Banche dei semi: una nuova metodologia indica quali specie conservare per salvare le piante dall’estinzione (e ridurre i costi)
La ricerca dell’Università di Pisa pubblicata sulla rivista New Phytologist
Circa due specie di piante su cinque nel mondo potrebbero sparire. Per questo motivo, è importante capire quali specie sono più a rischio e trovare i modi efficaci per conservarle.
È questa la sfida raccolta da un gruppo di ricercatori coordinato dal professore Angelino Carta del Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa. Il risultato è stata una nuova metodologia basata sulla rilevanza evolutiva delle specie grazie alla quale sarà possibile integrare le collezioni attualmente conservate nelle banche dei semi. Lo studio pubblicato sulla rivista New Phytologist promette inoltre anche dei risparmi in termini economici. Al progetto hanno partecipato ricercatori della Stazione Biologica Doñana (Spagna), degli Orti Botanici di Ginevra (Svizzera), Meise (Belgio) e Kew (Regno Unito).
L’analisi ha riguardato un imponente set di dati provenienti da 109 banche dei semi comprendente oltre 22.000 specie relative a tutta la flora d’Europa. È così emerso che le banche custodiscono una ricca varietà di piante, ma ancora non coprono completamente tutta la diversità evolutiva possibile. In pratica, alcuni “rami” dell’albero genealogico delle piante europee non sono rappresentati nelle collezioni. Le specie attualmente non conservate, ma il cui campionamento e stoccaggio in banca sarebbe fondamentale, sono sopratutto quelle che rappresentano ununicum evolutivo perché mostrano delle strategie riproduttive singolari o sono confinate ad aree geografiche limitate.
“Si tratta di un metodo che può essere personalizzato per adattarlo a diversi obiettivi di conservazione, fino all’esaurimento del budget disponibile – sottolinea Carta – La nostra ricerca rappresenta quindi un passo fondamentale per future azioni di conservazione, i risultati possono servire come base di discussione per promuovere nuove politiche, incluso la salvaguardia delle specie in via di estinzione, la resilienza dei sistemi agroalimentari e l’identificazione delle specie più adatte al restauro degli habitat in uno scenario di cambiamenti climatici”.
IL CODICE DEL BOSCO, un film documentario di Alessandro Bernard e Paolo Ceretto
Prodotto da Zenit Arti Audiovisive
In anteprima internazionale al 73. Trento Film Festival AL CINEMA DAL 5 MAGGIO, distribuito da OpenDDB
TUTTE LE DATE DEL TOUR IN SALA IN AGGIORNAMENTO SU: https://openddb.it/film/il-codice-del-bosco/
il poster del film
In una valle messa sottosopra dall’uragano Vaia e lentamente divorata da un insetto che lascia tracce simili a geroglifici, due scienziati non convenzionali esplorano il codice segreto del bosco ferito.
Nel cuore di una foresta devastata, tra tronchi abbattuti e radici scoperte, due scienziati visionari cercano un nuovo modo di dialogare con la natura: Alessandro Chiolerio, fisico che a tratti sembra un alchimista, che usa tecnologia e biologia per captare segnali elettrici dalle piante, e Monica Gagliano, ecologa visionaria che sfida la scienza moderna con i lavori su comunicazione e intelligenza delle piante, portano avanti i loro esperimenti nei luoghi dove all’uragano Vaia è seguita l’epidemia di bostrico.
Crediti per la foto: Simone Cargnone
Crediti per la foto: Simone Cargnone
“Il Codice del bosco”, un film di Alessandro Bernard e Paolo Ceretto, li ha seguiti nelle loro scoperte: il documentario sarà in anteprima assoluta al 73. Trento Film Festival, in programma nella sezione Proiezioni Speciali, in sala giovedì 1° maggio alle 18.45 (Cinema Modena). Il film sarà poi al cinema in tour dal 5 maggio. Prodotto da Zenit Arti Audiovisive in collaborazione con MIC e Film Commission Torino Piemonte, il film è distribuito in Italia da OpenDDB.
Tra l’ottobre e il novembre 2018 una forte tempesta si è abbattuta sul nord-est italiano: l’uragano Vaia ha colpito come mai prima l’ambiente delle Dolomiti e delle Prealpi Venete, le stime contano l’abbattimento di circa 14 mila alberi. Questo disastro ha reso possibile il diffondersi del bostrico, un minuscolo insetto che si nutre dell’abbondante quantità di alberi abbattuti, che ha moltiplicato la sua azione anche sugli abeti del bosco: in seguito alla particolare siccità e allo stress di piogge della stagioni del 2022, oggi è presente un’epidemia di bostrico, che minaccia tutta la foresta, a sei anni dalla tempesta.
Proprio in Val di Fiemme, a Costa Bocche (Paneveggio, TN), i due scienziati si incontrano per provare a entrare in contatto con il bosco, tra tronchi spezzati e radici capovolte, dove avanza inesorabile il minuscolo ospite a vista d’occhio, flagello degli alberi, che incide sotto la corteccia intricati segni come geroglifici da decifrare. Un linguaggio sconosciuto che sembra alludere a un mistero ancora da svelare. Tra nuove ipotesi scientifiche, antichi saperi e connessioni invisibili da esplorare, il film ci porta in un viaggio affascinante alla ricerca di un nuovo modo di vedere e vivere il nostro rapporto con la natura. Un racconto che intreccia scienza, tecnologia e mito, in cui il bosco si manifesta come un’entità viva, abitata da un genius loci con cui imparare a dialogare. La camera da presa incontra quindi diverse vedute della scienza, sguardi attenti e volontà di ascoltare, al fianco dei due ricercatori, tra il sapere locale e la pazienza della scoperta, che infine arriva – quasi inaspettata – rivelando la voce del bosco.
Alessandro Chiolerio è un fisico noto per il suo lavoro pionieristico e il suo approccio interdisciplinare tra fisica, nanotecnologie, elettronica e biologia (da Torino a Pasadena con la Nasa, fino al Max Planck Institute in Germania): oltre alla robotica bioispirata, il suo lavoro ha aperto una nuova frontiera nello studio della cibernetica della natura. Ha installato nel bosco i Cybertree, dispositivi da lui inventati, una chimera che unisce tecnologia e biologia per captare i segnali elettrici delle piante. Con lui c’è Monica Gagliano, scienziata di fama internazionale (ascoltata dai più importanti istituti e media mondiali), che ha esplorato le saggezze indigene del mondo, dalla selva amazzonica al bush australiano, apprendendo che la natura parla se la si sa ascoltare. Ha così aperto la strada al nuovissimo campo di ricerca della bioacustica delle piante, dimostrando per la prima volta sperimentalmente che le piante emettono le proprie “voci” e rilevano e rispondono ai suoni del loro ambiente, estendendo a queste il concetto di cognizione (inclusi percezione, processi di apprendimento, memoria).
“C’era un tempo in cui l’uomo guardava alla natura con rispetto e meraviglia. Boschi, fiumi e montagne erano visti come luoghi abitati da presenze invisibili, forze con cui bisognava entrare in sintonia prima di insediarsi, coltivare la terra o costruire un tempio. Un tempo in cui ci si poneva in rispettoso ascolto del “genius loci”. Oggi, invece, abbiamo smesso di ascoltare. – si legge le note di regia degli autori – Quello che doveva essere il resoconto lineare di un esperimento è diventata un’esperienza inattesa condivisa con gli scienziati, che ci ha rivelato il vero cuore del processo scientifico: un viaggio fatto di ipotesi, errori e scoperte, dove pianificazione e imprevisti si intrecciano. Lontana dall’essere un insieme di certezze, la scienza che ci affascina davvero è viva, una lente che allarga il nostro sguardo, apre nuove domande e ci spinge a ripensare il mondo. Oggi si parla molto di Intelligenza Artificiale, ma forse abbiamo bisogno prima di tutto di riconnetterci con un’altra intelligenza: quella della natura. Serve un cambio di prospettiva, una nuova rivoluzione copernicana che ci aiuti ad abbandonare l’idea di essere il centro del mondo, per riconoscerci parte di un ecosistema più grande, abitato da specie che esistevano prima di noi, hanno sperimentato l’evoluzione molto più a lungo e forse hanno qualcosa da insegnarci.”
Dal 2006, Alessandro Bernard scrive e dirige film documentari, lavorando anche come autore di progetti transmediali e podcast. Paolo Ceretto è filmmaker, autore e regista di documentari, e dal 2016 insegna sceneggiatura e regia presso lo IED, Istituto Europeo di Design di Torino. Insieme hanno co-diretto Wastemandala (2015), Quando Olivetti inventò il pc (2011) e Space Hackers (52’, 2006).
LE DATE – IN AGGIORNAMENTO: https://openddb.it/film/il-codice-del-bosco/
Lunedì 5 maggio
TORINO – ore 20.30, Cinema Massimo di Torino – alla presenza degli autori
FELTRE – ore 20, Cinema Teatro Officinema
Martedì 6 maggio
TORINO – ore 18, Cinema Massimo
FELTRE – ore 21, Cinema Teatro Officinema
Mercoledì 7 maggio
TORINO – ore 16, Cinema Massimo Torino – alla presenza di uno dei due autori
ore 21, Cinema Fratelli Marx – alla presenza degli autori
Giovedì 8 maggio
BOLOGNA – ore 21.30 Cinema Galliera – alla presenza di Alessandro Bernard
Venerdì 9 maggio
FIRENZE – ore 21, Cinema Astra – alla presenza di Alessandro Bernard
TORINO – ore 18.45, Cinema Fratelli Marx
Domenica 11 maggio
FIRENZE – ore 18, Cinema Astra
Lunedì 12 maggio
TORINO – ore 19, Cinema Fratelli Marx
CESENA – ore 21, Cinema Eliseo – collegamento di Paolo Ceretto
CUNEO – ore 21, Cinema Monviso – collegamento con uno dei registi
Martedì 13 maggio
MODENA – ore 21, Sala Truffaut – collegamento di Paolo Ceretto
BOLOGNA – ore 19, Cinema Galliera Bologna
Giovedì 14 maggio
CUNEO – ore 21, Cinema Monviso – collegamento con uno dei registi
Venerdì 30 maggio
ASTI – ore 21, Sala Pastrone
Testo, video e immagini dall’Ufficio stampa OpenDDB. Aggiornato il 30 aprile 2025.
Cambiamento climatico: rondini più piccole ma non per selezione naturale
Un gruppo di ricercatori dell’Università di Milano ha esaminato le dimensioni corporee di 9000 rondini nidificanti in Pianura Padana dal 1993 al 2023, evidenziando una riduzione della massa corporea e della lunghezza di ali e sterno negli ultimi anni. Lo studio, pubblicato su Journal of Animal Ecology, ipotizza come causa di questa alterazione i cambiamenti ambientali.
Milano, 3 aprile 2025 – Più piccole e forse più a rischio. Con l’aumento delle temperature, la dimensione delle rondini è diminuita. Tuttavia, non si tratta di un adattamento evolutivo che garantirebbe un miglior adattamento al clima sempre più caldo in cui si riproducono, mapotrebbe essere una conseguenza di condizioni ambientali peggiorate e compromettere la loro sopravvivenza a lungo termine.
È questa la conclusione a cui è giunto un team di ricercatori del Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università degli Studi di Milano e pubblicato su Journal of Animal Ecology.
La ricerca, condotta sulla popolazione italiana di rondini (Hirundo rustica) nidificanti in Pianura Padana nell’arco di 31 anni (1993-2023) ha evidenziato come in questi decenni si sia verificato un calo significativo nella massa corporea, nella lunghezza dello sterno e delle ali, mentre il becco e le zampe non hanno subito variazioni altrettanto evidenti.
Iricercatori si sono quindi domandati se questa alterazione fosse dovuta a un adattamento evolutivo o se la causa risiedesse in altro. Da un lato, questo cambiamento è in linea con le regole ecogeografiche di Bergmann (dal biologo tedesco Christian Bergmann) e di Allen (Joel Asaph Allen, zoologo e ornitologo statunitense) che mettono in relazione le dimensioni degli animali e delle loro appendici (ad esempio code, zampe, orecchie, becchi) con le condizioni termiche dell’ambiente in cui vivono: nelle regioni calde sono più comuni animali di piccole dimensioni (regola di Bergmann) con appendici corporee estese (regola di Allen), rispetto agli ecosistemi freddi. Gli animali di taglia piccola hanno infatti un rapporto tra superficie e volume maggiore rispetto agli animali più grossi. Questa caratteristica, amplificata dalla presenza di appendici corporee estese, consente una più efficiente dissipazione del calore, un chiaro vantaggio per gli organismi che vivono in ambienti caldi. Il rimpicciolimento del corpo delle rondini, unito alla minima variazione di becco e zampe, sembrerebbe quindi coerente con un adattamento evolutivo all’aumento delle temperature primaverili-estive verificatesi nell’area di studio.
Tuttavia, analizzando i dati relativi all’intera vita di quasi 9000 individui diversi (catturati e misurati in anni successivi), i risultati hanno mostrato che la selezione naturale non favorisce gli individui più piccoli, né in termini di sopravvivenza annuale né di numero di figli prodotti in ciascuna stagione riproduttiva. Al contrario, gli individui più grandi sembrano godere di un vantaggio riproduttivo maggiore, contraddicendo l’idea che la selezione favorisca una riduzione delle dimensioni corporee.
“È pertanto probabile che tale fenomeno sia dovuto a una risposta fenotipica plastica (ovvero non causata da cambiamenti genetici come avverrebbe nel caso in cui si trattasse di un processo evolutivo) forse mediata dal deterioramento delle condizioni ecologiche nei luoghi di riproduzione e/o di svernamento, piuttosto che a una selezione naturale diretta verso individui più piccoli” spiega Andrea Romano, professore associato presso il Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università degli Studi di Milano e primo firmatario dello studio.
I ricercatori sono quindi giunti all’ipotesi che i cambiamenti ambientali,come la diminuzione delle risorse alimentari e l’aumento delle temperature estive durante lo sviluppo dei pulcini,possano influenzare significativamente la morfologia delle rondini. Questa ipotesi troverebbe riscontro in altri studi recenti su diverse specie, che mostrano come un aumento significativo della temperatura nel nido porti a dimensioni corporee minori e becchi relativamente più grandi, senza però migliorare la sopravvivenza.
“Questi risultati sollevano interrogativi sulla capacità delle specie migratrici di adattarsi ai cambiamenti climatici. Se la diminuzione è una risposta plastica a condizioni ambientali peggiorate, la sopravvivenza a lungo termine delle rondini potrebbe essere compromessa. Lo studio invita quindi alla cautela nell’interpretare sistematicamente la riduzione delle dimensioni corporee degli animali come un adattamento evolutivo al riscaldamento globale. In generale, questi risultati sottolineano l’importanza di monitorare le risposte delle specie ai cambiamenti climatici e di considerare più fattori ambientali quando si analizzano le variazioni fenotipiche nel tempo” conclude Romano.
Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano
Nuovo censimento della flora delle Alpi apuane: segnalate 3 nuove specie per la Toscana e 141 a rischio estinzione
Il lavoro firmato dal professor Lorenzo Peruzzi dell’Università di Pisa.
Tre nuove specie segnalate per la Toscana e 141 inserite nella “Lista Rossa Nazionale” delle piante a rischio di estinzione, il dato emerge dall’ultimo censimento della flora delle Alpi apuane realizzato dal professore Lorenzo Peruzzi del Dipartimento di Biologia e Direttore dell’Orto e Museo Botanico dell’Università di Pisa.
Saxifraga caesia
Allium ochroleucum
Cirsium acaulon
Gentianella campestris
Gentianopsis ciliata
Globularia bisnagarica
Rhinanthus apuanus
Athamanta cortiana
Pinguicula mariae
Il lavoro, pubblicato nella rivista Italian Botanist, ha documentato un totale di 1987 tra specie e sottospecie, di cui 130 aliene, in un’area ampia 1056 km². Le nuove specie sono: le native Vulneraria piccolina (Anthyllis vulneraria subsp. pulchella) e Pigamo dei sassi (Thalictrum minus subsp. saxatile) e l’esotica casuale Fior di pesco (Chaenomeles speciosa). Fra quelle a rischio estinzione si segnalano le tre specie gravemente minacciate: l’Atamanta di Corti (Athamanta cortiana), un’ombrellifera endemica apuana che vive esclusivamente su rupi di marmo, fiorendo raramente; l’Erba-unta di Maria (Pinguicula mariae), una graziosa pianta carnivora endemica apuana, dedicata alla studiosa Maria Ansaldi, scomparsa prematuramente nel 2013; la Felcetta atlantica (Vandenboschia speciosa), rara felce presente in Italia solo sulle Alpi Apuane, rappresentata anche nel logo del Parco Regionale delle Alpi Apuane.
Nel territorio sono inoltre presenti 93 specie endemiche italiane, cioè che esistono in tutto il mondo solo in Italia, di cui 30 endemiche delle Alpi Apuane.
“La flora delle Alpi Apuane è particolarmente ricca, al di sopra dell’atteso per un’area di quell’ampiezza per quanto riguarda il numero di specie autoctone, ma fortunatamente anche al di sotto dell’atteso per il numero di specie aliene – afferma Lorenzo Peruzzi – In particolare, la maggiore ricchezza floristica si concentra sulle colline e montagne al di sopra delle città di Massa e di Carrara, che purtroppo però sono anche le zone maggiormente impattate dalle cave di marmo”.
Lo studio aggiorna alcuni censimenti realizzati in passato. Le Alpi Apuane, per le loro peculiarità geomorfologiche e biogeografiche, hanno infatti da sempre attratto l’interesse dei botanici. Un primo elenco completo di tutte le felci, conifere e piante a fiore di quest’area fu pubblicata da Pietro Pellegrini nel 1942, aggiornato poi da Erminio Ferrarini tra il 1994 e il 2000. In entrambi i casi, però, gli elenchi floristici ricavati erano relativi a un territorio diverso e più ampio, per cui un vero e proprio elenco floristico aggiornato e mirato alle sole Alpi Apuane ancora non esisteva.
“Per dare un’idea della mole del lavoro svolto, basti pensare che l’elenco completo della flora che abbiamo reso disponibile come appendice all’articolo è di ben 936 pagine – racconta Peruzzi – ha collaborato all’opera Brunello Pierini, appassionato esperto di botanica, ben esemplificando l’importanza della cosiddetta Citizen Science in questo tipo di studi”.
“Le Alpi Apuane sono obiettivamente ricche – conclude Lorenzo Peruzzi – non resta che auspicare, quindi, una adeguata tutela di questo eccezionale territorio, un vero e proprio gioiello dal punto di vista botanico in particolare e naturalistico in generale”.
Il lavoro fa parte delle attività di ricerca svolte nell’ambito del progetto 3P_earthBIODIV, un importante finanziamento alla ricerca di base ottenuto dal nostro ateneo nell’ambito di un bando a cascata del National Biodiversity Future Center. Il progetto, che vede fortemente impegnato il gruppo di ricerca PLANTSEED Lab dell’Università di Pisa per tutto il 2025, prevede l’esplorazione di territori poco conosciuti o con flore mancanti o non aggiornate e uno studio tassonomico integrato di gruppi critici della flora italiana, con particolare attenzione alla componente endemica.
Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.
Tumori: per il 2025 si stima una diminuzione dei tassi di mortalità.
Per il cancro alla mammella è previsto un calo generale, ma un aumento tra le pazienti più anziane
Le previsioni dei decessi per tumori indicano una diminuzione dei tassi di mortalità del 3,5% circa nell’Unione Europea negli uomini e dell’1,2% nelle donne. Un andamento positivo è stimato anche per il tumore della mammella, tranne nelle donne ultraottantenni, probabilmente per mancanza di screening regolari, diagnosi tempestive e utilizzo di terapie innovative.I risultati dello studio, coordinato dall’Università degli Studi di Milano in collaborazione con l’Università di Bologna e sostenuto dalla Fondazione AIRC, sono stati pubblicati sulla rivista “Annals of Oncology”.
Milano, 12 marzo 2025 – Nel 2025 i tassi di mortalità per tumore della mammella dovrebbero diminuire in tutte le fasce d’età nell’Unione Europea (UE), a eccezione delle pazienti ultraottantenni. Per queste ultime si prevede infatti un aumento del 7% circa rispetto ai tassi osservati nel periodo 2015-2019.
Questi risultati provengono da uno studio in cui si sono stimati i tassi di mortalità per tumore nell’UE [1] e nel Regno Unito per il 2025. I risultati dello studio, condotto da ricercatori dell’Università degli Studi di Milano in collaborazione con l’Università di Bologna, sono stati pubblicati oggi sulla rivista Annals of Oncology[2].
Gli epidemiologi coordinati da Carlo La Vecchia, professore di statistica medica ed epidemiologia all’Università Statale di Milano, ritengono che un motivo per l’aumento dei tassi di mortalità per tumore della mammella tra le pazienti più anzianenell’UE possa essere dovuto alla mancanza di screening regolari e di diagnosi tempestiveper le donne ultraottantenni, che hanno anche minore probabilità di ricevere i trattamenti più innovativi.
“Le donne anziane non sono incluse nei programmi di screening e probabilmente, rispetto alle donne più giovani, hanno minore giovamento dagli importanti progressi nella diagnosi e nella gestione del tumore della mammella, compresi i miglioramenti nella chemioterapia, nella terapia ormonale e nell’immunoterapia che include il trastuzumab e i farmaci similari, ma anche nella radioterapia e nella chirurgia” ha dichiarato La Vecchia.
L’aumento della prevalenza di sovrappeso e obesità osservato negli ultimi decenni nella maggior parte dell’Europa settentrionale e centrale ha portato a un aumento del rischio di tumore della mammella. Questo fenomeno, però, non è stato controbilanciato da un miglioramento della diagnosi e della gestione della malattia nelle donne anziane e, di conseguenza, potrebbe spiegare l’aumento della mortalità stimato.
Il gruppo di ricercatori prevede una diminuzione dei tassi di mortalità per tumore della mammella a tutte le età pari al 3,6% nell’UE e allo 0,8%in Italia nel 2025 rispetto al 2020. Il tasso di mortalità standardizzato per età è 13,3 per 100.000 donne nell’UE (per un totale di 90.100 decessi) e di 14,0 per 100.000 donne in Italia (per un totale di 13.660 decessi).
“Stimiamo che tra il 1989 e il 2025 siano stati evitati 373.000 decessi per tumore della mammella nell’UE. La maggior parte di questi decessi evitati è dovuta al miglioramento della gestione della malattia e all’introduzione di innovazioni terapeutiche, ma il 25-30% è probabilmente attribuibile auna maggiore diffusione della diagnosi precoce e del programma di screening. Poiché oggi il tumore della mammella può essere curato efficacemente grazie ad approcci innovativi, è essenziale che tutte le pazienti alle quali viene diagnosticato vengano indirizzate a centri oncologici in grado di offrire tutte le terapie necessarie. Inoltre, come indicato dagli andamenti sfavorevoli per le donne ultraottantenni, il controllo del sovrappeso e dell’obesità rimane una priorità, non solo per le malattie cardiovascolari, ma anche per i tumori, compreso il quello della mammella” ha aggiunto il professor La Vecchia.
I ricercatori hanno analizzato, per il quindicesimo anno consecutivo, i tassi di mortalità per tumore nell’UE [3] e nel Regno Unito, esaminando separatamente i tassi di mortalità per tumore dello stomaco, colon-retto, pancreas, polmone, mammella, utero (compresa la cervice), ovaio, prostata e vescica, nonché i tassi di mortalità per leucemie, per entrambi i sessi [4]. Sono stati raccolti i dati di mortalità dai database dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e delle Nazioni Unite, relativi al periodo 1970-2020. Tali stime si sono dimostrate affidabili nel corso degli anni.
Tutti i tumori:
Nei Paesi dell’UE si prevede un calo del 3,5% circa dei tassi di mortalità per tutti i tumori: si passerà da 125/100.000 nel 2020 a 121/100.000 nel 2025 per gli uomini, e da 80/100.000 a 79/100.000 per le donne. In totale si stima che nel 2025 circa 1.280.000 persone moriranno di tumore nell’UE e circa 176.000 in Italia. In Italia il tasso di mortalità per tutti i tumori diminuirà per gli uomini, passando da 112 nel 2020 a 96/100.000 nel 2025, e per le donne, passando da 75 a 71/100.000.
Secondo le stime dei ricercatori, dal 1988 al 2025 nell’UE si sono evitati 6,8 milioni di decessi per tutti i tipi di tumore (4,7 milioni negli uomini e 2,1 milioni nelle donne), ipotizzando che i tassi di mortalità rimanessero costanti rispetto a quelli del 1988.
Tuttavia, a causa del crescente numero di anziani nella popolazione, il numero di decessi per tumore aumenterà da 671.963 nel 2020 a 709.400 nel 2025 tra gli uomini nell’UE e da 537.866 a 570.500 tra le donne. In Italia, invece, il numero di decessi passerà da 97.866 a 94.740 per gli uomini e da 79.991 a 81.740 per le donne.
Si prevede che i tassi di mortalità perla maggior parte dei tumori diminuiranno quest’anno nell’UE, a eccezione del tumore del pancreas, che mostrerà un aumento del 2% negli uomini e del 3% nelle donne. Per le donne si prevede un aumento del 4% del tumore del polmone e del 2% del tumore della vescica.
In Italia gli unici tassi di mortalità previsti in lieve aumento sono quelli per il tumore del pancreas e della vescica nelle donne. I tassi di mortalità per tutti gli altri tipi di tumore sono in calo per entrambi i sessi.
“Il fumo rimane di gran lunga la principale causa nota di tumore del pancreas, causando dal 20 al 35% dei casi in varie fasce di età, a seconda delle diverse abitudini di fumo. Il diabete, il sovrappeso che portano allo sviluppo della sindrome metabolica sono responsabili di circa il 5% dei tumori al pancreas in Europa. Questo aspetto sta diventando sempre più importante a causa della crescente prevalenza dell’obesità, ma il controllo e la prevenzione del fumo rimangono la priorità per il controllo anche del tumore del pancreas” ha spiegato la professoressa Eva Negri, docente di epidemiologia ambientale e medicina del lavoro dell’Università di Bologna e co-leader della ricerca.
Il tumore del polmonerappresenta la principale causa di morte per tumore tra gli uomini nell’UE (151.000 casi) e in Italia (19.600 casi). Nel nostro Paese il tumore della mammella è la prima causa di morte per cancro fra le donne italiane (13.660 casi). Anche nell’UE, il tumore della mammella rappresenta la principale causa di morte per tumore tra le donne; tuttavia, si stima che il tasso di mortalità per il tumore del polmone supererà quello della mammella nel 2025. Infatti, l’andamento della mortalità per tumore del polmone è ancora in aumento tra le donne (+3,8% rispetto al 2020).
Conclude Carlo La Vecchia: “Gli andamenti di mortalità per tumore continuano a essere favorevoli in tutta Europa. Tuttavia vi sono anche aspetti negativi: uno di questi sono i decessi per tumore del colon-retto nelle persone di età inferiore ai 50 anni, che hanno iniziato ad aumentare nel Regno Unito e in diversi Paesi dell’Europa centrale e settentrionale, a causa dell’aumento della prevalenza del sovrappeso e dell’obesità nei giovani che, per età, non sono coperti dallo screening del tumore colorettale. Inoltre i tassi di mortalità per il tumore del pancreas non sono in diminuzione nell’UE ed è ora la quarta causa di morte per tumore dopo il cancro del polmone, del colon-retto e della mammella. I tassi di mortalità per tumore del polmone stanno iniziando a stabilizzarsi, ma non ancora a diminuire nelle donne dell’UE. Le tendenze del tumore del pancreas e del polmone nelle donne sottolineano l’urgenza di attuare un controllo ancora più rigoroso del tabacco in tutta Europa”.
Il progetto è stato sostenuto dalla Fondazione AIRC; Claudia Santucci e Carlo La Vecchia hanno ricevuto sostegno dall’iniziativa Next Generation EU-MUR PNRR Extended Partnership Inf-Act.
NOTE
[1] Al momento di questa analisi, l’UE contava 27 Stati membri, con l’uscita del Regno Unito nel 2020. Cipro è stato escluso dall’analisi perché non erano disponibili sufficienti dati a lungo termine, necessari per prevedere le tendenze, soprattutto nei piccoli Paesi. Tutti gli altri Paesi avevano dati che risalivano almeno al 1970.
[2] “European cancer mortality predictions for the year 2025 with focus on breast cancer”, by C. Santucci et al. Annals of Oncology, doi: 10.1016/j.annonc.2025.01.014.
[3] I tassi standardizzati per età per 100.000 abitanti riflettono la probabilità annuale di morire aggiustata per riflettere la distribuzione per età di una popolazione.
[4] Il documento contiene tabelle individuali dei tassi di mortalità per tumore per ciascuno dei sei massimi Paesi Europei.
Tumori: per il 2025 si stima una diminuzione dei tassi di mortalità. Foto di Konstantin Kolosov
Testo dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano e dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Bologna.
Gestione delle specie aliene, l’approccio italiano che piace anche alla comunità europea
La professoressa Iduna Arduini dell’Università di Pisa nel team che ha sviluppato la nuova metodologia
È tutto italiano il nuovo approccio per gestire l’invasione delle piante aliene recentemente segnalato anche sul sito web della Commissione Europea (section Energy, Climate change, Environment).
La ricerca pubblicata sulla rivista Ecological Indicatorsè stata condotta da un gruppo interdisciplinare di esperti provenienti da diverse istituzioni accademiche e centri di ricerca italiani. Per l’Università di Pisa ha partecipato la professoressa Iduna Arduini, botanica del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientaliche ha contribuito principalmente attraverso la raccolta e l’analisi dei dati sulle specie vegetali invasive.
Usando l’Italia come caso di studio, scienziati e scienziate hanno esaminato la diffusione attuale e futura di 34 piante invasive, integrando modelli predittivi climatici con dati reali di distribuzione. Sulla base dei risultati ottenuti, le piante sono state assegnate a tre categorie di gestione: eradicazione (per specie con alto rischio di invasione, ma ancora in fase iniziale), controllo e contenimento (per specie già diffuse, ma ancora gestibili) e monitoraggio, per specie già ampiamente diffuse o con impatti incerti. Grazie a questa metodologia sarà quindi possibile un approccio più efficace nella lotta alle piante invasive, prevenendo danni ambientali e ottimizzando l’uso delle risorse.
“Fortunatamente, non tutte le specie aliene diventano invasive – spiega Arduini – Ad esempio, delle 1597 specie vegetali aliene censite in Italia, soltanto il 14% circa ha manifestato un comportamento invasivo. Diventa perciò di cruciale importanza individuare quelle su cui indirizzare le azioni di eradicazione, controllo o semplice monitoraggio. Gli interventi di eradicazione sono raccomandati per le specie potenzialmente invasive ma non ancora ampiamente diffuse. Tra queste compaiono Nelumbo nucifera (fior di loto) e Phyllostachys aurea (bambù dorato) entrambe specie ornamentali il cui rilascio nell’ambiente deve essere assolutamente evitato sia sotto forma di semi che frammenti”.
Gestione delle specie aliene, l’approccio italiano che piace anche alla comunità europea; la ricerca pubblicata sulla rivista Ecological Indicators. Iduna Arduini
Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.
FARMACI ONCOLOGICI: PERCHÉ EUROPA E STATI UNITI D’AMERICA PRENDONO DECISIONI DIVERSE?
Uno studio dell’Università di Torino evidenzia le discrepanze tra le due principali agenzie regolatorie nell’approvazione dei medicinali per il cancro.
La sicurezza dei medicinali è garantita da un’attenta analisi dei dati da parte delle Agenzie Regolatorie. Solo dopo la revisione approfondita dei dati derivanti dagli studi clinici, i farmaci possono essere messi a disposizione dei pazienti. Negli Stati Uniti, questa funzione è svolta dalla FDA, mentre in Europa è di competenza dell’EMA. Tuttavia, lo sviluppo di un farmaco è ormai globale e le diverse Agenzie Regolatorie valutano gli stessi studi clinici, sebbene possano arrivare a conclusioni differenti.
“Ci saremmo aspettati che le due agenzie più importanti del mondo, considerando gli stessi dati, arrivassero alle stesse conclusioni” – spiega Gianluca Miglio, professore di farmacologia all’Università di Torino – “ed invece oltre la metà dei farmaci è approvata per popolazioni leggermente diverse. In altre parole, vi sono pazienti dai due lati dell’Atlantico che hanno o non hanno accesso ad un dato medicinale a seconda della zona geografica in cui vivono”.
Nella ricerca sono state analizzate 162 indicazioni terapeutiche di 80 medicinali per tumori solidi e tumori del sangue autorizzate dall’EMA tra gennaio 2015 e settembre 2022 con le corrispondenti indicazioni approvate dalla FDA. Sono state identificate discrepanze clinicamente rilevanti per il 51,9% delle indicazioni valutate. Le differenze riguardano la collocazione nella terapia, la necessità che i pazienti siano refrattari a terapie precedenti, i requisiti di eleggibilità dei biomarcatori, i trattamenti concomitanti o le caratteristiche dei pazienti.
“Il nostro lavoro non è disegnato per definire quali delle due agenzie sia la migliore, sono entrambe eccezionali” – sottolinea Armando Genazzani, anche lui docente dell’Università di Torino, con esperienze sia in EMA che nell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) – “ma evidenziare quanto sia difficile prendere delle decisioni che impattano su milioni di malati in presenza di incertezze. Da un lato le agenzie mirano a concedere l’accesso del farmaco al maggior numero di persone possibile, e dall’altro, invece, devono essere sufficientemente sicure che per tutti i malati per i quali il farmaco è indicato vi è una ragionevole certezza di efficacia e sicurezza. Quello che cambia tra le due agenzie è il diverso bilanciamento tra questi due obiettivi”.
Le differenze osservate sono sottili, e derivano principalmente dalle discrepanze legislative e dalla differente inclinazione a estrapolare i dati in popolazioni non studiate direttamente nei trial clinici.
“Le ragioni per le differenze osservate sono molteplici così come lo sono le implicazioni” – continua Genazzani – “La nostra analisi sembra suggerire che l’FDA sia più incline ad allargare il bacino dei pazienti che potenzialmente potrebbero beneficiare del farmaco, mentre l’EMA è più conservativa e maggiormente incline a riservare il farmaco ai pazienti per i quali vi è una dimostrazione chiara. Questo vuol dire che i pazienti americani hanno più opportunità terapeutiche mentre i pazienti Europei hanno maggiori certezze sui farmaci che assumono”.
Con questo studio dell’Università di Torino mira a fornire un contributo fondamentale alla comprensione delle dinamiche di approvazione dei farmaci oncologici a livello internazionale, evidenziando il delicato equilibrio tra accesso alle terapie e sicurezza dei pazienti.
Riferimenti bibliografici:
Perini, Martina et al., Differences in the on-label cancer indications of medicinal products between Europe and the USA, The Lancet Oncology, Volume 26, Issue 2, e103 – e110, DOI: https://doi.org/10.1016/S1470-2045(24)00434-0
Farmaci oncologici: perché Europa e Stati Uniti d’America prendono decisioni diverse? Lo studio è stato pubblicato su The Lancet Oncology. Foto di StockSnap
Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino
“LA SFIDA DELLA RESPONSABILITÀ SOCIALE D’IMPRESA – OLTRE L’INDIFFERENZA”: UN CONTRIBUTO DI PAOLO D’ANSELMI SUL RUOLO DELLA CONCORRENZA NELLA GOVERNANCE ECONOMICA
La responsabilità sociale d’impresa non è una questione di mera reputazione, né un concetto riservato alle élite manageriali. Riguarda l’intero sistema economico e produttivo, dal settore pubblico al privato, e incide direttamente sull’efficienza e sulla sostenibilità delle organizzazioni. Il lavoro, se sottratto alla concorrenza, rischia di generare inefficienze, perdita di accountability e, in ultima analisi, una stagnazione economica che frena l’innovazione e la crescita.
Partendo da questa premessa, Paolo D’Anselmi presenta la seconda edizione del suo saggio Il barbiere di Stalin, ora rieditato con il titolo La sfida della responsabilità sociale d’impresa – Oltre l’indifferenza, pubblicato da Cacucci Editore. Il volume propone un’analisi critica delle dinamiche di governance nel settore pubblico e privato, esplorando i meccanismi che determinano la qualità e l’efficacia della gestione delle organizzazioni. D’Anselmi mette in discussione il paradigma dell’impresa e dell’amministrazione pubblica come entità distinte, sottolineando come la responsabilità sia distribuita tra tutti gli attori del sistema economico.
Il testo affronta le distorsioni del mercato e della regolazione attraverso cinque settori chiave: monopoli nazionali, grandi e piccole imprese, amministrazione pubblica, politica e non-profit. Grazie ai contributi di Simona Argentieri, Alessandro Ferrara, Antonella Gargano, Toni Muzi Falconi e Rossella Sobrero, il libro offre una prospettiva multidisciplinare sui fattori che influenzano la competitività e la sostenibilità economica.
La sfida della responsabilità sociale d’impresa – Oltre l’indifferenza, saggio di Paolo D’Anselmi con contributi di Simona Argentieri, Alessandro Ferrara, Antonella Gargano, Toni Muzi Falconi e Rossella Sobrero, pubblicato da Cacucci Editore (2024)
Uno dei concetti centrali del volume è la metafora del barbiere di Stalin: l’idea che ogni individuo, anche senza un ruolo decisionale esplicito, contribuisca al funzionamento del sistema, spesso senza sentirsi responsabile delle sue conseguenze. Solo la concorrenza e la trasparenza possono disciplinare questi comportamenti e garantire una maggiore accountability.
Un caso emblematico è quello della sanità pubblica, un settore che incide significativamente sui bilanci regionali ma che spesso opera senza un’effettiva misurazione della produttività. D’Anselmi osserva:
“La sanità è il tema principe delle regioni d’Italia. Si dice: ‘ci sono le file d’attesa, occorre aumentare i soldi’, senza un reporting sulla produzione che c’è già. Ma quante visite si fanno ogni anno? E cosa ci dice il confronto fra le 225 Asl e ospedali d’Italia: hanno tutte le Asl la stessa produttività e sono virtuose? Cosa vuol dire quando al CUP ti dicono ‘non sono aperte le agende?’ Uno si chiede quante visite per specialista prevedono queste agende. Parliamo di produttività stagnante senza chiederci quale sia la produttività dei 100.000 dirigenti medici del Servizio Sanitario Nazionale. E in Puglia, ne possiamo sapere di più? Il consiglio che si può dare ai cittadini è di prenotare comunque presso la Asl: la visita prenotata servirà per il controllo nel tempo, anche se nella urgenza si è ricorso alla visita a pagamento”.
D’Anselmi, economista e consulente con una lunga esperienza nella governance e nelle politiche pubbliche, propone un modello di valutazione basato sulla competizione e sulla misurabilità della performance. L’obiettivo è quello di superare la retorica della responsabilità sociale come strumento di marketing e trasformarla in un reale driver di efficienza. Nel Capitolo 9, ‘La ricchezza delle nozioni’, Paolo D’Anselmi sottolinea il ruolo cruciale dei manager nella rendicontazione della responsabilità sociale d’impresa, evidenziando la mancanza di un modello univoco e standardizzato per misurare l’impatto sociale delle organizzazioni. L’autore critica l’approccio frammentario che caratterizza la CSR, spesso relegata a esercizi di comunicazione piuttosto che a un vero strumento di governance. Per i manager, questa lacuna rappresenta una sfida ma anche un’opportunità: solo attraverso un reporting trasparente e rigoroso è possibile integrare la responsabilità sociale nei processi decisionali, trasformandola da mero adempimento formale a leva strategica per la competitività e la sostenibilità aziendale.
“Dal profondo a me grido, signore: questo libro è l’urlo di attaccamento di chi è vissuto tutta la vita in un paese in crisi. Paese fondatore e tuttavia fanalino di coda della Unione Europea. Messico d’Europa. Il libro risolve il problema del declino e affronta la dicotomia ‘Coca Cola o Putin?’ Tuttavia resta la sensazione di cadere dalla padella delle ‘cose fatte all’italiana’, per dire cose fatte male, nella brace della retorica di Tolkien che forse non basterà a migliorare la nostra nazione”.
Paolo D’Anselmi
Biografia dell’autore
Paolo D’Anselmi è insegnante e consulente di management. Ha lavorato per McKinsey e ha fondato Guidazzurra per la Pubblica Amministrazione. Autore di saggi sulla governance e sulla responsabilità sociale, ha pubblicato Unknown Values and Stakeholders (Palgrave Macmillan, 2011 e 2017) e SMEs as the Unknown Stakeholder (Palgrave, 2013). Ingegnere, ha studiato alla Sapienza di Roma e alla Harvard Kennedy School. Attualmente è impegnato in ricerche sulla pubblica amministrazione e sulla misurazione della performance nel settore pubblico.
Il libro è in vendita nelle migliori librerie, sul sito di Cacucci Editore (www.cacuccieditore.it) e sui principali book store digitali.
L’Eruzione di Maddaloni: scoperta una delle eruzioni più potenti della storia dei Campi Flegrei
Risale a oltre centomila anni fa una delle eruzioni più significative in quest’area. A rivelarlo, uno studio congiunto CNR-IGAG, Sapienza Università di Roma, INGV e Università Aldo Moro di Bari, pubblicato sulla rivista scientificaCommunications Earth and Environment di Nature. La conoscenza approfondita della storia eruttiva di questa regione potrà migliorare la valutazione dei rischi vulcanici associati alla zona.
I Campi Flegrei sono un complesso vulcanico attivo, circondato da aree urbane ad alto rischio. Tra i più studiati al mondo, la loro storia eruttiva è ben documentata solo negli ultimi 40.000 anni. Un nuovo studio rivela che, 109.000 anni fa, si verificò un’eruzione di magnitudo simile all’’Ignimbrite Campana’, la più grande eruzione dell’area mediterranea.
A ricostruire l’entità dell’eruzione, un team italiano di ricercatori e ricercatrici dell’Istituto di geologia ambientale e geoingegneria del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR-IGAG), della Sapienza Università di Roma, dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (INGV), e dell’Università di Bari Aldo Moro. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Communications Earth and Environment di Nature.
“Nell’area dei Campi Flegrei, le testimonianze geologiche dell’attività più antica sono difficilmente accessibili perché giacciono in profondità nel sottosuolo, sotto notevoli spessori di rocce vulcaniche più recenti”, spiegano Gianluca Sottili e Giada Fernandez, della Sapienza Università di Roma. “La ricostruzione dell’intera storia eruttiva di questo vulcano è tuttavia cruciale per evidenziare alcuni parametri fondamentali per la definizione della sua pericolosità, quali la frequenza e la magnitudo degli eventi eruttivi. A tal riguardo, le ceneri prodotte dalle grandi eruzioni depositate in aree remote rispetto al vulcano, offrono la possibilità di estendere molto indietro nel tempo lo studio della storia eruttiva di un vulcano, consentendone una ricostruzione più completa”.
“Come le impronte digitali o il DNA distinguono i singoli individui, alcune proprietà stratigrafiche, chimiche e cronologiche dei livelli di cenere rinvenuti nei sedimenti marini o lacustri, anche a migliaia di chilometri dal vulcano, possono consentire agli scienziati di identificare la sorgente vulcanica e, in alcuni casi, persino il singolo evento eruttivo che le ha prodotte”, aggiunge Biagio Giaccio, del CNR-IGAG. “Più precisamente, attraverso la datazione e l’analisi chimica dei micro-frammenti di pomice, di cui è costituito il materiale vulcanico trasportato dal vento in aree lontane, è possibile ricostruire l’area di dispersione della cenere di uno specifico evento eruttivo”.
“Con i dati già a nostra disposizione e tramite modelli di dispersione delle ceneri vulcaniche, abbiamo potuto ricostruire la dinamica e la magnitudo dell’eruzione”, prosegue Antonio Costa, dell’INGV. “Abbiamo così ottenuto le stime di alcuni parametri fondamentali come, ad esempio, il volume del magma eruttato e l’altezza della colonna o nube di cenere e gas”.
Attraverso questo approccio multidisciplinare, comunemente applicato ad eruzioni recenti le cui tracce sono chiaramente documentate intorno al vulcano, i ricercatori hanno ricostruito i principali parametri eruttivi di un’antica eruzione Flegrea di 109.000 anni fa, denominata ‘Eruzione di Maddaloni’, pressoché inaccessibile nell’area del vulcano ma ben documentata dalle ceneri depositate in aree remote, note con la sigla ‘X-6’ e rinvenute in un’ampia area del Mediterraneo, dall’Italia centrale fino alla Grecia.
“Sorprendentemente”, prosegue Antonio Costa, “i risultati della modellazione hanno fornito una stima di magnitudo di 7.6, cioè di poco inferiore a quella della famosa Ignimbrite Campana di circa 40.000 anni fa, definendo l’eruzione di Maddaloni come il secondo più grande evento della storia eruttiva dei Campi Flegrei”.
“Il fatto che questo sistema vulcanico abbia prodotto diverse grandi eruzioni nel corso della sua storia suggerisce che la struttura della caldera, la depressione vulcano-tettonica che si forma durante le grandi eruzioni a seguito del rilascio di un ingente volume di magma in superficie, potrebbe essere molto più complessa di quanto ipotizzato finora”, sottolinea Jacopo Natale, dell’Università Aldo Moro di Bari.
I risultati della ricerca gettano nuova luce sulla ricorrenza degli eventi di grande magnitudo ai Campi Flegrei ed evidenziano come, anche per un vulcano intensamente studiato, una dettagliata e completa ricostruzione della sua storia necessiti di ulteriori indagini per una migliore valutazione della pericolosità vulcanica.
Riferimenti bibliografici:
Fernandez, G., Costa, A., Giaccio, B. et al. The Maddaloni/X-6 eruption stands out as one of the major events during the Late Pleistocene at Campi Flegrei, Commun Earth Environ6, 27 (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s43247-025-01998-8
Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
Biosentinelle a due passi dalla Torre pendente: trovati 57 licheni (più un fungo non-lichenizzato) nell’Orto Botanico dell’Università di Pisa
Lo studio pubblicato sulla rivista Italian Botanist rivela una insolita concentrazione di questi organismi su una superficie ridotta, fra cui specie rare e a rischio estinzione
1. Arthopyrenia platypyrenia
2. Lecidella elaeochroma (il lichene crostoso con corpi fruttiferi neri), Physcia adscendens (il lichene frondoso celestino) e Xanthoria parietina (il lichene frondoso giallo)
3. Chrysothrix candelaris
4. Ginkgo biloba vistosamente colonizzato alla base del tronco da Diploicia canescens
Sentinelle che monitorano la qualità dell’aria, purificandola dai metalli pesanti, sono i licheni, organismi simbiotici composti da almeno due partner diversi che traggono vantaggio l’uno dall’altro, in questo caso un fungo e un’alga. Nell’Orto Botanico dell’Università di Pisa, a due passi dalla Torre pendente, un gruppo di ricerca dell’Università di Pisa ha trovato una concentrazione inusuale di questi organismi, ben 57 licheni “epifiti”, che crescono cioè sulla corteccia degli alberi, più un fungo non-lichenizzato. Fra essi, ci sono anche specie rare e a rischio estinzione, alcune delle quali rinvenute per la prima volta in Toscana, mentre la presenza diffusa di licheni tolleranti all’azoto è probabilmente associata alle condizioni ambientali urbane.
Lo studio dell’Ateneo di Pisa, in collaborazione con l’Accademia delle Scienze Slovacca, è stato pubblicato sulla rivista Italian Botanist ed è partito da una tesi di laurea triennale in Scienze Naturali e Ambientali condotta da Giorgia Spagli, con la supervisione dei professori Luca Paoli e Lorenzo Peruzzi, botanici del Dipartimento di Biologia, e la collaborazione di Marco D’Antraccoli e Francesco Roma-Marzio, rispettivamente curatore dell’Orto Botanico e curatore dell’Erbario del Museo Botanico.
“In un recente studio è stato calcolato che nelle aree protette italiane ci si possono attendere circa 59 specie di licheni epifiti per km², mentre nel nostro caso, in contesto urbano e su una superficie di soli 0,02 km², ne sono state censite ben 57 – racconta Peruzzi – I giardini botanici nei centri urbani sono infatti isole verdi che offrono rifugio a diversi organismi animali e vegetali, compresi i licheni, che compaiono spontaneamente grazie alla diversità di micro habitat presenti e alla ricchezza di specie arboree”.
“I licheni sono fra i primi colonizzatori degli habitat anche se spesso passano inosservati – aggiunge Paoli – e tuttavia il ruolo che rivestono è molto importante: si tratta di organismi che possono fra l’altro essere utilizzati come biomonitor, una soluzione economica che può integrare le tradizionali centraline di rilevamento per valutare la qualità dell’aria e degli ecosistemi in generale”.
Fra le specie trovate, Arthopyrenia platypyrenia e Coenogonium tavaresianum sono nuove segnalazioni per la Toscana.Il primo è un fungo non-lichenizzato di ridottissime dimensioni, poco noto e poco segnalato a livello europeo, in Italia questa specie era nota sinora solo in Calabria. A Pisa cresce sulla scorza di un esemplare di pittosporo (Pittosporum tobira). Coenogonium tavaresianum colonizza tipicamente boschi umidi della costa tirrenica, è una specie a rischio di estinzione, ma nell’Orto Botanico cresce abbondantemente sulla scorza di un esemplare di cedro della California (Calocedrus decurrens). Lecania cyrtellina, infine, è segnalato per la Toscana solo nell’Orto Botanico di Pisa, dove cresce sulla scorza di un vetusto esemplare di palma del Cile (Jubaea chilensis).
Riferimenti bibliografici:
Fačkovcová Z, Spagli G, D’Antraccoli M, Roma-Marzio F, Peruzzi L, Paoli L, Guttová A (2024) Islands of lichen diversity in urban environments: a hidden richness in botanical gardens, Italian Botanist 18: 245-258, DOI: https://doi.org/10.3897/italianbotanist.18.144373
Testo e foto dall’Ufficio stampa dell’Università di Pisa.