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Classificare le nanoparticelle metalliche con l’intelligenza artificiale

Una ricerca del Dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale della Sapienza ha messo a punto tecniche di intelligenza artificiale per distinguere facilmente le diverse strutture presenti in nanoparticelle di oro, argento e rame. Questo metodo migliorerà le applicazioni nell’ambito della medicina, dell’ottica e nei processi catalitici. I risultati sono pubblicati sulla rivista ACS Nano.

Classificare le nanoparticelle metalliche con l’intelligenza artificiale. Immagine di Gerd Altmann, licenza

Le nanoparticelle metalliche giocano un ruolo importante in diverse applicazioni tecnologiche, come l’ottica e i processi catalitici. Di fondamentale importanza per la loro funzionalità sono la forma e la struttura cristallina, caratteristiche che, a causa dell’elevata frazione di atomi di superficie, possono essere molto variabili e difficili da distinguere.

Uno studio pubblicato sulla rivista ACS Nano, coordinato da Alberto Giacomello e Antonio Tinti del Dipartimento di Ingegneria meccanica e aereospaziale della Sapienza, in collaborazione con l’Università di Genova, l’Università Politecnica delle Marche e l’Istituto Italiano di Tecnologia, propone una tecnica di intelligenza artificiale capace di suddividere e classificare le strutture delle nanoparticelle in maniera automatica in base alla loro somiglianza, discriminando con grande dettaglio affinità di forma delle strutture o presenza di particolari difetti cristallini.

Mediante l’utilizzo di reti neurali simili a quelle utilizzate nell’analisi delle immagini è stato possibile generare una mappa tridimensionale dei dati. In questo modo i ricercatori sono riusciti a distinguere facilmente le diverse strutture presenti in nanoparticelle d’oro, d’argento e di rame, con un livello di dettaglio senza precedenti. Inoltre, questo approccio ha consentito di seguire e comprendere i passaggi elementari di una transizione tra due specifiche strutture, aprendo la strada a nuove tecniche accelerate di simulazione.

“È stato prima di tutto necessario individuare una grandezza fisica capace di descrivere le differenze tra le varie strutture, la funzione di distribuzione radiale – spiega Giacomello – e successivamente dall’applicazione a quest’ultima di tecniche di intelligenza artificiale, nello specifico il machine learning, è stato possibile estrarre e analizzare con maggiore semplicità le informazioni contenute nella grandezza fisica di partenza. Inoltre abbiamo potuto contare su un database molto esteso di strutture proveniente da simulazioni di dinamica molecolare svolte in precedenza dal gruppo di ricerca”.

La ricerca è stata finanziata da Progetti di ricerca di rilevante interesse nazionale (Prin), bando 2017 “Understanding and Tuning Friction through nanOstructure Manipulation (UTFROM)”, coordinato da Riccardo Ferrando esperto di nanocluster metallici dell’Università di Genova mentre l’unità di ricerca della Sapienza è coordinata da Alberto Giacomello.

Riferimenti:

Charting Nanocluster Structures via Convolutional Neural Networks – Emanuele Telari, Antonio Tinti, Manoj Settem, Luca Maragliano, Riccardo Ferrando, e Alberto Giacomello – ACS Nano (2023). https://doi.org/10.1021/acsnano.3c05653

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Fisica quantistica: ora è possibile certificare le proprietà dei dispositivi ottici integrati programmabili

Un team di ricerca internazionale ha identificato nuove tecniche per quantificare le risorse computazionali fornite dalla meccanica quantistica nei dispositivi ottici.  Gli esperimenti, condotti presso il gruppo Quantum Lab del Dipartimento della Sapienza di Roma, hanno coinvolto anche l’Istituto di fotonica e nanotecnologie del Cnr. I risultati, pubblicati sulla rivista Science Advances, serviranno a implementare le future applicazioni nei campi della metrologia, crittografia e della computazione.

Foto del chip integrato, insieme all'elettronica di controllo. Speciali stati quantistici della luce, ovvero stati a singolo fotone, vengono inviati nel chip e manipolati attraverso le guide d'onda, in modo da certificare le proprietà quantistiche considerando porzioni sempre più grandi del chip
Foto del chip integrato, insieme all’elettronica di controllo. Speciali stati quantistici della luce, ovvero stati a singolo fotone, vengono inviati nel chip e manipolati attraverso le guide d’onda, in modo da certificare le proprietà quantistiche considerando porzioni sempre più grandi del chip

Man mano che i nuovi dispositivi quantistici crescono in dimensioni e complessità, risulta fondamentale sviluppare metodi affidabili per certificare e individuare le risorse quantistiche che forniscono un effettivo vantaggio computazionale, al fine di delineare il modo migliore di utilizzarle.

In un nuovo studio, pubblicato sulla rivista Science Advances è stato mostrato proprio come certificare le varie proprietà quantistiche di dispositivi fotonici integrati di crescente complessità.

Il risultato è frutto di una collaborazione scientifica di lunga data nel campo della certificazione quantistica tra la Sapienza di Roma, l’Istituto di fotonica e nanotecnologie del Consiglio nazionale delle ricerche di Milano (Cnr-Ifn), il Politecnico di Milano e il Laboratorio Internazionale di Nanotecnologia iberica (INL).

I circuiti ottici integrati programmabili sono tra le principali piattaforme candidate per l’elaborazione dell’informazione quantistica basata sui qubits. Essi infatti consentono da un lato di effettuare esperimenti finalizzati a verificare le proprietà fondamentali della meccanica quantistica, dall’altro di implementare i dispositivi per future applicazioni nel campo della metrologia, crittografia e della computazione.

Team Quantum Lab della Sapienza Università di Roma
Team Quantum Lab della Sapienza Università di Roma

Gli esperimenti, guidati da Fabio Sciarrino della Sapienza e condotti presso il gruppo Quantum Lab dell’Ateneo, hanno certificato la presenza di caratteristiche quantistiche autentiche come la contestualità e la coerenza in un circuito ottico integrato programmabile.

La metodologia seguita è stata quella sviluppata dal team teorico guidato da Ernesto Galvão dell’INL in Portogallo.

“L’utilizzo di un chip fotonico completamente integrato e programmabile migliora la precisione e la coerenza del processo di caratterizzazione, offrendo il potenziale per l’implementazione di questi dispositivi in applicazioni pratiche”, commenta il Dott. Roberto Osellame, direttore di ricerca presso CNR-IFN.

“Il nostro lavoro – aggiunge Taira Giordani, ricercatrice presso la Sapienza e membro del team Quantum Lab – è la prima applicazione sperimentale di tale tecnica per quantificare le risorse computazionali fornite dalla meccanica quantistica nei dispositivi ottici”.

Le tecniche sviluppate hanno permesso però di verificare anche il vantaggio quantistico in applicazioni pratiche come il quantum imaging. I sistemi di imaging, grazie a determinate correlazioni quantistiche, permettono di ottenere una risoluzione che supera i limiti dell’ottica classica, trovando applicazione in diversi campi della metrologia e dei sensori.

“I nostri risultati – conclude Fabio Sciarrino, capogruppo del Quantum Lab della Sapienza – motivano la ricerca per nuove tecniche per lo studio delle risorse non classiche. Ci aspettiamo che questo lavoro stimolerà la ricerca sulla futura certificazione di dispositivi ottici che sfruttano stati quantistici della luce sempre più complessi”.

Questa linea di ricerca è supportata dal National Quantum Science and Technology Institute (NQSTI), il finanziamento italiano per la ricerca fondamentale sulle tecnologie quantistiche, dall’ERC Advanced Grant QU-BOSS, dal progetto Horizon Europe FoQaCiA e dalla FCT – Fundação para a Ciência e a Tecnologia del Portogallo.

Rappresentazione del chip fotonico integrato programmabile utilizzato utilizzato nel lavoro. Le guide d'onda vengono create mediante la scrittura laser a femtosecondo sul vetro. Le operazioni del circuito sono controllate applicando correnti su vari resistori disposti sulla superficie del chip
ora è possibile certificare le proprietà dei dispositivi ottici integrati programmabili. Rappresentazione del chip fotonico integrato programmabile utilizzato utilizzato nel lavoro. Le guide d’onda vengono create mediante la scrittura laser a femtosecondo sul vetro. Le operazioni del circuito sono controllate applicando correnti su vari resistori disposti sulla superficie del chip

Riferimenti bibliografici:

Experimental certification of contextuality, coherence, and dimension in a programmable universal photonic processor – Giordani T, Wagner R, Esposito C, Camillini A, Hoch F, Carvacho G, Pentangelo C, Ceccarelli F, Piacentini S, Crespi A, Spagnolo N, Osellame R, Galvão EF, Sciarrino F. – Sci Adv. 2023. doi: 10.1126/sciadv.adj4249

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Mosche tachinidi, che vicono nelle aree montane, guardiane della biodiversità a rischio climatico
Un nuovo studio condotto dal Dipartimento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin, in collaborazione col Museo di Zoologia dell’Università Sapienza, ha evidenziato come la diminuzione di mosche tachinidi per effetto del cambiamento climatico rappresenti un rischio per l’intero ecosistema delle aree montane. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista PNAS.

Mintho compressa è una mosca della famiglia tachinidi. I tachinidi hanno uno stile di vita parassitoide: allo stadio larvale sono endoparassiti di altri insetti, da adulti invece sono a vita libera e si nutrono di nettare ed altre essenze vegetali.
Mintho compressa è una mosca della famiglia tachinidi. I tachinidi hanno uno stile di vita parassitoide: allo stadio larvale sono endoparassiti di altri insetti, da adulti invece sono a vita libera e si nutrono di nettare ed altre essenze vegetali.
Crediti: Steve A Marshall.

Il cambiamento climatico ha un impatto particolarmente rilevante sulla biodiversità montana. Infatti, le specie di alta quota sono spesso specialiste, cioè capaci di vivere in una ristretta varietà di condizioni ambientali (a volte estreme), e quindi sono anche molto sensibili ai cambiamenti climatici.

Le mosche tachinidi sono insetti parassitoidi che “sfruttano” altri insetti (specialmente bruchi) allo stadio larvale, mentre sono a vita libera e si nutrono di nettare da adulti.

“Negli ecosistemi montani – spiega Pierfilippo Cerretti, Direttore del Museo di Zoologia e autore senior dello studio – il loro ruolo è cruciale perché tengono sotto controllo le popolazioni di diversi insetti erbivori di cui sono parassiti. Alcune specie mostrano una preferenza per specifici ospiti, mentre altre sono largamente generaliste”.

Un nuovo studio, pubblicato sulla rivista scientifica PNAS e condotto dal Dipartimento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin, in collaborazione col Museo di Zoologia della Sapienza, ha analizzato i dati di raccolta di oltre 60.000 campioni museali di mosche tachinidi raccolti in Europa dal 1845 a oggi, dimostrando che dalla metà del secolo scorso la percentuale di tachinidi specialisti è aumentata del 70% a bassa quota, mentre è diminuita del 20% ad alta quota, dove nello stesso periodo, invece, le specie generaliste si sono rapidamente diffuse.

“Il declino osservato nelle mosche specialiste di alta quota – aggiunge Luca Santini, coautore dello studio – comporta un aumento del rischio di diffusione degli insetti erbivori, che potrebbero ridisegnare gli ecosistemi montani”.

“I dati evidenziati dal nostro lavoro – conclude Moreno Di Marco, a capo del laboratorio Biodiversity & Global Change della Sapienza e coordinatore dello studio – mostrano un effetto dei cambiamenti climatici che va oltre le singole specie, suggerendo che l’intera composizione degli ecosistemi sta rapidamente cambiando con ricadute potenzialmente enormi sulla biodiversità montana”.

I risultati di questo studio dimostrano inoltre come il patrimonio dei musei di storia naturale, ottenuto con campagne di raccolta sul campo e piani di monitoraggio a lungo termine, sia fondamentale per la comprensione di fenomeni naturali complessi, e quanto più attuali, come il cambiamento climatico.

Riferimenti bibliografici:

Elevational homogenisation of mountain parasitoids across six decades – Moreno Di Marco, Luca Santini, Daria Corcos, Hans-Peter Tschorsnig, Pierfilippo Cerretti – Proceedings of the National Academy of Sciences (2023), DOI: https://doi.org/10.1073/pnas.2308273120

 

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Capire i meccanismi molecolari dell’invecchiamento per combattere la SLA e altre malattie neurodegenerative: individuato un nuovo ruolo dell’enzima Suv39 nella regolazione dell’espressione di TDP-43

Una nuova ricerca coordinata congiuntamente dall’Università degli studi di Cagliari e dalla Sapienza Università di Roma ha evidenziato una base molecolare comune dell’invecchiamento e di patologie neurodegenerative come la SLA. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Cell Death and Discovery.

L’invecchiamento è l’insieme dei cambiamenti che avvengono nelle cellule e nei tessuti con l’avanzare dell’età aumentando il rischio di malattie e morte. Questi cambiamenti seguono una sequenza programmata comune e sono principalmente caratterizzati dal deterioramento delle funzioni cognitive e dal declino delle capacità locomotorie.

Tali manifestazioni coincidono con i sintomi delle malattie neurodegenerative, come la sclerosi laterale amiotrofica (SLA), l’Alzheimer e il Parkinson, suggerendo che questo tipo di patologie condividono una base molecolare comune con il processo di invecchiamento.

I risultati di uno studio che ha approfondito le interconnessioni tra invecchiamento e malattie degenerative sono stati di recente pubblicati sulla rivista Cell Death and Discovery. Lo studio è stato coordinato da Fabian Feiguin del Dipartimento di Scienze della vita e dell’ambiente dell’Università di Cagliari e da Laura Ciapponi del Dipartimento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin della Sapienza Università di Roma.

La ricerca è stata finanziata da Fondazione AriSLA, principale ente non profit che finanzia la ricerca scientifica sulla SLA in Italia, e da AFM-Telethon.

In particolare, lo studio ha analizzato le modifiche epigenetiche che si verificano con l’invecchiamento. Si tratta di cambiamenti nella struttura della cromatina, sostanza localizzata nel nucleo cellulare composta da DNA e proteine, che influenzano l’espressione genica, ovvero il processo attraverso cui l’informazione contenuta in un gene viene convertita in una proteina, senza cambiare la sequenza del DNA. Queste modifiche possono alterare i livelli di espressione di fattori di rischio per malattie neurodegenerative.

“Nel nostro studio – spiega Fabian Feiguin dell’Università di Cagliari – abbiamo scoperto per la prima volta che la proteina TDP-43, che ha un ruolo centrale nella patogenesi della SLA, riduce gradualmente la sua espressione man mano che invecchiano i cervelli del comune moscerino della frutta (Drosophila melanogaster) e del modello murino”.

Lo studio ha individuato un nuovo ruolo dell’enzima Suv39 che, attraverso il meccanismo di metilazione, determina la modificazione chimica di una specifica proteina istonica (componente principale della cromatina), andando a influire sulla regolazione dell’espressione genica.

“Il nostro lavoro – spiega Marta Marzullo del team della Sapienza – ha evidenziato che durante l’invecchiamento sia nel moscerino della frutta che nel modello murino la metiltransferasi Suv39 agisce sul gene TDP-43 riducendone l’espressione”.

“Sorprendentemente – sottolinea Laura Ciapponi dell’ateneo romano– quando abbiamo inattivato genicamente o chimicamente l’attività di Suv39 abbiamo osservato livelli più elevati di TDP-43, e soprattutto una significativa riduzione del declino locomotorio dipendente dall’età”.

Secondo le autrici e gli autori i risultati raggiunti dallo studio, dunque, individuano un nuovo ruolo dell’enzima Suv39 nella regolazione dell’espressione di TDP-43 e della senescenza locomotoria, e suggeriscono inoltre che la modulazione delle attività enzimatiche coinvolte in queste modifiche epigenetiche potrebbe essere un approccio promettente per comprendere e potenzialmente trattare le malattie neurodegenerative legate all’invecchiamento, come la SLA.

“Siamo soddisfatti di aver sostenuto questo filone di ricerca che ha contribuito ad aggiungere conoscenza sui meccanismi molecolari legati all’insorgenza della SLA – commenta Mario Melazzini, presidente di Fondazione AriSLA, ente co-finanziatore dello studio – L’importanza di svolgere studi sul ruolo della TDP-43 è stata evidenziata recentemente anche dal piano strategico della ricerca sulla SLA del NINDS (National Institute of Neurological Disorders and Stroke), il principale istituto degli NIH americani per la ricerca neurologica. In linea con questa visione, riteniamo strategico continuare a supportare la ricerca di base, finalizzata a fornire risposte concrete ai pazienti”.

Riferimenti bibliografici: 

Marzullo, M., Romano, G., Pellacani, C. et al. Su(var)3-9 mediates age-dependent increase in H3K9 methylation on TDP-43 promoter triggering neurodegeneration. Cell Death Discov. 9, 357 (2023). DOI: https://doi.org/10.1038/s41420-023-01643-3

microscopio cellule invecchiamento
Foto PublicDomainPictures 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Medicina di precisione: individuati nuovi biomarcatori per migliorare e personalizzare la diagnosi del carcinoma midollare della tiroide

Un nuovo studio coordinato dalla Sapienza Università di Roma ha utilizzato una tecnologia innovativa, non invasiva ed economica per identificare caratteristiche molecolari peculiari di questa neoplasia. I risultati dello studio, pubblicati su Biomarker Research, possono migliorare la diagnosi e la prognosi dei pazienti.

 

Il carcinoma midollare della tiroide è un tumore la cui diagnosi, a oggi, si basa sul riscontro di alti livelli di calcitonina, ormone prodotto dalle cellule C della tiroide da cui origina il tumore, in pazienti con nodulo tiroideo rilevato mediante esame ecografico.

Tuttavia, alti livelli di calcitonina non sono specifici di tale neoplasia e possono essere dunque riscontrati anche in pazienti non affetti da questo tipo di tumore. Inoltre, i livelli di tale ormone, in presenza di neoplasia, non sempre correlano con l’estensione del tumore stesso. Pertanto, la ricerca biomedica sta facendo grossi sforzi per migliorare la diagnosi e di conseguenza la prognosi dei pazienti.

In questo contesto, il gruppo di ricerca coordinato da Elisabetta Ferretti e Agnese Po della Sapienza di Roma ha utilizzato una tecnologia innovativa e al tempo stesso relativamente economica per identificare nuove caratteristiche molecolari nel DNA circolante presente nel sangue di pazienti affetti da carcinoma midollare della tiroide. Lo studio, nato dalla collaborazione di tre dipartimenti della Sapienza e importanti enti nazionali come l’Università di Siena, l’Università di Pisa, l’Università di Cagliari e l’Istituto Pascale di Napoli, è stato pubblicato sulla rivista Biomarker Research del gruppo Nature.

“Da alcuni anni il DNA circolante nel sangue dei pazienti oncologici viene analizzato alla ricerca di mutazioni presenti nelle cellule tumorali. Tuttavia, il numero di diverse mutazioni che possono essere presenti è molto elevato e le indagini possono mancare la diagnosi poiché cercano la molecola sbagliata – spiega Agnese Po. Ci sono altre caratteristiche del DNA circolante che possono essere sfruttate per identificare una patologia, e tra queste abbiamo analizzato la metilazione e la frammentazione, che sono legate al fenotipo e al comportamento delle cellule”.

Raccogliendo campioni di biopsia liquida di pazienti affetti da carcinoma midollare della tiroide al momento della diagnosi per estrarre il DNA circolante (o cell-free DNA) è infatti possibile integrare le indagini che già si eseguono, migliorando il livello di caratterizzazione del paziente.

“Per queste analisi abbiamo utilizzato una tecnologia altamente specifica come la PCR digitale o droplet digital PCR – afferma Elisabetta Ferretti – che permette una risoluzione fino alla singola molecola di DNA”.

“Questi risultati – concludono Anna Citarella e Zein Mersini Besharat, prime autrici dello studio e ricercatrici presso il Dipartimento di Medicina sperimentale della Sapienza – gettano le basi per l’aggiunta di nuovi biomarcatori non invasivi, utili per la diagnosi e gestione del paziente affetto da carcinoma midollare della tiroide nell’ambito della medicina di precisione”.

Inoltre questi risultati aprono la strada alla ricerca di nuovi biomarcatori circolanti anche per altre tipologie di tumore, dove la ricerca di biomarcatori diagnostici e prognostici specifici e sensibili è un’importante esigenza medica.

Riferimenti:

Circulating cell-free DNA (cfDNA) in patients with medullary thyroid carcinoma is characterized by specific fragmentation and methylation changes with diagnostic value – Citarella A, Besharat ZM, Trocchianesi S, Autilio TM, Verrienti A, Catanzaro G, Splendiani E, Spinello Z, Cantara S, Zavattari P, Loi E, Romei C, Ciampi R, Pezzullo L, Castagna MG, Angeloni A, Elisei R, Durante C, Po A and Ferretti E – Biomarker Research (2023) https://doi.org/10.1186/s40364-023-00522-4

biomarcatori immunoterapia Medicina di precisione carcinoma midollare della tiroide
Medicina di precisione: individuati nuovi biomarcatori per migliorare e personalizzare la diagnosi del carcinoma midollare della tiroide. Foto di Konstantin Kolosov

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Bronchiolite in età pediatrica: negli ultimi anni casi più gravi associati a nuove varianti del virus VRS

Uno studio condotto da ricercatori della Sapienza in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità e pubblicato sulla rivista internazionale Journal of Infection della Elsevier ha caratterizzato le varianti genetiche del virus emerse nel periodo post-pandemico, associate a forme di bronchiolite particolarmente gravi nei bambini.

Negli ultimi anni sono aumentati i casi gravi di bronchiolite nei bambini, e all’impennata hanno contribuito varianti del virus respiratorio sinciziale (VRS), responsabile della malattia. Lo suggeriscono i risultati di uno studio condotto dai virologi della Sapienza di Roma in collaborazione con il Dipartimento di Malattie infettive dell’Istituto Superiore di Sanità pubblicato dal Journal of Infection,

La bronchiolite è una malattia spesso associata all’infezione da VRS che può causare insufficienza respiratoria soprattutto nei bambini con età inferiore a un anno. È importante riuscire a comprendere perché alcuni di loro sviluppino forme cliniche molto gravi e tali da richiedere l’ospedalizzazione e ricovero in terapia intensiva. La caratterizzazione di questi casi, inclusa l’individuazione di ceppi virali che provocano un decorso severo dell’infezione, è di fondamentale importanza per una migliore gestione clinica e terapeutica dei pazienti e per l’utilizzo mirato di misure profilattiche già disponibili o disponibili a breve, come anticorpi monoclonali e vaccini anti-VRS.

La ricerca, finanziata da un progetto Ccm del ministero della Salute, ha analizzato i casi ospedalizzati per bronchiolite presso i reparti del Dipartimento Materno Infantile del Policlinico Umberto I nelle stagioni pre-pandemiche, durante e dopo la pandemia, utilizzando i dati della piattaforma di sorveglianza RespiVirNet dell’Iss.

I risultati hanno dimostrato che nell’autunno 2021 si è verificato un numero di ospedalizzazioni per bronchiolite da VRS quasi doppio rispetto ai periodi pre-pandemici, probabilmente per effetto dell’allentamento delle misure di contenimento del virus. La malattia è stata causata principalmente da ceppi di VRS sottotipo A, che circolavano anche prima della pandemia di COVID-19, e la gravità è stata simile a quella delle stagioni precedenti. Diversamente, le ospedalizzazioni per bronchiolite del 2022-2023, in numero simile all’anno precedente, sono state principalmente causate da nuove varianti genetiche di VRSVù sottotipo B, associate a una maggiore severità della malattia se confrontata a quella delle stagioni precedenti, soprattutto per l’elevata necessità di supporto respiratorio e di ricovero in terapia intensiva.

“Un punto di forza delle nostre ricerche – spiega Guido Antonelli della Sapienza – è quello di aver svolto un’analisi virologica dettagliata su un numero elevato di pazienti pediatrici ospedalizzati per bronchiolite durante le ultime sei stagioni invernali dal 2018-2019 al 2022-2023. In tutti i bambini ricoverati, è stata eseguita la caratterizzazione molecolare e il sequenziamento del ceppo di VRS e una analisi statistica dettagliata dei dati demografici e clinici associati ad un maggiore rischio di forme gravi di bronchiolite.”

“Il nostro studio – spiegano Alessandra Pierangeli e Carolina Scagnolari, coordinatrici della ricerca condotta in stretta collaborazione con il gruppo di pediatri diretti da Fabio Midulla e il coordinamento del Dipartimento di Malattie Infettive dell’Istituto Superiore di Sanità diretto da Anna Teresa Palamara – aggiunge nuovi elementi alla comprensione dei meccanismi patogenetici associati alle varianti di VRS circolanti nel periodo post-pandemico. In effetti sembra che la maggiore severità della patologia e l’aumento degli ingressi in terapia intensiva riscontrato nei casi di VRS sottotipo B, nel 2022-2023 non sono spiegabili solo dal debito immunitario associato ai periodi di lockdown”.

“Lo studio – sottolinea Palamara – evidenzia la necessità di rafforzare la sorveglianza epidemiologica a livello nazionale di VRS, così come degli altri virus respiratori circolanti soprattutto nei mesi invernali, e di progetti di sequenziamento genomico integrati da studi che possano monitorare infettività e patogenicità delle varianti virali. Attraverso dati come quelli evidenziati da questo studio è possibile prevedere l’intensità dei picchi stagionali di casi di bronchiolite allo scopo di razionalizzare le risorse sanitarie”.

Riferimenti:

Genetic diversity and its impact on disease severity in respiratory syncytial virus subtype-A and -B bronchiolitis before and after pandemic restrictions in Rome – A. Pierangeli, R. Nenna, M. Fracella, C. Scagnolari, G. Oliveto, L. Sorrentino, F. Frasca, M.G. Conti, L. Petrarca, P. Papoff, O. Turriziani, G. Antonelli, P. Stefanelli, A.T. Palamara, F. Midulla – Journal of Infection https://doi.org/10.1016/j.jinf.2023.07.008

bronchiolite nuove varianti VRS
Foto di Brandon Holmes 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Scoperto un nuovo tipo di astrociti, definiti astrociti glutammatergici: si tratta di cellule cerebrali essenziali per la memoria, l’apprendimento e il controllo del movimento

Uno studio pubblicato da Nature che ha tra i suoi protagonisti l’Università di Roma Tor Vergata e la Fondazione Santa Lucia IRCCS di Roma evidenzia l’esistenza di un terzo tipo di cellule cerebrali essenziali, finora sconosciute, che si pongono a metà tra i neuroni e la glia.

Ada Ledonne
Ada Ledonne. Crediti Foto: Fondazione Santa Lucia IRCCS

Roma, 12 settembre 2023 – Uno studio, svolto presso l’Università di Losanna (UNIL) in Svizzera e presso la Fondazione Santa Lucia IRCCS di Roma con il contributo in tutte le sue fasi della ricercatrice Ada Ledonne – seconda autrice del lavoro – ha scoperto una terza tipologia di cellule cerebrali essenziali che agiscono sui circuiti cerebrali legati alla memoria, all’attenzione e al controllo del movimento.

Lo studio, pubblicato da Nature, ha individuato una particolare tipologia di astrociti, cellule tra i componenti della “glia” ossia la parte non-neuronale del cervello che fornisce struttura, nutrimento e regola l’ambiente all’interno dell’encefalo. Gli astrociti scoperti dal gruppo di ricerca sono però differenti perché presentano caratteristiche neuronali e sono in grado di mettere in circolo il glutammato, un neurotrasmettitore. Questa caratteristica, mai osservata prima di questo studio, pone questi astrociti a metà tra le cellule gliali e le cellule neuronali ed evidenzia l’esistenza di una terza categoria di cellule, finora sconosciuta, necessaria al buon funzionamento del cervello.

Ada Ledonne e Nicola Biagio Mercuri
Ada Ledonne e Nicola Biagio Mercuri. Crediti Foto: Fondazione Santa Lucia IRCCS

Lo studio è stato diretto dal prof. Andrea Volterra, professore emerito presso l’Università di Losanna e visiting faculty presso il Wyss Center for Bio and Neuroengineering di Ginevra, in passato anche visiting scientist presso la Fondazione Santa Lucia IRCCS di Roma. Lo studio è stato condotto da un team internazionale di ricercatori che ha avuto tra i suoi protagonisti, sia in Italia sia in Svizzera, la farmacologa e neuroscienziata Ada Ledonne, attualmente ricercatrice presso l’Università di Roma Tor Vergata e anche presso la Fondazione Santa Lucia IRCCS, nel laboratorio di Neurologia Sperimentale diretto dal neurologo prof. Nicola Biagio Mercuri, professore di Neurologia presso l’Università di Roma Tor Vergata, il quale ha contribuito a questo studio.

“I risultati ottenuti” spiega la dott.ssa Ledonne “dimostrano che gli astrociti glutammatergici influenzano l’attività neuronale, la neurotrasmissione e la plasticità sinaptica in importanti circuiti cerebrali, quali il circuito cortico-ippocampale e il sistema dopaminergico nigrostriatale, con implicazioni nella regolazione di processi di apprendimento e memoria, controllo del movimento, e insorgenza di crisi epilettiche”.

Le cellule scoperte sono coinvolte anche nei meccanismi di plasticità sinaptica neuronale, ossia nei meccanismi che regolano la forza della comunicazione tra i neuroni. In particolare lo studio pubblicato su Nature dimostra che gli astrociti glutammatergici sono essenziali per una forma di plasticità (chiamata potenziamento a lungo termine) che è alla base dei processi di apprendimento. Infatti, interferendo con la funzione di questo nuovo tipo di astrociti nei modelli sperimentali si ha un danneggiamento della memoria.

L’identificazione di questa nuova tipologia di cellule cerebrali con caratteristiche intermedie tra astrociti e neuroni risolve le precedenti controversie sulla capacità degli astrociti di effettuare rilascio vescicolare di trasmettitori. In questo modo costituisce un notevole avanzamento della conoscenza dei meccanismi di funzionamento del cervello.

“Nello studio pubblicato su Nature è stato anche evidenziato un ruolo importante degli astrociti glutammatergici nel controllo del circuito cerebrale che regola il movimento – il sistema dopaminergico nigrostriatale – la cui alterazione funzionale è alla base della malattia di Parkinson” commenta la dott.ssa Ada Ledonne.

I risultati ottenuti sono pertanto estremamente utili alla comprensione dei meccanismi che portano allo sviluppo di diverse patologie neurologiche e la creazione di nuove terapie che, agendo su questo meccanismo appena scoperto, possano influenzare il decorso di varie malattie cerebrali.

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Una nuova cellula “ibrida” per consolidare la memoria e regolare i circuiti cerebrali

Un nuovo studio internazionale, realizzato in collaborazione con la Sapienza Università di Roma, ha scoperto una sottopopolazione di cellule neuronali, fondamentali nel controllo delle attività cerebrali. I risultati dello studio, pubblicati sulla rivista Nature, aprono nuove strade per il trattamento di malattie neurologiche come l’epilessia o il Parkinson.

Il cervello funziona grazie ai neuroni e alla loro capacità di elaborare e trasmettere informazioni. Per supportarli in questo compito le cellule gliali svolgono una serie di funzioni strutturali, energetiche e immunitarie. Alcune di queste, conosciute come astrociti, circondano le sinapsi, ovvero i punti di contatto in cui i neurotrasmettitori vengono rilasciati per diffondere le informazioni tra i neuroni.

Per questo motivo, i neuroscienziati suggeriscono da tempo che gli astrociti potrebbero avere un ruolo attivo nella trasmissione sinaptica e partecipare alla elaborazione delle informazioni.

Una ricerca internazionale, coordinata da Andrea Volterra dell’Università di Losanna  in collaborazione con un gruppo di neuroscienziati della Sapienza e del Wyss Center di Ginevra, ha portato alla scoperta di una nuova sottopopolazione di astrociti, un ibrido per composizione e funzione tra i due tipi di cellule cerebrali finora conosciute, i neuroni e le cellule gliali, che sono in grado di controllare il livello di comunicazione e di eccitazione dei neuroni.

“Lo studio – afferma Maria Amalia Di Castro del Dipartimento di Fisiologia e Farmacologia della Sapienza – dimostra che il sottogruppo risponde a stimolazioni selettive con rapido rilascio di glutammato in aree spazialmente delimitate che ricordano le sinapsi. Il rilascio di glutammato da parte di queste cellule specializzate esercita un’influenza sulla trasmissione sinaptica e regola i circuiti neuronali”.

I ricercatori hanno osservato a livello sperimentale che, senza questo meccanismo funzionale, il  processo neurale coinvolto nella memorizzazione a lungo termine, risulta compromesso.

Le implicazioni di questa scoperta si estendono anche ai disturbi cerebrali come l’epilessia o il Parkinson. Interrompendo specificamente gli astrociti glutammatergici, il gruppo di ricerca ha dimostrato che risulta compromesso sia il consolidamento della memoria, che gli effetti negativi di alcune patologie come l’epilessia, con un aumento delle crisi da parte dei pazienti.

Infine, lo studio dimostra che gli astrociti glutamatergici hanno anche un ruolo nella regolazione dei circuiti cerebrali coinvolti nel controllo del movimento e potrebbero offrire bersagli terapeutici per la malattia di Parkinson.

 

 

Riferimenti bibliografici:

Specialized astrocytes mediate glutamatergic gliotransmission in the CNS – Roberta de Ceglia, Ada Ledonne, David Gregory Litvin, Barbara Lykke Lind, Giovanni Carriero, Emanuele Claudio Latagliata, Erika Bindocci, Maria Amalia Di Castro, Iaroslav Savtchouk, Ilaria Vitali, Anurag Ranjak, Mauro Congiu, Tara Canonica, William Wisden, Kenneth Harris, Manuel Mameli, Nicola Mercuri, Ludovic Telley & Andrea Volterra – Nature 2023. https://www.nature.com/articles/s41586-023-06502-w

 

Crediti Foto: Fondazione Santa Lucia IRCCS. Testi e immagini dall’Ufficio Stampa di Ateneo Università di Roma Tor Vergata e dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma. Aggiornato il 28 Settembre 2023.

Contrastare la sterilità dei terreni con piante tolleranti alle alte concentrazioni saline 

Una nuova ricerca coordinata da Raffaele Dello Ioio della Sapienza Università di Roma ha individuato il meccanismo molecolare che inibisce lo sviluppo delle radici quando una pianta si trova in un terreno con elevate presenza di sale. Lo studio, pubblicato su Communications Biology, può portare allo sviluppo di piante in grado di sopravvivere e avere alta resa agricola anche se esposte a questo minerale.

Come effetto del riscaldamento globale, le condizioni climatiche di molte aree nel mondo stanno radicalmente cambiando aumentando le zone soggette ad inaridimento del suolo o ad alluvioni. Tali cambiamenti causano un aumento della concentrazione salina nel suolo, rendendo molte aree coltivabili quasi completamente sterili. Infatti, l’aumento di sale nel suolo inibisce la crescita delle piante causando una notevole riduzione nella resa agricola.

Il primo organo che viene a contatto con il sale presente nel suolo è la radice: da questa propagano segnali che generano molteplici anomalie nello sviluppo di tutta la pianta che conducono alla morte.

Un nuovo studio coordinato da ricercatori del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza di Roma ha combinato esperimenti di biologia molecolare, genetica e biologia computazionale giungendo a identificare il meccanismo molecolare che inibisce la crescita della radice quando una pianta è esposta ad alte concentrazioni saline. I risultati del lavoro sono stati pubblicati sulla rivista Communications Biology.

Il gruppo di ricerca si è servito della nota pianta modello Arabidopsis thaliana, meglio conosciuta come Arabetta comune, percomprendere come le condizioni chimiche, fisiche e meccaniche del suolo interferiscano con lo sviluppo della radice alterando di conseguenza lo sviluppo della pianta in toto.

“Questo studio – commenta Raffaele Dello Ioio – è seminale per la produzione futura di piante resistenti ad alte concentrazioni saline. Infatti, è plausibile che rendendo le radici delle piante insensibili alla presenza di sale nel suolo queste potranno sopravvivere ed avere alta resa agricola anche se esposte a questo minerale”.

Arabidopsis thaliana piante tolleranti concentrazioni saline
Contrastare la sterilità dei terreni con piante tolleranti alle alte concentrazioni saline: la pianta modello Arabidopsis thaliana. Foto di Flocci Nivis, CC BY-SA 4.0

Riferimenti:

microRNA165 and 166 modulate response of the Arabidopsis root apical meristem to salt stress – Daria Scintu, Emanuele Scacchi, Francesca Cazzaniga, Federico Vinciarelli, Mirko De Vivo, Margaryta Shtin, Noemi Svolacchia, Gaia Bertolotti, Simon Josef Unterholzner, Marta Del Bianco, Marja Timmermans, Riccardo Di Mambro, Paola Vittorioso, Sabrina Sabatini, Paolo Costantino & Raffaele Dello Ioio – Communications Biology (2023)  https://www.nature.com/articles/s42003-023-05201-6

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

 

Ricerca ecologica e avanzamento tecnologico in Artico: il progetto PRA “EcoClimate”
Utilizzato per la prima volta un drone idrografico nei laghi glaciali a latitudini estreme

Nell’ambito del progetto PRA “EcoClimate”, coordinato dal Gruppo di Ecologia trofica del Dipartimento di Biologia ambientale della Sapienza Università di Roma in collaborazione con l’Istituto di ricerca sulle acque del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR-IRSA, sede di Roma) e Istituto di scienze polari (CNR-ISP, sedi di Messina e Roma), per la prima volta è stato utilizzato un drone idrografico, appositamente configurato per il lavoro a latitudini estreme, per ottenere batimetrie 2D e 3D ad altissima risoluzione dei bacini lacustri nelle isole Svalbard, nel circolo polare Artico.

 il drone utilizzato / credits: E. Calizza
il drone utilizzato. Credits: E. Calizza

I dati acquisiti consentiranno di calcolare con una precisione mai raggiunta prima i volumi d’acqua, i tempi di ricambio dei laghi artici e prevederne l’evoluzione in funzione delle condizioni ambientali attese nella regione per il prossimo futuro.

progetto PRA “EcoClimate” il gruppo di ricerca. Credits: S. Montaguti
il gruppo di ricerca. Credits: S. Montaguti

“Il drone utilizzato è stato progettato e adattato proprio per questo scopo: piccolo, leggero e facilmente trasportabile, ci ha permesso di raggiungere laghi ai piedi dei ghiacciai mai mappati prima. I risultati ottenuti e i calcoli volumetrici dei laghi verranno, poi, correlati con i dati ecologici, per ottenere informazioni uniche su questi delicati ecosistemi acquatici”, spiega David Rossi (CNR-IRSA), responsabile della sperimentazione.

“Benchè l’uso dei droni stia diventando di uso comune nell’ambito delle attività di ricerca polare, questa è la prima volta che un drone idrografico viene utilizzato sulla terraferma per lo studio degli ecosistemi lacustri artici”, aggiunge Edoardo Calizza (Sapienza Università di Roma), coordinatore del progetto. “Questo rientra nell’approccio fortemente interdisciplinare che caratterizza il progetto PRA “EcoClimate”: l’obiettivo è comprendere come i cambiamenti climatici potranno influenzare la struttura e il funzionamento di questi delicati ecosistemi, considerati hotspot di biodiversità e sink di carbonio alle più elevate latitudini”.

La sperimentazione è stata possibile grazie alla strumentazione fornita e configurata ad hoc dalla Seafloor System Inc. per il drone idrografico portatile e dall’azienda Italiana Microgeo per l’antenna GNSS (Global Navigation Satellite System).

I dati acquisiti tramite la tecnologia appena testata saranno associati a dati ecologici per la ricostruzione delle reti trofiche, dati microbiologici per lo studio del metabolismo lacustre, immagini satellitari e misure radiometriche di campo per lo studio della dinamica di neve e vegetazione.

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Tsunami di luce contro il cancro: grazie alle onde luminose estreme sarà possibile concentrare energia in modo preciso e non-invasivo in tessuti tumorali profondi. Questa la scoperta di un gruppo di ricerca formato da Sapienza Università di Roma, Istituto dei Sistemi Complessi del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Università Cattolica del Sacro Cuore e Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS, che è riuscito nella trasmissione di luce laser di intensità estrema attraverso tumori millimetrici. Il risultato, pubblicato su Nature Communications, apre importanti prospettive per nuove tecniche di fototerapia per il trattamento del cancro.

Onde luminose per trasmettere luce laser attraverso tessuti tumorali
Onde luminose estreme possono essere sfruttate per trasmettere luce laser intensa e concentrata attraverso campioni di tessuti tumorali

La luce laser ha potenzialità enormi per lo studio ed il trattamento dei tumori.

Fasci laser in grado di penetrare in profondità in regioni tumorali sarebbero di importanza vitale per la fototerapia, un insieme di tecniche biomediche d’avanguardia che utilizzano luce visibile ed infrarossa per trattare cellule cancerose o per attivare farmaci e processi biochimici.

Tuttavia, la maggior parte dei tessuti biologici è otticamente opaca ed assorbe la radiazione incidente, e questo rappresenta il principale ostacolo ai trattamenti fototerapici. Trasmettere fasci di luce intensi e localizzati all’interno di strutture cellulari è quindi una delle sfide chiave per la biofotonica.

Un team di ricerca di fisici e biotecnologi, guidato da Davide Pierangeli per il Consiglio Nazionale delle Ricerche, Claudio Conti per la Sapienza Università di Roma, e Massimiliano Papi per l’Università Cattolica del Sacro Cuore e la Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS, ha scoperto che all’interno di strutture cellulari tumorali possono formarsi degli “tsunami ottici”, onde luminose di intensità estrema note in molti sistemi complessi, che possono essere sfruttate per trasmettere luce laser intensa e concentrata attraverso campioni tumorali tridimensionali di tumore pancreatico.

“Studiando la propagazione laser attraverso sferoidi tumorali – spiega Davide Pierangeli – ci siamo accorti che all’interno di un mare di debole luce trasmessa c’erano dei modi ottici di intensità estrema.  Queste onde estreme rappresentano una sorgente super-intensa di luce laser di dimensioni micrometriche all’interno della struttura tumorale. Possono essere utilizzate per attivare e manipolare sostanze biochimiche”.

“Il nostro studio mostra come le onde estreme, che fino ad oggi erano rimaste inosservate in strutture biologiche, siano in grado di trasportare spontaneamente energia attraverso i tessuti – continua Claudio Conti – e possano essere sfruttate per nuove applicazioni biomediche.

“Con questo raggio laser estremo – conclude Massimiliano Papi – potremmo sondare e trattare in maniera non-invasiva una specifica regione di un organo. Abbiamo mostrato come tale luce può provocare aumenti di temperatura mirata che inducano la morte di cellule cancerose, e questo ha implicazioni importanti per le terapie fototermiche.”

Lo studio, pubblicato su Nature Communications, dimostra uno strumento totalmente nuovo nella cura al cancro.

 

Riferimenti:

Extreme transport of light in spheroids of tumor cells – Davide Pierangeli, Giordano Perini, Valentina Palmieri, Ivana Grecco, Ginevra Friggeri, Marco De Spirito, Massimiliano Papi, Eugenio DelRe, e Claudio Conti – Nature Communications (2023) https://doi.org/10.1038/s41467-023-40379-7

 

Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma