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Proteine da un fossile di rinoceronte risalente a 21-24 milioni di anni fa rivoluzionano gli studi evoluzionistici

Uno studio innovativo che sarà pubblicato in “Nature” annuncia il recupero di sequenze proteiche da un fossile di rinoceronte risalente a 21-24 milioni di anni fa, spingendo indietro di milioni di anni i confini della ricerca sulle proteine antiche. Questo risultato senza precedenti apre una nuova frontiera per la paleoproteomica, promettendo di svelare segreti dell’evoluzione risalenti a tempi remoti, ben oltre la portata del DNA antico.

Un nuovo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista “Nature” il 9 luglio 2025, descrive l’estrazione e il sequenziamento di antiche proteine dello smalto da un dente di rinoceronte fossilizzato risalente a 21-24 milioni di anni fa, risalente al Miocene inferiore.

Questa straordinaria impresa, ottenuta a partire da un fossile rinvenuto nell’Alto Artico canadese, estende di ben dieci volte la scala temporale delle sequenze proteiche recuperabili e informative sull’evoluzione rispetto al più antico DNA conosciuto.

Questa ricerca segna un momento cruciale per la paleoproteomica, lo studio delle proteine antiche. Sebbene proteine antiche siano state trovate in fossili del Miocene medio-superiore (circa gli ultimi 10 milioni di anni), l’ottenimento di sequenze sufficientemente dettagliate per ricostruzioni robuste delle relazioni evolutive era precedentemente limitato a campioni non più vecchi di 4 milioni di anni. Questo nuovo studio amplia significativamente tale finestra temporale, dimostrando lo straordinario potenziale delle proteine di persistere su vaste scale temporali geologiche nelle giuste condizioni.

Il progetto è stato guidato dal Dott. Ryan Sinclair Paterson e diretto dal Prof. Enrico Cappellini dell’Università di Copenaghen. All’interno di questo progetto, l’apporto del Dott. Gabriele Scorrano (Università di Tor Vergata), del Prof. Raffaele Sardella (Dipartimento di Scienze della Terra, Sapienza Università di Roma) e del Dott. Luca Bellucci (Museo di Geologia e Paleontologia dell’Università di Firenze) è stato fondamentale: hanno fornito e analizzato un esemplare di dente di rinoceronte di circa 400.000 anni fa, proveniente dal sito archeo-paleontologico di Fontana Ranuccio (Lazio, provincia di Frosinone).

In questo sito, insieme a una ricca fauna, sono stati rinvenuti alcuni tra i più antichi reperti del genere Homo in Italia. Il reperto ha funzionato da riferimento intermedio tra i campioni più recenti (esemplari medievali) e quello molto più antico analizzato in questo studio, offrendo un confronto diretto sulla conservazione proteica nel tempo.

Vista del Cratere di Haughton sull'isola di Devon, Nunavut (Canada). Le condizioni aride e fredde del "deserto polare" hanno contribuito a preservare l'antico fossile di rinoceronte qui rinvenuto, comprese tracce di proteine originali risalenti a oltre 20 milioni di anni fa. Il terreno modellato in primo piano indica la presenza di permafrost. Crediti per la foto: Martin Lipman
Vista del Cratere di Haughton sull’isola di Devon, Nunavut (Canada). Le condizioni aride e fredde del “deserto polare” hanno contribuito a preservare l’antico fossile di rinoceronte qui rinvenuto, comprese tracce di proteine originali risalenti a oltre 20 milioni di anni fa. Il terreno modellato in primo piano indica la presenza di permafrost. Crediti per la foto: Martin Lipman

Riferimenti bibliografici:

Paterson, R. S., Mackie, M., Capobianco, A., Heckeberg, N. S., Fraser, D., Demarchi, B., Munir, F., Patramanis, I., Ramos-Madrigal, J., Liu, S., Ramsøe, A. D., Dickinson, M. R., Baldreki, C., Gilbert, M., Sardella, R., Bellucci, L., Scorrano, G., Leonardi, M., Manica, A., Racimo, F., Willerslev, E., Penkman, K. E. H., Olsen, J. V., MacPhee, R. D. E., Rybczynski, N., Höhna, S., Cappellini, E., Phylogenetically informative proteins from an Early Miocene rhinocerotid. Nature (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41586-025-09231-4

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Il “codice a barre” dei cromosomi: una nuova chiave per leggere il genoma umano; dal motivo centromerico alla mappa di centenia

I risultati di una ricerca della Sapienza Università di Roma hanno svelato la struttura organizzata dei centromeri, le regioni centrali dei cromosomi finora ritenute indecifrabili. Pubblicati sulla rivista “Science”, i dati offrono nuovi strumenti per lo studio dei tumori e delle malattie genetiche.

Ogni essere vivente cresce e si riproduce attraverso numerose divisioni delle proprie cellule. Affinché tale processo avvenga correttamente e senza complicazioni, è necessario che prima la cellula copi e organizzi precisamente le istruzioni genetiche che si trovano nel DNA.

Nella trasmissione delle informazioni ha un ruolo importante il centromero, ovvero la parte centrale di ogni cromosoma, costituito da due cromatidi che proprio lì si restringono. Il centromero, conosciuto anche come costrizione primaria, è costituito da DNA altamente ripetuto, cioè da sequenze di nucleotidi che si ripetono una di seguito all’altra molte volte.

In uno studio diretto da Simona Giunta, del Dipartimento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin della Sapienza, il suo gruppo ha analizzato questa regione specifica del cromosoma, che da tempo si credeva costituita da un agglomerato oscuro di DNA. I ricercatori hanno scoperto che in realtà ogni centromero è portatore di un’organizzazione specifica per ogni cromosoma. I risultati, pubblicati sulla rivista “Science”, hanno permesso di indicizzare queste sequenze complesse, aprendo la strada a un confronto preciso tra individui e insorgenza di patologie specifiche.

“Utilizzando nuove tecnologie di sequenziamento e algoritmi computazionali – spiega Simona Giunta, docente presso la Sapienza e direttrice del laboratorio Giunta Lab – siamo riusciti non solo a leggere queste sequenze per la prima volta, ma abbiamo anche scoperto che ogni cromosoma possiede un proprio schema unico, come una sorta di codice a barre, che si dimostra coerente anche osservandolo in persone diverse”.

