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Quando la leucemia era “un male incurabile”: storia di un successo medico tutto italiano


Il 23 giugno è stato pubblicato sul New England Journal of Medicine l’articolo a nome di Robin Foà e Sabina Chiaretti della Sapienza, che ripercorre le tappe fondamentali della ricerca ventennale, tutta italiana, che ha portato al cambiamento radicale nel trattamento e nella prognosi dei pazienti con leucemia acuta linfoblastica Philadelphia-positiva.

leucemia storia
Quando la leucemia era “un male incurabile”: storia di un successo medico tutto italiano. Foto di  VashiDonsk, CC BY-SA 3.0

Roma, 18 luglio 2022 – Sono passati quasi vent’anni da quando in Italia fu sperimentata per la prima volta una sostanza, l’imatinib, appartenente a una nuova classe di farmaci antitumorali mirati, in pazienti con leucemia acuta linfoblastica (LAL), associata a un’alterazione del cromosoma Philadelphia (LAL Ph+) per il trattamento iniziale di questi pazienti. Poiché si trattava di un approccio terapeutico rivoluzionario, furono arruolati per questa sperimentazione solo pazienti anziani, di oltre 60 anni, per molti dei quali venivano offerte esclusivamente terapie palliative.

Dopo essere stati trattati con una combinazione di imatinib, inibitore delle tirosin-chinasi (TKI) e steroide, tutti i pazienti ottennero una remissione della malattia.

Da allora questa strategia terapeutica iniziale basata solo su un TKI (più lo steroide) ha permesso di ottenere percentuali di risposta nel 94-100% dei pazienti adulti di tutte le età con LAL Ph+, senza ricorrere a chemioterapia sistemica (solo profilassi del sistema nervoso centrale) e con bassissima tossicità per i pazienti.

Negli anni la ricerca del gruppo coordinato dal Robin Foà (Professore Emerito di Ematologia della Sapienza) è andata avanti con l’obiettivo di arrivare alla guarigione dei pazienti affetti da questa patologia ematologica.

Per questo motivo la prestigiosa rivista New England Journal of Medicine ha chiesto al Professor Foà di descrivere i risultati più importanti raggiunti e pubblicati in questo ventennio sulla LAL Ph+ e come sia cambiata la storia naturale di questa malattia, una volta considerata la neoplasia ematologica più infausta. La review “Philadelphia Chromosome–Positive Acute Lymphoblastic Leukemia”, pubblicata il 23 giugno scorso, ripercorre appunto le tappe fondamentali di questo successo tutto italiano della ricerca medica.

Dopo la prima sperimentazione dell’imatinib in pazienti con LAL Ph+, si è progressivamente compreso che, per evitare una recidiva di malattia e migliorare le possibilità di guarigione, non bastasse una remissione ematologica, ma fosse essenziale ottenere uno stato di negatività della malattia residua minima (MRD, minimal residual disease).

Nel 2016 iniziò il primo studio multicentrico italiano per pazienti adulti con LAL Ph+ (senza limiti di età) nel quale fu prevista l’aggiunta al TKI del blinatumomabprimo farmaco nella classe degli anticorpi bi-specifici BiTE®, che agiscono stimolando una doppia reazione: da un lato il blinatumomab si lega alla proteina espressa dalle cellule leucemiche e dall’altro attiva nell’organismo una risposta immunologia. Questo approccio chemio-free, basato sulla combinazione di una terapia iniziale mirata su un TKI (dasatinib) e steroide (di induzione), seguita da una strategia immunoterapica (blinatumomab, che attiva i linfociti T del paziente) come terapia di consolidamento, ha portato a remissioni nel 98% dei pazienti e, soprattutto, a remissioni molecolari fino all’80% dei casi. I risultati dello studio sono stati pubblicati il 22 ottobre 2020 sempre sul New England Journal of Medicine. Va, altresì, ricordato come risultati incoraggianti si stiano ottenendo con il blinatumomab in un altro studio italiano per pazienti con LAL Ph- e come sia in sviluppo una più maneggevole formulazione sottocute.

Nella review viene discusso l’uso negli anni dei TKI di seconda e terza generazione, da soli o insieme a dosi ridotte di chemioterapia, nel trattamento di prima linea di pazienti con LAL Ph+, di come consolidare le risposte ottenute con i TKI, e di come l’immunoterapia con blinatumomab abbia potenziato significativamente le risposte ottenute con i TKI. Viene, inoltre, discussa la gestione delle recidive sulla base delle nuove prospettive terapeutiche e valutato il ruolo che oggi ha il trapianto allogenico di cellule staminali, alla luce dei risultati ottenuti dalla combinazione della targeted therapy con l’immunoterapia.

Un paragrafo è dedicato a “Role of Laboratory Testing in Management” in quanto i risultati ottenuti nelle LAL Ph+ (come in molte altre patologie ematologiche dove, peraltro, l’Italia ha sempre offerto importanti contributi), sono stati e sono possibili solo attraverso la disponibilità di laboratori certificati, che utilizzano metodiche standardizzate (e con controlli di qualità).

Per le LAL Ph+ è essenziale ottenere una diagnosi molecolare precisa nella prima settimana dalla diagnosi di LAL, così da poter iniziare tempestivamente il trattamento con un TKI. Inoltre, va effettuato uno studio molecolare volto a definire se un paziente ha un profilo genetico sfavorevole o meno, va studiata la possibile presenza di mutazioni che conferiscono resistenza ad alcuni TKI, va monitorizzata accuratamente la MRD con tecniche di PCR quantitativa e ora anche con tecniche più sensibili (come la droplet digital PCR), e vanno monitorizzate le modulazioni indotte dal trattamento con TKI e blinatumomab sul compartimento immunitario dei pazienti trattati. Uno sforzo organizzativo assai impegnativo, ma essenziale per l’ottenimento dei risultati.

Questo complesso network non è, ovviamente, disponibile a livello globale, e anzi sta diventando sempre più difficile gestire al meglio i pazienti. Risultano essenziali, quindi, gli studi cooperativi, presenti in diversi paesi. Tra questi, in Italia si annoverano il GIMEMA per gli adulti e l’AIEOP per i bambini. Nei protocolli GIMEMA per le LAL tutti i campioni dei pazienti arruolati sono centralizzati dal 1996 (alla diagnosi e nel follow-uppresso i laboratori di Ematologia del Policlinico universitario Umberto I, per garantire che tutti i pazienti siano studiati in modo uniforme. Questo è possibile solo con personale qualificato e adeguatamente formato, che si accerti che tutti i complessi test necessari vengano adeguatamente effettuati in laboratori certificati.

Nella review viene trattata anche la questione della “Accessibility and Sustainability”. Quanti pazienti hanno accesso a tutto questo? In termini di test di laboratorio e di accesso ai farmaci? Ancor oggi in molte parti del mondo la disponibilità di TKI è limitata. Di fatto, troppo spesso l’accesso ai laboratori per i test necessari e alle terapie è possibile solo per chi può permetterselo.

Questo approccio di induzione e consolidamento senza chemioterapia sistemica è stato particolarmente importante anche durante il primo picco della pandemia da Covid-19, perché ha permesso ai pazienti di ridurre i tempi di ospedalizzazione e soprattutto di non interrompere il trattamento.

Nel paragrafo conclusivo della review viene infine chiarito che gli studi attualmente in corso – in primis il nuovo protocollo GIMEMA aperto all’arruolamento – potranno stabilire in modo conclusivo se una quota di pazienti con LAL Ph+ potrà essere trattata in futuro senza chemioterapia sistemica e trapianto.

“Un risultato impensabile anche solo pochi anni fa – dichiara Robin Foà – che mi porta a dire ai più giovani di credere nelle loro idee, soprattutto se originali, e di perseguirle con ostinazione. Anche per noi non fu facile all’inizio, ma questa storia tutta italiana ci insegna che spesso i sogni si realizzano”.

Riferimenti:

Philadelphia Chromosome–Positive Acute Lymphoblastic Leukemia – Robin Foà, Sabina Chiaretti – New England Journal of Medicine (2022) https://doi.org/10.1056/NEJMra2113347

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Vaccinazione anti COVID-19: non solo le patologie pregresse e l’età, ma anche il sesso e lo stile di vita influenzano la risposta immunitaria acquisita

Un nuovo studio, promosso dalla Sapienza e dal Policlinico Umberto I, ha identificato i fattori demografici, clinici e sociali che interferiscono con la risposta immunitaria in seguito alla vaccinazione anti COVID-19. I risultati del lavoro, pubblicati sulla rivista Journal of Personalized Medicine, aprono la strada a programmi vaccinali personalizzabili.

 

È ormai noto che per il controllo a lungo termine della pandemia da COVID-19 risulta cruciale l’immunità indotta dal vaccino. Tuttavia, diverse variabili possono incidere sulla capacità degli individui di acquisire quest’immunità.

Una nuova ricerca interamente italiana, promossa dalla Sapienza e dal Policlinico Umberto I e coordinata da Stefania Basili del Dipartimento di Medicina traslazionale e di precisione della Sapienza, ha permesso di individuare una correlazione tra la risposta immunitaria acquisita dopo la somministrazione del vaccino anti COVID-19 e alcune variabili demografiche, cliniche e sociali, tra cui l’età, il sesso, le malattie pregresse, l’abitudine tabagica e lo stato civile.

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Vaccinazione anti COVID-19: non solo le patologie pregresse e l’età, ma anche il sesso e lo stile di vita influenzano la risposta immunitaria acquisita. Foto di PIRO4D

Lo studio, pubblicato sulla rivista Journal of Personalized Medicine, è frutto della collaborazione dei dipartimenti universitari della Sapienza con il Policlinico Umberto I e ha visto la partecipazione degli operatori della salute dell’ospedale universitario.

Un campione di 2065 lavoratori sanitari del Policlinico Umberto I, a cui era stato somministrato il vaccino anti COVID-19 a mRNA di Pfizer BioNTech, è stato sottoposto a due prelievi di sangue, dopo 1 mese e dopo 5 mesi dalla seconda vaccinazione.

“A tutti i soggetti coinvolti – spiega Stefania Basili, coordinatrice dello studio– è stato somministrato un questionario per raccogliere informazioni personali ed è stato eseguito un test sierologico quantitativo in grado di rilevare gli anticorpi anti-proteina S (Spike) del virus Sars-CoV2, il miglior strumento per valutare l’immunità acquisita a seguito della vaccinazione o dell’infezione”.

Dai risultati è emerso che dopo un mese dalla vaccinazione i soggetti con una pregressa infezione da COVID-19 e quelli più giovani hanno livelli di anticorpi più alti rispetto alle altre persone del campione considerato. Al contrario, le malattie autoimmuni, le patologie polmonari croniche e il tabagismo sono correlati ai più bassi livelli di risposta anticorpale.

Dopo cinque mesi dalla vaccinazione si è osservata una diminuzione mediana del 72% del livello anticorpale, che però è meno evidente nelle donne e nei soggetti con infezione pregressa. Invece nei fumatori, negli ipertesi e nei meno giovani è stato riscontrato un crollo drammatico di circa l’82% dei livelli di anticorpi anti-Spike.

Tra gli autori della ricerca anche la rettrice della Sapienza Antonella Polimeni, che dichiara “lo studio mette in rilievo come il perseguimento della salute, anche di fronte a situazioni pandemiche, sottenda a un più generale principio di benessere sociale. I fattori legati agli stili di vita, infatti, hanno un ruolo rilevante nella risposta immunitaria. La prima cura è quindi l’innalzamento della cultura sanitaria e degli standard qualitativi di vita”.

I ricercatori hanno inoltre rivelato un mantenimento maggiore della risposta anticorpale nei soggetti single o conviventi rispetto ai soggetti sposati, divorziati o vedovi, anche se questa associazione potrebbe essere dovuta ad altre variabili cliniche inesplorate, come lo stile alimentare e l’indice di massa corporea.

 “Gli esiti di questo lavoro che ancora una volta sottolineano l’importanza degli stili di vita – dichiara Fabrizio d’Alba, direttore generale del Policlinico Umberto I – ci rendono sempre confidenti della validità del percorso intrapreso da Sapienza e Umberto I. Un percorso comune in un’ottica di scambio sinergico che renderà più forte la nostra comunità scientifica”.

Lo studio, spiega Domenico Alvaro, preside della Facoltà di Medicina ed odontoiatria, è una dimostrazione di come Azienda ed Ateneo siano in assoluta sintonia anche nella ricerca, ed in particolare in settori così rilevanti per la salute pubblica. Inoltre, la ampia partecipazione del personale sanitario dimostra il senso di responsabilità per raggiungere dei risultati che, anche nei confronti di COVID-19, rappresentano un ulteriore stimolo a perseguire sani stili di vita.

“Sebbene il nostro studio abbia confermato molte correlazioni già note, ha anche preso in considerazione per la prima volta – conclude Stefania Basili – molti fattori tra cui il livello di istruzione, il tipo di lavoro, lo stato civile e il carico di coinvolgimento familiare. Al di là dei risultati, l’auspicio è che la nostra analisi possa incoraggiare ulteriori ricerche a indagare gli effetti delle variabili legate al genere e allo stile di vita sulla risposta immunitaria, facendo emergere una medicina personalizzata e di precisione.”

 

Riferimenti:
Serological Response and Relationship with Gender-Sensitive Variables among Healthcare Workers after SARS-CoV-2 Vaccination – Roberto Cangemi, Manuela Di Franco, Antonio Angeloni, Alessandra Zicari, Vincenzo Cardinale, Marcella Visentini, Guido Antonelli, Anna Napoli, Emanuela Anastasi, Giulio Francesco Romiti, Fabrizio d’Alba, Domenico Alvaro, Antonella Polimeni, Stefania Basili, SAPIENZAVAX Collaborators – Journal of Personalized Medicine (2022) https://doi.org/10.3390/jpm12060994

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Comunicazione cervello-ambiente: il ruolo dei microrganismi intestinali

Un nuovo studio, coordinato dal Dipartimento di Fisiologia e farmacologia Vittorio Erspamer della Sapienza, ha individuato alcuni ceppi batterici che mediano gli effetti benefici di un ambiente arricchito sulla plasticità del sistema nervoso centrale

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Comunicazione cervello-ambiente: il ruolo dei microrganismi intestinali. Foto di 政徳 吉田

Negli ultimi anni è stato dimostrato che un ambiente arricchito dal punto di vista motorio, sensoriale e sociale può avere un effetto benefico sul sistema nervoso centrale, poiché ne favorisce la plasticità cerebrale e la funzione cognitiva.

Tuttavia, non era ancora stato indagato il possibile ruolo dei microrganismi intestinali nel mediare questi effetti benefici.

Un nuovo studio, coordinato da Cristina Limatola del Dipartimento di Fisiologia e farmacologia Vittorio Erspamer della Sapienza, ha analizzato in un modello sperimentale murino le modifiche indotte dagli stimoli ambientali – di un ambiente arricchito rispetto alle condizioni standard dello stabulario – sul microbiota intestinale e sui suoi metaboliti. Questa ricerca ha permesso di identificare alcuni ceppi batterici e i prodotti del loro metabolismo – in particolare, gli acidi grassi a catena corta – che mediano gli effetti benefici dell’ambiente arricchito sulla plasticità del sistema nervoso centrale.

Lo studio, pubblicato sulla rivista Communications Biology, nasce dalla collaborazione dei dipartimenti di Fisiologia e farmacologia Vittorio Erspamer, di Chimica, di Biologia ambientale e l’NMLab della Sapienza con l’Istituto Pasteur Italia, l’Istituto italiano di tecnologia, il Cnr, l’Università di Trieste e l’IRCCS Neuromed di Pozzilli.

“Il nostro lavoro – spiega Cristina Limatola, coordinatrice dello studio – aggiunge alle attuali conoscenze due elementi fondamentali. Il primo è che le cellule microgliali – cioè le cellule del sistema nervoso centrale con funzione immunitaria – rappresentano l’interfaccia tra ambiente e segnali provenienti dal microbiota intestinale. La seconda è che i cambiamenti dell’ambiente in cui viviamo e gli stimoli che da esso riceviamo contribuiscono in modo cruciale a determinare la composizione del nostro microbiota”.

Per ottenere questi risultati è stato necessario un approccio multidisciplinare, che ha unito le competenze di neurofisiologia e metabolomica – la scienza che studia il metaboloma, ovvero l’insieme di tutti i metaboliti che partecipano ai processi biochimici di un organismo – con la metagenomica – cioè la branca della genomica che studia le comunità microbiche nel loro ambiente naturale – e la bioinformatica.

“Questa ricerca – conclude Cristina Limatola – evidenzia il ruolo del microbiota, del metaboloma, delle cellule dell’immunità innata e degli acidi grassi a catena corta nei meccanismi di comunicazione tra cervello e ambiente e apre la strada a nuove interpretazioni di questo cross-talk bidirezionale”.

Riferimenti:
Short-chain fatty acids promote the effect of environmental signals on the gut microbiome and metabolome in mice – Francesco Marrocco, Mary Delli Carpini, Stefano Garofalo, Ottavia Giampaoli, Eleonora De Felice, Maria Amalia Di Castro, Laura Maggi, Ferdinando Scavizzi, Marcello Raspa, Federico Marini, Alberta Tomassini, Roberta Nicolosi, Carolina Cason, Flavia Trettel, Alfredo Miccheli, Valerio Iebba, Giuseppina D’Alessandro, Cristina Limatola – Communications Biology (2022) https://doi.org/10.1038/s42003-022-03468-9

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Tumori pediatrici: scoperto un nuovo biomarcatore che ne predice l’aggressività
Uno studio internazionale, coordinato dal Dipartimento di Medicina sperimentale della Sapienza, ha individuato un biomarker in grado di predire la progressione di gliomi pediatrici a basso grado di malignità dopo la rimozione chirurgica

I gliomi sono tumori delle cellule della glia – cioè cellule del sistema nervoso che hanno la funzione di sostenere i neuroni – e sono i più frequenti in età pediatrica. I gliomi pediatrici a basso grado di malignità sono curabili con l’asportazione chirurgica e nuove terapie sperimentali.

Tuttavia, in alcuni casi l’intervento chirurgico non è sufficiente a impedire la progressione di questo tipo di tumore e finora non si conoscevano biomarker in grado di prevedere in quali pazienti questo evento potesse verificarsi.

Una nuova ricerca internazionale, coordinata da Elisabetta Ferretti del Dipartimento di Medicina sperimentale della Sapienza e pubblicata sulla prestigiosa rivista Biomarker Research, ha fornito un contributo fondamentale in questo ambito.

“Il nostro studio – dichiara Elisabetta Ferretti – è il primo sui gliomi pediatrici di basso grado ad aver dimostrato la possibilità di individuare un biomarcatore in grado di identificare i pazienti a rischio di progressione”.

Questi tumori possono rimanere indolenti anche per decenni, oppure andare incontro a progressione. L’identificazione al momento della diagnosi del rischio di progressione è di estremo interesse clinico ed è fondamentale per prendere decisioni riguardo l’approccio medico. Infatti, permette di evitare di sottoporre i piccoli pazienti con basso rischio di progressione a terapie aggressive che possono avere conseguenze importanti a livello neurocognitivo.

Lo studio è nato da una collaborazione tra i dipartimenti di Medicina sperimentale, di Medicina molecolare e di Scienze radiologiche oncologiche e anatomo-patologiche della Sapienza e l’IRCCS Bambino Gesù, l’Ospedale universitario di Heidelberg, l’Università di Aix-Marseille, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e l’IRCCS Neuromed di Pozzilli.

“Sebbene l’utilità di questo biomarcatore necessiti di ulteriori conferme, si tratta – concludono Giuseppina Catanzaro e Zein Mersini Besharat, prime autrici dello studio e ricercatrici presso il Dipartimento di Medicina sperimentale della Sapienza – di un punto di partenza promettente per la definizione iniziale dei pazienti e, soprattutto, riaccende le speranze della comunità scientifica di contribuire allo sviluppo di cure personalizzate nell’ambito della medicina di precisione”.

Riferimenti:
MiR-1248: a new prognostic biomarker able to identify supratentorial hemispheric pediatric low-grade gliomas patients associated with progression – Giuseppina Catanzaro, Zein Mersini Besharat, Andrea Carai, Natalie Jäger, Elena Splendiani, Carole Colin, Agnese Po, Martina Chiacchiarini, Anna Citarella, Francesca Gianno, Antonella Cacchione, Evelina Miele, Francesca Diomedi Camassei, Marco Gessi, Luca Massimi, Franco Locatelli, David T. W. Jones, Dominique Figarella-Branger, Stefan M. Pfister, Angela Mastronuzzi, Felice Giangaspero, Elisabetta Ferretti – Biomarker Research (2022) https://doi.org/10.1186/s40364-022-00389-x

Tumori pediatrici: scoperto un nuovo biomarcatore che ne predice l’aggressività
Tumori pediatrici: scoperto un nuovo biomarcatore che ne predice l’aggressività. Foto di Mylene2401

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Differenziamento dei motoneuroni: il ruolo degli RNA non codificanti

Un nuovo studio, frutto di una collaborazione tra il Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza, l’Istituto italiano di tecnologia e il Cnr, rivela la sinergia tra RNA codificanti e non codificanti nel regolare la formazione dei motoneuroni e apre la strada a nuovi approcci terapeutici per la cura delle malattie neurodegenerative. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista The EMBO Journal.

Differenziamento dei motoneuroni: il ruolo degli RNA non codificanti
Foto di  Gerd Altmann

Il ruolo fondamentale degli RNA non codificanti – che non sono tradotti in proteine – nella regolazione dei programmi di sviluppo e funzionamento dei tessuti, in particolare del sistema nervoso, è emerso soprattutto negli ultimi anni.

Sebbene molte funzioni specifiche siano ancora poco conosciute, gli RNA non codificanti hanno un ruolo biologico cruciale, che li rende di notevole interesse soprattutto nell’ambito della ricerca biomedica.

Un nuovo studio, coordinato da Irene Bozzoni, del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza e del Clns dell’Istituto italiano di tecnologia, in collaborazione con Pietro Laneve del Cnr, ha permesso di caratterizzare l’attività di uno specifico gene (MN2) che dirige la produzione di molteplici RNA non codificanti strutturalmente diversi, sia lunghi (lncRNA) che corti (microRNA).

In particolare, tecniche avanzate di biologia molecolare e cellulare hanno permesso ai ricercatori di chiarire il meccanismo attraverso cui il dialogo tra lncRNA e microRNA controlla l’espressione di geni codificanti per proteine fondamentali nel differenziamento dei motoneuroni, ovvero di quei neuroni che veicolano i segnali nervosi dal sistema nervoso centrale ai muscoli.

La ricerca, nata dalla collaborazione tra la Sapienza, l’Istituto italiano di tecnologia e il Cnr, è stata finanziata da ERC-2019-SyG e pubblicata sulla prestigiosa rivista internazionale The EMBO Journal.

“Il lavoro – spiega Irene Bozzoni, coordinatrice del gruppo di ricerca – ci aiuta a capire meglio le funzioni attribuite al genoma non codificante. In particolare, abbiamo evidenziato per la prima volta come un meccanismo basato sul sequestro di microRNA da parte di un lncRNA – detto “spugna molecolare” – contribuisca alla generazione dei motoneuroni.”

 I motoneuroni, oltre a essere mediatori dei segnali nervosi responsabili della contrazione muscolare, sono anche bersagli di gravi patologie degenerative e di lesioni invalidanti.

 “L’auspicio – conclude Irene Bozzoni – è che la comprensione dei processi di formazione dei motoneuroni possa consentire lo sviluppo di nuovi approcci terapeutici in medicina neurodegenerativa”.

Riferimenti:
A multifunctional locus controls motor neuron differentiation through short and long non coding RNAs – Andrea Carvelli, Adriano Setti, Fabio Desideri, Silvia Galfrè, Silvia Biscarini, Tiziana Santini, Alessio Colantoni, Giovanna Peruzzi, Matteo J Marzi, Davide Capauto, Silvia Di Angelantonio, Monica Ballarino, Francesco Nicassio, Pietro Laneve, Irene Bozzoni- The EMBO Journal (2022) https://doi.org/10.15252/embj.2021108918

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Mobilità elettrica e home working riducono l’inquinamento urbano
Trasformando solo l’1% dei veicoli più inquinanti in elettrici, la riduzione delle emissioni sarebbe pari a quella ottenuta convertendo in elettrico il 10% di veicoli scelti casualmente. È uno dei risultati della ricerca, pubblicata su Nature Sustainability, condotta da Cnr-Isti e Sapienza Università di Roma nelle città di Firenze, Roma e Londra.

Roma inquinamento mobilità elettrica home working
Mobilità elettrica e home working riducono l’inquinamento urbano. Nella foto, traffico nella città di Roma, una delle tre città coinvolte nello studio. Foto di wal_172619

Quanto e cosa, gli individui che vivono in un’area urbana, respirano quotidianamente dipende da diversi fattori, ed è variabile nello spazio e nel tempo. Così come è molto variabile la responsabilità, delle auto, per quelle stesse emissioni a cui le persone sono esposte.

Alcune strade delle città, sono più inquinate di altre, e alcuni veicoli privati inquinano più di altri.

Lo studio dei ricercatori dell’Istituto di scienza e tecnologie dell’informazione del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isti) in collaborazione con il Dipartimento di ingegneria informatica, automatica e gestionale (Diag) della Sapienza Università di Roma ha evidenziato come in città come Roma e Firenze, ma anche a Londra, il 10% delle strade più inquinate può arrivare ad “ospitare” quasi il 60% delle emissioni veicolari di tutta la città, e, allo stesso modo, il 10% dei veicoli più inquinanti può arrivare ad essere responsabile per ben più della metà delle emissioni.

La ricerca sottolinea inoltre che rendendo elettrico anche solo l’1% dei veicoli privati più inquinanti in un centro urbano, la conseguente riduzione delle emissioni di CO2 sarebbe pari a quella ottenuta se una quantità 10 volte maggiore di veicoli scelti a caso fossero elettrici. Risultati analoghi si ottengono dall’applicazione dell’home working mirato ad evitare i viaggi sistematici casa-lavoro di una porzione della popolazione.

“Si tratta di una evidenza scientifica di quanto sia importante compiere scelte che siano informate”, commenta Mirco Nanni, ricercatore di Cnr-Isti che ha condotto lo studio e direttore del Kdd-Lab. “Misure come le cosiddette targhe alterne, ancora in voga fino a pochi anni fa, sono incredibilmente meno efficaci di politiche di riduzione delle emissioni che compiano invece scelte mirate, come i più recenti divieti alla circolazione dei veicoli particolarmente inquinanti, o eventuali incentivi all’elettrico, che dovrebbero, però, essere concepiti per chi inquina di più”.

Ma chi inquina di più? Si possono individuare dei comportamenti di mobilità, adottati con le nostre auto, che causano maggiori emissioni? “Dal nostro lavoro emerge che chi si sposta in modo più prevedibile, come nel tragitto casa-lavoro, è responsabile di una maggiore fetta di emissioni di chi ha, invece, un comportamento di mobilità più erratico ed imprevedibile”, spiega Luca Pappalardo ricercatore del Cnr-Isti e coordinatore dello studio.

Questo tipo di ricerche possono essere di aiuto ai decisori politici.

“Nel concepire politiche di riduzione delle emissioni veicolari che siano veramente efficaci e riescano, così, ad avere un impatto positivo sulle nostre città, bisogna conoscere il fenomeno in modo approfondito”, conclude Matteo Böhm, dottorando della Sapienza e autore dello studio. “Solo con scelte informate, infatti, si può ‘sapere dove colpire’, ed arrivare così ad ottenere il massimo risultato. La nostra speranza è che studi come questo possano aiutare a raggiungere questo obiettivo”.

Riferimenti:
Gross polluters and vehicles’ emissions reduction – Matteo Böhm, Mirco Nanni, Luca Pappalardo – Nature Sustainability (2022) https://doi.org/10.1038/s41893-022-00903-x

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Biodiversità globale: i numeri per non perderla

Una nuova ricerca, che coinvolge il Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza, rivela che per arrestare la crisi della biodiversità sono necessarie misure di conservazione nel 44% della superficie terrestre, pari a 64 milioni di km2. Più di 1.3 milioni di km2 rischiano infatti di essere distrutti da interventi umani entro il 2030. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Science

biodiversità globale
Foto di Maria e Fernando Cabral

Per fermare la crisi globale della biodiversità sono necessari sforzi ambiziosi, in particolare è fondamentale proteggere le aree ad alto valore conservazionistico e forte rischio di declino.

Un team di ricerca internazionale, che coinvolge Moreno Di Marco del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza, ha utilizzato algoritmi geospaziali avanzati per mappare l’area ottimale per la conservazione delle specie e degli ecosistemi terrestri di tutto il mondo. I ricercatori hanno anche quantificato la superficie terrestre a rischio a causa delle attività umane di modifica degli habitat, sfruttando scenari di uso del suolo.

Lo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Science, è stato coordinato da James R. Allan dell’Università di Amsterdam ed è nato dalla collaborazione della Sapienza con l’Università di Amsterdam, l’Università del Queensland, l’organizzazione The Nature Conservancy (TNC), l’organizzazione United Nations Development Programme (UNDP), l’Università di Cambridge, la BirdLife International, l’Università della Tasmania, la Rights and Resources Initiative (RRI), l’Università del Kent, l’Università di Melbourne e l’Università del Delaware.

Dai risultati di questa ricerca si evince che per arrestare la crisi della biodiversità sarebbe necessario conservare un’area di 64 milioni di km2, che corrisponde al 44 % della superficie terrestre. Inoltre, i modelli mostrano che più di 1.3 milioni di km2 di questa superficie terrestre – un’area più estesa del Sud Africa – rischiano di essere distrutti entro il 2030 dalle attività antropiche, con conseguenze devastanti per la fauna selvatica.

Considerando che sono 1.8 miliardi le persone che vivono nelle zone identificate, risultano fondamentali le azioni di conservazione che promuovono l’autonomia, l’autodeterminazione e la leadership ambientale di queste popolazioni. A tal fine, gli strumenti utili spaziano, in base al contesto locale, dalla responsabilizzazione delle popolazioni indigene, alle norme che limitano la deforestazione, alle aree protette.

Alla luce del fatto che diversi paesi, sotto la guida delle Nazioni Unite, stanno attualmente negoziando nuovi obiettivi di conservazione della natura, questo lavoro avrà importanti implicazioni politiche. Infatti, il piano d’azione post-2020 della Convenzione sulla Diversità Biologica (CDB) – un trattato internazionale adottato nel 1992 al fine di tutelare la biodiversità – entrerà in vigore nel corso dell’anno. Ciò stabilirà l’agenda della conservazione per il prossimo decennio e le nazioni dovranno riportare i risultati ottenuti rispetto ai nuovi obiettivi del 2030.

“A oggi, questa ricerca rappresenta – spiega Moreno Di Marco, coautore dello studio e coordinatore del gruppo di ricerca “Biodiversity and Global Change” della Sapienza – l’analisi più esaustiva delle esigenze di conservazione della biodiversità a scala globale e dimostra che l’espansione delle aree protette è una misura necessaria ma non sufficiente a invertire il declino della biodiversità. Le aree protette devono, quindi, essere affiancate a politiche di pianificazione sostenibile dell’uso del suolo, al riconoscimento del ruolo guida delle popolazioni indigene, a meccanismi di trasferimento fiscale verso i paesi in via di sviluppo e ricchi di biodiversità, e al controllo delle attività industriali in aree importanti per la biodiversità”.

Sebbene più di un decennio fa le nazioni avessero puntato a conservare almeno il 17% della superficie terrestre attraverso aree protette e altri approcci spaziali, dal 2020 è stato chiaro che ciò non sarebbe bastato ad arrestare il declino della biodiversità e scongiurarne la crisi, anche a causa del mancato raggiungimento di altri obiettivi.

“La nostra analisi mostra – conclude Moreno Di Marco – che il rischio per la biodiversità derivante dalla perdita di habitat in aree importanti per la conservazione può ancora essere ridotto in modo significativo (addirittura di sette volte!), se si attuano oggi politiche sostenibili di uso del territorio. Ma i governi non possono continuare a perseguire una strategia di sviluppo economico di tipo ‘business as usual’”.

Riferimenti:
The minimum land area requiring conservation attention to safeguard biodiversity – James R. Allan, Hugh P. Possingham, Scott C. Atkinson, Anthony Waldron, Moreno Di Marco, Stuart H. M. Butchart, Vanessa M. Adams, W. Daniel Kissling, Thomas Worsdell, Chris Sandbrook, Gwili Gibbon, Kundan Kumar, Piyush Mehta, Martine Maron, Brooke A. Williams, Kendall R. Jones, Brendan A. Wintle, April E. Reside, James E. M. Watson – Science (2022) https://doi.org/10.1126/science.abl9127

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Fibrosi cistica: una terapia alternativa rivaluta il ruolo di alcune sostanze, fra cui l’estratto di curcuma 

I risultati di uno studio italiano, pubblicato su Cellular and Molecular Life Sciences e coordinato dal Dipartimento di Medicina Sperimentale della Sapienza, mostrano come alcune sostanze già conosciute per le loro proprietà inducano variazioni biochimiche e epigenetiche che potrebbero essere coinvolte nella fisiopatologia di questa malattia e utilizzate come bersaglio terapeutico.

curcuma fibrosi cistica
Foto di Steve Buissinne

La fibrosi cistica è una malattia genetica rara causata da numerose mutazioni del gene CFTR, che codifica per una proteina di membrana con funzione di canale per il cloro, detta regolatore della conduttanza transmembrana della fibrosi cistica, o proteina CFTR.

Un nuovo studio interamente italiano, pubblicato sulla rivista Cellular and Molecular Life Sciences, ha rivelato una possibile terapia alternativa per la fibrosi cistica che coinvolge due farmaci già in uso clinico per altre patologie, un inibitore proteico (camostat), un coenzima (S-adenosil metionina) e una sostanza alimentare, l’estratto di curcuma. Queste sostanze sono in grado di indurre variazioni biochimiche e epigenetiche – cambiamenti ereditabili nell’espressione genica che non alterano la sequenza del DNA – nel canale epiteliale del sodio (ENaC), che interagisce con la proteina CFTR nel determinare la fisiopatologia della fibrosi cistica.

La ricerca, frutto della collaborazione della Sapienza con l’Università di Foggia e l’Università di Bari, è stata coordinata da Marco Lucarelli del Dipartimento di Medicina sperimentale della Sapienza, da Fiorentina Ascenzioni del Dipartimento di Biologia e biotecnologie “Charles Darwin” della Sapienza e da Massimo Conese dell’Università di Foggia.

“Sebbene la terapia di precisione per la fibrosi cistica che agisce sulla proteina CFTR sia ormai possibile (anche se solo per alcune mutazioni), l’approccio terapeutico proposto, che invece agisce sul canale ENaC, potrebbe essere eseguito – spiega Marco Lucarelli – in contemporanea alla terapia di precisione al fine di potenziarne l’effetto, oppure in alternativa ad essa nei casi in cui non si possa agire efficacemente sul difetto principale del CFTR”.

Inoltre, le sostanze terapeutiche proposte in questo studio – due farmaci già in uso clinico per altre patologie e una sostanza alimentare – risultano più facilmente utilizzabili in clinica rispetto a sostanze sperimentali con studi di sicurezza non ancora effettuati.

“Comprendere i meccanismi epigenetici coinvolti nella fibrosi cistica – conclude Marco Lucarelli – apre la strada a nuove possibilità di cura di questa patologia, nelle quali la stessa epigenetica potrà essere considerata un bersaglio terapeutico”.

 

Riferimenti:
Downregulation of epithelial sodium channel (ENaC) activity in cystic fibrosis cells by epigenetic targeting – Giovanna Blaconà, Roberto Raso, Stefano Castellani, Silvia Pierandrei, Paola Del Porto, Giampiero Ferraguti, Fiorentina Ascenzioni, Massimo Conese, Marco Lucarelli – Cellular and Molecular Life Sciences (2022) https://doi.org/10.1007/s00018-022-04190-9

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Grafene e semiconduttori 2D: il binomio perfetto per lo sviluppo di dispositivi opto-elettronici all’avanguardia

Un nuovo studio, coordinato dal Dipartimento di Fisica della Sapienza, ha scoperto il meccanismo di scambio di energia tra il grafene e i semiconduttori bidimensionali. I risultati del lavoro, pubblicati sulla rivista PNAS, aprono la strada all’ottimizzazione di rivelatori di luce di ultima generazione

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Grafene e semiconduttori 2D: il binomio perfetto per lo sviluppo di dispositivi opto-elettronici all’avanguardia. Modello molecolare del grafene. Immagine di AlexanderAlUS, CC BY-SA 3.0

I materiali che utilizziamo nella vita di tutti i giorni hanno una struttura tridimensionale.

Nel 2004 è stato realizzato per la prima volta un solido bidimensionale, il grafene, isolando un singolo strato di atomi di carbonio. La scoperta ha aperto la strada alla realizzazione di una larga classe di materiali cristallini bidimensionali, le cui proprietà fisiche differiscono drasticamente da quelle dei materiali tridimensionali. Più recentemente è stato osservato come, unendo singoli strati 2D di una coppia di diversi materiali, sia possibile combinare le proprietà uniche e complementari dei costituenti di base, permettendo la realizzazione di dispositivi innovativi nel campo della fotonica e dell’elettronica.

Una delle soluzioni di maggior impatto applicativo per questa famiglia di solidi, dette “eterostrutture”, è stata ottenuta combinando il grafene con alcuni semiconduttori bidimensionali (i dicalcogenuri dei metalli di transizione). La loro implementazione permette di realizzare rivelatori di luce che, grazie all’elevatissima mobilità elettronica del grafene e all’ottima capacità di assorbimento del semiconduttore, sono estremamente più rapidi ed efficienti delle tecnologie attualmente utilizzate.

Il meccanismo fisico alla base della conversione e del trasferimento della luce catturata dal semiconduttore in un segnale elettrico nel grafene, sebbene sia cruciale per una progettazione ottimale di questi rivelatori di luce, è tutt’ora oggetto di un acceso dibattito.

 

Oggi il team di ricerca Femtoscopy diretto da Tullio Scopigno del Dipartimento di Fisica della Sapienza, in collaborazione con l’Istituto di fisica e chimica dei materiali di Strasburgo e l’Istituto italiano di tecnologia che partecipa grazie al supporto del progetto Europeo Graphene Flagship, è giunto a risultati fondamentali per la comprensione dei processi microscopici alla base dei dispositivi che interagiscono con la luce e convertono i segnali elettrici in segnali ottici e viceversa.

 

Lo studio, pubblicato sulla rivista PNAS, ha stabilito innanzitutto che il trasferimento di energia tra i due materiali avviene in un tempo rapidissimo, quantificato in pochi picosecondi (un picosecondo è la millesima parte di un miliardesimo di secondo).

Inoltre i ricercatori, monitorando la temperatura degli elettroni del grafene, hanno descritto i meccanismi dello scambio energetico tra i due materiali durante questa piccolissima frazione di secondo.

Inizialmente si riteneva che la conversione della luce assorbita dal semiconduttore in una corrente elettrica nel grafene richiedesse un trasferimento di carica netta positiva o negativa.

L’esperimento ha dimostrato che l’energia luminosa assorbita dal semiconduttore viene convertita in agitazione termica delle cariche elettriche nel grafene. In particolare, nei primissimi istanti successivi all’assorbimento della luce da parte del semiconduttore, ciò che viene trasferito al grafene è un pacchetto di energia associato a un eccitone neutro (costituito da una coppia di cariche positive e negative legate tra loro) e non una carica netta.  È l’intero eccitone a essere trasferito al grafene (quindi elettricamente neutro) e non un singolo frammento carico come si pensava inizialmente.

 

“Questi risultati sono stati possibili grazie a un’innovativa tecnica spettroscopica – spiega Tullio Scopigno – che impiega coppie impulsi di luce ultracorti della durata di un picosecondo.  Il primo impulso deposita energia nel materiale semiconduttore, mentre il secondo, misurando la temperatura degli elettroni nel grafene, permette di sondare il trasferimento di energia e/o carica attraverso i due materiali”.

Comprendere come avvengono gli scambi di energia tra il grafene e gli altri materiali bidimensionali rappresenta un passo chiave per implementare dispositivi opto-elettronici all’avanguardia e dal design razionale, come celle solari, LED, touchscreen e photodetectors.

Riferimenti:
Picosecond energy transfer in a transition metal dichalcogenide–graphene heterostructure revealed by transient Raman spectroscopy – Carino Ferrante, Giorgio Di Battista, Luis E. Parra López, Giovanni Batignani, Etienne Lorchat, Alessandra Virga, Stéphane Berciaud, Tullio Scopigno – Proceedings of the National Academy of Sciences (2022) https://doi.org/10.1073/pnas.2119726119

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Spot di luce usati come cani da pastore per radunare i “greggi” di batteri 

Un nuovo studio, coordinato dal Dipartimento di Fisica della Sapienza, rivela come controllare la distribuzione spaziale di batteri geneticamente modificati puntandoli con minuscoli riflettori. I risultati del lavoro sono stati pubblicati su Nature Communications

Molti batteri motili, come Escherichia coli, esplorano continuamente lo spazio circostante alla ricerca delle migliori condizioni di crescita.

Come animali da pascolo, se lasciati in uno spazio aperto, i batteri diffondono e si distribuiscono uniformemente sui “prati” ovunque il cibo sia disponibile. Radunarli è una delle responsabilità più difficili, soprattutto quando questi sono numerosi e corrono velocemente.

Spot di luce batteri

Un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Fisica della Sapienza ha dimostrato che microscopici spot di luce, come migliaia di cani pastore, possono radunare anche i batteri più veloci in un’area ristretta. Ciò è possibile solo se i batteri sono geneticamente modificati per produrre proteorodopsina, una pompa protonica che, come un mini pannello solare, sfrutta l’energia luminosa per muovere i flagelli (appendici cellulari lunghe e sottili con funzione motoria). Lo studio, pubblicato su Nature Communications, è frutto della collaborazione della Sapienza con il CNR-Nanotec e l’Istituto italiano di tecnologia.

“Questi batteri – spiega Helena Massana-Cid, ricercatrice del Dipartimento di Fisica della Sapienza e primo nome dello studio – si muovono velocemente quando la luce è intensa e più lentamente nelle zone buie. Quindi, per radunarli è stato utilizzato un proiettore di luce controllato dal computer e costituito da minuscoli riflettori puntati sulle singole cellule, in grado di spegnere rapidamente la luce sui batteri che cercavano di fuggire dall’area di raccolta”.

Grazie a una fotocamera digitale associata al microscopio i ricercatori hanno ottenuto le immagini delle sospensioni di batteri, che sono state elaborate in tempo reale attraverso trasformazioni geometriche, per poi essere proiettate sul campione con un ritardo temporale fissato. Così, muovendosi illuminati da questa immagine deformata del loro passato, migliaia di batteri possono dirigersi insieme, come un branco, verso una specifica regione.

Le particelle in grado di consumare energia per muoversi attivamente, come i batteri motili, fanno parte di un’ampia classe di sistemi di non-equilibrio, sia sintetici che biologici, chiamati collettivamente “materia attiva”. Sebbene prevedere e controllare il comportamento di questi sistemi risulti una sfida ancora aperta a cavallo tra fisica e biologia, questo esperimento aggiunge sicuramente apre la strada per sviluppi interessanti sia negli aspetti fondamentali della fisica del non-equilibrio, che nelle sue applicazioni.

“A livello fondamentale – conclude Roberto Di Leonardo del Dipartimento di Fisica della Sapienza e coordinatore dello studio – siamo riusciti a stabilire una relazione matematica tra le proprietà geometriche dei pattern di luce proiettati e il modo in cui i batteri rispondono distribuendosi nello spazio. Riguardo invece le future applicazioni, la luce potrebbe essere utilizzata per intrappolare e trasportare nuvole di particelle attive in laboratori miniaturizzati, che sfruttano l’energia meccanica per azionare micro-macchine con componenti sia biologiche e che sintetiche”.[FV1]

Riferimenti:
Rectification and confinement of photokinetic bacteria in an optical feedback loop – Helena Massana-Cid, Claudio Maggi, Giacomo Frangipane, Roberto Di Leonardo – Nature Communications (2022) https://doi.org/10.1038/s41467-022-30201-1

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma