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Cambiamenti climatici e deforestazione instradano i primati verso un nuovo stile di vita
Uno studio internazionale a cui ha preso parte la Sapienza ha analizzato i fattori ecologici ed evolutivi che spingono scimmie e lemuri che vivono sugli alberi a terra. La ricerca condotta su larga scala nei primati di 3 continenti, è stata pubblicata sulla rivista PNAS.

Uno studio internazionale su 47 specie di scimmie e lemuri ha evidenziato come i cambiamenti climatici e le deforestazioni interferiscano sullo stile di vita dei primati. L’influenza dei cambiamenti ambientali porta molti di questi animali, che vivono normalmente sugli alberi, a cambiare le proprie abitudini, spingendoli a scendere a terra, dove sono più esposti a fattori di rischio come la mancanza di cibo, i predatori, la presenza dell’uomo e degli animali domestici.

Lo studio, pubblicato sulla rivista PNAS (The Proceedings of the National Academy of Sciences) è stato coordinato da Timothy Eppley, ricercatore presso il San Diego Zoo Wildlife Alliance (SDZWA), e vede la straordinaria collaborazione a livello mondiale di 118 co-autori provenienti da 124 istituti diversi, tra cui Luca Santini della Sapienza di Roma che ha co-ideato e supervisionato il lavoro. I risultati si basano su circa 150.000 ore di dati di osservazione riguardanti 15 specie di lemuri e 32 specie di scimmie in 68 siti nelle Americhe e in Madagascar.

La ricerca consiste in una valutazione dell’influenza delle caratteristiche biologiche, del contesto ambientale e delle azioni umane sul periodo trascorso a terra dai primati arboricoli. Lo studio ha rilevato come le specie che consumano meno frutta e vivono in grandi gruppi sociali siano più predisposte a scendere a terra e abbandonare lo stile di vita arboricolo. Si possono, quindi, definire queste condizioni come una sorta di “pre-adattamento” a quello che potrà essere la vita futura di questi animali. Lo studio ha inoltre mostrato come la temperatura, e la degradazione delle foreste, spingano i primati ad un uso maggiore dello strato terrestre. Di conseguenza, un habitat frammentato, disturbato dall’uomo che offre scarse risorse alimentari, solo popolazioni di primati che hanno una dieta più diversificata e vivono in gruppi numerosi possono adattarsi più facilmente a uno stile di vita terrestre.

Lo studio ha anche rilevato che le popolazioni di primati più vicine alle infrastrutture umane hanno meno probabilità di scendere a terra:

“I nostri risultati – dichiara Luca Santini della Sapienza – suggeriscono che la presenza umana, spesso una minaccia alla conservazione dei primati, possa interferire con la loro naturale adattabilità al cambiamento globale”.

In passato situazioni di transizione da uno stile di vita arboricolo a quello di vita terreste si sono già presentate, non è una novità.

Le preoccupazioni che hanno portato gli studiosi ad avviare uno studio di questa portata nascono nella rapidità con cui avvengono cambiamenti climatici e interventi dell’uomo. Questo richiederebbe per le specie meno adattabili, strategie di conservazione rapide ed efficaci per garantire la loro sopravvivenza.

lemure Eulemur mongoz Cambiamenti climatici e deforestazione cambiano le abitudini dei primati
Cambiamenti climatici e deforestazione instradano i primati verso un nuovo stile di vita. Un lemure mangusta (Eulemur mongoz) nella foto di IParjan, in pubblico dominio

Riferimenti:
Factors influencing terrestriality in primates of the Americas and Madagascar – Eppley T.M., Hoeks S., Chapman C.A., Ganzhorn J.U., Hall K., Owen M.A., Adams D.B., Allgas N., Amato K.R., Andriamahaihavana M., Aristizabal J.F., Baden A.L., Balestri M., Barnett A.A., Bicca-Marques J.C., Bowler M., Boyle A.S., Brown M., Caillaud D., Calegaro-Marques C., Campbell C.J., Campera M., Campos F.A., Cardoso T.S., Carretero-Pinzón X., Champion J., Chaves O.M., Chen-Kraus C., Colquhoun I.C., Dean B., Dubrueil C., Ellis K.M., Erhart E.M., Evans K.J.E., Fedigan L.M., Felton A.M., Ferreira R.G., Fichtel C., Fonseca M.L., Fontes I.P., Fortes V.B., Fumian I., Gibson D., Guzzo G.B., Hartwell K.S., Heymann E.W., Hilário R.R., Holmes S.M., Irwin M.T., Johnson S.E., Kappeler P.M., Kelley E.A., King T., Knogge C., Koch F., Kowalewski M.M., Lange L.R., Lauterbur M.E., Louis Jr. E.E., Lutz M.C., Martínez J., Melin A.D., de Melo F.R., Mihaminekena T.H., Mogilewsky M.S., Moreira L.S., Moura L.A., Muhle C.B., Nagy-Reis M.B., Norconk M.A., Notman H., O’Mara M.T., Ostner J., Patel E.R., Pavelka M.S.M., Pinacho-Guendulain B., Porter L.M., Pozo-Montuy G., Raboy B.E., Rahalinarivo V., Raharinoro N.A., Rakotomalala Z., Ramos-Fernández G., Rasamisoa D.C., Ratsimbazafy J., Ravaloharimanitra M., Razafindramanana J., Razanaparany T.P., Righini N., Robson N.M., da Rosa Gonçalves J., Sanamo J., Santacruz N., Sato H., Sauther M.L., Scarry C.J., Serio-Silva J.C., Shanee S., de Souza Lins P.G.A., Smith A.C., Smith Aguilar S.E., Souza-Alves J.P., Stavis V.K., Steffens K.J.E., Stone A.I., Strier K.B., Suarez S.A., Talebi M., Tecot S.R., Tujague M.P., Valenta K., Van Belle S., Vasey N., Wallace R.B., Welch G., Wright P.C., Donati G., Santini L. – PNAS (2022) https://doi.org/10.1073/pnas.2121105119

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Una sonda per aiutare la chirurgia oncologica
A compiere un nuovo passo avanti verso una “chirurgia di precisione” sempre più sofisticata e ottimizzata sul paziente potrebbe contribuire una sperimentazione in-vivo su pazienti avviata nelle scorse settimane per validare una tecnica di chirurgia radioguidata con farmaci che emettono radiazione beta. La nuova tecnica, sviluppata dalla Sapienza Università di Roma e dall’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare), è frutto della stretta collaborazione interdisciplinare tra fisici, chimici, radio-farmacisti, medici nucleari e chirurghi, e potrebbe diventare uno strumento aggiuntivo a supporto del chirurgo oncologico durante la rimozione dei tumori.

La chirurgia radioguidata è una tecnica che permette di identificare in tempo reale i residui tumorali. La tecnica consiste nel rivelare, grazie ad una sonda, la radiazione emessa da una sostanza radioattiva, un radiofarmaco contenente una specifica molecola che viene riconosciuta e metabolizzata dai recettori delle cellule tumorali. In questo modo è possibile verificare direttamente durante l’operazione se i tessuti analizzati siano tumorali o meno, e quindi guidare il chirurgo sulle sedi da rimuovere.
radiazioni alfa beta gamma sonda chirurgia oncologica
Immagine di Stannered / opera derivata: Ehamberg, CC BY 2.5

Il progetto si basa su un’idea iniziale, brevettata nel 2013 da Sapienza, INFN e Centro Fermi Museo della Scienza, che prevedeva l’utilizzo di radiazione beta-: un tipo di radiazione poco penetrante composta da elettroni, che però pone problemi di natura applicativa a causa della limitata disponibilità di radiofarmaci con questo tipo di emissione.

“Essendo particelle cariche, – spiega Riccardo Faccini, Professore Ordinario del Dipartimento di Fisica della Sapienza e attualmente Preside della Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali, tra gli inventori della tecnica – gli elettroni di cui si compone la radiazione beta perdono velocemente la loro energia a seguito delle interazioni con le altre particelle cariche presenti in tutti i tessuti del corpo umano. Ciò determina l’impossibilità per gli elettroni di uscire dal paziente. Questa è la ragione che ci ha spinti a concepire uno strumento a cui i chirurghi avrebbero potuto far ricorso durante le operazioni, andandolo a posizionare direttamente sui tessuti da analizzare. Sebbene la procedura sia risultata efficace, le difficoltà di somministrazione, i costi elevati e la limitata diffusione dei farmaci beta-, ci hanno spinto a cercare soluzioni alternative più accessibili e sostenibili”.
Dopo studi condotti in collaborazione con l’Istituto Neurologico “Carlo Besta”, l’Istituto Europeo di Oncologia, il Leiden University Medical Center e il Policlinico Universitario Fondazione Agostino Gemelli, la scelta è quindi ricaduta sulla radiazione beta+, caratterizzata dall’emissione di un positrone, l’antiparticella dell’elettrone, e da due fotoni, usata quotidianamente nei reparti di medicina nucleare per gli esami diagnostici PET (Tomografia ad Emissione di Positroni).
“Mentre la radiazione beta-, alla luce delle sue caratteristiche, risulta poco adatta alle indagini diagnostiche – chiarisce Francesco Collamati, ricercatore della sezione INFN di Roma, attuale Principal Investigator dello studio -, i fotoni della radiazione beta+ sono in grado di attraversare senza ostacoli i tessuti del paziente, per essere infine rivelati da apparati diagnostici esterni. Da qui il diffuso utilizzo negli ospedali di farmaci beta+, che potranno quindi essere in parte utilizzati anche per la nostra tecnica.”
Nonostante la loro reperibilità, rispetto a quelli emettenti beta-, questi radiofarmaci presentano difficoltà legate all’abbondanza dei fotoni prodotti non solo nei tessuti malati, ma anche in tutte le aree del corpo raggiunte dalla molecola dopo la somministrazione, che possono disturbare i segnali rivelati dalla sonda.
“Per questa ragione risulta necessario continuare a effettuare test che consentano di comprendere e calibrare il dispositivo e di fornire ai medici indicazioni, per esempio, sui livelli di conteggi associati all’effettiva presenza di un tumore”, conclude Collamati.
Dopo anni di studi di fattibilità e test ex-vivo, effettuati cioè su campioni di tessuto asportati dai pazienti sottoposti a operazioni, recenti sperimentazioni sono ora in corso, con il prototipo sviluppato dalla NUCLEOMED S.r.l., presso lo IEO di Milano, dove sono studiate nel dettaglio le potenzialità della tecnica sia sui tumori Neuro-Endocrini del tratto gastro-intestinale (GEP-NET) che sui carcinomi prostatici, e l’Ospedale ‘Molinette della Città della Salute di Torino’, nel caso di tumori prostatici.Settore Ufficio stampa e comunicazione
Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Patogeni nelle acque potabili: in arrivo il biosensore economico e sostenibile che li rileva

Un nuovo studio del Dipartimento di Scienze e biotecnologie medico-chirurgiche della Sapienza ha messo a punto un dispositivo che individua il batterio Escherichia coli anche a basse concentrazioni e può essere riutilizzato grazie a un processo di disinfezione alimentato dalla luce solare. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Environmental Science: Nano.

Patogeni nelle acque potabili: in arrivo il biosensore economico e sostenibile che li rileva
Patogeni nelle acque potabili: in arrivo il biosensore economico e sostenibile che li rileva. Foto di constantingoldann

La contaminazione di condotte idriche con batteri o virus, oltre a costituire un problema di salute pubblica, rappresenta una questione di biosicurezza particolarmente rilevante per ogni Paese.

Sebbene i sistemi di allerta precoce che monitorano la qualità delle acque potabili siano necessari per tutelare la popolazione, le principali tecniche per il rilevamento dei patogeni richiedono attrezzature costose, personale specializzato e un consumo massiccio di reagenti e attrezzatura da laboratorio monouso.

I biosensori, ovvero dispositivi analitici che combinano componenti biologici e rivelatori fisico-chimici per individuare sostanze chimiche e biologiche, rappresentano dunque un’alternativa valida ed efficace, rispetto alle metodiche di rilevamento attualmente in uso.

Un team di ricerca del Dipartimento di Scienze e biotecnologie medico-chirurgiche della Sapienza ha realizzato un nuovo biosensore capace di rilevare concentrazioni molto basse di Escherichia coli, scelto come patogeno modello.

I risultati dello studio, supportato dal programma NATO Science for peace and security (Sps) (https://www.nato.int/cps/en/natohq/78209.htm) e frutto della collaborazione della Sapienza con il Cnr, la Jeonbuk national university e l’Air force research laboratory, sono stati pubblicati sulla rivista Environmental Science: Nano.

“Il biosensore – spiega Luciano De Sio, coordinatore dello studio – riesce a rilevare il patogeno grazie alle proprietà chimico-fisiche delle nanoparticelle d’oro (gold nanorods, AuNRs) funzionalizzate con un anticorpo diretto contro un recettore specifico e immobilizzate su un substrato di vetro”.

I risultati ottenuti hanno dimostrato l’efficacia dell’anticorpo nel riconoscere in modo selettivo le cellule di E.coli, grazie all’interazione univoca tra antigene e anticorpo.

Questo meccanismo chiave-serratura determina un cambiamento nel mezzo che circonda le AuNRs, a seguito del quale avviene una variazione del colore proporzionale alla concentrazione del batterio.

“Il biosensore realizzato – continua Luciano De Sio – mostra un limite di rilevamento di 8.4 CFU/mL, che è un ordine di grandezza inferiore ad altri tipi di biosensori plasmonici già riportati in letteratura, quindi più sensibile. Inoltre, gli esperimenti di riconoscimento eseguiti con altri ceppi batterici (come Salmonella thyphimurium) confermano la specificità del biosensore”.

Per dare una seconda vita al biosensore e quindi ridurne al minimo l’impatto ambientale ed economico, il gruppo di ricerca ha sfruttato le proprietà degli AuNRs di saper convertire la luce in calore. Così il biosensore può effettuare un processo di disinfezione fototermica con due sorgenti laser (disinfezione multicolore) e, dopo un’opportuna procedura di lavaggio, è pronto per essere riutilizzato in altri esperimenti di riconoscimento.

Questo studio offre dunque l’opportunità di realizzare biosensori di prossima generazione che oltre all’efficacia e alla sensibilità nel biorilevamento siano anche ecologici e sostenibili.

“I prossimi passi – conclude Luciano De Sio – saranno quelli di sfruttare l’enorme versatilità del dispositivo per utilizzarlo in altri campi di applicazione, quali il monitoraggio di marker tumorali, il riconoscimento specifico di anticorpi, come quelli sviluppati a seguito di infezione da SARS-CoV-2, ma anche la realizzazione di biosensori indossabili per il monitoraggio multiplo di analiti di interesse medico, anche in condizioni di microgravità. L’auspicio è quello di sfruttare il processo di disinfezione fototermica indotto dalla luce solare per generare una nuova classe di dispositivi biomedici sostenibili e riutilizzabili”.

Riferimenti:
Label-free and reusable antibody-functionalized gold nanorod arrays for the rapid detection of Escherichia coli cells in a water dispersion – Francesca Petronella, Daniela De Biase, Federica Zaccagnini, Vanessa Verrina, Seok-In Lim, Kwang-Un Jeong, Selenia Miglietta, Vincenzo Petrozza, Viviana Scognamiglio, Nicholas P. Godman, Dean R. Evans, Michael McConney, Luciano De Sio – Environ. Sci.: Nano, 2022,9, 3343 3360 https://doi.org/10.1039/D2EN00564F

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Radiazioni ionizzanti: quando a basse dosi proteggono il DNA

Un nuovo studio, coordinato dal Dipartimento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin della Sapienza, ha dimostrato che le basse dosi di radiazioni possono proteggere i cromosomi da stress genotossici. I risultati sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista Communications Biology

radiazioni ionizzanti basse dosi
Foto del Dr. Manuel González Reyes

Sebbene non ci siano dubbi sul fatto che alte dosi di radiazioni ionizzanti come i raggi X e i raggi gamma possono avere gravi conseguenze biologiche, non sono ancora chiari i rischi delle basse dosi sulla salute umana.

Comprendere gli effetti associati alle basse dosi di radiazioni riveste un’importanza rilevante dal punto di vista sociale, proprio per le continue esposizioni a cui siamo giornalmente sottoposti, durante il lavoro o gli screening medici, ma anche per i frequenti viaggi aerei. Determinare con certezza questi rischi, in primo luogo sugli organismi modello, è quindi uno dei compiti centrali dell’epidemiologia e della biologia delle radiazioni.

Un nuovo studio, coordinato da Giovanni Cenci del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza, ha mostrato che l’esposizione cronica del comune moscerino della frutta (Drosophila melanogaster) a basse dosi di radiazioni durante lo sviluppo rende le cellule di questo organismo modello resistenti al verificarsi delle rotture cromosomiche (una conseguenza del danno al DNA) indotte successivamente da alte dosi di raggi gamma. Inoltre, il sequenziamento dell’RNA dei moscerini esposti ha permesso di comprendere per la prima volta che questo tipo di risposta, definita ‘radio adattativa’ è associata alla riduzione dell’espressione di un gene, chiamato Loquacious.

La ricerca, nata dalla collaborazione della Sapienza con l’Istituto superiore di sanità e l’Università di Padova e sostenuta da grant FERMI Institute for Multidisciplinary Studies, ISS-INFN e Istituto Pasteur, è stata pubblicata sulla rivista Communications Biology.

“La risposta radio adattativa – spiega Antonella Porrazzo, prima autrice dell’articolo – è un fenomeno noto nel campo della radiobiologia. Grazie all’utilizzo del Libis, un irradiatore per le basse dosi unico nel suo genere e messo a disposizione dai collaboratori dell’Istituto superiore di sanità, abbiamo dimostrato che questa risposta ha il suo massimo effetto solo a una particolare combinazione di dose e rateo di dose. Inoltre, la resistenza al danno al Dna indotto dalla successiva esposizione acuta è presente nella progenie dei moscerini esposti alle basse dosi, mettendo in evidenza un chiaro ed interessante effetto transgenerazionale”.

Questo studio ha anche evidenziato che l’esposizione alle basse dosi riduce la frequenza di fusioni dei telomeri (strutture complesse poste alle regioni terminali del cromosoma), che avvengono a causa del mal funzionamento delle proteine che proteggono le estremità dei cromosomi.

“Le nostre osservazioni – sottolinea Giovanni Cenci, coordinatore della ricerca – indicano che l’effetto protettivo delle basse dosi può essere esteso a tutti quei siti cromosomici che vengono riconosciuti in modo inappropriato come rotture al DNA”.

Le analisi genetiche hanno dimostrato anche che i mutanti nel gene Loquacious, che codifica una proteina in grado di legare RNA a doppio filamento ed è presente anche nell’uomo, sono resistenti al danno cromosomico indotto dalle alte dosi.

Questi risultati indicano chiaramente che la modulazione del gene Loquacious rappresenta una strategia cellulare efficiente per la salvaguardia dell’integrità cromosomica in seguito a stress genotossici.

“Dato che il gene in questione è conservato anche nelle nostre cellule, gli studi futuri– conclude Giovanni Cenci – potrebbero chiarire un suo eventuale coinvolgimento nel determinare fenomeni di radioresistenza osservati in molti tumori”.

Riferimenti:
Low dose rate γ-irradiation protects fruit fly chromosomes from double strand breaks and telomere fusions by reducing the esi-RNA biogenesis factor Loquacious – Antonella Porrazzo, Francesca Cipressa, Alex De Gregorio, Cristiano De Pittà, Gabriele Sales, Laura Ciapponi, Patrizia Morciano, Giuseppe Esposito, Maria Vittoria Tabocchini, Giovanni Cenci – Communications Biology (2022) https://doi.org/10.1038/s42003-022-03885-w

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Disturbo dell’orientamento: chi colpisce e come prevenirlo
Un nuovo studio del Dipartimento di Psicologia della Sapienza rivela che sono più gli uomini che le donne a soffrire di disorientamento topografico evolutivo, un disturbo specifico dello sviluppo che colpisce la capacità di orientarsi. I risultati della ricerca, condotta su un campione di giovani italiani e pubblicata sulla rivista PLoS One, aprono la strada a possibili strategie di prevenzione

Il disorientamento topografico evolutivo (DTD) è un disturbo dello sviluppo neuropsicologico che colpisce la capacità di orientamento. Immagine di PIRO

Nell’ultimo decennio sono stati riscontrati diversi casi di individui affetti da disorientamento topografico evolutivo (DTD), un disturbo dello sviluppo neuropsicologico che colpisce la capacità di orientarsi.

Le persone che soffrono di questo disturbo hanno un livello intellettivo generale nella norma, non mostrano altri deficit cognitivi o disordini neurologici o psichiatrici e, solitamente, non presentano patologie o alterazioni cerebrali, ma solo difficoltà nelle capacità navigazionali, che vanno dai deficit di memoria topografica all’incapacità di riconoscere elementi dell’ambiente come punti di riferimento. Tutti i casi sono accomunati dall’incapacità di avere una rappresentazione mentale dell’ambiente per orientarsi nello spazio in modo adeguato.

Una nuova ricerca, condotta da Cecilia Guariglia, Laura Piccardi e Maddalena Boccia del Dipartimento di Psicologia della Sapienza, ha indagato la presenza del DTD in 1.698 giovani italiani riscontrando questo disturbo nel 3 % del campione.
Lo studio dimostra come il senso dell’orientamento sia strettamente correlato alla conoscenza dell’ambiente di residenza e alle strategie di navigazione adottate, ma anche al genere. Infatti, sebbene in generale gli uomini usino strategie navigazionali più complesse di quelle utilizzate dalle donne, il DTD risulta più diffuso negli uomini, in linea con quanto descritto dalla letteratura.

I risultati, frutto della collaborazione della Sapienza con l’IRCCS San Raffaele di Roma, l’Università dell’Aquila, l’Itaf di Pratica di Mare, l’IRCCS Fondazione Santa Lucia, l’Università di Catanzaro e l’Università di Bologna, sono stati pubblicati sulla rivista PLoS One.

“Abbiamo deciso – chiarisce Cecilia Guariglia, coordinatrice dello studio – di includere nel nostro campione solo individui di età compresa tra i 18 ei 35 anni, escludendo le persone che potrebbero manifestare la perdita delle capacità navigazionali a causa di un declino cognitivo dovuto all’età. I dati sono stati raccolti tra il 2016 e il 2019 utilizzando la piattaforma Qualtrics, attraverso la quale sono stati somministrati un questionario anamnestico e la scala Familiarity and Spatial Cognitive Style”.

Lo studio si focalizza anche sugli interventi per prevenire i disturbi della navigazione. Tra questi, potrebbero risultare utili un addestramento all’orientamento spaziale a partire dall’età prescolare, attività di formazione volte a migliorare la metacognizione, ma anche la pratica quotidiana del videogioco Tetris.

“Sebbene ci sia molto ancora da studiare – conclude Cecilia Guariglia – il nostro auspicio è che in futuro si possano realizzare protocolli di prevenzione dello sviluppo dei disturbi della navigazione e promuovere queste capacità riducendo il divario di genere”.

Riferimenti:
“Where am I?” A snapshot of the developmental topographical disorientation among young Italian adults – Laura Piccardi, Massimiliano Palmiero, Vincenza Cofini, Paola Verde, Maddalena Boccia, Liana Palermo, Cecilia Guariglia, Raffaella Nori – Plos One (2022) https://doi.org/10.1371/journal.pone.0271334

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Zanzare che trasmettono virus: tracciarle è importante: con l’app Mosquito Alert, i cittadini aiutano i ricercatori
Monitorare le zanzare e i patogeni che possono trasmettere, come il virus West Nile, è importante per la salute pubblica e per la sanità animale. Un aiuto arriva anche da Mosquito Alert, l’app con cui i cittadini aiutano i ricercatori a tracciare le specie di zanzara presenti sul territorio.

L’Italia è sempre al centro della ricerca scientifica sulle zanzare, che mai come ora vanno studiate con attenzione anche nel nostro paese. Con le loro fastidiose punture, infatti, le zanzare possono anche trasmettere malattie a uomo e animali. Questo succede prevalentemente in regioni tropicali dove oltre 700.000 morti all’anno sono attribuite a malattie trasmesse da zanzare. Si stima che circa metà della popolazione mondiale viva in aree dove è possibile contrarre un’infezione dalla puntura di una zanzara.

Quest’estate, l’Italia sta vivendo un forte aumento di casi del virus di West Nile rispetto agli anni precedenti. Questo virus viene normalmente trasmesso da zanzare a uccelli (e viceversa), e occasionalmente alcuni mammiferi come cavalli ed esseri umani possono essere infettati attraverso la puntura di una zanzara che a sua volta si è infettata pungendo un uccello malato. La maggior parte delle persone infette non mostra alcun sintomo, mentre circa il 20% presenta sintomi leggeri: febbre, mal di testa, nausea, vomito, linfonodi ingrossati, sfoghi cutanei. Solo in rari casi, e prevalentemente nelle persone anziane, il virus produce seri problemi neurologici e può essere letale. Dalla sua prima segnalazione nel 1937 in Uganda nell’omonimo distretto, il virus West Nile è ormai presente in Medio Oriente, Nord America, Asia Occidentale ed Europa, dove è comparso nel 1958 e in Italia dal 2008.

“A differenza del cavallo, nell’essere umano non esiste ancora un vaccino per la malattia di West Nile e la prevenzione consiste solo nel difendersi dalle punture di zanzara, per esempio con repellenti e zanzariere – chiarisce Alessandra della Torre, coordinatrice del gruppo di ricerca di entomologia medica di Sapienza. La prevenzione va effettuata soprattutto a livello individuale, ma tanto i cittadini quanto le amministrazioni pubbliche devono vigilare: l’obiettivo è quello di eliminare, quando possibile, i siti dove maturano le larve (raccolte d’acqua, canali di irrigazione, vasche ornamentali, caditoie stradali) delle zanzare che trasmettono il virus, o di trattare tali siti con insetticidi a basso impatto ambientale, in modo da ridurre infine il numero delle zanzare adulte”.

West Nile in Italia, ecco un po’ di numeri: dall’inizio di giugno al 30 agosto 2022, il bollettino periodico dell’Istituto Superiore di Sanità, del Ministero della salute, riporta 386 casi umani di infezione confermata, con 22 decessi; il primo caso è stato in Veneto e prevalgono le segnalazioni al nord, ma se ne registrano anche più a sud come in Toscana ed Emilia-Romagna, nonché in Sardegna. La sorveglianza veterinaria su cavalli, zanzare e uccelli (selvatici e stanziali) al 30 agosto conferma la circolazione del virus West Nile in Piemonte, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Lombardia e Sardegna. E tra tutte le infezioni umane West Nile segnalate all’ECDC (European Centre for Disease Prevention and Control) dai paesi dell’Unione europea e dello Spazio economico europeo, dall’inizio della stagione di trasmissione al 31 agosto 2022, la maggior parte arriva proprio dall’Italia.

Mosquito Alert Italia, a cui partecipano l’Istituto Superiore di Sanità, Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, MUSE- Museo delle Scienze di Trento e Università di Bologna, con il coordinamento del Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive di Sapienza, è un progetto di scienza partecipata (Citizen Science), che coinvolge cioè i cittadini nel monitoraggio delle zanzare.Basta avere uno smartphone, scaricare l’app gratuita Mosquito Alert e inviare ai ricercatori foto di zanzare e di possibili siti riproduttivi dell’insetto (es., tombini), ma anche segnalazioni delle punture ricevute.

Culex Pipiens Zanzare che trasmettono virus: tracciarle è importante con l’app Mosquito Alert, i cittadini aiutano i ricercatori
Zanzare che trasmettono virus: tracciarle è importante: con l’app Mosquito Alert, i cittadini aiutano i ricercatori. Culex Pipiens. Foto di David BARILLET-PORTAL, CC BY-SA 3.0

Ma è inviando fotografie di zanzare che si potrà davvero fare la differenza, permettendo alla task force di Mosquito Alert Italia di identificarne le specie; si potranno anche inviare fisicamente interi esemplari dell’insetto ai ricercatori di Sapienza. Il tracciamento sarà indirizzato a tutte le specie di zanzara: sia quelle che hanno ampliato la loro distribuzione a seguito di fenomeni quali cambiamento climatico, globalizzazione e aumento degli spostamenti internazionali (specie invasive), sia quelle già presenti in origine sul territorio (autoctone), come la cosiddetta “zanzara comune” o “zanzara notturna” (Culex pipiens), responsabile della trasmissione del virus West Nile in Italia.

“Tracciare le specie di zanzara e le variazioni dei loro areali è importante – dichiara Beniamino Caputo di Sapienza, coordinatore di Mosquito Alert Italia – anche nel Piano Nazionale di prevenzione, sorveglianza e risposta alle Arbovirosi (PNA) 2020-2025 del Ministero della salute, si contempla la collaborazione attiva dei cittadini con i ricercatori (Citizen Science), tra le azioni rilevanti ai fini della gestione delle malattie trasmesse da vettori. Mosquito Alert consente di farlo con un minimo sforzo”.

Riferimenti:

www.mosquitoalert.it

https://www.epicentro.iss.it/westNile/bollettino

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Lotta alle zanzare: approda in Italia MosquitoAlert, l’app che permette ai cittadini di contribuire con un click 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Giove: pianeta in costante movimento

Le misure di gravità effettuate dalla sonda Juno della Nasa hanno rivelato che le masse gassose di Giove si muovono, provocando sulla superficie del pianeta oscillazioni simili a onde marine con ampiezze tra i 15 e gli 80 metri. I risultati dello studio, coordinato dal Dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale della Sapienza, sono stati pubblicati sulla rivista Nature Communications.

Giove pianeta in costante movimento
Rappresentazione artistica della sonda Juno attorno a Giove, pianeta in costante movimento. Crediti: Nasa/JPL-Caltech

Giove è un pianeta gassoso e le sue masse interne possono muoversi, generando oscillazioni simili per certi versi alle onde marine e ai terremoti terrestri. Questi spostamenti di masse provocano piccole variazioni della gravità del pianeta.

Un nuovo studio, coordinato da Daniele Durante del Dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale della Sapienza, ha rivelato, grazie alle misurazioni della sonda spaziale Juno della Nasa, come il campo di gravità di Giove sia perturbato dalle oscillazioni interne, ovvero vere e proprie onde che si propagano da una parte all’altra del pianeta. In particolare, gli strumenti altamente sensibili della sonda spaziale in orbita intorno al pianeta hanno permesso di misurare i periodi di oscillazione dei modi più energetici, che risultano dell’ordine dei 15 minuti e che generano onde di ampiezza compresa tra i 15 e gli 80 metri sulla superficie.

I risultati della ricerca, realizzata da un team internazionale e finanziata in parte dall’Agenzia spaziale italiana, sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista scientifica Nature Communications.

Giove pianeta in costante movimento
Rappresentazione artistica di Juno in orbita intorno a Giove, pianeta in costante movimento. Essendo il pianeta un gigante gassoso, il suo campo di gravità è perturbato dalla presenza di oscillazioni interne, che muovono grandi quantità di massa. Crediti, immagine di Juno: NASA/JPL-Caltech.
Crediti, immagine di Giove: NASA, ESA, A. Simon (Goddard Space Flight Center), and M. H. Wong (University of California, Berkeley) and the OPAL team

La missione della sonda Juno, in orbita intorno a Giove dal 5 luglio 2016, ha come obiettivi principali lo studio dei processi di formazione della struttura interna, del campo magnetico e dell’atmosfera del pianeta. Giove, che da solo ha una massa due volte e mezzo maggiore rispetto a quella di tutti gli altri pianeti messi assieme, è composto quasi esclusivamente da idrogeno ed elio. Il suo interno non è direttamente osservabile e per comprenderne la struttura più profonda si ricorre a misurazioni accurate del campo gravitazionale, espressione della distribuzione delle masse interne del pianeta.

“Circa ogni 52 giorni – spiega Daniele Durante, primo autore dello studio – la sonda Juno compie passaggi ravvicinati del pianeta, a circa 4,000 km dal limite delle nubi. A queste distanze Juno subisce piccole ma misurabili accelerazioni esercitate dalle oscillazioni interne del pianeta”.

Lo strumento di radio scienza KaT (Ka-Band Translator, realizzato da Thales Alenia Space Italy e finanziato dall’Agenzia spaziale italiana), presente a bordo della sonda, è il cuore dell’esperimento di gravità che ha permesso di misurare le perturbazioni al campo gravitazionale causato dalle oscillazioni interne a Giove. Il KaT riceve e ritrasmette il segnale radio inviato da una speciale antenna di terra ubicata nel deserto della California, permettendo di misurare la velocità della sonda con precisioni di centesimi di millimetro al secondo e variazioni di gravità 60 milioni di volte più piccole della gravità terrestre.

Profilo della velocità radiale dello strato superiore di Giove in funzione della frequenza di oscillazione dei modi normali interni. Ogni linea rappresenta un modello diverso la cui opacità è proporzionale alla probabilità del modello stesso: linee più scure indicano modelli più probabili, mentre linee più chiare indicano modelli via via meno probabili. La dispersione delle linee fornisce un’indicazione dell’incertezza del profilo di ampiezza ottenuto

Le misure di gravità effettuate da Juno avevano già portato ad altre importanti scoperte relative alla struttura interna del pianeta, tra cui la profondità dei forti venti est-ovest (con velocità fino a 360 km/h), che si spingono fino a circa 3,000 km al di sotto del livello delle nubi. Inoltre, le misure di gravità effettuate durante due sorvoli ravvicinati della Grande Macchia Rossa di Giove hanno permesso di determinarne per la prima volta la profondità, pari a circa 300 km, assai inferiore a quella dei venti est-ovest.

Nelle 22 orbite dedicate allo studio del campo gravitazionale di Giove, durante i primi 5 anni della missione, la sonda Juno ha sorvolato il pianeta fino a 4-5,000 km al di sopra del livello delle nubi (poiché Giove non ha una vera e propria superficie), misurando molto accuratamente il campo di gravità del pianeta ad ogni passaggio. Si è così potuto osservare che la gravità del gigante gassoso cambiava leggermente nel tempo.

“Per il nostro team scientifico – continua Daniele Durante – l’interpretazione di gran lunga più convincente è la presenza di fenomeni dinamici quali i modi di oscillazione. Le misure mostrano quindi un pianeta in costante movimento, non solo intorno al suo asse di rotazione, attorno cui compie un giro completo in 10h e 55m, ma anche al suo interno”.

Gli strati più esterni oscillano verticalmente per 15–80 metri ogni circa 15 minuti, in maniera simile a ciò che avviene per le maree terrestri. Questi modi di oscillazione sono chiamati ‘di tipo p’, poiché la forza di richiamo è la pressione interna.

“Analogamente a quanto è avvenuto per il sole con quel vasto campo di ricerca noto come eliosismologia, la misura di queste oscillazioni con strumenti dedicati potrà fornire in futuro – conclude Durante – una descrizione della struttura interna del pianeta assai più dettagliata di quanto sia possibile al giorno d’oggi”.

Riferimenti:
Juno spacecraft gravity measurements provide evidence for normal modes of Jupiter – Daniele Durante, Tristan Guillot, Luciano Iess, David J. Stevenson, Christopher R. Mankovich, Steve Markham, Eli Galanti, Yohai Kaspi, Marco Zannoni, Luis Gomez Casajus, Giacomo Lari, Marzia Parisi, Dustin R. Buccino, Ryan S. Park, Scott J. Bolton – Nature Communications (2022) https://doi.org/10.1038/s41467-022-32299-9

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Testo, video e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Terapia innovativa contro il cancro alla prostata. Via libera dell’Aifa

Il progetto TITAN, in cui la Sapienza è stata centro coordinatore per l’Italia, ha individuato un nuovo trattamento per il tumore alla prostata metastatico. Dopo gli enti regolatori europeo e americano, anche l’Aifa ne ha approvato la prescrivibilità e la rimborsabilità.

 

Il carcinoma della prostata è il tumore più frequente nell’uomo ed è difficile da diagnosticare soprattutto nelle fasi iniziali. Infatti, non è individuabile con una semplice ecografia, ma occorrono visite urologiche approfondite e il monitoraggio periodico dell’antigene prostatico specifico (PSA), un enzima che ha la funzione di mantenere la fluidità del liquido seminale e la cui quantità aumenta in caso di tumore alla prostata.

Il progetto TITAN, coordinato in Sapienza e per l’Italia da Alessandro Sciarra del Dipartimento Materno Infantile e Scienze Urologiche, ha dimostrato i vantaggi di una nuova terapia sistemica con apalutamide per il trattamento del carcinoma alla prostata metastatico. Questa ricerca multicentrica e internazionale è stata oggetto di diverse pubblicazioni sulla prestigiosa rivista New England Journal of Medicine.

Ora anche l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha approvato la nuova terapia, dopo la validazione dell’ente statunitense Food and Drug Administration (FDA) e dell’Agenzia europea per i medicinali (Ema) prevedendo l’uso dell’apalutamide, un composto in grado di inibire gli effetti biologici degli androgeni.

“Circa il 15 % dei tumori della prostata – spiega Alessandro Sciarra, – si presenta alla prima diagnosi già in fase metastatica e il 20% progredisce più o meno lentamente con lo sviluppo di metastasi dopo i trattamenti primari. Lo studio TITAN ha introdotto una modalità di trattamento di questo carcinoma alternativa alla classica terapia con la sola castrazione farmacologica. Ciò ha prodotto un significativo vantaggio per i pazienti sia in termini di sopravvivenza globale, che riguardo alla qualità di vita”.

Oltre a rallentare la progressione del tumore, prolungando la sopravvivenza dei pazienti, questo nuovo schema terapeutico ha un’ottima tollerabilità e una gestione del clinico relativamente semplice.

“Con la recente approvazione da parte degli enti regolatori Ema ed Aifa, questo nuovo trattamento – continua Alessandro Sciarra – può essere oggi prescritto e rimborsato, accedendo alle farmacie ospedaliere degli enti che hanno in carico i pazienti”.

“I risultati ottenuti con questo progetto permettono – conclude Alessandro Sciarra – di implementare le possibilità terapeutiche del paziente con carcinoma alla prostata metastatico e ormone-sensibile, sia alla prima diagnosi che progressivo, e rappresentano quindi un’alternativa vantaggiosa alle attuali terapie”.

 

ospedale terapia cancro alla prostata
Terapia innovativa contro il cancro alla prostata. Foto di tahabaz

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma sul via libera dell’AIFA, l’Agenzia italiana del farmaco, che ha approvato la nuova terapia che prevede l’uso di apalutamide per il trattamento del cancro alla prostata, dopo la validazione dell’ente statunitense Food and Drug Administration (FDA) e dell’Agenzia europea per i medicinali (Ema).

Verso la comprensione dei meccanismi legati alla gravità del COVID-19: il ruolo degli anticorpi anti-interferoni
Due nuovi studi della Sapienza hanno scoperto che le infezioni severe causate dal nuovo Coronavirus sono associate all’elevata produzione di anticorpi in grado di neutralizzare alcuni modulatori del sistema immunitario. I risultati dei lavori sono stati pubblicati sulle riviste European Journal of Immunology e Clinical Immunology.

Verso la comprensione dei meccanismi legati alla gravità del COVID-19. Il ruolo degli anticorpi anti-interferoni
Verso la comprensione dei meccanismi legati alla gravità del COVID-19. Il ruolo degli anticorpi anti-interferoni. Immagine di Daniel Roberts

È fondamentale riuscire a comprendere perché alcuni individui sviluppino una forma di malattia da Covid-19 molto più grave rispetto ad altri.

L’individuazione dei meccanismi che sono alla base dell’esito infausto dell’infezione, potrà infatti essere di ausilio per una migliore gestione clinica terapeutica dei pazienti.

Sul banco degli imputati nello sviluppo delle forme più gravi di Covid-19 sembrerebbe esserci l’elevata produzione di anticorpi in grado di neutralizzare alcuni modulatori del sistema immunitario, gli interferoni di tipo I (IFN- I), compromettendone l’attività biologica/antivirale.

A dimostrarlo sono due nuovi studi, condotti dal gruppo di ricerca di Guido Antonelli del Dipartimento di Medicina molecolare della Sapienza, in collaborazione con i Dipartimenti di Sanità pubblica e malattie infettive e Medicina sperimentale, l’Istituto superiore di sanità e la Johns Hopkins University, pubblicati recentemente sulle riviste European Journal of Immunology e Clinical Immunology.

I due lavori hanno rivelato che la funzionalità della risposta degli IFN-I, in particolare dei sottotipi di IFN-α e IFN-ω, è ridotta in maniera significativa nei pazienti che hanno sviluppato anticorpi neutralizzanti.

Si tratta prevalentemente di pazienti ospedalizzati per forme severe di COVID-19, di sesso maschile, ricoverati in terapia intensiva e con esito dell’infezione infausto.  I ricercatori hanno scoperto che anche i pazienti malati di HIV-1 che sviluppano forme severe di COVID-19 presentano concentrazioni elevate di anticorpi neutralizzanti con un ampio spettro di specificità verso i sottotipi di IFN-α e IFN-ω.

È stato osservato poi che gli autoanticorpi anti-IFN-I sono associati a livelli più elevati di marcatori dell’infiammazione e di alcuni marcatori ematologici (come i neutrofili e le piastrine) e che possono essere rilevati non solo nei campioni di sangue ma anche in quelli respiratori.

“Un punto di forza delle nostre ricerche – spiega Guido Antonelli – è quello di aver svolto un’analisi della presenza di anticorpi neutralizzanti su un numero elevato di pazienti ospedalizzati per COVID-19. In tutti è stata eseguita una valutazione dettagliata della specificità anticorpale e dell’influenza di questi autoanticorpi sulla risposta mediata dagli interferoni e sui parametri biochimici ed ematologici associati ad un maggiore rischio di forme gravi di COVID-19”.

“Queste ricerche – dichiarano Carolina Scagnolari e Alessandra Pierangeli – coordinatrici della ricerca con la John Hopkins di Baltimora – aggiungono nuovi elementi alla comprensione dei meccanismi immunopatogenetici associati all’infezione causata dal nuovo coronavirus. Infatti, la rilevazione di questi anticorpi nei soggetti infetti da SARS-CoV-2 – concludono le ricercatrici – potrebbe consentire una migliore gestione terapeutica dei pazienti”.

Riferimenti:

Anti-IFN-α/-ω neutralizing antibodies from COVID-19 patients correlate with downregulation of IFN response and laboratory biomarkers of disease severity – Federica Frasca, Mirko Scordio, Letizia Santinelli, Lucia Gabriele, Orietta Gandini, Anna Criniti, Alessandra Pierangeli, Antonio Angeloni, Claudio M. Mastroianni, Gabriella d’Ettorre, Raphael P. Viscidi, Guido Antonelli, Carolina Scagnolari – European Journal of Immunology (2022) https://doi.org/10.1002/eji.202249824

High frequency of neutralizing antibodies to type I Interferon in HIV-1 patients hospitalized for COVID-19 – Mirko Scordio, Federica Frasca, Letizia Santinelli, Leonardo Sorrentino, Alessandra Pierangeli, Ombretta Turriziani, Claudio M. Mastroianni, Guido Antonelli, Raphael P. Viscidi, Gabriella d’Ettorre, Carolina Scagnolari – Clinical Immunology (2022) https://doi.org/10.1016/j.clim.2022.109068

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Spazio: lanciato in orbita il primo micro-orto made in Italy

 

Si chiama GREENCube (MicroGREENs cultivation in a CubeSat) ed è il primo esperimento di orto spaziale lanciato in orbita con il volo inaugurale del nuovo vettore ESA “VEGA-C” dalla base spaziale di Kourou (Guyana francese) insieme al satellite scientifico “LARES2” e ad altri cinque nano-satelliti. Il micro-orto che misura 30 x 10 x 10 centimetri è stato progettato da un team scientifico tutto italiano composto da ENEA, Università Federico II di Napoli e Sapienza Università di Roma, nel ruolo di coordinatore e titolare di un accordo con l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI).

Basato su coltura idroponica a ciclo chiuso e dotato di sistemi di illuminazione specifica, controllo di temperatura e umidità per rispondere ai requisiti restrittivi degli ambienti spaziali, GREENCube è in grado di garantire un ciclo completo di crescita di microverdure selezionate fra le più adatte a sopportare condizioni estreme – in questo caso crescione – ad elevata produttività, per 20 giorni di sperimentazione.

GREENCube
Nella foto è visibile il satellite GREENCube, di forma cilindrica delle dimensioni di 10 x 10 x 30 cm, realizzato in alluminio, con posizionate lungo tutte le pareti i pannelli fotovoltaici necessari ad alimentare il sistema di gestione e controllo ed i sensori durante la missione nello spazio. Ai quattro angoli sono disposte le antenne radio di colore dorato per permettere le comunicazioni dal centro di comando al satellite e ritorno. In testa al satellite il sistema che permette di mantenere in rotazione continua il satellite durante la missione per mantenere costanti le temperature

Alloggiato in un ambiente pressurizzato e confinato, GREENCube è dotato inoltre di un sistema integrato di sensori hi-tech per il monitoraggio e controllo da remoto dei parametri ambientali, della crescita e dello stato di salute delle piante e trasmetterà a terra, in totale autonomia, tutti i dati acquisiti. Il satellite si compone di due unità: la prima contiene le microverdure, il sistema di coltivazione e controllo ambientale, la soluzione nutritiva, l’atmosfera necessaria e i sensori; la seconda unità ospita la piattaforma di gestione e controllo del veicolo spaziale.

“La ricerca spaziale si sta concentrando sullo sviluppo di sistemi biorigenerativi per il supporto alla vita nello spazio; le piante hanno un ruolo chiave come fonte di cibo fresco per integrare le razioni alimentari preconfezionate e garantire un apporto nutrizionale equilibrato, fondamentale per la sopravvivenza umana in condizioni ambientali difficili”, sottolinea Luca Nardi del Laboratorio Biotecnologie ENEA. “I piccoli impianti di coltivazione in assenza di suolo come GREENCube possono svolgere un ruolo chiave per soddisfare le esigenze alimentari dell’equipaggio, minimizzare i tempi operativi ed evitare contaminazioni, grazie al controllo automatizzato delle condizioni ambientali. Per questo dopo il successo del lancio del razzo e del rilascio in orbita del suo carico, stiamo aspettando con ansia le temperature ottimali interne per dare il via libera alla sperimentazione”, conclude.

Il sistema di coltivazione in orbita consentirà di massimizzare l’efficienza sia in termini di volume che di consumo di energia, aria, acqua e nutrienti e, nel corso della missione, sono previsti parallelamente anche esperimenti di coltivazione a terra all’interno di una copia esatta del satellite per verificare gli effetti delle radiazioni, della bassa pressione e della microgravità sulle piante.

Nella foto si vedono due operatori mentre inseriscono il satellite GREENCube, di forma cilindrica realizzato in alluminio e delle dimensioni di 10 x 10 x 30 cm, all’interno del cilindro di lancio. Una volta arrivato nella giusta orbita dal centro di comando viene inviato un segnale che permette di sganciare la molla alla base del cilindro di lancio per permettere la fuoriuscita del satellite e l’avvio della missione per cui è stato progettato

Il confronto tra i risultati degli esperimenti ottenuti nello spazio e a terra sarà cruciale per valutare la risposta delle piante alle condizioni di stress estremo e la crescita delle microverdure in orbita al fine di utilizzarle come alimento fresco ed altamente nutriente nelle future missioni.

“Oltre alla capacità di convertire anidride carbonica in biomassa edibile, gli organismi vegetali sono in grado di rigenerare risorse preziose come aria, acqua e nutrienti minerali”, evidenzia Nardi, “ma da non sottovalutare è anche il beneficio psicologico per l’equipaggio, derivante dalla coltivazione e dal consumo di verdura fresca che richiamano la familiarità di abitudini e ambienti terrestri per far fronte allo stress psicologico cui gli astronauti sono soggetti, dovuto alle condizioni di isolamento in un ambiente totalmente artificiale”.

Oltre a GREENCube a bordo del razzo, sono stati lanciati nell’orbita spaziale anche altri 5 mini-satelliti, della classe CubeSat, che costituiscono il carico secondario del lanciatore e sono: gli italiani AstroBio e ALPHA, lo sloveno Trisat-R e i due francesi MTCube-2 e Celesta mentre il carico principale è rappresentato dal satellite LARES-2 dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) che condurrà studi nel campo della relatività generale e di altre teorie di fisica fondamentale.

Nell’immagine è visibile al centro una struttura sferica costituita dal satellite LARES 2 mentre a dx e sx due strutture cilindriche di colore blu dotate di molla sul fondo necessarie al rilascio dei satelliti Cubesat una volta arrivati nella giusta orbita

Sviluppato dall’azienda italiana Avio, il nuovo razzo Vega-C rappresenta l’ultima evoluzione del lanciatore europeo Vega inaugurato nel 2012, ma più grande, potente, versatile e con una maggiore capacità di carico a fronte di minori costi.

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma