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JWST CATTURA IL QUASAR DEL SISTEMA PJ308–21 E GALASSIE IN RAPIDA CRESCITA NELL’UNIVERSO LONTANO

Un gruppo internazionale di ricerca guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha utilizzato lo spettrografo nel vicino infrarosso NIRSpec a bordo del James Webb Space Telescope (JWST di NASA, ESA e CSA) per osservare la drammatica interazione tra un quasar all’interno del sistema PJ308–21 e due galassie satelliti massicce nell’universo lontano. Le osservazioni, realizzate a settembre 2022, hanno rivelato dettagli senza precedenti fornendo nuove informazioni sulla crescita delle galassie nell’universo primordiale. I risultati sono stati riportati in un recente articolo in pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics e presentati oggi durante il meeting della Società Astronomica Europea (European Astronomical Society – EAS) a Padova.

Il quasar in questione (già descritto dagli stessi autori in un altro studio pubblicato lo scorso maggio), uno dei primi osservati con il Near Infrared Spectrograph (NIRSpec) quando l’universo aveva meno di un miliardo di anni (redshift z = 6,2342), ha rivelato dati di una qualità sensazionale: lo strumento ha “catturato” il suo spettro con un’incertezza inferiore all’1% per pixel. La galassia ospite del quasar PJ308–21 mostra un’alta metallicità e condizioni di fotoionizzazione tipiche di un nucleo galattico attivo (AGN), mentre una delle galassie satelliti presenta una bassa metallicità e fotoionizzazione indotta dalla formazione stellare; la seconda galassia satellite è caratterizzata invece da una metallicità più elevata ed è parzialmente fotoionizzata dal quasar. Per metallicità si intende l’abbondanza di elementi chimici più pesanti di idrogeno ed elio. La scoperta ha permesso di determinare la massa del buco nero supermassiccio al centro del sistema (circa 2 miliardi di masse solari) e di confermare che sia il quasar che le galassie circostanti sono altamente evolute, in termini di massa e di arricchimento metallico, e in costante crescita.

 Mappa delle emissioni di riga dell'idrogeno (in rosso e blu) e ossigeno (in verde), nel sistema PJ308-21, mostrato dopo aver mascherato la luce del quasar centrale ("QSO"). I diversi colori della galassia ospite del quasar e delle galassie compagne in questa mappa rivelano condizioni e proprietà fisiche del gas al loro interno. Crediti: Decarli et. al / INAF / A&A 2024
Mappa delle emissioni di riga dell’idrogeno (in rosso e blu) e ossigeno (in verde), nel sistema PJ308-21, mostrato dopo aver mascherato la luce del quasar centrale (“QSO”). I diversi colori della galassia ospite del quasar e delle galassie compagne in questa mappa rivelano condizioni e proprietà fisiche del gas al loro interno. Crediti: Decarli et. al / INAF / A&A 2024

Roberto Decarli, ricercatore presso l’INAF di Bologna e primo autore dell’articolo, spiega:

“Il nostro studio rivela che sia i buchi neri al centro di quasar ad alto redshift, sia le galassie che li ospitano, attraversano una crescita estremamente efficiente e tumultuosa già nel primo miliardo di anni di storia cosmica, coadiuvata dal ricco ambiente galattico in cui queste sorgenti si formano”.

I dati sono stati ottenuti a settembre 2022 nell’ambito del Programma 1554, uno dei nove progetti a guida italiana del primo ciclo osservativo di JWST. Decarli è alla guida di questo programma che ha come obiettivo osservare proprio la fusione fra la galassia che ospita il quasar (PJ308-21) e due sue galassie satelliti.

Le osservazioni sono state realizzate in modalità di spettroscopia a campo integrale: per ogni pixel dell’immagine si ottiene l’intero spettro della banda ottica nel sistema di riferimento delle sorgenti osservate, che a causa dell’espansione dell’universo viene osservato nell’infrarosso. Ciò consente di studiare vari traccianti del gas (righe di emissione) con un approccio 3D. Grazie a questa tecnica il team (formato da 34 istituti di ricerca e università di tutto il mondo) ha rilevato emissioni spazialmente estese di diverse righe di emissione, che sono state utilizzate per studiare le proprietà del mezzo interstellare ionizzato, comprese la fonte e la durezza del campo di radiazione fotoionizzante, la metallicità, l’oscuramento della polvere, la densità elettronica e la temperatura, e il tasso di formazione stellare. Inoltre, è stata rilevata marginalmente l’emissione di luce stellare continua associata alle sorgenti compagne.

Federica Loiacono, astrofisica, assegnista di ricerca in forze all’INAF di Bologna, commenta entusiasta i risultati:

“Grazie a NIRSpec, possiamo per la prima volta studiare, nel sistema PJ308-21, la banda ottica ricca di preziosi dati diagnostici sulle proprietà del gas vicino al buco nero nella galassia che ospita il quasar e nelle galassie circostanti. Possiamo vedere, per esempio, l’emissione degli atomi di idrogeno e confrontarla con quella degli elementi chimici prodotti dalle stelle, per stabilire quanto sia ricco di metalli il gas nelle galassie. L’esperienza ottenuta nella riduzione e calibrazione di questi dati, alcuni dei primi collezionati con NIRSpec in modalità di spettroscopia a campo integrale, ha assicurato un vantaggio strategico per la comunità italiana rispetto alla gestione di dati simili”.

Loiacono è la referente italiana per la riduzione dei dati NIRSpec al JWST Support Centre dell’INAF, che assiste la comunità astronomica italiana nell’uso dei dati provenienti dal potente osservatorio spaziale.

Loiacono aggiunge: “Grazie alla sensibilità del James Webb Space Telescope nel vicino e medio infrarosso, è stato possibile studiare lo spettro del quasar e delle galassie compagne con una precisione senza precedenti nell’universo lontano. Solo l’eccellente ‘vista’ offerta da JWST è in grado di assicurare queste osservazioni”. Il lavoro ha rappresentato un vero e proprio “rollercoaster emotivo”, continua Decarli, “con la necessità di sviluppare soluzioni innovative per superare le difficoltà iniziali nella riduzione dei dati”.

Decarli conclude sottolineando la straordinaria importanza degli strumenti a bordo del telescopio Webb:

“Fino a un paio di anni fa, dati sull’arricchimento dei metalli (indispensabile per capire l’evoluzione chimica delle galassie) erano quasi al di là della nostra portata, soprattutto a queste distanze. Ora possiamo mappare in dettaglio con poche ore di osservazione anche in galassie osservate quando l’universo era agli albori”.


 

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “A quasar-galaxy merger at z ∼ 6.2: rapid host growth via accretion of two massive satellite galaxies“, di Roberto Decarli, Federica Loiacono, Emanuele Paolo Farina, Massimo Dotti, Alessandro Lupi, Romain A. Meyer, Marco Mignoli, Antonio Pensabene, Michael A. Strauss, Bram Venemans, Jinyi Yang, Fabian Walter, Julien Wolf, Eduardo Bañados, Laura Blecha, Sarah Bosman, Chris L. Carilli, Andrea Comastri, Thomas Connor, Tiago Costa, Anna-Christina Eilers, Xiaohui Fan, Roberto Gilli, Hyunsung D. Jun, Weizhe Liu, Madeline A. Marshall, Chiara Mazzucchelli, Marcel Neeleman, Masafusa Onoue, Roderik Overzier, Maria Anne Pudoka, Dominik A. Riechers, Hans-Walter Rix, Jan-Torge Schindler, Benny Trakhtenbrot, Maxime Trebitsch, Marianne Vestergaard, Marta Volonteri, Feige Wang, Huanian Zhang, Siwei Zou, in pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

 

 

Testo, video e immagini dall’Ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.

JWST OSSERVA AMMASSI STELLARI NELL’UNIVERSO PRIMORDIALE: IL COSMIC GEMS ARC, UNA GALASSIA CHE VEDIAMO COM’ERA APPENA 460 MILIONI DI ANNI DOPO IL BIG BANG

Gli ammassi stellari osservati con il telescopio spaziale James Webb in una galassia a soli 460 milioni di anni dopo il Big Bang, nota come Cosmic Gems Arc, potrebbero essere i progenitori degli ammassi globulari che popolano le galassie odierne. È il risultato di un gruppo di ricerca internazionale a cui partecipano anche Eros Vanzella e Matteo Messa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, pubblicato oggi su Nature.

Lo studio delle galassie giovani, a poche centinaia di milioni di anni dal Big Bang, è una finestra per comprendere i processi che hanno modellato le galassie nell’universo primordiale. Galassie così distanti possono essere difficili da osservare, ma per fortuna l’universo stesso offre un assist attraverso le lenti gravitazionali: distribuzioni di materia così dense che curvano lo spaziotempo e deviano il percorso dei raggi luminosi, amplificando la luce proveniente dalle galassie più lontane.

This image shows two panels. On the right is field of many galaxies on the black background of space, known as the galaxy cluster SPT-CL J0615−5746. On the left is a callout image from a portion of this galaxy cluster showing two distinct lensed galaxies. The Cosmic Gems arc is shown with several galaxy clusters.
A destra, un’immagine dell’ammasso di galassie SPT-CL J0615−5746. A sinistra, lo zoom mostra due galassie di sfondo, molto più lontane rispetto alle galassie dell’ammasso, le cui immagini sono state distorte e amplificate dall’effetto di lente gravitazionale dell’ammasso stesso. La galassia Cosmic Gems Arc è la lunga striscia elongata al centro, all’interno della quale si possono riconoscere una serie di puntini luminosi: si tratta di ammassi stellari, progenitori degli odierni ammassi globulari.
Crediti: ESA/Webb, NASA & CSA, L. Bradley (STScI), A. Adamo (Stockholm University) and the Cosmic Spring collaboration

È così che si è scoperto il Cosmic Gems Arc, una giovanissima galassia che vediamo com’era appena 460 milioni di anni dopo il Big Bang. La sua forma appare distorta in forma di arco e la sua luminosità è fortemente amplificata grazie all’effetto di lente gravitazionale. Osservata per la prima volta dal telescopio spaziale Hubble nel 2018, si mostra in tutta la sua gloria in una nuova immagine del telescopio spaziale James Webb (JWST) che rivela ben cinque ammassi stellari al suo interno.

Ciascuno degli ammassi ha una dimensione di circa 3-4 anni luce: questo indica che si tratta di ammassi molto densi, mille volte di più rispetto ai tipici ammassi di stelle giovani che si possono osservare nell’universo locale. La scoperta implica che la formazione degli ammassi stellari e il feedback relativo potrebbero aver contribuito a scolpire le proprietà delle galassie durante le primissime epoche della storia cosmica. I risultati dello studio, guidato dalla ricercatrice italiana Angela Adamo dell’Università di Stoccolma e Oskar Klein Centre, in Svezia, sono stati pubblicati oggi su Nature.

“Riteniamo che queste galassie siano la fonte principale dell’intensa radiazione che ha reionizzato l’universo primordiale”, commenta Angela Adamo, prima autrice del lavoro. “La particolarità del Cosmic Gems Arc è che, grazie alla lente gravitazionale, possiamo effettivamente risolvere la galassia fino a una scala di pochi anni luce!”

Le osservazioni ad altissima risoluzione realizzate da JWST nell’infrarosso, insieme all’ampificazione fornita dalla lente gravitazionale, hanno mostrato dettagli senza precedenti: è la prima volta che si osservano le proprietà interne di una galassia così lontana. Solo così è stato possibile dimostrare il ruolo chiave degli ammassi stellari nelle galassie primordiali, sia nel contesto della formazione degli ammassi globulari e nel processo di reionizzazione dell’idrogeno dell’Universo.

“Quando vidi le immagini del Cosmic Gems Arc, la sequenza di “pallini” che replicavano in modo speculare richiamando proprio l’effetto di lente gravitazionale, rimasi sbalordito”, racconta Eros Vanzella, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) a Bologna e terzo autore dell’articolo. “Scrissi subito alla collega di Stoccolma Angela Adamo e a Larry Bradley, principal investigator delle osservazioni di JWST: ma allora gli ammassi stellari sono il modo dominante nella formazione stellare nell’Universo iniziale! Come fuochi d’artificio sconquassano la galassia ospite, la rendono un potenziale ionizzatore, per poi proseguire come ammassi globulari”.

La presenza di ammassi stellari così densi e massicci è rilevante per due aspetti. Innanzitutto, sono i precursori degli ammassi globulari che vediamo oggi, i quali sono quasi tanto antichi quanto l’Universo. Inoltre, ammassi stellari così giovani, durante la loro formazione, possono “distruggere” il mezzo interstellare della galassia ospite e, con le loro stelle giovani e massicce, giocare un ruolo chiave nel processo di reionizzazione dell’Universo. È probabile che le galassie in formazione nell’universo primordiale ospitino normalmente oggetti di questo tipo.

“Il messaggio generale, a mio parere, è che stiamo finalmente “smascherando” le origini delle prime galassie con la qualità e potenza del telescopio JWST e, grazie al lensing gravitazionale, stiamo vedendo dettagli senza precedenti”, aggiunge Vanzella. “L’Universo a quell’epoca non era come quello odierno e questo ci appare adesso come un dato di fatto”.

Nel frattempo, il team si sta preparando per ulteriori osservazioni con JWST, in programma per l’inizio del 2025; il principal investigator è lo stesso Vanzella, che conclude:

“Nel prossimo ciclo, studieremo il Cosmic Gems Arc con due strumenti, NIRSpec e MIRI: così avremo la conferma del redshift della galassia e, tramite misure con spettroscopia integrata, andremo più a fondo riguardo le proprietà fisiche degli ammassi stellari trovati, del gas ionizzato, oltre a eseguire una mappa bidimensionale del tasso di formazione stellare sull’intero arco gravitazionale”.

This image shows two panels. On the right is a field of many galaxies on the black background of space, known as the galaxy cluster SPT-CL J0615−5746. On the left is a callout image from a portion of this galaxy cluster showing two distinct lensed galaxies. The Cosmic Gems arc is shown with several galaxy clusters.
A destra, un’immagine dell’ammasso di galassie SPT-CL J0615−5746. A sinistra, lo zoom mostra due galassie di sfondo, molto più lontane rispetto alle galassie dell’ammasso, le cui immagini sono state distorte e amplificate dall’effetto di lente gravitazionale dell’ammasso stesso. La galassia Cosmic Gems Arc è la lunga striscia elongata al centro, all’interno della quale si possono riconoscere una serie di puntini luminosi: si tratta di ammassi stellari, progenitori degli odierni ammassi globulari.
Crediti: ESA/Webb, NASA & CSA, L. Bradley (STScI), A. Adamo (Stockholm University) and the Cosmic Spring collaboration

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “Bound star clusters observed in a lensed galaxy 460 Myr after the Big Bang”, di Angela Adamo, Larry D. Bradley, Eros Vanzella, Adélaïde Claeyssens, Brian Welch4, Jose M Diego, Guillaume Mahler, Masamune Oguri, Keren Sharon, Abdurro’uf, Tiger Yu-Yang Hsiao, Xinfeng Xu, Matteo Messa, Augusto E. Lassen, Erik Zackrisson, Gabriel Brammer, Dan Coe, Vasily Kokorev, Massimo Ricotti, Adi Zitrin, Seiji Fujimoto, Akio K. Inoue, Tom Resseguier, Jane R. Rigby, Yolanda Jiménez-Teja, Rogier A. Windhorst, Takuya Hashimoto e Yoichi Tamura, è stato pubblicato online sulla rivista Nature.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza
Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.

VLT E ALMA CATTURANO RAFFICHE DI VENTO RELATIVISTICO DAL QUASAR DELLA GALASSIA J0923+0402, IN PIENA ATTIVITÀ

Un team di ricerca guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dall’Università degli studi di Trieste ha di nuovo imbrigliato i lontanissimi ed energici venti relativistici generati da un quasar lontano ma decisamente attivo (uno dei più luminosi finora scoperti). In uno studio pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal viene riportata la prima osservazione a diverse lunghezze d’onda dell’interazione tra buco nero e il quasar della galassia ospite durante le fasi iniziali dell’Universo, circa 13 miliardi di anni fa. Oltre all’evidenza di una tempesta di gas generata dal buco nero, gli esperti hanno scoperto per la prima volta un alone di gas che si estende ben oltre la galassia, suggerendo la presenza di materiale espulso dalla galassia stessa tramite i venti generati dal buco nero.

alone quasar della galassia J0923+0402 Alone gigante di gas freddo, esteso quasi 50 mila anni luce, rivelato attorno ad una galassia dell’Universo di circa 13 miliardi di anni fa tramite osservazioni multibanda. Questa scoperta fornisce informazioni chiave su come il gas venga espulso o catturato dalle galassie dell’Universo giovane. Crediti: International Gemini Observatory/NOIRLab/NSF/AURA/M. Zamani, J. da Silva & M. Bischetti
Alone gigante di gas freddo, esteso quasi 50 mila anni luce, rivelato attorno ad una galassia dell’Universo di circa 13 miliardi di anni fa tramite osservazioni multibanda. Questa scoperta fornisce informazioni chiave su come il gas venga espulso o catturato dalle galassie dell’Universo giovane. Crediti: International Gemini Observatory/NOIRLab/NSF/AURA/M. Zamani, J. da Silva & M. Bischetti

La galassia protagonista dello studio è J0923+0402, un oggetto lontanissimo da noi, per la precisione a redshift z = 6.632 (ossia la sua radiazione che osserviamo è stata emessa quando l’Universo aveva meno di un miliardo di anni) con al centro un quasar. La luce dei quasar (o quasi-stellar radio source) viene prodotta quando il materiale galattico che circonda il buco nero supermassiccio si raccoglie in un disco di accrescimento. Infatti, nell’avvicinarsi al buco nero per poi esserne inghiottita, la materia si scalda emettendo grandi quantità di radiazione brillante nella luce visibile e ultravioletta.

“L’utilizzo congiunto di osservazioni multibanda ha permesso di studiare, in un range di scale spaziali molto ampio e dalle regioni più nucleari fino al mezzo circumgalatico, il quasar più lontano con misura di vento nucleare e l’alone di gas più esteso rilevato in epoche remote (circa 50 mila anni luce)”, spiega Manuela Bischetti, prima autrice dello studio e ricercatrice presso l’INAF e l’Università degli studi di Trieste.

I dati descritti nell’articolo sono frutto della collaborazione di gruppi di ricerca che lavorano su frequenze diverse dello spettro elettromagnetico. In primis lo spettrografo X-Shooter, installato sul Very Large Telescope (VLT) dell’ESO, ha captato raffiche di materia, in gergo BAL winds (dall’inglese venti con righe di assorbimento larghe o broad absorption line), in grado di raggiungere velocità relativistiche fino a decine di migliaia di chilometri al secondo, misurandone e calcolandone le caratteristiche. Le potenti antenne cilene di ALMA (l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array sempre dell’ESO), ricevendo frequenze dai 242 ai 257 GHz provenienti dall’alba del Cosmo, sono state attivate per cercare la controparte nel gas freddo dei venti BAL e capire se si estendesse oltre la scala della galassia.

La ricercatrice sottolinea: “I BAL sono venti che si osservano nello spettro ultravioletto del quasar che, data la grande distanza da noi, osserviamo a lunghezze d’onda dell’ottico e vicino infrarosso. Per fare queste osservazioni abbiamo usato lo spettrografo X-Shooter del Very Large Telescope. Avevamo già scoperto il BAL di questo quasar due anni fa. Il problema è che non sapevamo quantificare quanto fosse energetico. Questo vento BAL è un vento di gas caldo (decine di migliaia di gradi) che si muove a decine di migliaia di km/s. Allo stesso tempo le osservazioni in banda millimetrica di ALMA ci hanno permesso di capire cosa stia succedendo nella galassia e attorno a essa andando a vedere cosa succede al gas freddo (qualche centinaio di gradi). Abbiamo trovato che il vento si estende anche sulla scala della galassia (ma ha delle velocità più basse, 500 km/s. Questa è una cosa aspettata, il vento decelera man mano che si espande), il che ci ha fatto pensare che questo mega alone di gas sia stato creato dal materiale che i venti hanno espulso dalla galassia”.

La posizione della sorgente energetica è stata poi “immortalata” dapprima dalla Hyper Suprime-Cam (HSC), una gigantesca fotocamera installata sul telescopio Subaru e sviluppata dall’Osservatorio Astronomico Nazionale del Giappone (National Astronomical Observatory of Japan – NAOJ), e – con una misura molto più accurata – dalla NIRCam, una fotocamera a raggi infrarossi installata sul telescopio spaziale James Webb (JWST delle agenzie spaziali NASA, ESA e CSA).

“Questo quasar verrà osservato nuovamente dal JWST in futuro per studiare meglio sia il vento che l’alone”, annuncia Bischetti.

La ricercatrice prosegue spiegando il perché di questa survey: “Ci siamo chiesti se l’attività del buco nero potesse avere un impatto sulle fasi iniziali di evoluzione delle galassie, e tramite quali meccanismi questo avvenga. Vincente è stata la combinazione di dati multibanda che vanno dall’ottico e vicino infrarosso – per misurare le proprietà del buco nero, e cosa avviene nel nucleo della galassia – fino alle osservazioni in banda millimetrica – per studiare cosa avviene all’interno e attorno alla galassia”. Le misure effettuate “sono di routine nell’Universo locale, ma questi risultati non erano mai stati ottenuti prima a redshift z>6”, aggiunge.

“Il nostro studio ci aiuta a capire come il gas venga espulso o catturato dalle galassie dell’Universo giovane e come i buchi neri crescono e possono avere un impatto sull’evoluzione delle galassie. Sappiamo che il fato delle galassie come la Via Lattea è strettamente legato a quello dei buchi neri, poiché questi possono generare tempeste galattiche in grado di spegnere la formazione di nuove stelle. Studiare le epoche primordiali ci permette di capire le condizioni iniziali dell’Universo che vediamo oggi”, conclude Bischetti.


 

Per altre informazioni:

L’articolo “Multi-phase black-hole feedback and a bright [CII] halo in a Lo-BAL quasar at z∼6.6”, di Manuela Bischetti, Hyunseop Choi, Fabrizio Fiore, Chiara Feruglio, Stefano Carniani, Valentina D’Odorico, Eduardo Bañados, Huanqing Chen, Roberto Decarli, Simona Gallerani, Julie Hlavacek-Larrondo, Samuel Lai, Karen M. Leighly, Chiara Mazzucchelli, Laurence Perreault-Levasseur, Roberta Tripodi, Fabian Walter, Feige Wang, Jinyi Yang, Maria Vittoria Zanchettin, Yongda Zhu, è stato pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal.

 

 

Testo e immagine dall’Ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

NANE BIANCHE E PIANETI DISTRUTTI: GLI INDIZI TROVATI DAL JAMES WEBB SPACE TELESCOPE

Il telescopio spaziale James Webb (JWST) delle agenzie spaziali NASA, ESA e CSA ci regala nuove immagini mozzafiato del nostro vicinato galattico. Un gruppo di ricerca guidato dall’Istituto nazionale di astrofisica (INAF) ha sfruttato le enormi potenzialità di JWST per osservare, per la prima volta all’infrarosso, l’intera sequenza di raffreddamento delle nane bianche in un vicino ammasso globulare, rivelando un eccesso di emissione infrarossa, potenziale indizio di antichi sistemi planetari distrutti. L’articolo è stato pubblicato di recente nella rivista Astronomische Nachrichten (Astronomical Notes).

La maggior parte delle stelle, soprattutto quelle di massa simile al Sole (da 8 fino a 0.07-0.08 masse solari), terminano la loro evoluzione come nane bianche, cosa che alla nostra stella madre accadrà fra circa 5 miliardi di anni. Dopo aver esaurito il “combustibile” stellare (idrogeno ed elio), questi oggetti non sono in grado di innescare reazioni termonucleari e collassano sotto il proprio peso raffreddandosi fino al loro definitivo spegnimento, perdendo lo strato più esterno della loro atmosfera.

I dati utilizzati nella survey, estrapolati dall’archivio ventennale di Hubble e da recenti osservazioni con il telescopio spaziale Webb, hanno permesso al gruppo di ricerca di sondare le proprietà fondamentali delle nane bianche e di cercare indizi della possibile esistenza di antichi sistemi planetari attorno a esse. Luigi Bedin, ricercatore presso l’INAF di Padova e primo autore dello studio, spiega:

«Abbiamo scoperto che le osservazioni in infrarosso delle nane bianche ci hanno permesso di ricavare informazioni preziose sulle proprietà delle loro dense atmosfere di idrogeno. Dai dati si evince, inaspettatamente, un numero sorprendente di nane bianche con un relativo eccesso di emissione infrarossa. I risultati andranno confermati, ma lasciano intendere che queste nane bianche presentano le tracce di antichi sistemi planetari ormai estinti».

Il team di ricerca ha osservato, in diverse nane bianche, anomalie nella distribuzione spettrale dell’energia. Bedin si riferisce agli eccessi di emissioni nella banda di radiazione infrarossa:

«Questi possono essere dovuti a compagni di taglia sub-stellare o a residui di sistemi planetari distrutti durante l’evoluzione della stella da nane a gigante. Cosa accade? Durante la combustione dell’idrogeno dal nucleo, il guscio della stella si gonfia fino a inglobare i pianeti più interni del suo sistema».

Le osservazioni si riferiscono al vicino ammasso globulare Ngc 6397 (noto anche come C 86), un oggetto abbastanza luminoso e visibile anche a occhio nudo in direzione della costellazione dell’Altare, a 7200 anni luce dal Sole. La survey guidata da Bedin e colleghi con il JWST prevede l’osservazione di stelle intrinsecamente deboli e poco luminose, quindi la vicinanza alla sorgente è fondamentale anche se si utilizza lo strumento operativo nell’infrarosso attualmente più potente in orbita. «In questo ammasso abbiamo osservato circa il 20% di nane bianche con questo eccesso infrarosso, mentre nel campo galattico solo poche sorgenti mostrano un tal anomalo alto flusso nell’infrarosso», aggiunge Bedin.

Il gruppo di ricerca ha in programma una seconda campagna osservativa con la camera/spettrografo Miri del James Webb, uno strumento che – osservando nel medio infrarosso – riesce a caratterizzare l’energia emessa dalle nane bianche con eccesso di infrarosso, discriminando fra la presenza di compagni sub-stellari, dischi di sistemi planetari estinti, residui della fase di gigante rossa. «Queste nuove osservazioni che mapperanno lo spettro fra 2 e 20 micron ci permetteranno di risolvere il mistero», conclude il ricercatore.


immagine somma in tre colori del campo studiato con la camera NIRCam al fuoco del JWST. Crediti per l'immagine: NASA/ESA/CSA/JWST/INAF - L. R. Bedin et al. 2024
Nane bianche e pianeti distrutti: gli indizi trovati da Webb. Immagine somma in tre colori del campo studiato con la camera NIRCam al fuoco del JWST. Crediti per l’immagine: NASA/ESA/CSA/JWST/INAF – L. R. Bedin et al. 2024

Per altre informazioni:

L’articolo “JWST Imaging of the Closest Globular Clusters — I. Possible Infrared Excess Among White Dwarfs in NGC 6397”, di L. R. Bedin, D. Nardiello, M. Salaris, M. Libralato, P. Bergeron, A. J. Burgasser, D. Apai, M. Griggio, M. Scalco, J. Anderson, R. Gerasimov, A. Bellini, è stato pubblicato sulla rivista Astronomische Nachrichten.

 

 

Testo e immagine dall’Ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

GRB 230307A: JWST RIVELA ELEMENTI PESANTI NELL’ESPLOSIONE DI UNA KILONOVA

Il James Webb Space Telescope (JWST) ha svelato che il secondo lampo di raggi gamma più luminoso di sempre, osservato il 7 marzo 2023, ha avuto origine dalla fusione esplosiva di due stelle di neutroni. Il potente evento ha prodotto ed espulso nelle zone circostanti diversi elementi pesanti, tra cui il tellurio. Allo studio, pubblicato su Nature, hanno partecipato diversi ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e di altri istituti di ricerca e atenei italiani.

Un team internazionale di scienziati ha identificato l’origine di un potente lampo di raggi gamma (gamma-ray burst, o GRB) osservato lo scorso marzo: a generarlo è stata una kilonova, ovvero l’esplosione causata dalla fusione tra due stelle di neutroni. La ricerca è basata su osservazioni realizzate con il James Webb Space Telescope (JWST), che ha anche permesso di rilevare l’elemento chimico tellurio nel materiale espulso dalla potente esplosione. Il lampo, denominato GRB 230307A, è il secondo più luminoso mai scoperto in oltre 50 anni di osservazioni. È stato individuato il 7 marzo 2023 dal telescopio spaziale per raggi gamma Fermi, a cui ha fatto seguito il Neil Gehrels Swift Observatory, entrambi della NASA. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Nature.

“Il materiale in queste esplosioni è lanciato nello spazio a velocità molto elevate, causando una rapida evoluzione della luminosità e della temperatura del plasma in espansione”, afferma Om Sharan Salafia, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) a Milano, tra gli autori dello studio. “Con l’espansione, il materiale si raffredda e il picco della sua luce si sposta sempre più verso il rosso, per poi passare all’infrarosso su scale temporali che vanno da giorni a settimane”.

Le kilonove sono esplosioni estremamente rare, il che ne rende difficile l’osservazione. Per molto tempo, si è ritenuto che i GRB brevi, dalla durata inferiore a due secondi, derivassero da questi eventi, mentre i GRB più lunghi fossero associati alla morte esplosiva di una stella massiccia, o supernova. Il caso di GRB 230307A è peculiare: il lampo è durato 200 secondi, come i GRB di lunga durata, eppure le osservazioni di JWST indicano chiaramente che proviene dalla fusione di due stelle di neutroni. Oltre al tellurio, è probabile che nel materiale espulso nella kilonova  siano presenti anche altri elementi pesanti, vicini ad esso sulla tavola periodica, come ad esempio lo iodio, necessario per gran parte della vita sulla Terra.

Bright galaxies and other light sources in various sizes and shapes are scattered across a black swath of space: small points, hazy elliptical-like smudges with halos, and spiral-shaped blobs. The objects vary in colour: white, blue-white, yellow-white, and orange-red. Toward the centre right is a blue-white spiral galaxy seen face-on that is larger than the other light sources in the image. The galaxy is labelled “former home galaxy.” Toward the upper left is a small red point, which has a white circle around it and is labelled “GRB 230307A kilonova.
GRB 230307A è il secondo lampo di raggi gamma più luminoso di sempre, generato da una kilonova: elementi pesanti rilevati nell’esplosione. Immagine del lampo di raggi gamma GRB 230307A e la relativa kilonova (in alto a sinistra) realizzata con la fotocamera NIRCam a bordo del telescopio spaziale Webb. La galassia di colore bluastro in basso a destra è il luogo d’origine delle due stelle di neutroni che, dopo aver viaggiato per circa 120mila anni luce, hanno dato luogo all’esplosione. Credit: NASA, ESA, CSA, STScI, A. Levan (IMAPP, Warw), A. Pagan (STScI)

La collaborazione di molti telescopi, sia a terra che nello spazio, ha permesso al team di raccogliere una gran quantità di informazioni su questo evento subito dopo il primo rilevamento, aiutando loro a individuare la sorgente nel cielo e a monitorare la sua luminosità nel tempo. Le osservazioni nei raggi gamma, nei raggi X, nell’ottico, nell’infrarosso e in banda radio hanno mostrato che la controparte ottica/infrarossa era debole, evolvendosi rapidamente e passando dal blu al rosso: i tratti distintivi di una kilonova. In particolare, la sensibilità di JWST nell’infrarosso ha aiutato gli scienziati a identificare l’origine delle due stelle di neutroni che hanno prodotto la kilonova: una galassia a spirale a circa 120mila anni luce dal luogo della fusione. I progenitori del poderoso evento erano due stelle massicce che formavano un sistema binario in questa galassia: le esplosioni che le hanno trasformate in stelle di neutroni, tuttavia, hanno espulso il sistema binario dalla galassia. Prima di fondersi e dare luogo alla kilonova, diverse centinaia di milioni di anni più tardi, hanno percorso un tragitto pari al diametro della Via Lattea.

Alla campagna osservativa ha partecipato anche il VST (VLT Survey Telescope), telescopio dell’INAF presso l’Osservatorio di Paranal, in Cile.

“Quando il GRB fu scoperto, non si conosceva ancora la sua controparte ottica, in quanto Swift non lo aveva osservato e quindi non si aveva idea della posizione esatta con precisione di arcosecondi, in modo da attivare il follow-up classico”

spiega il co-autore Luca Izzo, ricercatore presso l’INAF a Napoli e presso il Dark Cosmology Center, Niels Bohr Institute, Università di Copenhagen, in Danimarca.

“Avendo del tempo di osservazione al VST per un mio programma sulle galassie vicine, decisi di pianificare delle osservazioni per la ricerca della controparte nella notte a me riservata, due giorni dopo la scoperta del GRB. Queste osservazioni hanno identificato correttamente la controparte ottica poche ore dopo la prima conferma, ottenuta dalla ULTRACAM sul New Technology Telescope. Questo dimostra il contributo del VST nell’identificazione ottica di sorgenti ad alta energia e nel successivo follow-up e caratterizzazione. Una cosa che faremo sicuramente nel futuro immediato”.

 


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “Heavy element production in a compact object merger observed by JWST”, di Andrew Levan, Benjamin P. Gompertz, Om Sharan Salafia, Mattia Bulla, Eric Burns, Kenta Hotokezaka, Luca Izzo, Gavin P. Lamb, Daniele B. Malesani, Samantha R. Oates, Maria Edvige Ravasio, Alicia Rouco Escorial, Benjamin Schneider, Nikhil Sarin, Steve Schulze, Nial R. Tanvir, Kendall Ackley, Gemma Anderson, Gabriel B. Brammer, Lise Christensen, Vikram S. Dhillon, Phil A. Evans, Michael Fausnaugh, Wen-fai Fong, Andrew S. Fruchter, Chris Fryer, Johan P. U. Fynbo, Nicola Gaspari, Kasper E. Heintz, Jens Hjorth, Jamie A. Kennea, Mark R. Kennedy, Tanmoy Laskar, Giorgos Leloudas, Ilya Mandel, Antonio Martin-Carrillo, Brian D. Metzger, Matt Nicholl, Anya Nugent, Jesse T. Palmerio, Giovanna Pugliese, Jillian Rastinejad, Lauren Rhodes, Andrea Rossi, Andrea Saccardi, Stephen J. Smartt, Heloise F. Stevance, Aaron Tohuvavohu, Alexander van der Horst, Susanna D. Vergani, Darach Watson, Thomas Barclay, Kornpob Bhirombhakdi, Elm e Breedt, Alice A. Breeveld, Alexander J. Brown, Sergio Campana, Ashley A. Chrimes, Paolo D’Avanzo, Valerio D’Elia, Massimiliano De Pasquale, Martin J. Dyer, Duncan K. Galloway, James A. Garbutt, Matthew J. Green, Dieter H. Hartmann, Páll Jakobsson, Paul Kerry, Chryssa Kouveliotou, Danial Langeroodi, Emeric Le Floc’h, James K. Leung, Stuart P. Littlefair, James Munday, Paul O’Brien, Steven G. Parsons, Ingrid Pelisoli, David I. Sahman, Ruben Salvaterra, Boris Sbarufatti, Danny Steeghs, Gianpiero Tagliaferri, Christina C. Th one, Antonio de Ugarte Postigo, David Alexander Kann, è stato pubblicato online sulla rivista Nature.

Testo dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

IL JAMES WEBB SPACE TELESCOPE TROVA ACQUA NEL SISTEMA PLANETARIO IN FORMAZIONE DELLA STELLA PDS 70

Il James Webb Space Telescope (JWST) stupisce ancora e si conferma l’osservatorio spaziale più potente di cui dispone la comunità scientifica al momento. Utilizzando il telescopio di NASA ed ESA, la collaborazione MINDS (MIRI mid-INfrared Disk Survey), un team di ricerca guidato dall’Istituto Max Planck per l’Astronomia e a cui partecipa anche l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), ha scoperto acqua nella regione interna di un disco di gas e polvere attorno alla giovane stella PDS 70, a circa 370 anni luce di distanza da noi. Gli astronomi si aspettano che dei pianeti rocciosi – quindi di tipo terrestre – si stiano formando in quella zona. Come descritto in un articolo pubblicato oggi sulla rivista Nature, si tratta del primo rilevamento di questo tipo in un disco di gas e polveri che ospita già almeno altri due pianeti.

Dall’analisi dei dati raccolti, risulta che eventuali pianeti rocciosi nati nel disco interno beneficerebbero di una significativa disponibilità d’acqua, migliorando le possibilità di sviluppare condizioni favorevoli alla vita. I ricercatori riescono quindi a provare che esiste un meccanismo che fornisce acqua a pianeti potenzialmente abitabili già durante la loro formazione.

Sulla Terra, l’acqua è alla base della vita come la conosciamo. Lo scenario attualmente più accreditato suggerisce che l’acqua sia arrivata sul nostro pianeta a seguito dei violenti impatti con asteroidi e comete che bombardarono la superficie del giovane pianeta. Ora, gli esperti ritengono però che l’acqua potrebbe essere disponibile sin dalla nascita di questi pianeti.

Rappresentazione artistica del disco intorno a PDS 70 acqua
Il James Webb Space Telescope trova acqua nel sistema planetario in formazione della stella PDS 70, lo studio è pubblicato su Nature: rappresentazione artistica del disco intorno a PDS70. Le osservazioni con JWST hanno permesso di scoprire acqua nelle regioni interne del disco, dove normalmente si formano pianeti di tipo terrestre. Due giganti gassosi, osservati in precedenza, hanno scavato un ampio spazio anulare nel disco di gas e polvere. Crediti: Istituto Max Planck per l’Astronomia

Alessio Caratti o Garatti, ricercatore dell’INAF di Napoli e co-autore dello studio, commenta:

“La scoperta di acqua intorno a PDS 70, una stella ancora in formazione e un pò meno massiccia del nostro Sole, ha un’importanza molteplice. Prima di tutto perché PDS 70 è l’unica stella giovane in cui sono stati osservati direttamente due pianeti in formazione (probabilmente dei giganti gassosi) posizionati nelle regioni esterne del disco. Quindi ci aspettiamo che ce ne possano essere altri di tipo roccioso in formazione nelle regioni più interne e non ancora osservati”. E aggiunge: “Il fatto più importante è che l’acqua osservata è situata proprio in questa regione interna, quindi ora sappiamo che possibili pianeti in formazione hanno una riserva d’acqua da cui possono attingere”.

Le osservazioni sono state effettuate sfruttando lo strumento MIRI (Mid-InfraRed Instrument) a bordo del James Webb. Secondo l’analisi dei dati, l’acqua è sotto forma di vapore caldo, compatibile  con una temperatura di circa 330 gradi Celsius (600 kelvin).

PDS 70 è il primo disco relativamente “anziano” – dall’età stimata di circa 5,4 milioni di anni – in cui gli astronomi abbiano trovato l’acqua. Nel corso del tempo, il contenuto di gas e polvere dei dischi che formano i pianeti diminuisce. Poiché studi precedenti non erano riusciti a rilevare l’acqua nelle regioni centrali di dischi simili, gli astronomi hanno sempre sospettato che potesse non sopravvivere alla radiazione stellare, portando così i pianeti rocciosi a formarsi in ambienti asciutti e aridi. Le osservazioni di MIRI confermano, però, che dopotutto i perimetri interni dei dischi privi di polvere potrebbero non essere così asciutti. In tal caso, molti pianeti terrestri che si formano in quelle zone potrebbero già nascere con un ingrediente chiave per garantirne l’abitabilità.

Di pianeti rocciosi nel disco di PDS 70 non vi è traccia al momento,  poiché sarebbero troppo deboli e vicini alla stella per essere osservati direttamente con gli attuali strumenti a disposizione. PDS 70 b e c sono gli unici due pianeti, gassosi, all’interno di questo sistema planetario. I due oggetti hanno accumulato polvere e gas orbitando attorno alla loro stella ospite, creando un ampio spazio anulare quasi privo di qualsiasi materiale rilevabile.

Ma da dove viene questo vapore acqueo? L’acqua trovata all’interno del disco potrebbe essere un residuo di una nebulosa inizialmente ricca di questa molecola. Un’altra fonte potrebbe essere polvere interstellare ricca di acqua e gas che entrano dai bordi esterni del disco di PDS 70. In determinate circostanze, l’ossigeno e l’idrogeno gassoso possono combinarsi e formare vapore acqueo.

“La verità sta probabilmente in una combinazione di tutte queste opzioni”, afferma Giulia Perotti, prima autrice dello studio e ricercatrice presso l’istituto Max Planck per l’Astronomia ad Heidelberg, in Germania. “Tuttavia, è probabile che un meccanismo svolga un ruolo decisivo nel sostenere il serbatoio d’acqua del disco PDS 70. Il nostro compito in futuro sarà scoprire qual è”.

“JWST sta rivoluzionando la nostra comprensione della formazione planetaria, rivelandoci la diversità e la ricchezza della chimica dei dischi, ovvero dell’habitat in cui i pianeti si formano”, conclude Alessio Caratti o Garatti. “Il progetto JWST MIRI mid-Infrared Disk Survey (MINDS) ha proprio lo scopo di studiare questo habitat in un numero significativo di stelle di tipo solare in formazione”.

 

 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “Water in the terrestrial planet-forming zone of the PDS 70 disk”, di G. Perotti, V. Christiaens, T. Henning, B. Tabone, L. B. F. M. Waters, I. Kamp, G. Olofsson, S. L. Grant, D. Gasman, J. Bouwman, M. Samland, R. Franceschi, E. F. van Dishoeck, K. Schwarz, M. Güdel, P.-O. Lagage, T. P. Ray, B. Vandenbussche, A. Abergel, O. Absil, A. M. Arabhavi, I. Argyriou, D. Barrado, A. Boccaletti, A. Caratti o Garatti, V. Geers, A. M. Glauser, K. Justannont, F. Lahuis, M. Mueller, C. Nehmé, E. Pantin, S. Scheithauer, C. Waelkens, R. Guadarrama, H. Jang, J. Kanwar, M. Morales-Calderón, N. Pawellek, D. Rodgers-Lee, J. Schreiber, L. Colina, T. R. Greve, G. Östlin e G. Wright, è stato pubblicato sulla rivista Nature.

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza
Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

IL PROTOAMMASSO PIÙ ANTICO E LONTANO DELL’UNIVERSO, A2744-z7p9OD, L’HA TROVATO WEBB. LO STUDIO PUBBLICATO SU THE ASTROPHYSICAL JOURNAL LETTERS

Avvistato da Hubble e confermato da Webb, con la preziosa collaborazione dell’ammasso Pandora che ha agito come lente gravitazionale, il protoammasso di galassie più antico e più lontano conta, ad oggi, sette galassie. Si stava assemblando già circa 650 milioni di anni dopo il Big Bang, un periodo in cui stavano cominciando a formarsi le prime strutture cosmiche. Nel team che ha realizzato lo studio partecipano anche ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica.

Il protoammasso più antico e lontano dell'universo, A2744-z7p9OD
Le sette galassie evidenziate in questa immagine del James Webb Space telescope sono state confermate avere un redshift di 7,9 che le colloca a un’epoca di 650 milioni di anni dopo il Big Bang. Queste sono le più antiche galassie ad essere confermate spettroscopicamente come costituenti di un ammasso in formazione. Crediti: NASA, ESA, CSA, Takahiro Morishita (IPAC), image processing: Alyssa Pagan (STScI)

Ogni gigante è stato un tempo un bambino, ma riuscire a immaginarlo senza averlo mai visto può essere difficile. Un esercizio che hanno dovuto fare per anni, gli astronomi, dovendo ricostruire come si sono formate le strutture cosmiche più grandi, come gli ammassi di galassie, senza poterne vedere direttamente i progenitori. Fino ad oggi. Grazie al telescopio spaziale James Webb di NASA ed ESA, e grazie all’aiuto della lente gravitazionale di un ammasso di galassie vicino, l’inaccessibile è diventato accessibile. In un articolo pubblicato su The Astrophysical Journal Letters arriva la conferma dell’osservazione del protoammasso più antico e più lontano di sempre, in un’epoca in cui la formazione e l’assemblaggio delle galassie era cominciato da poco. Redshift 7,9, o 650 milioni di anni dopo il Big bang, a tanto si è spinto lo specchio dorato di Webb. In quel momento cominciava a formarsi questa struttura destinata – secondo i calcoli – a diventare un enorme ammasso di galassie. Grazie alle osservazioni di spettroscopia infrarossa di Webb, un gruppo di astronomi, fra cui alcuni dell’istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), ha confermato che si possono contare almeno sette galassie legate gravitazionalmente all’interno del protoammasso, e molte altre sono destinate a finirci dentro.

«Questo è un sito molto speciale e unico in cui le galassie evolvono in maniera accelerata, e Webb ci ha dato la possibilità senza precedenti di misurare le velocità di queste sette galassie e di confermare con sicurezza che sono legate insieme in un protoammasso», dice Takahiro Morishita, ricercatore all’IPAC-California Institute of Technology e primo autore dello studio.

Gli ammassi di galassie sono le più grandi concentrazioni di massa dell’universo conosciuto e possono ospitare migliaia di galassie legate gravitazionalmente all’interno di un’unica culla (o alone) di materia oscura. Sono talmente massicci da deformare visibilmente il tessuto dello spaziotempo, in un effetto di relatività generale noto come lensing gravitazionale. Proprio come una classica lente ottica, un ammasso di galassie produce un ingrandimento degli oggetti che si trovano, in proiezione, dietro di esso, rendendoli così visibili nonostante la distanza. L’ammasso che è stato utilizzato come lente in questo studio è l’ammasso di Pandora, o Abell 2744, che si trova a poco più di 3,5 miliardi di anni luce da noi.

“È sorprendente che solo 650 milioni di anni dopo il Big Bang ci fosse già una sovradensità di questo tipo formata, nell’universo”, commenta Benedetta Vulcani, ricercatrice dell’INAF di Padova e coautrice dell’articolo. “Il protoammasso ha un raggio di 195.000 anni luce, che è circa la distanza tra noi e la Grande nube di Magellano. È quindi abbastanza compatto, visto che il raggio di un ammasso nell’universo locale può essere 20 volte tanto. Stimare la massa è molto difficile, abbiamo seguito diversi approcci e abbiamo trovato un valore – che riteniamo conservativo – di circa 400 miliardi di masse solari. È un valore che può sembrare molto piccolo a noi addetti ai lavori che siamo abituati a pensare ai grandi ammassi moderni, ma con l’aiuto delle simulazioni abbiamo potuto vedere che questa struttura, evolvendo nel tempo, potrebbe raggiungere una massa simile all’ammasso di Coma, il più grande ammasso noto”.

La pulce nell’orecchio a Morishita e collaboratori, nel caso di A2744-z7p9OD – questo il nome del protoammasso – l’ha messa Hubble. Le sette galassie erano infatti già state individuate nel programma Frontier Fields del telescopio spaziale ottico e ultravioletto, attraverso osservazioni che sfruttavano proprio l’effetto di lente gravitazionale di alcuni ammassi di galassie vicini per vedere oggetti lontani. Per vedere i dettagli di queste strutture, però, non basta ingrandirle: occorre disporre di strumenti in grado di lavorare a lunghezze d’onda infrarosse, alle quali la luce ottica emessa da questi oggetti è stata portata a causa dell’espansione dell’Universo. Ma non potendo osservare a queste lunghezze d’onda, il telescopio Hubble non era stato in grado di dire molto sulla struttura e aveva lasciato aperta la porta della curiosità.

Curiosità che il telescopio spaziale Webb, grazie al suo spettrografo nel vicino infrarosso NIRSpec, è riuscito a soddisfare. Per prima cosa, infatti, è riuscito a confermare la distanza delle sette galassie finora confermate come parte della struttura, a misurare la velocità con la quale si muovono all’interno dell’alone di materia oscura dell’ammasso, e le principali proprietà fisiche. E in secondo luogo, ha consentito di modellare e costruire la storia futura del protoammasso, scoprendo che somiglierà molto all’ammasso di Coma – uno degli ammassi più densi e popolosi dell’universo moderno.

Per crescere, una struttura come questa finirà per acquisire diverse centinaia e migliaia di altre galassie, delle quali gli astronomi hanno già trovato alcune tracce. Nella stessa regione di cielo ci sono infatti altre galassie che hanno un redshift fotometrico – stimato cioè con un metodo meno sicuro di quello utilizzato da Webb – simile a quello del protoammasso. Si trovano però ancora abbastanza lontane da questo, fino a un milione di anni luce di distanza dal centro della struttura, cinque volte più in là del suo raggio.

“Tutte le sette candidate che abbiamo osservato si sono rivelate parte della struttura, con un successo del 100%”, continua Vulcani. “In futuro di certo cercheremo di confermare anche gli altri candidati, per riuscire ad avere una stima più accurata delle dimensioni del protoammasso. Molto probabilmente finora ne abbiamo osservato solo il cuore, o una zona densa, ma pensiamo che ci siano altre galassie che non abbiamo individuato e che appartengono alla stessa struttura”.

Secondo la teoria della formazione e accrescimento delle strutture comiche, nel corso di miliardi di anni nuove galassie “cadranno” in questo protoammasso e contribuiranno alla sua crescita.

“La crescita delle strutture è simile a quella dei corsi d’acqua: torrenti che nascono da montagne diverse possono poi confluire in fiumi più grandi fino a formare i grandi fiumi. Così galassie inizialmente lontane con il passare del tempo si agglomerano in uno stesso spazio” commenta Vulcani, e conclude: “Quello che è sorprendente è che il nostro risultato supporta l’idea secondo cui galassie ad alto redshift che sono fisicamente lontane e magari non ancora parte di una struttura formata, in qualche modo sono già consapevoli del loro destino che le porterà a confluire in un ammasso. Queste galassie, infatti, formano stelle in maniera e quantità molto simili nel corso degli anni e hanno tutte un’evoluzione accelerata rispetto alle altre galassie che vivono la stessa epoca cosmica ma sono isolate. Come se, tornando all’immagine del fiume, le gocce d’acqua che nascono da sorgenti diverse in qualche modo sapessero che prima o poi si incontreranno”.

L’articolo Early results from GLASS-JWST. XVIII:A spectroscopically confirmed protocluster 650 million years after the Big Bang di Takahiro Morishita, Guido Roberts-Borsani, Tommaso Treu, Gabriel Brammer, Charlotte A. Mason, Michele Trenti, Benedetta Vulcani, Xin Wang, Ana Acebron, Yannick Bah´e, Pietro Bergamini, Kristan Boyett, Marusa Bradac, Antonello Calabrò, Marco Castellano, Wenlei Chen, Gabriella De Lucia, Alexei V.Filippenko, Adriano Fontana, Karl Glazebrook, Claudio Grillo, Alaina Henry, Tucker Jones, Patrick L. Kelly, Anton M. Koekemoer, Nicha Leethochawalit, Ting-Yi Lu, Danilo Marchesini, Sara Mascia, Amata Mercurio, Emiliano Merlin, Benjamin Metha, Themiya Nanayakkara, Mario Nonino, Diego Paris, Laura Pentericci, Piero Rosati, Paola Santini, Victoria Strait, Eros Vanzella, Rogier A.Windhorst e Lizhi Xie è stato pubblicato sul sito web della rivista The Astrophysical Journal Letters. DOI: 10.3847/2041-8213/acb99e

 Testo e immagine dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza
Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

GRB 221009A, IL LAMPO GAMMA PIÙ LUMINOSO DI TUTTI I TEMPI

Il potente lampo di raggi gamma scoperto il 9 ottobre 2022 è un evento estremamente raro, che si verifica una volta ogni 10mila anni. Le osservazioni, realizzate da telescopi nello spazio e a terra con forte coinvolgimento italiano, saranno determinanti per comprendere le colossali esplosioni da cui hanno origine i lampi gamma. L’annuncio oggi durante una conferenza stampa presso il meeting della High Energy Astrophysics Division della American Astronomical Society, alle Hawaii, in occasione della pubblicazione dei primi risultati, che vedono la partecipazione di numerosi team di ricerca dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e Agenzia Spaziale Italiana.

I raggi X del lampo gamma GRB 221009A sono stati rilevati per settimane come luce diffusa dalla polvere nella nostra galassia, portando alla comparsa di una serie di anelli in espansione. Questa animazione mostra le immagini catturate nel corso di 12 giorni dal telescopio a raggi X a bordo del Neil Gehrels Swift Observatory della NASA.
Crediti: NASA/Swift/A. Beardmore (University of Leicester)

Il 9 ottobre 2022, numerosi telescopi spaziali in orbita attorno alla Terra e sonde operanti in diverse aree del Sistema solare hanno rivelato un forte impulso di radiazione ad altissima energia, seguita da un’emissione prolungata su tutto lo spettro elettromagnetico. La sorgente era un lampo di raggi gamma (gamma ray burst, GRB), una delle esplosioni più potenti dell’universo, così eccezionale da guadagnarsi subito il soprannome di “BOAT” dall’inglese “Brightest Of All Time”, ovvero “il più luminoso di tutti i tempi”.

GRB 221009A, il lampo gamma più luminoso di tutti i tempi
GRB 221009A, il lampo gamma più luminoso di tutti i tempi. Il telescopio spaziale XMM-Newton dell’ESA ha registrato 20 anelli di polvere, 19 dei quali sono mostrati in questa immagine, che combina le osservazioni effettuate due e cinque giorni dopo la scoperta del GRB 221009A. Le strisce scure indicano gli spazi tra i rilevatori del telescopio. L’anello più grande visibile in questa immagine è paragonabile alle dimensioni apparenti della luna piena in cielo.
Crediti: ESA/XMM-Newton/M. Rigoselli (INAF)

Chiamato correntemente GRB 221009A, il lampo è stato rivelato per la prima volta dal Fermi Gamma-Ray Space Telescope della NASA, che vede un fondamentale contributo dell’Italia attraverso l’Agenzia spaziale italiana (ASI), l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), mentre il primo a dare l’annuncio è stato il satellite Neil Gehrels Swift Observatory, sempre della NASA, anch’esso con una forte partecipazione italiana attraverso ASI e INAF. Inizialmente si riteneva che la sua sorgente potesse trovarsi nella nostra galassia, la Via Lattea, ma ulteriori dati raccolti da Swift e Fermi e dal satellite INTEGRAL dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) hanno indicato un’origine molto più lontana. Grazie alle osservazioni realizzate poche ore dopo con lo strumento X-Shooter sul Very Large Telescope dell’ESO, in Cile, si è potuta finalmente identificare la sorgente del GRB: una galassia a circa 2 miliardi di anni-luce da noi. Si tratta di una distanza ragguardevole dalla Via Lattea ma relativamente vicina se si considerano le immense scale cosmiche. È il GRB più intenso di cui sia mai stata misurata la luminosità, e il più luminoso mai visto dalla Terra nei 55 anni da quando i primi satelliti per lo studio dei raggi gamma sono stati messi in orbita. È inoltre uno dei più vicini mai osservati tra i GRB lunghi, quelli la cui emissione iniziale dura più di 2 secondi.

Marco Tavani, presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, dichiara: “Il lampo gamma cosmico GRB 221009A è un evento a dir poco eccezionale per vari motivi. Prima di tutto, per la sua intrinseca potenza, durata e straordinaria intensità; ma anche per il fatto che si sia verificato, in termini cosmici, relativamente vicino alla Terra. Una combinazione rara, che non ha eguali tra i lampi gamma cosmici osservati negli ultimi decenni. La radiazione X e gamma delle prime fasi di GRB 221009A, e di seguito quella radio, ottica e X nella fase di emissione ritardata, è stata rivelata da diversi telescopi da terra e dallo spazio in cui l’Istituto Nazionale di Astrofisica è fortemente coinvolto se non primo attore. I telescopi utilizzati nello studio di questo GRB sono equipaggiati con strumenti all’avanguardia per poter catturare la radiazione dalla sorgente associata a GRB 221009A, analizzarla e comprendere i dettagli della poderosa esplosione da cui ha avuto origine. Il lavoro delle nostre ricercatrici e dei nostri ricercatori, che hanno guidato diversi studi sin dalle prime fasi di GRB 221009A, è stato fondamentale per caratterizzare questo peculiare lampo gamma cosmico e coglierne a pieno le sue potenzialità per la comprensione dei fenomeni più energetici dell’Universo che portano alla formazione delle stelle di neutroni e dei buchi neri”.

L’analisi dei dati, confrontati con quelli di circa 7mila GRB osservati nei decenni passati con il telescopio spaziale Fermi e lo strumento russo Konus a bordo del satellite NASA Wind, ha permesso di stimare la frequenza con cui si verifica un evento così luminoso e relativamente vicino: una volta ogni 10mila anni. Il lampo era così luminoso che ha letteralmente accecato la maggior parte degli osservatori spaziali a raggi gamma, che non hanno potuto misurare la reale intensità dell’emissione. Dopo aver ricostruito i dati mancanti di Fermi e grazie al confronto con i risultati del team russo che lavora sui dati Konus e con i team cinesi che analizzano le osservazioni del rivelatore GECAM-C a bordo del satellite SATech-01 e degli strumenti a bordo dell’osservatorio Insight-HXMT, si è dimostrato che l’esplosione è stata 70 volte più luminosa di qualsiasi altra mai vista.

L’evento è stato così brillante che la sua radiazione residua, il cosiddetto afterglow, è ancora visibile e rimarrà tale per molto tempo. I risultati sono stati presentati oggi durante il meeting della High Energy Astrophysics Division della American Astronomical Society a Waikoloa, Hawaii. Gli articoli che presentano i risultati sono stati pubblicati in un numero speciale della rivista The Astrophysical Journal Letters e su Astronomy & Astrophysics.

Hanno osservato il GRB anche lo strumento NICER a bordo della Stazione spaziale internazionale, il telescopio spaziale NuSTAR della NASA, la sonda Voyager 1 che esplora lo spazio interstellare, il satellite italiano AGILE, realizzato dall’ASI con il contributo di INAF e INFN, e diversi satelliti dell’ESA, tutti con importanti contributi italiani: dai telescopi spaziali XMM-Newton e INTEGRAL alle sonde Solar Orbiter e BepiColombo fino al satellite Gaia. INTEGRAL, trovandosi in posizione ottimale, ne ha registrato sia l’emissione immediata sia l’afterglow con un’accuratezza senza precedenti. Gli scienziati ritengono che i GRB lunghi, come questo, derivino dal collasso del nucleo di una stella massiccia e la conseguente nascita di un buco nero, che emette getti di particelle ad altissima energia in direzioni opposte mentre ingurgita la materia circostante. Osservare l’afterglow del GRB, causato proprio da questi getti bipolari, ha permesso di testare i diversi modelli teorici che descrivono i processi fisici in atto nelle fasi iniziali dell’esplosione.

“Si tratta di una scoperta importante – commenta il presidente dell’ASI Giorgio Saccoccia – resa possibile anche grazie al contribuito di tutte le sonde come Fermi, Swift, INTEGRAL, AGILE, NuSTAR, IXPE, XMM, Solar Orbiter, Bepi Colombo, Gaia e CSES. Satelliti in orbita a cui ASI ha dato il suo contributo. Il merito va anche al nostro Space Science Data Center (SSDC) che mette da diverso tempo a fattor comune i dati scientifici provenienti da tutte queste missioni che hanno a bordo strumentazioni fornite da ASI. Questa visione multidisciplinare della scienza spaziale rappresenta il percorso vincente per aumentare le competenze italiane nello studio dell’Universo. Si tratta di una forte capacità dell’ASI che, da sempre, lavora insieme all’intera comunità scientifica, per lo sviluppo di tecnologie all’avanguardia, che consentono di avere una visione dell’Universo più completa”.

Dopo aver viaggiato attraverso lo spazio intergalattico, la radiazione proveniente dal GRB 221009A si è imbattuta nelle nubi di polvere presenti nel mezzo interstellare che permea la nostra galassia, la Via Lattea. Quando i raggi X incontrano la polvere, una parte di essi viene dispersa, creando anelli concentrici che sembrano espandersi verso l’esterno: una sorta di eco luminosa del lampo mentre attraversa la galassia. Il telescopio spaziale XMM-Newton ha fornito un’immagine profonda e dettagliata di 20 anelli, osservando in diversi giorni dopo la scoperta del GRB, mentre il satellite Swift ne ha monitorato l’evoluzione nel tempo. L’anello più distante è sorto dall’impatto con una nube di polvere situata a 61mila anni luce di distanza, dall’altro lato della Via Lattea, mentre il più vicino, visto solo da Swift, si è formato a circa 700 anni luce da noi. Il modo in cui una nube di polvere diffonde i raggi X dipende dalla sua distanza, dalle dimensioni dei granelli di polvere e dall’energia dei raggi X: l’analisi degli anelli creati dal GRB ha permesso di ricostruire parte della sua emissione iniziale a raggi X ma anche la distribuzione e composizione delle nubi di polvere nella nostra galassia. I dati indicano che i granelli di polvere sono composti principalmente da grafite, una forma cristallina del carbonio.

Gli anelli di polvere sono stati rivelati anche dall’osservatorio spaziale IXPE, una collaborazione tra NASA e ASI con un importante contributo di INAF e INFN, che osserva la polarizzazione dei raggi X. Il piccolo grado di polarizzazione misurato da IXPE nella fase di afterglow conferma che uno dei due getti è stato osservato in direzione quasi frontale. Da questo tipo di GRB, gli scienziati si aspettano di osservare anche una supernova poche settimane dopo, che però non è stata rivelata. Uno dei possibili motivi della mancata osservazione potrebbe essere l’attenuazione da parte di spesse nubi di polvere nel piano della Via Lattea. Tuttavia, non ha sortito successo nemmeno la ricerca nell’infrarosso effettuata con il telescopio spaziale James Webb, che ha osservato l’afterglow in contemporanea con il Telescopio Nazionale Galileo (TNG) dell’INAF. Può darsi che la stella fosse così massiccia che, dopo l’esplosione iniziale, abbia immediatamente formato un buco nero che ha inghiottito tutto il materiale circostante, impedendo la formazione di una nube di gas, il cosiddetto resto di supernova.

“Un evento davvero unico per la sua intensità e vicinanza cosmica – spiega Marco Pallavicini, vicepresidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare – che conferma il potere diagnostico delle misure di polarizzazione offerte da IXPE e dallo strumento innovativo che INFN ha sviluppato e messo a disposizione della missione, il quale si innesta in una ormai consolidata tradizione di successi ottenuti nell’ambito della realizzazione di rivelatori spaziali di sempre maggiore efficacia e capacità risolutive. Risultati certificati anche dai contributi forniti a molti degli osservatori spaziali, tra cui Fermi e AGILE, protagonisti della caratterizzazione di questo GRB senza precedenti.”

Anche sulla Terra il GRB 221009A ha fatto sentire i suoi effetti, rilasciando nei pochi minuti della sua durata circa un gigawatt di potenza nella porzione superiore della nostra atmosfera, ionizzando fortemente la parte alta della ionosfera su una larga regione geografica centrata sull’India e che ha interessato anche Europa e Asia. L’aumento del flusso di elettroni correlato con il GRB è stato misurato dal rivelatore di particelle cariche HEPP-L a bordo del China Seismo-Electromagnetic Satellite (CSES-01), che vede la partecipazione di ASI e INFN, il quale stava orbitando sopra l’Europa al momento dell’arrivo del GRB.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

JWST CATTURA LE GALASSIE CHE HANNO REIONIZZATO L’UNIVERSO

Un team internazionale di ricercatrici e ricercatori guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha studiato 29 galassie ai primordi dell’universo, stimando per la prima volta la frazione di luce da esse rilasciata in grado di ionizzare il gas circostante. Questo lavoro è stato reso possibile grazie al telescopio spaziale JWST e l’aiuto di un massiccio ammasso di galassie che, come una lente, ha amplificato la luce proveniente dalle galassie ancora più distanti.

Le prime stelle e galassie nella storia dell’universo, nate oltre tredici miliardi di anni fa, quando il cosmo aveva solo poche centinaia di milioni di anni d’età, si sono formate a partire da una miscela di gas neutro, costituito principalmente da atomi di idrogeno. La radiazione energetica proveniente da queste prime stelle e galassie ha poi contribuito, nelle centinaia di milioni di anni seguenti, a trasformare questo gas e ionizzarlo, cioè scinderlo in elettroni e protoni. Gli astronomi la chiamano “reionizzazione” poiché durante questa fase il mezzo intergalattico che pervade l’universo, da neutro, torna a essere ionizzato come lo era nel cosmo primordiale. Non è però ancora chiaro quali galassie abbiano contribuito maggiormente a reionizzare il mezzo intergalattico nei primi stadi di questo processo, né quale percentuale di fotoni – le particelle di luce – con energie sufficienti a ionizzare il gas circostante sia fuoriuscita dai diversi tipi di galassie presenti all’epoca.

JWST CATTURA LE GALASSIE CHE HANNO REIONIZZATO L’UNIVERSO
JWST cattura le galassie che hanno reionizzato l’universo. JWST-Abell-2744: L’ammasso di galassie Abell 2744, chiamato anche Ammasso di Pandora, osservato con il telescopio spaziale Webb. L’ammasso agisce da lente gravitazionale, amplificando la luce proveniente da sorgenti più distanti e permettendo di rilevare galassie tra le prime a formarsi nella storia dell’universo. Crediti: NASA, ESA, CSA, I. Labbe (Swinburne University of Technology), R. Bezanson (University of Pittsburgh), A. Pagan (STScI)

Con il suo specchio dal diametro di 6,5 metri e la sensibilità osservativa nella banda infrarossa, il James Webb Space Telescope (JWST), osservatorio spaziale della NASA in collaborazione con ESA e CSA, può spingersi indietro nel tempo fino alle galassie più distanti, tra le prime a formarsi nella storia dell’universo. Il progetto GLASS, una collaborazione internazionale di ricercatrici e ricercatori in 24 istituti di ricerca e università tra Italia, Stati Uniti, Giappone, Danimarca, Australia, Cina e Slovenia, che utilizza JWST per cercare risposta ai quesiti ancora aperti sulla reionizzazione cosmica, ha recentemente pubblicato un nuovo articolo a guida italiana sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

“Abbiamo studiato, tramite osservazioni spettroscopiche e fotometriche ottenute con JWST, 29 galassie lontane e siamo riuscite a misurare in maniera indiretta le loro capacità ionizzanti, dato che a distanze così elevate non è possibile osservare direttamente i fotoni di così alta energia che sono quelli che hanno portato alla reionizzazione del mezzo intergalattico”, spiega la prima autrice del nuovo articolo Sara Mascia, dottoranda in Astronomy, Astrophysics and Space Science all’Università di Roma Tor Vergata, che porta avanti la sua ricerca presso l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). “Questo studio dimostra la capacità di JWST non solo di trovare le galassie più distanti ma anche di svelarne le proprietà fisiche.”

La luce proveniente da queste galassie, catturata con gli strumenti NIRCam e NIRSPec a bordo di JWST, è stata emessa quando l’universo aveva un’età compresa tra circa 650 milioni e 1,3 miliardi di anni. Prima di queste osservazioni, le proprietà ionizzanti di queste lontanissime galassie erano ignote, soprattutto per quanto riguarda le galassie di piccola massa, molto difficili da studiare.

“Abbiamo stimato per la prima volta la capacità ionizzante delle galassie nell’epoca della reionizzazione: in particolare, siamo riusciti a stimare quanti fotoni ionizzanti fuoriescono dalle galassie di piccola massa grazie all’effetto di lente gravitazionale da parte di Abell 2744, un ammasso di galassie che si trova tra noi e le galassie distanti e amplifica il loro segnale”,

aggiunge Laura Pentericci, ricercatrice INAF a Roma e co-autrice del nuovo lavoro.

“I nostri risultati indicano che oltre l’80 percento delle galassie osservate contribuisce in maniera significativa alla reionizzazione.”

Nuove osservazioni che saranno realizzate prossimamente con JWST estenderanno questa analisi a campioni più grandi di galassie, includendo quelle con masse più elevate o più distanti. Lo scopo è di determinare se la maggior parte dei fotoni che hanno contribuito a reionizzare l’universo sia stata fornita da galassie più massicce e luminose di quelle osservate oppure se, come ritenuto dai principali modelli attuali, il contributo maggiore sia dovuto alle galassie più deboli, molto più numerose.


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “Closing in on the sources of cosmic reionization: first results from the GLASS-JWST program”, di S. Mascia, L. Pentericci, A. Calabrò, T. Treu, P. Santini, L. Yang, L. Napolitano, G. Roberts-Borsani, P. Bergamini, C. Grillo, P. Rosati, B. Vulcani, M. Castellano, K. Boyett, A. Fontana, K. Glazebrook, A. Henry, C. Mason, E. Merlin, T. Morishita, T. Nanayakkara, D. Paris, N. Roy, H. Williams, X. Wang, G. Brammer, M. Bradac, W. Chen, P. L. Kelly, A. M. Koekemoer, M. Trenti, R. A. Windhorst, è stato pubblicato online sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

 

Allo studio hanno partecipato anche ricercatori delle università di Ferrara e Statale di Milano.

Testo e immagine dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

GALASSIE ALL’ALBA DEL COSMO CATTURATE DA JWST

Una delle prime osservazioni realizzate con il telescopio spaziale James Webb lo scorso giugno ritrae due galassie tra le più antiche mai osservate, che popolavano l’universo quando aveva solo 350 e 450 milioni di anni, rispettivamente. Lo conferma lo studio di un team internazionale, guidato da ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica e pubblicato su The Astrophysical Journal Letters.

Appena pochi giorni dall’inizio delle operazioni scientifiche, il James Webb Space Telescope (JWST) è stato in grado di rivelare la luce proveniente da due galassie tra le primissime dell’universo primordiale, tra 350 e 450 milioni di anni dopo il Big Bang. Sono i risultati dell’analisi di osservazioni del lontanissimo ammasso di galassie Abell 2744 e di due regioni del cielo ad esso adiacenti, realizzate dal potente telescopio spaziale tra il 28 e il 29 giugno 2022 nell’ambito del progetto GLASS-JWST Early Release Science Program.

“Questo lavoro mostra innanzitutto la capacità di JWST di selezionare sorgenti nell’epoca della cosiddetta ‘alba cosmica’. Non meno importante il fatto di avere trovato, tra le altre, due sorgenti brillanti in un’area relativamente piccola”, afferma Marco Castellano, ricercatore INAF a Roma e primo autore dell’articolo che descrive la ricerca di queste due lontanissime galassie, pubblicato recentemente su The Astrophysical Journal Letters. “Sulla base di tutte le previsioni, pensavamo che avremmo dovuto sondare un volume di spazio molto più grande per trovare tali galassie. I risultati invece sembrano indicare che il numero di galassie brillanti sia molto maggiore di quanto ci si aspettasse, forse per effetto di una maggiore efficienza di formazione stellare”.

Il gruppo di ricerca guidato da Castellano è stato tra i primi a usare i dati di JWST, pubblicando un preprint sulla piattaforma open-access arXiv a luglio, solo 5 giorni dopo che i dati erano stati resi disponibili.

“C’era molta curiosità nel vedere finalmente cosa JWST poteva dirci sull’alba cosmica, oltre naturalmente al desiderio e all’ambizione di essere i primi a mostrare alla comunità scientifica i risultati ottenuti dalla nostra survey GLASS”, aggiunge il ricercatore.

“Non è stato facile analizzare dei dati così nuovi in breve tempo: la collaborazione ha lavorato 7 giorni su 7 e in pratica 24 ore su 24 anche grazie al fatto di avere una partecipazione che copre tutti i fusi orari”.

Alla collaborazione internazionale, che vede numerosi ricercatori e ricercatrici dell’INAF coinvolti sin dalla presentazione della proposta osservativa, hanno partecipato anche colleghi dello Space Science Data Center dell’Agenzia Spaziale Italiana e delle università di Ferrara e Statale di Milano.

galassie cosmo JWST
Due delle galassie più lontane mai osservate, catturate dal telescopio spaziale JWST nelle regioni esterne del gigantesco ammasso di galassie Abell 2744. Le galassie, evidenziate da due piccoli quadrati indicati con i numeri 1 e 2, e in maggior dettaglio nei due riquadri centrali, non fanno parte dell’ammasso, ma si trovano a molti miliardi di anni luce al di là di esso. Oggi osserviamo queste galassie come apparivano rispettivamente 450 (nel riquadro 1, a sinistra nell’immagine) e 350 milioni di anni (nel riquadro 2, a destra) dopo il big bang.
Crediti: Analisi scientifica: NASA, ESA, CSA, Tommaso Treu (UCLA); elaborazione delle immagini: Zolt G. Levay (STScI)

La distanza delle due galassie in questione dovrà essere confermata con maggior precisione mediante osservazioni spettroscopiche, ma si tratta già dei candidati più robusti selezionati ad oggi con dati JWST. A confermare l’affidabilità dei risultati è proprio l’accordo con quanto riscontrato anche in altri studi, tra cui il lavoro guidato da Rohan Naidu dell’Harvard Center for Astrophysics, negli Stati Uniti, che analizza gli stessi dati del progetto GLASS, apparso lo stesso giorno su arXiv e attualmente in corso di pubblicazione, anch’esso su The Astrophysical Journal Letters.

“Queste osservazioni sono rivoluzionarie: si è aperto un nuovo capitolo dell’astronomia” commenta Paola Santini, ricercatrice INAF a Roma e coautrice del nuovo articolo. “Già dopo i primissimi giorni dall’inizio della raccolta dati, JWST ha mostrato di essere in grado di svelare sorgenti astrofisiche in epoche ancora inesplorate”.

A differenza degli strumenti usati in precedenza – dal telescopio spaziale Hubble ai più grandi osservatori disponibili a terra – JWST ha una sensibilità e risoluzione nell’infrarosso che permettono di cercare oggetti così distanti.

“Stiamo esplorando un’epoca a poche centinaia di anni dal Big Bang che in parte era sconosciuta e in parte a malapena esplorata, con molte incertezze al limite delle possibilità dei telescopi precedenti”, ricorda Castellano.

Come e quando si sono formate le prime galassie e la primissima generazione di stelle – la cosiddetta popolazione III – è una delle grandi domande ancora aperte dell’astrofisica.

“Queste galassie sono molto diverse dalla Via Lattea o altre grandi galassie che vediamo oggi intorno a noi”, spiega Tommaso Treu, professore all’Università della California a Los Angeles e principal investigator del progetto GLASS-JWST. “La domanda era: quando vedi le stelle più rosse e più vecchie con Webb, vedi che in realtà la galassia è molto più grande di quello che sembrava dalle osservazioni nell’ultravioletto?”

Le nuove osservazioni di JWST sembrano indicare che le galassie nell’universo primordiale fossero molto più luminose, anche se più compatte del previsto. Se ciò fosse vero, potrebbe rendere più facile per il potente osservatorio trovare un numero ancor maggiore di queste galassie precoci nelle sue prossime osservazioni del cielo profondo.

“La sorgente più lontana è effettivamente molto compatta”, sottolinea Adriano Fontana, responsabile della divisione nazionale abilitante dell’astronomia ottica ed infrarossa dell’INAF e coautore dello studio. “I colori di questa galassia sembrano indicare che la sua popolazione stellare sia particolarmente priva di elementi pesanti, e potrebbe contenere anche alcune stelle di popolazione III. La conferma verrà dai dati spettroscopici di JWST”.

Osservare le galassie più distanti, come quelle rivelate in queste osservazioni di JWST, è un passo fondamentale per iniziare a capire come si sono formate le primissime sorgenti luminose nella storia del cosmo e comprendere le prime fasi della lunghissima evoluzione che ha portato l’universo a essere così come lo vediamo oggi, con la nostra galassia, il Sole, la Terra e noi umani che la abitiamo. Occorreranno ulteriori sforzi sia osservativi, per confermare e caratterizzare il risultato, che teorici, per comprenderne la fisica sottostante.


 

Per ulteriori informazioni: L’articolo “Early results from GLASS-JWST. III: Galaxy candidates at z~9-15” di Marco Castellano, Adriano Fontana, Tommaso Treu, Paola Santini, Emiliano Merlin, Nicha Leethochawalit, Michele Trenti, Uros Mestric, Eros Vanzella, Andrea Bonchi, Davide Belfiori, Mario Nonino, Diego Paris, Gianluca Polenta, Guido Roberts-Borsani, Kristan Boyett, Marusa Bradac, Antonello Calabro, Karl Glazebrook, Claudio Grillo, Sara Mascia, Charlotte Mason, Amata Mercurio, Takahiro Morishita, Themiya Nanayakkara, Laura Pentericci, Piero Rosati, Benedetta Vulcani, Xin Wang, Lilan Yang, è stato pubblicato online su The Astrophysical Journal Letters.

Testo e foto dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) sulle due galassie all’alba del cosmo osservate con JWST.