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James E. M. Watson

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Biodiversità globale: i numeri per non perderla

Una nuova ricerca, che coinvolge il Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza, rivela che per arrestare la crisi della biodiversità sono necessarie misure di conservazione nel 44% della superficie terrestre, pari a 64 milioni di km2. Più di 1.3 milioni di km2 rischiano infatti di essere distrutti da interventi umani entro il 2030. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Science

biodiversità globale
Foto di Maria e Fernando Cabral

Per fermare la crisi globale della biodiversità sono necessari sforzi ambiziosi, in particolare è fondamentale proteggere le aree ad alto valore conservazionistico e forte rischio di declino.

Un team di ricerca internazionale, che coinvolge Moreno Di Marco del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza, ha utilizzato algoritmi geospaziali avanzati per mappare l’area ottimale per la conservazione delle specie e degli ecosistemi terrestri di tutto il mondo. I ricercatori hanno anche quantificato la superficie terrestre a rischio a causa delle attività umane di modifica degli habitat, sfruttando scenari di uso del suolo.

Lo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Science, è stato coordinato da James R. Allan dell’Università di Amsterdam ed è nato dalla collaborazione della Sapienza con l’Università di Amsterdam, l’Università del Queensland, l’organizzazione The Nature Conservancy (TNC), l’organizzazione United Nations Development Programme (UNDP), l’Università di Cambridge, la BirdLife International, l’Università della Tasmania, la Rights and Resources Initiative (RRI), l’Università del Kent, l’Università di Melbourne e l’Università del Delaware.

Dai risultati di questa ricerca si evince che per arrestare la crisi della biodiversità sarebbe necessario conservare un’area di 64 milioni di km2, che corrisponde al 44 % della superficie terrestre. Inoltre, i modelli mostrano che più di 1.3 milioni di km2 di questa superficie terrestre – un’area più estesa del Sud Africa – rischiano di essere distrutti entro il 2030 dalle attività antropiche, con conseguenze devastanti per la fauna selvatica.

Considerando che sono 1.8 miliardi le persone che vivono nelle zone identificate, risultano fondamentali le azioni di conservazione che promuovono l’autonomia, l’autodeterminazione e la leadership ambientale di queste popolazioni. A tal fine, gli strumenti utili spaziano, in base al contesto locale, dalla responsabilizzazione delle popolazioni indigene, alle norme che limitano la deforestazione, alle aree protette.

Alla luce del fatto che diversi paesi, sotto la guida delle Nazioni Unite, stanno attualmente negoziando nuovi obiettivi di conservazione della natura, questo lavoro avrà importanti implicazioni politiche. Infatti, il piano d’azione post-2020 della Convenzione sulla Diversità Biologica (CDB) – un trattato internazionale adottato nel 1992 al fine di tutelare la biodiversità – entrerà in vigore nel corso dell’anno. Ciò stabilirà l’agenda della conservazione per il prossimo decennio e le nazioni dovranno riportare i risultati ottenuti rispetto ai nuovi obiettivi del 2030.

“A oggi, questa ricerca rappresenta – spiega Moreno Di Marco, coautore dello studio e coordinatore del gruppo di ricerca “Biodiversity and Global Change” della Sapienza – l’analisi più esaustiva delle esigenze di conservazione della biodiversità a scala globale e dimostra che l’espansione delle aree protette è una misura necessaria ma non sufficiente a invertire il declino della biodiversità. Le aree protette devono, quindi, essere affiancate a politiche di pianificazione sostenibile dell’uso del suolo, al riconoscimento del ruolo guida delle popolazioni indigene, a meccanismi di trasferimento fiscale verso i paesi in via di sviluppo e ricchi di biodiversità, e al controllo delle attività industriali in aree importanti per la biodiversità”.

Sebbene più di un decennio fa le nazioni avessero puntato a conservare almeno il 17% della superficie terrestre attraverso aree protette e altri approcci spaziali, dal 2020 è stato chiaro che ciò non sarebbe bastato ad arrestare il declino della biodiversità e scongiurarne la crisi, anche a causa del mancato raggiungimento di altri obiettivi.

“La nostra analisi mostra – conclude Moreno Di Marco – che il rischio per la biodiversità derivante dalla perdita di habitat in aree importanti per la conservazione può ancora essere ridotto in modo significativo (addirittura di sette volte!), se si attuano oggi politiche sostenibili di uso del territorio. Ma i governi non possono continuare a perseguire una strategia di sviluppo economico di tipo ‘business as usual’”.

Riferimenti:
The minimum land area requiring conservation attention to safeguard biodiversity – James R. Allan, Hugh P. Possingham, Scott C. Atkinson, Anthony Waldron, Moreno Di Marco, Stuart H. M. Butchart, Vanessa M. Adams, W. Daniel Kissling, Thomas Worsdell, Chris Sandbrook, Gwili Gibbon, Kundan Kumar, Piyush Mehta, Martine Maron, Brooke A. Williams, Kendall R. Jones, Brendan A. Wintle, April E. Reside, James E. M. Watson – Science (2022) https://doi.org/10.1126/science.abl9127

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Un nuovo studio del Dipartimento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin della Sapienza ha valutato l’impatto delle attività umane sull’estinzione locale dei mammiferi negli ultimi 50 anni. Solo poche specie sono riuscite a trarre vantaggio dalla convivenza con l’uomo colonizzando nuove aree. Il lavoro è pubblicato su Nature Communications

mammiferi estinzione
Rinoceronte bianco, una delle specie il cui areale di distribuzione ha subito gli impatti maggiori dovuti alle attività antropiche.

L’impatto delle attività umane sull’ambiente, che ha avuto un notevole incremento a partire dagli anni ‘70 del secolo scorso con la terza rivoluzione industriale, sta alterando sensibilmente i processi ecologici alla base della vita sulla Terra.

Uno degli effetti principali dell’intensificarsi delle attività antropiche è la progressiva scomparsa di alcune specie autoctone, con risvolti drammatici sugli equilibri ecosistemici a esse associati. I mammiferi, in particolare, sono stati oggetto di importanti diminuzioni, con il 25% delle specie viventi ritenuto oggi a rischio di estinzione.

In un nuovo studio pubblicato sulla rivista Nature Communications, il team di ricercatori coordinato da Michela Pacifici del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin ha confrontato le distribuzioni di un campione rappresentativo di mammiferi terrestri negli anni ‘70 e oggi, riscontrando che circa il 75% di queste ha subito cambiamenti.

I ricercatori hanno inoltre individuato i fattori associati al declino e all’espansione dell’areale, ovvero della superfice normalmente abitata da una specie, includendo tra queste variabili sia quelle di natura antropica sia quelle legate alla biologia delle specie, come il peso e le strategie riproduttive.

“Abbiamo scoperto – spiega Michela Pacifici – che una specie su cinque ha subito contrazioni dell’areale di oltre il 50%. I principali responsabili sembrano essere l’incremento della temperatura globale, la perdita di aree naturali e l’aumento della densità umana, fattori che influiscono soprattutto su specie di grandi dimensioni come il rinoceronte bianco, l’elefante asiatico e l’antilope Addax”.

Comprendere quali variabili siano implicate nel declino dei mammiferi è fondamentale per focalizzare le azioni di conservazione necessarie, specialmente in considerazione delle molteplici minacce alle quali i mammiferi sono soggetti, incluso il cambiamento climatico.

“Studi precedenti – commenta Carlo Rondinini, coautore dello studio e coordinatore del Global Mammal Assessment, una partnership tra Sapienza e l’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn) – evidenziano che le uniche specie in grado di spostarsi abbastanza velocemente per seguire il clima che cambia sono i grandi mammiferi. Da questo studio si evidenzia che proprio i grandi mammiferi hanno maggiormente sofferto l’azione diretta dell’uomo. Resta quindi fondamentale, per evitare la scomparsa dei grandi mammiferi, mettere in atto tutte le misure per consentire il loro spostamento naturale alla ricerca di ambienti adatti”.

Per quanto riguarda l’espansione di areale, i risultati dello studio evidenziano che le specie che ne hanno beneficiato sono in numero inferiore e che le variabili determinanti sono maggiormente legate alle caratteristiche intrinseche, favorendo le specie con tassi riproduttivi veloci, dieta generalista e massa corporea inferiore.

“Questo studio – aggiunge Moreno Di Marco, autore senior dello studio – dimostra ancora una volta che ci sono molte specie di mammiferi che declinano rapidamente in seguito alla pressione antropica, mentre poche specie riescono, per le loro caratteristiche biologiche, ad adattarsi ed eventualmente approfittare del cambiamento globale”.

“I nostri dati – conclude Pacifici – dimostrano che una percentuale elevata di mammiferi, tra cui molte specie carismatiche, sta scomparendo da zone in cui questi erano presenti fino a meno di 50 anni fa. Questo risultato allarmante evidenzia come sia di fondamentale importanza comprendere quali siano i fattori di rischio che hanno portato le specie a estinguersi localmente, in modo tale da agire in maniera proattiva e ridurre il rischio di ulteriori perdite”.

Riferimenti:

Global correlates of range contractions and expansions in terrestrial mammals – Michela Pacifici, Carlo Rondinini, Jonathan R. Rhodes, Andrew A. Burbidge, Andrea Cristiano, James E. M. Watson, John C. Z. Woinarski & Moreno Di Marco – Nature Communications volume 11, Article number: 2840 (2020) https://doi.org/10.1038/s41467-020-16684-w

https://www.nature.com/articles/s41467-020-16684-w 

 

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma