre uno studio longitudinale, quindi documentare come il rendimento che noi fotografiamo alla fine di un anno scolastico fosse capitalizzato alla fine di un intero ciclo di studi.
Avrei voluto seguire gli studenti dal primo al quinto anno di scuola e magari seguirli fino all’Università per vedere se in qualche modo la coorte di studenti che iniziava le lezioni alle 9 avrebbe poi avuto in futuro una carriera più brillante. Tuttavia, stiamo parlando di aspettative che non siamo riusciti ad implementare per diverse ragioni. La prima è che l’allora dirigente scolastico dell’Istituto Majorana Salvatore Giuliano, innovatore e rivoluzionario, è stato catapultato nell’empireo del governo italiano diventando sottosegretario di Stato al Ministero dell’Istruzione. L’Istituto Majorana continua ad avere nuove classi sperimentali dove, su base volontaria, gli studenti iniziano le lezioni alle 9 piuttosto che alle 8 ma non c’è più la complessa macchina organizzativa della valutazione. Probabilmente, con la presenza di Salvatore Giuliano a Brindisi le cose sarebbero potute andare diversamente.
Bisogna però tener conto di altri due aspetti. Il primo, è che stiamo parlando di uno studio geograficamente anomalo in quanto chi programmava lo studio e analizzava i dati si trovava all’Università La Sapienza di Roma, mentre l’acquisizione dei dati, l’organizzazione dei diari settimanali e lo svolgimento dei compiti al computer era a carico degli insegnanti dell’Istituto Majorana. Gli insegnanti, quindi, si sono trovati nei panni di sperimentatori succedanei che, in maniera volontaria, hanno dovuto fare un grande lavoro spesso al di là delle loro competenze. Il secondo aspetto è che questa ricerca non è stata supportata da alcuna risorsa economica. Tutta questa macchina ha avuto un costo che probabilmente l’organizzazione locale non poteva più tollerare.
Nel vostro studio sono state utilizzate misure soggettive, ovvero domande a cui erano i soggetti stessi a rispondere, per analizzare alcuni aspetti come la latenza del sonno, il numero dei risvegli e la durata dei risvegli. Come pensa che sarebbero stati i risultati, se fossero state utilizzate misure oggettive e dunque strumenti che indagano questi stessi aspetti attraverso indici psicofisiologici?
La misura oggettiva più ovvia da utilizzare sarebbe la polisonnografia, ma essa risultava inattuabile in termini di costi e di fattibilità. Inizialmente erano state considerate due possibilità di compromesso tra misure oggettive e soggettive. La prima era far diventare gli studenti ricercatori di loro stessi, affidandogli il carico gestionale e organizzativo. Poteva rappresentare una modalità peculiare di fare scuola-lavoro, ma non è stato possibile realizzarlo.
La seconda opzione sarebbe stata quella di utilizzare l’actigrafia, ovvero uno strumento non invasivo che, indossato al polso come un orologio, va a registrare l’attività motoria del polso stesso. Quest’ultima risulta essere rappresentativa dell’attività motoria dell’individuo. Considerando che movimento presente corrisponde alla veglia e che la quiescenza motoria corrisponde ad uno stato di sonno, l’actigrafia riesce a stimare in maniera consolidata alcune caratteristiche del sonno come la durata e la sua eventuale frammentazione. Essa ha, inoltre, il pregio di avere un’ottima risoluzione temporale e una memoria di uno o due mesi. Anche in questo caso non è stato possibile utilizzare questo strumento.
Ad ogni modo, la misura oggettiva non necessariamente avrebbe aggiunto qualcosa in più. In tanti contesti diagnostici dei disturbi del sonno la misura di eccellenza è il diario e, dunque, è il soggetto stesso che risponde a una specifica griglia di domande nei successivi minuti al risveglio. Il vantaggio di uno strumento così è l’assenza di costo e di essere anche facilmente attuabile. Anche se avessimo utilizzato misure oggettive, i risultati non sarebbero stati verosimilmente molto diversi. Infatti, tra misure self report e l’actigrafia vi è un accordo molto elevato.
Come spiegherebbe l’assenza di significatività dei risultati nel Pittsburgh Sleep Quality Index?
Il Pittsburgh Sleep Quality Index è una misura retrospettiva in cui viene chiesto ai soggetti di stimare alcune caratteristiche del sonno nel mese che precede la valutazione. È una misura che quantifica l’alterazione della qualità del sonno. Non ci aspettavamo un dato molto particolare, poiché non abbiamo inciso sui disturbi del sonno. Quello che abbiamo fatto è stato incidere sulla durata del sonno. Anche se i risultati non si sono mostrati significativi da un punto di vista statistico, questi sono comunque andati nella direzione attesa di un relativo miglioramento anche nella qualità del sonno.
Per eventuali ricerche future, ritiene sia utile poter differenziare gli studenti che riposano il pomeriggio da coloro che non lo fanno?
In questo studio la presenza di sonnellini diurni è stata valutata, ma non in maniera longitudinale, ovvero non per tutto il corso dello studio. Ogni studio futuro dovrebbe, ad ogni modo, meglio monitorare eventuali recuperi pomeridiani di sonno. Riguardo al come farlo, un fattore da tenere in considerazione sarebbe il cronotipo. Per quanto riguarda l’adesione dei nostri ritmi biologici e psicologici al modello circadiano la maggior parte di noi è sincronizzata su una tipologia intermedia in cui abbiamo adattato i nostri picchi di attività certi momenti del giorno.
Ma esistono due code della distribuzione: i mattutini e i serotini. Questi individui hanno una serie di variabili fisiologiche, ormonali e prestazionali spostate in maniera coerente alla loro tipologia. Nello specifico, il mattutino ha dei picchi legati alle prime ore del mattino e il serotino nella parte serale. Questo è un aspetto può essere manipolato. Un progetto quando viene costruito potrebbe prendere in considerazione non solo le singole classi, ma anche i cronotipi estremi e indagare su come rispondono al posticipo dell’orario.
Naturalmente ci si aspetta che siano i serotini a beneficiarne di più e i mattutini o ne beneficiano meno o non ne beneficiano affatto. Questo sarebbe da un punto di vista di pianificazione un aspetto molto facile da valutare e considerare. Infatti, nell’idea di un futuro in cui ipoteticamente l’organizzazione scolastica comincia a tener conto di queste conoscenze, è quella che è più facile da realizzare. Si potrebbero, in questo modo, comporre le classi in maniera oculata così da rispettare il cronotipo preferenziale dei singoli studenti. I mattutini verranno messi in classi tradizionali e i serotini in classi che posticipano l’orario di inizio delle lezioni.
Lei pensa che i risultati ottenuti dal vostro lavoro possano essere estesi anche a contesti non scolastici?
Assolutamente si. Prima però di muoverci ad altri contesti lavorativi rimaniamo ancora in quello scolastico. Nella scuola non ci sono solo gli studenti, ma anche gli insegnanti. Spesso noi insegnanti universitari ci troviamo a dover alternare anni accademici in cui si insegna la mattina ed anni in cui si insegna il pomeriggio. Parlando a titolo personale, essendo io un serotino, l’anno accademico in cui devo insegnare la mattina non mi rende particolarmente felice e se possibile cerco di farmi sempre posticipare un po’ la lezione nella composizione dei calendari delle lezioni.
Questo per dire che tutto ciò di cui abbiamo parlato nella prima parte, vale tanto per gli studenti quanto per gli insegnanti. Tuttavia, per quanto strano, mi sembra di ricordare che in tutti gli studi pubblicati finora hanno sempre guardato gli studenti e mai gli insegnanti, che avrebbero meritato anche loro di essere oggetto di studio. Per rispondere più specificatamente alla sua domanda, negli ultimi anni si è osservato un aumento di diverse organizzazioni professionali che rimangono attive 24h su 24: mentre fino a qualche decennio fa il turnismo era limitato al pronto soccorso ed ai mestieri di emergenza, ora sempre più categorie professionali ne sono interessate. Dunque, una parte sempre più cospicua della popolazione lavora in momenti cronobiologicamente non adatti. Non a caso, si parla proprio di “sindrome dei turnisti” riferendosi ad una costellazione di disturbi che sono conseguenze di questo drammatico sfasamento tra le attività lavorative e il proprio ritmo biologico.
Di conseguenza, la politica e le organizzazioni lavorative dovrebbero iniziare a considerare seriamente tutti quei fattori che minimizzano le conseguenze delle “sindromi dei turnisti”. Io stesso ho aperto un filone di ricerca sui turnisti in ambito infermieristico per documentare quanto l’errore in medicina del personale medico e paramedico (soprattutto durante i turni notturni) sia conseguente a questa desincronizzazione circadiana (Di Muzio et al., 2020; Di Muzio et al., 2019). Si tenga conto, per esempio, che qualche anno fa il British Medical Journal (Macary & Daniel, 2016), un autorevole giornale scientifico, ha pubblicato una drammatica statistica epidemiologica sulle cause di morte nel mondo: dopo i disturbi cardiocircolatori e le malattie oncologiche, la terza causa di morte nel mondo è la morte in contesti ospedalieri.
Non si può banalizzare questa osservazione perché si tratta di un fenomeno complesso ma una larga parte dei decessi dovuta agli errori in medicina è legato alle conseguenze del lavoro a turni. Quindi certamente queste osservazioni valgono anche per tutti gli altri contesti lavorativi, soprattutto quelli in cui le attività si svolgono in momenti cronobiologicamente non adatti. C’è da tener conto che la branca della cronobiologia ha numerose declinazioni, tra cui quella della cronofarmacologia, in cui si studiano quali sono i momenti dell’intero ciclo giornaliero in cui l’efficacia di certi principi attivi viene minimizzata o massimizzata. In definitiva, il ritmo cronobiologico è qualcosa che in futuro dovrebbe sempre più orientare certe scelte di carattere non solo farmacologico ma anche lavorativo e sociale.
Bibliografia
Alfonsi, V., Palmizio, R., Rubino, A., Scarpelli, S., Gorgoni, M., D’Atri, A., Pazzaglia, M., Ferrara, M., Giuliano, S., & De Gennaro, L. (2020). The association between school start time and sleep duration, sustained attention, and academic performance. Nature and Science of Sleep, 12, 1161–1172.
Di Muzio, M., Diella, G., Di Simone, E., Novelli, L., Alfonsi, V., Scarpelli, S., Annarumma, L., Salfi, F., Pazzaglia, M., Giannini, A. M., & De Gennaro, L. (2020). Nurses and Night Shifts: Poor Sleep Quality Exacerbates Psychomotor Performance. Frontiers in neuroscience, 14, 579938.
Di Muzio, M., Reda, F., Diella, G., Di Simone, E., Novelli, L., D’Atri, A., Giannini, A., & De Gennaro, L. (2019). Not only a Problem of Fatigue and Sleepiness: Changes in Psychomotor Performance in Italian Nurses across 8-h Rapidly Rotating Shifts. Journal of clinical medicine, 8(1), 47.
Jenni, O. G., Achermann, P., & Carskadon, M. A. (2005). Homeostatic sleep regulation in adolescents. Sleep, 28(11), 1446–1454.
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