In particolare, i ricercatori hanno scoperto che il motivo centromerico – una sequenza di DNA originariamente considerata confinata al centromero – si trova anche al di fuori di esso, distribuito in modo conservato e organizzato lungo i bracci dei cromosomi. Come la sintenia che usa la posizione dei geni lungo il cromosoma, la specifica organizzazione di questo motivo, definito “centenia” dai ricercatori, permette di generare codici a barre specifici per ogni cromosoma.

La mappa di centenia umana fornisce uno strumento fondamentale per studiare e confrontare la struttura genomica ad alta risoluzione, comprese di quelle regioni – come i centromeri e altri elementi ripetitivi – che finora erano rimaste in gran parte escluse dalle analisi genomiche classiche.

“Proprio come si può scansionare un codice a barre per ottenere informazioni su un prodotto – specifica Luca Corda, primo autore dell’articolo e dottorando in Genetica e Biologia Molecolare alla Sapienza – sarà in futuro possibile scansionare i codici dei centromeri per conoscerne l’evoluzione e comprenderne il comportamento in patologie specifiche”.

Lo studio si inserisce in un progetto più ampio, sostenuto dalla Fondazione AIRC per la Ricerca sul Cancro e, più recentemente, dal Consiglio Europeo della Ricerca (ERC), volto a indagare il ruolo dei centromeri nel cancro e nelle malattie genetiche. La ricerca nel campo della genetica sta subendo un cambiamento di paradigma: non ci si interessa più solo dei geni, ma anche delle regioni complesse e ripetitive del genoma – come i centromeri – rimasti finora ai margini.

“Queste regioni stanno diventando finalmente esplorabili, con strumenti nuovi e portando nuove domande che saranno al centro della ricerca del futuro”, afferma Simona Giunta. Comprendere i centromeri rappresenta una nuova frontiera per rivelare aspetti ancora inesplorati del nostro patrimonio genetico.

Riferimenti bibliografici:

Luca Corda, Simona Giunta, Chromosome-specific centromeric patterns define the centeny map of the human genome, Science 389, ads3484 (2025), DOI:10.1126/science.ads3484

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Foto di Konstantin Kolosov

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Telescopio Einstein: inaugurato a Roma il Laboratorio Et-3g Lab

È stato inaugurato ieri, 18 giugno 2025, presso la facoltà di ingegneria della Sapienza Università di Roma, il laboratorio ET-3G Lab, dedicato allo sviluppo di ricerche avanzate nei settori della geomatica, geotecnica e idrogeologia per la progettazione del futuro osservatorio di onde gravitazionali, il telescopio Einstein (Einstein Telescope – ET).
La realizzazione del laboratorio è tra gli obiettivi del progetto ETIC, finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR) nell’ambito della Missione 4 del PNRR, di cui l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) è capofila. In particolare, ETIC sostiene la candidatura italiana a ospitare ET in Sardegna, nell’area dell’ex miniera di Sos Enattos, nel Nuorese, attraverso la caratterizzazione del sito candidato e la creazione di una rete di laboratori di ricerca all’avanguardia in tutta Italia.

L’evento inaugurale è stato aperto dai saluti istituzionali della prorettrice alla Ricerca della Sapienza, Maria Sabrina Sarto, del preside della facoltà di Ingegneria civile e industriale, Carlo Massimo Casciola, del direttore del dipartimento di Ingegneria civile, edile e ambientale (DICEA), Francesco Napolitano, e dell’infrastructure manager del progetto ETIC, Monique Bossi (INFN).
A seguire, il responsabile della collaborazione internazionale telescopio Einstein, Michele Punturo (INFN), ha presentato il progetto ET, mentre Maria Marsella (Sapienza), Maria Laura Rossi (Sapienza) e Wissam Wahbeh (Università delle Scienze Applicate e Arti della Svizzera nordoccidentale, University of Applied Sciences and Arts Northwestern Switzerland) hanno illustrato gli obiettivi del laboratorio e le ricerche in corso. Dopo la visita al laboratorio e il tradizionale taglio del nastro, la serata si è conclusa con lo spettacolo “Le mappe del cosmo – Storie che hanno cambiato l’universo”, a cura dell’Osservatorio gravitazionale europeo (EGO), in collaborazione con l’INFN.

“L’inaugurazione di questo e degli altri laboratori ETIC, in corso in questo periodo, rappresenta un’occasione importante per celebrare il lavoro fatto nel corso del progetto, premiando l’impegno delle tante persone coinvolte e valorizzando la sinergia tra l’INFN, le università italiane e i centri di ricerca che fanno parte di ETIC”, sottolinea Monique Bossi, infrastructure manager del progetto.

“In particolare, il lavoro del laboratorio ET-3G Lab, coordinato dal gruppo di ricerca del dipartimento DICEA della Sapienza, è molto prezioso nel contesto di uno degli obiettivi principali del progetto ETIC, ossia lo studio di pre-fattibilità del sito candidato di Sos Enattos”.

“ET-3G Lab”, al quale partecipa anche il dipartimento DICEA della Sapienza Università di Roma, con il coordinamento dell’INFN, si concentra su studi avanzati multidisciplinari per la futura infrastruttura di ricerca Einstein Telescope. L’Italia ha individuato la Sardegna come luogo ideale per Einstein Telescope, candidandola per ospitare questa innovativa infrastruttura scientifica, fatto che le consentirebbe di posizionarsi al centro della ricerca internazionale in questo campo”,

sottolinea Maria Marsella, docente ordinaria di geomatica al DICEA, responsabile del laboratorio ET-3G Lab e fortemente coinvolta nel progetto telescopio Einstein, sia a livello nazionale sia internazionale.

“Il laboratorio, che dispone di 24 postazioni e si estende su una superficie di 180 metri quadrati, è concepito per favorire collaborazioni interdisciplinari. Mira a stimolare sinergie tra diverse aree dell’ingegneria civile, ambientale e industriale, promuovendo la ricerca scientifica e lo sviluppo di soluzioni innovative. Tra le sue attività principali figurano la modellazione 3D per la simulazione di infrastrutture e ambienti e l’elaborazione di approcci progettuali innovativi e multidisciplinari, con l’obiettivo di affrontare le sfide più complesse della progettazione moderna”.

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Un bioreattore per ricostruire in laboratorio gli ambienti tumorali, e giungere a cure su misura e più efficaci

Il bioreattore sviluppato da Sapienza permette di ricreare in laboratorio tumori con vascolatura funzionale e le interazioni con il sistema immunitario. Pubblicata sulla rivista “Biomaterials”, la ricerca integra differenti discipline scientifiche, aprendo la strada a terapie personalizzate.

I modelli più tradizionali per la comprensione delle dinamiche tumorali, come le colture bidimensionali su piastra, spesso non riescono a rappresentare in modo accurato l’insorgere della malattia e la complessità del microambiente umano. Il rischio è che le terapie sviluppate da questi modelli, una volta applicate all’uomo, producano risultati inattesi e siano meno efficaci.

Uno studio internazionale, pubblicato sulla rivista “Biomaterials” e condotto dal Dipartimento di Scienze e Biotecnologie Medico-Chirurgiche della Sapienza, ha sviluppato un nuovo strumento in grado di ricreare in laboratorio tumori vascolarizzati complessi, fondamentali per comprendere l’insorgenza e la progressione di tumori correlati al sistema vascolare, ai parametri biomeccanici e alle risposte del sistema immunitario.

Il dispositivo si chiama “small Vessel Environment Bioreactor” (sVEB) e riproduce in miniatura i vasi sanguigni e il loro microambiente tumorale, offrendo un modello molto più realistico rispetto ai tradizionali sistemi in vitro e agli “organi su chip”, rappresentando un’importante innovazione nel campo della medicina di precisione.

Utilizzando cellule derivate dai pazienti e integrando differenti tecnologie di bio-fabbricazione, come la stampa 3D, la millifluidica, la tecnologia dei materiali e il magnetismo, sVEB consente di studiare le caratteristiche specifiche di ciascun individuo, aprendo la strada a terapie personalizzate.

“Il bioreattore – spiega Roberto Rizzi, coordinatore dello studio e professore di Bioingegneria tissutale alla Sapienza – permette di osservare come un tumore interagisce con i vasi sanguigni e come risponde all’arrivo delle cellule immunitarie, il tutto in condizioni dinamiche e controllate, simili a quelle presenti nel corpo umano”.

Una delle innovazioni più affascinanti introdotte da sVEB è l’uso di cellule del sistema immunitario “guidate” da minuscole particelle magnetiche. Queste particelle, soggette ad un campo magnetico, permettono di dirigere in modo preciso le cellule immunitarie verso il tumore, così da colpirlo in modo più accurato ed efficace. Ciò potrebbe aiutare a trasformare tumori poco sensibili all’immunoterapia, chiamati “freddi”, in tumori “caldi”, più reattivi ai cambiamenti.

Il dispositivo è stato sviluppato per lo studio del tumore al seno, ma offre un’ampia gamma di applicazioni anche per diverse patologie specifiche degli organi. Grazie infatti alla sua struttura modulare e alla capacità di replicare sistemi fisiologici vascolarizzati complessi e i loro parametri biomeccanici, lo sVEB può essere adattato per modellare anche i vasi all’interno del cuore, del cervello e degli altri organi.

“Questa versatilità consente di analizzare le interazioni tra cellule specifiche e il loro microambiente in condizioni controllate, facilitando la comprensione dei meccanismi di progressione patologica – continua Francesca Megiorni, autrice dello studio e professoressa del Dipartimento di Medicina Sperimentale della Sapienza – La possibilità di integrare cellule derivate da pazienti specifici rende sVEB uno strumento promettente per la medicina personalizzata, permettendo di sviluppare trattamenti basati sulle caratteristiche individuali del paziente”.

Sebbene l’applicazione sia ancora in fase iniziale, il bioreattore sVEB ha dimostrato di essere un sistema stabile e riproducibile nel tempo, caratteristiche fondamentali per un utilizzo affidabile nella ricerca, e rappresenta un grande passo avanti verso la possibilità di simulare e studiare malattie complesse come il cancro in modo più realistico e sicuro.

 

Riferimenti bibliografici:

Fabio Maiullari, Maria Grazia Ceraolo, Dario Presutti, Nicole Fratini, Matteo Galbiati, Alessandra Fasciani, Konrad Giżyński, Salma Bousselmi, Francesca Megiorni, Cinzia Marchese, Piotr Kasprzycki, Karol Karnowski, Alessandro Talone, Gaspare Varvaro, Davide Peddis, Marco Costantini, Claudia Bearzi, Roberto Rizzi, Modeling breast cancer dynamics through modulable small Vessel Environment Bioreactor (sVEB),
Biomaterials Volume 323 2025, 123441, ISSN 0142-9612, DOI: https://doi.org/10.1016/j.biomaterials.2025.123441

SLA Tumore vescica NUMB biomarcatore microscopio SLA molecola leucemia RNA serina idrossimetiltrasferasi serina
Un bioreattore per ricostruire in laboratorio gli ambienti tumorali, e giungere a cure su misura e più efficaci; lo studio su Biomaterials. Foto PublicDomainPictures

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Ricevitore MISTRAL, un vento d’innovazione nelle osservazioni di SRT

MISTRAL è un ricevitore di nuova generazione per osservazioni nelle lunghezze d’onda millimetriche realizzato nell’ambito del recente progetto di potenziamento del Sardinia Radio Telescope per lo studio dell’universo radio ad alta frequenza. Le caratteristiche principali di questo strumento consistono nel grandissimo numero di rivelatori che vengono raffreddati a temperature prossime allo zero assoluto e di un’ottica fredda dedicata che permettono di ottenere immagini di grande nitidezza. MISTRAL ha effettuato la sua “prima luce” osservando ben tre diversi oggetti celesti: la nebulosa di Orione, i lobi radio del buco nero supermassiccio nella galassia M87 e il resto di supernova Cassiopea A. Queste immagini rappresentano le prime osservazioni scientifiche a 90 GHz ottenute utilizzando SRT.

MISTRAL è il ricevitore di nuova generazione installato sul Sardinia Radio Telescope (SRT) e costruito da Sapienza Università di Roma per l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) nell’ambito del potenziamento del radiotelescopio per lo studio dell’universo alle alte frequenze finanziato da un progetto PON (Programma Operativo Nazionale), concluso nel 2023 e che oggi vede risultati sempre più concreti. MISTRAL, in questo caso, sta per “MIllimetric Sardinia radio Telescope Receiver based on Array of Lumped elements kids” , ovvero “ricevitore di onde millimetriche per il Sardinia Radio Telescope basato su una rete di rivelatori a induttanza cinetica”.

MISTRAL è un ricevitore innovativo sotto molteplici aspetti. I ricevitori radioastronomici sono tipicamente “mono pixel”, cioè sensibili alla radiazione proveniente da una sola direzione e questo richiede lunghe scansioni con il telescopio per poter realizzare immagini panoramiche della zona di cielo di interesse. Una soluzione per superare questa limitazione è costruire ricevitori “multi pixel”, sensibili cioè alla radiazione proveniente da più direzioni simultaneamente. MISTRAL porta questo concetto all’estremo. Al suo interno è infatti custodito un cuore ultra-freddo composto da una matrice di 415 rivelatori a induttanza cinetica (KIDs) sviluppati in collaborazione con il CNR-IFN di Roma e raffreddati ad appena una frazione di grado dalla temperatura di zero assoluto, pari a -273,15 gradi Celsius.

“È proprio questo elevato numero di rivelatori accoppiato con un sistema ottico sviluppato appositamente a rendere MISTRAL uno strumento estremamente efficace e rapido per l’imaging a largo campo di sorgenti deboli ed estese”, commenta Paolo de Bernardis, Coordinatore Scientifico del ricevitore per Sapienza Università di Roma.

MISTRAL è stato installato nel maggio 2023 nel fuoco gregoriano, localizzato al centro della grande parabola di 64 metri di diametro di SRT. Subito dopo è iniziata la messa in servizio del ricevitore, il cosiddetto commissioning, un’intensa serie di test tecnici e osservativi con l’obiettivo di integrare il ricevitore nel sistema del telescopio. Un team di ricercatori di INAF e Sapienza sta lavorando fianco a fianco con l’obiettivo di portare MISTRAL alle sue massime prestazioni e poterlo quindi offrire alla comunità scientifica per osservazioni regolari.

“Il commissioning – spiega Matteo Murgia, Responsabile Scientifico del ricevitore per INAF – è normalmente un passaggio di routine nella installazione di nuova strumentazione. Tuttavia, si trasforma in una vera sfida nel caso di un ricevitore nel millimetrico come MISTRAL, che richiede che le prestazioni del telescopio siano spinte al limite sotto ogni aspetto”.

“Inizialmente – dichiara Elia Battistelli, Project Manager del ricevitore per Sapienza Università di Roma – si sono affrontati e superati diversi ostacoli legati alla criogenia davvero eccezionale del ricevitore, ottenendo infine la temperatura necessaria per mettere in misura i KIDs, ossia appena 0,2 gradi sopra lo zero assoluto”.

Il miglioramento delle prestazioni della superficie attiva di SRT ha permesso a partire da settembre 2024 di raggiungere la sensibilità adeguata per calibrare lo strumento. È stato quindi possibile procedere all’ ottimizzazione dell’allineamento tra le ottiche di MISTRAL e quelle di SRT.

Il team di commissioning ha inoltre lavorato senza sosta per sviluppare le procedure e il software necessari per il puntamento e la messa a fuoco. Contemporaneamente, INAF e Sapienza hanno realizzato le procedure di calibrazione e composizione delle immagini. A questo punto MISTRAL era finalmente pronto per le osservazioni di “prima luce” di sorgenti radio estese. In successione sono stati osservati tre oggetti celesti iconici: la Nebulosa di Orione, la radiogalassia M87, e il resto di supernova Cassiopea A. Queste osservazioni hanno evidenziato la grande versatilità di MISTRAL e confermato le sue capacità di realizzare immagini di grande dettaglio di oggetti celesti in contesti astrofisici anche molto diversi tra loro.

“Il traguardo raggiunto con le immagini di prima luce di SRT a 90 GHz – commenta Isabella Pagano, Direttrice Scientifica dell’INAF – segna un passo importante nell’ampliamento degli orizzonti scientifici del radiotelescopio che dimostra così di essere in grado di operare con successo alle alte frequenze radio per le quali era stato progettato”.

Con la “prima luce” ottenuta osservando questi affascinanti oggetti cosmici, si conclude questa prima fase di test tecnici e inizia una fase, non meno importante, di validazione scientifica, volta a verificare le prestazioni di MISTRAL con sorgenti sempre più deboli, per garantire che sia pronto per le numerose sfide scientifiche per cui è stato progettato. MISTRAL affronterà un’ampia gamma di questioni scientifiche, dalla cosmologia e fisica degli ammassi di galassie, allo studio dei nuclei galattici attivi, della struttura delle nubi molecolari e della loro relazione con la formazione stellare nelle galassie vicine e nella Via Lattea, fino allo studio dei corpi celesti del nostro Sistema Solare. Le attività del team di commissioning continuano quindi con l’obiettivo di verificare le prestazioni di MISTRAL in ciascuno di questi casi scientifici e di rendere il ricevitore disponibile alla comunità scientifica il prima possibile.

 

Le prime immagini acquisite da MISTRAL

A dicembre 2024 MISTRAL è stato puntato verso la famosa Nebulosa di Orione (nota anche come M42) al centro della omonima costellazione. Situata a una distanza di circa 1350 anni luce dalla Terra, M42 è una delle regioni di formazione stellare attive più vicine ed è caratterizzata da idrogeno ionizzato eccitato da un gruppo di stelle massicce, noto come il Trapezio. M42 fa parte di un vasto complesso di nubi molecolari che si estende per 30 gradi nel cielo, mentre MISTRAL ne ha osservato la parte centrale ad una risoluzione angolare di 12 secondi d’arco. Nell’immagine è ben visibile la Barra di Orione a sud, che segna un confine netto tra la regione di idrogeno ionizzato e la nube molecolare sottostante. Si notano inoltre i picchi di emissione in prossimità delle stelle del Trapezio e della Nebulosa Kleinmann–Low, una densa nube molecolare di formazione stellare che ospita un ammasso stellare interessato in passato da un evento esplosivo. L’ emissione di M42 visibile a 90 GHz è una miscela pressoché uguale di radiazione prodotta dall’idrogeno ionizzato e quella delle polveri fredde contenute nel complesso di nubi molecolari sottostante.

Nel riquadro a sinistra si mostra l’immagine della nebulosa M42 realizzata a 90 GHz con il ricevitore MISTRAL. A destra una sovrapposizione dell’immagine MISTRAL con una immagine a più largo campo ottenuta dall’ Hubble Space Telescope (Credits: MISTRAL commissioning team; NASA, ESA, and The Hubble Heritage Team (STScI/AURA))
Nel riquadro a sinistra si mostra l’immagine della nebulosa M42 realizzata a 90 GHz con il ricevitore MISTRAL. A destra una sovrapposizione dell’immagine MISTRAL con una immagine a più largo campo ottenuta dall’ Hubble Space Telescope (Crediti per l’immagine: MISTRAL commissioning team; NASA, ESA, and The Hubble Heritage Team (STScI/AURA))

A febbraio 2025 MISTRAL ha osservato, sempre alla frequenza di 90 GHz, la radiogalassia M87, il cui nucleo attivo contiene un ormai famoso buco nero supermassiccio presente nella costellazione della Vergine, il primo di cui è stata ottenuta una immagine diretta grazie alla storica osservazione dell’Event Horizon Telescope nel 2019. La sorgente radio che circonda M87 ha una struttura complessa, costituita da lobi interni delle dimensioni di circa trentamila anni luce (poco più della distanza che ci separa dal centro della Via Lattea) circondati da una bolla di plasma esterna su più larga scala. Queste strutture sono il risultato dell’attività del buco nero centrale nel corso dei precedenti milioni di anni. Nell’immagine di MISTRAL sono visibili I lobi radio interni, le strutture più recenti tuttora alimentate da una coppia di getti radio relativistici che si propagano dal buco nero centrale. Osservare queste strutture a frequenze così alte fornisce informazioni nuove e preziose sui meccanismi fisici che alimentano le particelle radio emittenti all’interno della sorgente.

Immagine della sorgente radio attorno a M87 rivelata da MISTRAL a 90 GHz rappresentata in toni di rosso e curve di livello, sovrapposta ad una immagine ottica, in toni di blu, della galassia (Crediti per la foto: MISTRAL commissioning team; Sloan Digital Sky Survey)
Immagine della sorgente radio attorno a M87 rivelata da MISTRAL a 90 GHz rappresentata in toni di rosso e curve di livello, sovrapposta ad una immagine ottica, in toni di blu, della galassia (Crediti per la foto: MISTRAL commissioning team; Sloan Digital Sky Survey)

Infine, nell’ultima sessione di aprile 2025, MISTRAL ha osservato, attraverso due scansioni incrociate di circa mezz’ora ciascuna, il resto di supernova Cassiopea A (Cas-A) una delle più intense radio sorgenti del cielo avente una dimensione angolare di circa 5 minuti d’arco (circa un sesto del diametro apparente della luna piena). Il guscio di gas in espansione è visibile nella sua interezza e, grazie alla risoluzione angolare di SRT a queste lunghezze d’onda, si possono apprezzare i dettagli e le variazioni di luminosità della struttura filamentare.

Immagine del resto di supernova Cassiopea A realizzata a 90 GHz con il ricevitore MISTRAL (Crediti per l'immagine: MISTRAL commissioning team)
Immagine del resto di supernova Cassiopea A realizzata a 90 GHz con il ricevitore MISTRAL (Crediti per l’immagine: MISTRAL commissioning team)

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma e dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

Parole astratte e interazione sociale: quando parlare con gli altri e con l’IA cambia la nostra cognizione

Uno studio della Sapienza mette in luce i meccanismi di apprendimento e memorizzazione dei concetti astratti e il ruolo dell’interazione con gli altri. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista “Nature Reviews Psychology”.

Circa il 70% delle parole che usiamo sono astratte cioè non fanno riferimento a oggetti, persone, luoghi concreti, ma piuttosto a concetti generali, idee, sentimenti. È dunque cruciale capire come i concetti astratti si acquisiscono e come e perché li usiamo, anche, ad esempio, per facilitare l’apprendimento dei bambini dei concetti astratti relativi alla matematica e ad altri ambiti scientifici o anche dei concetti che rimandano a emozioni.

 

Una ricerca della Sapienza, attraverso un approccio interdisciplinare che integra scienze cognitive, neuroscienze cognitive e sociali, linguistica e filosofia del linguaggio, indaga come vengono acquisiti e utilizzati i concetti astratti e quale sia il ruolo dell’interazione sociale in questi processi di apprendimento.  I risultati dello studio, condotto insieme all’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR, sono pubblicati sulla rivista “Nature Reviews Psychology”.

Il team di ricerca, basandosi su evidenze sperimentali raccolte in laboratorio e già precedentemente pubblicate, propone diversi elementi di novità e di interesse: prima fra tutti, l’importanza di un linguaggio interno (inner speech) e della interazione con gli altri per elaborare e comprendere concetti astratti.

“Ciò che emerge dai dati ottenuti in laboratorio – spiega Anna Borghi, docente di Psicologia presso Sapienza e co-autrice dello studio – è che, per imparare e usare i concetti astratti, è essenziale sia parlare con noi stessi sia interagire con gli altri, non solo facendoci spiegare il significato di questi concetti, ma anche negoziando con loro il significato e delegando loro le nostre conoscenze”.

I ricercatori ipotizzano che i concetti astratti si siano evoluti proprio per favorire l’interazione sociale. Data la loro complessità, le persone hanno dovuto trovare un terreno comune per poterne discutere.

Oltre a ciò, il lavoro propone una differenziazione tra i concetti astratti, distinguendoli tra concetti astratti vaghi e determinati: mentre i primi, come ad esempio il termine “fantasia”, non richiedono una conoscenza e una precisione estrema, poiché ormai integrati nel nostro linguaggio, i secondi hanno un significato ben definito e tecnico, e sono solitamente utilizzati da esperti.

“Durante il Covid-19, per esempio, abbiamo sentito molte persone usare concetti come quello di “crescita esponenziale” – specifica Claudia Mazzuca, assegnista di ricerca della Sapienza e co-autrice dello studio – In realtà, pur non sapendo bene di che si trattasse, facevamo affidamento su quanto dicevano gli esperti, generando una sorta di gioco linguistico per cui non tutti devono necessariamente conoscere ogni concetto in modo approfondito per poterlo utilizzare”.

Infine lo studio analizza un fenomeno che si sta diffondendo nelle società contemporanee per effetto della crescente specializzazione: ossia il ricorso a esperti per conoscere il significato di concetti complessi come quelli astratti. Ultimamente, e sempre di più, gli esperti non sono solo altre persone, ma anche agenti artificiali come i Large Language Models. alla base dei chatbot sempre più utilizzati. Dunque l’interesse del team di ricerca si focalizza anche sul loro ruolo nella formazione dei concetti astratti.

Riferimenti:

Borghi, A.M., Mazzuca, C. & Tummolini, L. The role of social interaction in the formation and use of abstract concepts, Nat Rev Psychol (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s44159-025-00451-z

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Parole astratte e interazione sociale: quando parlare con gli altri e con l’IA cambia la nostra cognizione; lo studio pubblicato su Nature Reviews Psychology. Immagine di Gerd Altmann 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Ritmo primordiale: cosa ci insegnano gli scimpanzé sulla musicalità umana

Uno studio, frutto della collaborazione tra la Sapienza, l’Università di St Andrews e l’Università di Vienna, ha dimostrato che gli scimpanzé selvatici tamburellano a ritmo producendo suoni diversi in base alla regione geografica dove vivono. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista “Current Biology”.

Gli alberi della foresta pluviale sono sostenuti da enormi radici che formano grandi contrafforti piatti. Su queste superfici gli scimpanzé tamburellano con mani e piedi per trasmettere segnali comunicativi che possono raggiungere anche un chilometro di distanza attraverso le foreste. Il tamburellare degli scimpanzé condivide alcune proprietà ritmiche con la musica umana e, proprio come esistono vari generi musicali, ci sono diversi stili di tambureggiamento negli scimpanzé.

Lo studio internazionale, pubblicato su “Current Biology” e condotto dalla Sapienza, dall’Università di St Andrews e dall’Università di Vienna, ha mostrato che le sottospecie di scimpanzé che vivono su differenti sponde dell’Africa producono ritmi diversi fra loro. Per giungere a questi risultati, gli autori hanno raccolto un dataset unico al mondo sui comportamenti percussivi degli scimpanzé provenienti da foreste pluviali, savane e boschi africani. Il team ha collezionato “performance” provenienti da undici comunità di sei diverse popolazioni di scimpanzé collocate sui versanti orientali e occidentali del continente.

“Abbiamo scoperto che, mentre gli scimpanzé dell’Africa occidentale spesso tamburellano in modo isocrono (regolare), gli scimpanzé dell’Africa orientale preferiscono alternare intervalli brevi e lunghi nel loro tamburellare; entrambe queste tendenze si osservano anche nella musica umana – spiega Vesta Eleuteri, autrice principale del lavoro – Gli scimpanzè dell’Africa occidentale usano anche tempi (i.e. battiti al minuto) più veloci dei loro cugini orientali”.

“Studi come il nostro aggiungono un tassello importante alla comprensione delle origini e dell’evoluzione della musicalità umana – afferma Andrea Ravignani della Sapienza e coautore senior della ricerca – Tutte le specie animali possono fornire informazioni utili per questa impresa ma i dati sugli scimpanzé sono particolarmente preziosi. Infatti, i risultati della ricerca suggeriscono che gli esseri umani condividono con questi primati almeno uno degli elementi cruciali del ritmo: il comportamento percussivo tipico della musicalità”.

“Il ritmo dà struttura alla musica e le culture umane tendono a creare musica con un’ampia varietà di ritmi musicali diversi – afferma Jelle van der Werff della Sapienza – Il più comune è l’isocronia, ovvero quando i suoni si susseguono con la stessa identica quantità di tempo tra loro: come il ticchettio di un orologio o la grancassa della batteria nella musica elettronica”.

Il nostro lavoro – afferma Catherine Hobaiter dell’Università di St. Andrews – fornisce elementi utili anche allo studio sulla conservazione della specie. Capire se diversi gruppi di scimpanzé “suonano” con ritmi diversi evidenzia il ruolo che assumono nella comunità: quando perdiamo un gruppo di scimpanzé, perdiamo anche i loro ritmi che rendono unico ogni gruppo”.

Questa ricerca assume non solo una valenza zoologica: grazie allo studio della mente di altre specie è possibile comprendere meglio quali delle nostre capacità neuro cognitive siano attribuibili tipicamente all’uomo.

Ritmo primordiale: cosa ci insegnano gli scimpanzé sulla musicalità umana Scimpanzé orientale maschio adulto della comunità di Sonso nella foresta di Budongo (Uganda). Copyright Catherine Hobaiter
Ritmo primordiale: cosa ci insegnano gli scimpanzé sulla musicalità umana. Scimpanzé orientale maschio adulto della comunità di Sonso nella foresta di Budongo (Uganda). Copyright Catherine Hobaiter

Riferimenti bibliografici:

Vesta Eleuteri, Jelle van der Werff, Wytse Wilhelm, Adrian Soldati, Catherine Crockford, Nisarg Desai, Pawel Fedurek, Maegan Fitzgerald, Kirsty E. Graham, Kathelijne Koops, Jill Pruetz, Liran Samuni, Katie Slocombe, Angela Stoeger, Michael L. Wilson, Roman M. Wittig, Klaus Zuberbühler, Henry D. Camara, Gnan Mamy, Andrea Ravignani, Catherine Hobaiter, “Chimpanzees drum rhythmically and with subspecies variation”, in “Current Biology” (2025) DOI: https://doi.org/10.1016/j.cub.2025.04.019

 

Testo, video e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Sclerosi Multipla e virus di Epstein-Barr: è possibile una vaccinazione personalizzata? Uno studio che rappresenta un primo passo per la prevenzione e la cura della malattia

La ricerca, coordinata dal Centro Sclerosi Multipla della Sapienza, Azienda Ospedaliero-Universitaria Sant’Andrea, evidenzia i meccanismi che legano il virus alla malattia e apre la strada a una vaccinazione selettiva e a nuove terapie. Lo studio, finanziato dall’Associazione Italiana Sclerosi Multipla, è stato pubblicato sulla rivista “PNAS” (Proceedings of the National Academy of Sciences).

PNAS Distribuzione genomica dei polimorfismi a singolo nucleotide (SNP) dell'interattoma candidato e arricchimento del legame proteico vicino agli SNP associati alla Sclerosi Multipla. Crediti dell'immagine: Autori dello studio
Distribuzione genomica dei polimorfismi a singolo nucleotide (SNP) dell’interattoma candidato e arricchimento del legame proteico vicino agli SNP associati alla Sclerosi Multipla. Crediti dell’immagine: Autori dello studio

La recente dimostrazione di un nesso causale fra virus di Epstein Barr (EBV) e sclerosi multipla ha aperto nuove prospettive non solo per curare ma anche per prevenire questa malattia.

Soprattutto per quanto riguarda la prevenzione, un vaccino contro l’EBV rappresenta l’approccio più logico.

Tuttavia, poiché il virus infetta “naturalmente” – e senza particolari conseguenze – più del 90% della popolazione adulta, vaccinare “a tappeto” può non essere semplice, anche per problematiche di accettazione, come la recente pandemia ha insegnato.

Dopo diversi anni di lavoro, uno studio coordinato dal Centro Sclerosi Multipla dell’Università Sapienza – Azienda Ospedaliero-Universitaria Sant’Andrea, pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), indica una possibile soluzione.

PNAS Interazione fra virus e malattia (tabella e grafico). Crediti dell'immagine: Autori dello studio
Sclerosi Multipla e virus di Epstein-Barr: è possibile una vaccinazione personalizzata? Uno studio che rappresenta un primo passo per la prevenzione e la cura della malattia. Nell’immagine, interazione fra virus e malattia (tabella e grafico). Crediti dell’immagine: Autori dello studio

Lo studio mostra, infatti, che alcune varianti del virus “dialogano” con i geni che predispongono alla sclerosi multipla in un modo che le rende più a rischio di provocare la malattia.

“Questo risultato apre la strada alla possibilità di una vaccinazione selettiva, limitata a coloro che presentano le varianti del virus più ‘a rischio’, riducendo al minimo le resistenze alla vaccinazione e garantendo, al contempo, una protezione a chi ne ha più bisogno”, afferma il Prof. Marco Salvetti del Centro Sclerosi Multipla del Sant’Andrea-Sapienza.  Per la Prof.ssa Rosella Mechelli, dell’Università Telematica San Raffaele di Roma, altro Centro coordinatore dello studio, “la ricerca mostra anche come il virus sia associato alla sclerosi multipla in modo specifico, non riscontrabile in molte delle altre malattie autoimmunitarie esaminate”. “Andare alle radici delle cause della malattia”, conclude il Prof. Giuseppe Matarese, ordinario di Immunologia e Patologia Generale alla Università Federico II di Napoli, “ci permette di capire quali siano i meccanismi immunologici più rilevanti, anche per il disegno di terapie future”

“Si tratta di risultati molto importanti e innovativi, che ci forniscono una chiave per spiegare perché un’infezione diffusa nel 90-95% della popolazione mondiale possa favorire l’esordio della SM solo in una piccola porzione di individui – dichiara Paola Zaratin, Direttore Ricerca Scientifica AISM-FISM – Questi risultati forniranno utili informazioni sulla strategia dello sviluppo di vaccini personalizzati anti-EBV. La ricerca eziologica della SM, su cui l’Associazione Italiana SM insieme alla sua Fondazione è da sempre impegnata, è l’unica che può portare ad una prevenzione primaria della SM (equivalente di “end MS”)”

 

Riferimenti bibliografici:

Mechelli, R. Umeton, G. Bellucci, R. Bigi, V. Rinaldi, D.F. Angelini, G. Guerrera, F.C. Pignalosa, S. Ilari, M. Patrone, S. Srinivasan, G. Cerono, S. Romano, M.C. Buscarinu, S. Martire, S. Malucchi, D. Landi, L. Lorefice, R. Pizzolato Umeton, E. Anastasiadou, P.Trivedi, A. Fornasiero, M. Ferraldeschi, IMSGC WTCCC2, A. Di Sapio, G. Marfia, E. Cocco, D. Centonze, A. Uccelli, D. Di Silvestre, P. Mauri, P. de Candia, S. D’Alfonso, L. Battistini, C. Farina, R. Magliozzi, R. Reynolds, S.E. Baranzini, G. Matarese, M. Salvetti, & G. Ristori, A disease-specific convergence of host and Epstein–Barr virus genetics in multiple sclerosis, Proc. Natl. Acad. Sci. U.S.A. (2025) 122 (14) e2418783122, link: https://doi.org/10.1073/pnas.2418783122

 

 

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Nella saliva due nuovi biomarcatori per la diagnosi della seconda forma di demenza più comune dopo la Malattia di Alzheimer, la demenza a corpi di Lewy (DLB)

Una ricerca della Sapienza, pubblicata sul Journal of Alzheimers’ disease, ha fornito la prova dell’esistenza di alterati biomarcatori salivari nei pazienti affetti da demenza a corpi di Lewy.  I risultati mostrano nuove opportunità diagnostiche per la differenziazione tra la demenza a corpi di Lewy e le altre forme di patologie neurodegenerative.

La demenza è una condizione eterogenea che comprende quadri clinici e neuropatologici diversi. Nelle fasi iniziali le diverse patologie presentano caratteristiche cliniche simili, che rendono più difficile la diagnosi specifica all’interno dell’ampio spettro di queste malattie neurodegenerative.

Dopo l’Alzheimer, la demenza a corpi di Lewy (DLB) è la seconda forma più comune di demenza neurodegenerativa. Dal punto di vista clinico, i pazienti affetti dalla patologia presentano fluttuazioni cognitive, parkinsonismo, allucinazioni visive e disturbi del sonno REM. A causa della sovrapposizione clinica e neuropatologica, oltre l’80% dei casi di DLB viene inizialmente diagnosticato in modo errato e confuso con altre patologie, in particolare con le malattie di Parkinson e di Alzheimer.

Il nuovo studio, a cui hanno preso parte Giuseppe Bruno e Fabrizia D’Antonio del Dipartimento di Neuroscienze Umane della Sapienza e pubblicato sulla rivista “Journal of Alzheimers’ disease”, ha individuato due biomarcatori salivari che potrebbero facilitare la diagnosi della demenza a corpi di Lewy, rendendo più agevole la distinzione tra la DLB e altre forme di patologie neurodegenerative. Si tratta, in particolare, delle specie salivari di alfa-sinucleina e della proteina tau, altro biomarcatore di neuro degenerazione.

I ricercatori hanno esaminato i livelli di queste proteine in quattro gruppi di individui: tre dei quali composti da pazienti affetti da una patologia neurodegenerativa (DLB, malattia di Alzheimer e malattia di Parkinson) e uno composto da individui sani. I risultati hanno dimostrato che tutti i gruppi patologici presentavano una concentrazione più alta di alfa-sinucleina e di proteina tau rispetto ai soggetti sani.

In particolare, il riscontro di elevate concentrazioni di proteina tau fosforilata (ps199-tau) consente di differenziare i pazienti con malattia di Parkinson dai pazienti con demenza di Alzheimer e Demenza a corpi di Lewy. Inoltre, i pazienti con demenza a corpi di Lewy presentano concentrazioni di alfa-sinucleina oligomerica maggiori rispetto ai pazienti affetti da malattia di Alzheimer. Questi risultati, se confermati in future ricerche, potrebbero consentire di differenziare con un semplice prelievo di saliva tre delle malattie neurodegenerative più frequenti.

Il lavoro è stato sostenuto da un finanziamento d’Ateneo, nell’ambito dei bandi di ricerca per progetti piccoli del 2021.

Riferimenti bibliografici:

D’Antonio F, Vivacqua G, Serrentino M, et al. Salivary biomarkers for the molecular diagnosis of dementia with Lewy bodies, Journal of Alzheimer’s Disease, 2025;0(0), doi:10.1177/13872877251317720

neuroni rigidità muscolare Parkinson
Nella saliva due nuovi biomarcatori per la diagnosi della seconda forma di demenza più comune, la demenza a corpi di Lewy (DLB). Neuroni nell’immagine di Colin Behrens

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Nuove frontiere terapeutiche per il trattamento del glioblastoma: rivelato il meccanismo di riprogrammazione metabolica di una specifica popolazione di neutrofili (CD71+) presenti nel microambiente del tumore cerebrale

Uno studio internazionale, frutto della collaborazione tra la Sapienza e l’Istituto Wistar, rivela il meccanismo di riprogrammazione metabolica di una specifica popolazione di neutrofili presenti nel microambiente del tumore cerebrale. I risultati della ricerca, pubblicati su “Cancer Discovery”, aprono nuove strade per lo sviluppo di strategie terapeutiche più efficaci per il trattamento del glioblastoma.

A oggi il glioblastoma rimane, tra i tumori cerebrali nell’adulto, la forma più aggressiva e maggiormente resistente alle terapie. La scarsa efficacia delle opzioni terapeutiche disponibili è dovuta alle caratteristiche biologiche proprie del microambiente di questo tumore. L’ampia eterogeneità cellulare, la forte ipossia, cioè la carenza di ossigeno, e l’immunosoppressione rendono inefficienti anche gli approcci terapeutici più recenti.

Lo studio, pubblicato sulla rivista internazionale “Cancer Discovery” che ha visto la partecipazione del Dipartimento di Medicina Sperimentale della Sapienza, ha svelato il meccanismo con cui i neutrofili esprimenti il recettore per la transferrina (CD71) modificano il loro metabolismo in corrispondenza delle aree tumorali ipossiche. Il cambiamento metabolico di queste cellule potenzia la loro capacità immunosoppressoria, facilitando di conseguenza la progressione del glioblastoma.

In particolare, l’ambiente ipossico induce i neutrofili CD71+ a produrre una maggiore quantità di lattato. Questo metabolita è responsabile della lattilazione degli istoni, proteine che interagiscono con il DNA, e della conseguente produzione di arginasi-1, un enzima che contribuisce a bloccare la risposta dei linfociti T anti-tumorali. Lo studio ha evidenziato che bloccando la lattilazione degli istoni, si riduce la funzione immunosoppressoria dei neutrofili CD71+, rallentando la crescita tumorale.

Questo processo molecolare sembra essere particolarmente rilevante nel sostenere l’immunosoppressione nel glioblastoma. Infatti, lo stesso gruppo di ricercatori Sapienza-Wistar aveva descritto in un precedente lavoro che la lattilazione aumenta la capacità soppressoria dei macrofagi GLUT1+, infiltranti il microambiente tumorale.

“Il nostro lavoro – precisa Aurelia Rughetti, coordinatrice del team della Sapienza -sottolinea come la funzionalità delle cellule immunitarie infiltranti il tumore sia finemente regolata a livello epigenetico dalla lattilazione degli istoni. Interferire con questo processo molecolare, che interessa sia i neutrofili CD71+ che i macrofagi GLUT1+, può tradursi in una efficace strategia terapeutica per ridurre l’immunosoppressione, contrastare i meccanismi di resistenza del tumore e potenziare l’efficacia della target therapy e dell’immunoterapia.”

Al progetto hanno partecipato Alessio Ugolini, Fabio Scirocchi e Angelica Pace, alumni del Dottorato di Network Oncology and Precision Medicine, coordinati da Aurelia Rughetti e Marianna Nuti del Dipartimento di Medicina Sperimentale e i clinici Luca D’Angelo e Antonio Santoro della UOC di Neurochirurgia del Policlinico Universitario Umberto I.

Riferimenti bibliografici:

Ugolini A, De Leo A, Yu X, Scirocchi F, Liu X, Peixoto B, Scocozza D, Pace A, Perego M, Gardini A, D’Angelo L, Liu JKC, Etame AB, Rughetti A, Nuti M, Santoro A, Vogelbaum MA, Conejo-Garcia JR, Rodriguez PC, Veglia F. Functional reprogramming of neutrophils within the brain tumor microenvironment by hypoxia-driven histone lactylation, Cancer Discov. 2025 Feb 28, doi: 10.1158/2159-8290.CD-24-1056

Nuove frontiere terapeutiche per il trattamento del glioblastoma: il meccanismo di riprogrammazione metabolica di una specifica popolazione, i neutrofili CD71+ presenti nel microambiente del tumore cerebrale. Immagine di Gerd Altmann 

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