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NUOVE SCOPERTE SUI MECCANISMI MOLECOLARI ALLA BASE DELLE MALATTIE NEURODEGENERATIVE

Due ricerche del laboratorio di Maria Pennuto (UNIPD-VIMM) e Manuela Basso (UNITRENTO) pubblicati su «Nature Communications»

Gli studi del team di ricerca guidato dalla Prof.ssa Maria Pennuto (Università di Padova e VIMM) e dalla Prof.ssa Manuela Basso (Università di Trento) sulla malattia di Kennedy hanno portato a nuove scoperte ed evidenze sui meccanismi molecolari alla base della malattia.

Nuovi risultati per il team di ricerca guidato dalla Prof.ssa Maria Pennuto – Principal Investigator del VIMM e Professore Associato dell’Università degli Studi di Padova – che da diversi anni sta investigando il coinvolgimento del muscolo scheletrico nella malattia neurodegenerativa nota come malattia di Kennedy.

Se è stato dimostrato e provato da molti studi internazionali che questa malattia – causata da una mutazione del recettore degli ormoni (androgeni) – parte da processi patologici che iniziano nel muscolo scheletrico e che causano la perdita dei neuroni che regolano il movimento volontario, sono emerse nuove evidenze da una prima ricerca dal titolo “Defective excitation-contraction coupling and mitochondrial respiration precede mitochondrial Ca2+ accumulation in spinobulbar muscular atrophy skeletal muscle”, pubblicata sulla rivista «Nature Communications».

Realizzata e condotta dal team della Prof.ssa Pennuto con Caterina Marchioretti, Giulia Zanetti e Marco Pirazzini, la ricerca dimostra che nella malattia di Kennedy ci sono alterazioni precoci della capacità dei muscoli di contrarsi e di produrre energia, che si traduce in una progressiva alterazione della capacità dei muscoli di produrre la forza necessaria ad effettuare un movimento senza stancarsi precocemente.

L’altro risultato, pubblicato sempre su «Nature Communications», emerge dallo studio con titolo “LSD1/PRMT6-targeting gene therapy to attenuate androgen receptor toxic gain-of-function ameliorates spinobulbar muscular atrophy phenotypes in flies and mice” – frutto del lavoro del team della Prof. Pennuto con Ramachandram Prakasam e Roberta Andreotti e di Manuela Basso con Angela Bonadiman dell’Università di Trento) – in cui si spiega che questi fenomeni sono dovuti alla presenza nel muscolo di fattori che interagiscono con la proteina mutata.

A partire da questa evidenza, il gruppo di ricerca ha generato delle piccole molecole capaci di ridurre l’espressione di quei fattori che interagiscono con la proteina mutata, dimostrando che così facendo si migliora lo stato di salute dei muscoli e dei neuroni da loro contattati.

«Le malattie neurodegenerative sono una vasta categoria di condizioni patologiche che va da disordini cognitivi a motori, e dove i sintomi clinici sono dovuti al malfunzionamento di specifiche popolazioni del sistema nervoso centrale. Ciò che è attualmente oggetto di indagine è il meccanismo, o meglio i meccanismi molecolari alla base di queste malattie – sottolinea Maria Pennuto. Un concetto che è emerso negli ultimi anni è che molto spesso le malattie neurodegenerative sono multi-sistemiche e non coinvolgono solo i neuroni, ma diversi tipi di cellule e organi oltre al sistema nervoso. Queste due ricerche ci portano un passo avanti verso la comprensione di questi meccanismi, andando a identificare nuovi target terapeutici che verranno sviluppati dai gruppi coinvolti nei prossimi anni».

«In questi anni ci siamo chieste come poter preservare la funzione fisiologica del recettore degli androgeni, eliminando quella tossica legata alla mutazione. In questo studio siamo riuscite a realizzare questo nostro obiettivo e siamo pronte a investire i prossimi anni per traslare questo nostro approccio dalla ricerca di base alla clinica» afferma Manuela Basso.

Il progetto di ricerca della prof.ssa Maria Pennuto sulla malattia di Kennedy è iniziato nel 2013, quando ha ricevuto un finanziamento di oltre 500.000 euro da parte della Provincia Autonoma di Trento, nell’ambito del programma per le carriere dell’Istituto Telethon-Dulbecco (DTI), che le ha permesso di creare un gruppo di ricerca indipendente per lo studio di questa patologia.

LINK AI PAPER SU NATURE COMMUNICATIONS:

https://www.nature.com/articles/s41467-023-36185-w

https://www.nature.com/articles/s41467-023-36186-9

malattie neurodegenerative malattia di Kennedy
Nuove scoperte sui meccanismi molecolari alla base delle malattie neurodegenerative

MARIA PENNUTO

Maria Pennuto si è laureata con lode in Scienze Biologiche nel 1996 all’Università “La Sapienza” di Roma. Nel 2000 ha ottenuto il diploma di dottore di ricerca in “Biologia cellulare (Cellulare e Molecolare)” (XIII ciclo) all’Università degli Studi di Milano. Dal 2001 al 2004, ha svolto un post-dottorato nel laboratorio del Dr Lawrence Wrabetz (San Raffaele, Milano), dove ha investigato i meccanismi molecolari alla base della malattia della mielina periferica Charcot-Marie-Tooth tipo 1B. Nel 2005 si è recata al National Institute of Neurological Disorders and Stroke (National Institutes of Health, NIH, Bethesda, MD) negli USA, dove ha svolto attività di ricerca come visiting post-dottorato nel laboratorio del Dr Kenneth Fischbeck, investigando i meccanismi molecolari alla base delle malattie del motoneurone. Nel 2008 ha ottenuto la posizione di Staff Scientist al Dipartimento di Neurologia della University of Pennsylvania (UPenn, Philadelphia, PA USA), dove ha continuato la propria attività di ricerca sulle malattie neurodegenerative.

Nel 2009 la Professoressa Pennuto è rientrata in Italia con una posizione di ricercatore indipendente al Dipartimento di “Neuroscience and Brain Technologies” dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova. Qui ha diretto l’unità di ricerca sulle basi molecolari delle malattie neuromuscolari degenerative quali SBMA e SLA. Nel 2013 ha vinto il premio alla carriera Dulbecco Telethon (DTI) e ha ottenuto una posizione di Ricercatore di tipo B al Centro di Biologia Integrata dell’Università di Trento. Nel 2017 Maria ha ottenuto una posizione di Professore Associato all’Università degli Studi di Padova. A partire dal 2018 è capo unità nell’Istituto Veneto di Medicina Molecolare (VIMM), Padova.

Maria Pennuto
Maria Pennuto

MANUELA BASSO

Manuela Basso si è laureata con lode e dignità di Stampa in Biotecnologie Mediche presso l’Università degli Studi di Torino nel 2002 con una tesi realizzata presso il Bioindustry Park del Canavese. Nel 2008 ha ottenuto il diploma di dottore di ricerca in Life Science presso l’università inglese The Open University e l’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri lavorando sulla Sclerosi Laterale Amiotrofica. Dal 2008 al 2012 ha svolto un post-dottorato nel laboratorio del Dr Rajiv Ratan, presso il Burke Neurological Institute e il Weill Medical College, Cornell University, New York. Dal 2012 al 2013 è stata promossa alla posizione di Instructor alla Cornell University dove ha studiato i meccanismi molecolari coinvolti nella morte neuronale.

Nel novembre 2013 è rientrata in Italia con chiamata diretta dall’Università di Trento e ha iniziato a dirigere il suo gruppo di ricerca. Ad oggi Manuela Basso è professore Associato presso il Dipartimento di Biologia Cellulare, Computazionale e Integrata (Dipartimento CIBIO).

Manuela Basso. Foto © UniTrento, di Federico Nardelli

Testo e foto dagli Uffici Stampa dell’Università degli Studi di Padova, di Trento e VIMM sulla scoperta dei meccanismi molecolari alla base delle malattie neurodegenerative.

STUDIO VIMM-UNIVERSITÀ DI PADOVA SVELA NUOVI PASSI NELLA SCOPERTA DEI MECCANISMI DI TOSSICITÀ ALLA BASE DELLA MALATTIA DI KENNEDY 

Pubblicato su Science Advances il lavoro di ricerca coordinato dalla Prof.ssa Maria Pennuto (VIMM e Università di Padova) sulla malattia di Kennedy dovuta ad una mutazione del recettore degli androgeni che causa la perdita dei neuroni che permettono i movimenti volontari.

Nuovi passi nella scoperta dei meccanismi di tossicità alla base della malattia di Kennedy
Nuovi passi nella scoperta dei meccanismi di tossicità alla base della malattia di Kennedy

Recenti ricerche hanno rivelato che un individuo ogni sei persone è affetto da una malattia neurodegenerativa: una larga famiglia di disordini del sistema nervoso, che nelle forme più classiche si manifestano nell’adulto, sono progressive e con un decorso più o meno lento, ma inesorabile.

Parliamo di condizioni quali la malattia di Alzheimer, la malattia di Parkinson, le malattie del motoneurone e la malattia di Huntington. Tali malattie hanno manifestazioni cliniche diverse, che vanno da alterazioni cognitive a disturbi psichiatrici e problemi motori, e ciò risulta dal funzionamento alterato e dalla perdita di tipi diversi di neuroni nel cervello e nel midollo spinale.

Sebbene clinicamente diverse, le malattie neurodegenerative condividono diversi aspetti, tra cui quelle di essere patologie che si manifestano dopo i 40 o 50 anni di età nelle forme più canoniche, e di essere caratterizzate dall’accumulo di fibre tossiche di proteine dentro e fuori dai neuroni. Per di più sono accomunate da morte dei neuroni associata con infiammazione o attivazione dei processi di degenerazione che portano il neurone all’autodistruzione.

Nella maggior parte dei casi tali patologie sono sporadiche e non associate a mutazioni su geni specifici. In alcuni casi, queste patologie sono associate a mutazioni su geni diversi. Ed è proprio studiando tali forme genetiche che possiamo investigare i processi patologici che avvengono nei neuroni.

Nasce da qui lo studio coordinato dalla Prof.ssa Maria Pennuto – VIMM e Università di Padova – e condotto dalle ricercatrici Diana Piol e Laura Tosatto, che si è concentrato sullo studio della malattia di Kennedy, anche nota come atrofia muscolare spinale e bulbare (SBMA), causata dall’espansione di un tratto di poliglutammine nel gene che codifica il recettore degli androgeni.

Nello studio “Antagonistic effect of cyclin-dependent kinases and a calcium dependent phosphatase on polyglutamine-expanded androgen receptor toxic gain-of-function”, pubblicato su “Science Advances” si indaga sulla mutazione del recettore degli androgeni che causa la perdita di quei neuroni che ci permettono di effettuare tutti i movimenti volontari, dall’uso dei muscoli facciali alla deglutizione al muovere le gambe e le braccia.

I pazienti infatti sono via via costretti ad utilizzare supporti per camminare fino all’uso di sedie a rotelle a causa dell’affaticamento e dell’incapacità di muoversi. Studiando come il recettore degli androgeni funziona in condizioni normali e nella malattia, il gruppo di ricerca diretto dalla Prof.ssa Maria Pennuto ha dimostrato che la proteina mutata viene modificata da fattori cellulari, che aggiungono dei gruppi chimici o li tolgono. Tali modifiche avvengono sul recettore mutato in maniera più forte rispetto al recettore normale. Il gruppo di ricerca ha identificato i fattori responsabili di tali modifiche chimiche e quelli che le rimuovono. Se farmacologicamente o geneticamente si riduce l’attività di questi fattori, si assiste ad un miglioramento della funzionalità del recettore, dimostrando quindi la rilevanza di queste scoperte nel contesto della malattia di Kennedy. La ricerca condotta dal gruppo di Padova è stata effettuata in collaborazione con altri laboratori situati in Italia e all’estero.

Scopo dello studio è l’identificazione di nuovi target molecolari e l’ampliamento delle conoscenze nell’ambito delle malattie neurodegenerative.

“Questo studio ci ha permesso di chiarire che il recettore mutato va incontro alle stesse modifiche del recettore normale. Ciò che davvero cambia è l’entità di tali modifiche, che sono più forti nel caso del recettore mutato” Ha sottolineato Maria Pennuto, coordinatrice del progetto di ricerca. “E questo si traduce in un funzionamento non ottimale del recettore che quindi non riesce a compiere le funzioni che normalmente esegue nei neuroni e nelle cellule muscolari. L’identificazione dei fattori responsabili di tali modifiche potrà aiutare al raggiungimento di una migliore comprensione dei processi patologici che avvengono nel paziente, e in futuro porterà alla individuazione di nuovi bersagli terapeutici”.

Maria Pennuto
Maria Pennuto

Il progetto di ricerca della prof.ssa Maria Pennuto sulla malattia di Kennedy è iniziato nel 2013, quando ha ricevuto un finanziamento di oltre 500.000 euro da parte della Provincia Autonoma di Trento, nell’ambito del programma per le carriere dell’Istituto Telethon-Dulbecco (DTI), che le ha permesso di creare un gruppo di ricerca indipendente per lo studio di questa patologia.

MARIA PENNUTO

Maria Pennuto si è laureata con lode in Scienze Biologiche nel 1996 presso l’Università “La Sapienza” di Roma. Nel 2000 ha ottenuto il diploma di dottore di ricerca in “Biologia cellulare (Cellulare e Molecolare)” (XIII ciclo) presso l’Università degli Studi di Milano. Dal 2001 al 2004, ha svolto un post-dottorato nel laboratorio del Dr Lawrence Wrabetz (San Raffaele, Milano), dove ha investigato i meccanismi molecolari alla base della malattia della mielina periferica Charcot-Marie-Tooth tipo 1B. Nel 2005 si è recata presso il National Institute of Neurological Disorders and Stroke (National Institutes of Health, NIH, Bethesda, MD) negli USA, dove ha svolto attività di ricerca come visiting post-dottorato presso il laboratorio del Dr Kenneth Fischbeck, investigando i meccanismi molecolari alla base delle malattie del motoneurone. Nel 2008 ha ottenuto la posizione di Staff Scientist presso il Dipartimento di Neurologia della University of Pennsylvania (UPenn, Philadelphia, PA USA), dove ha continuato la propria attività di ricerca sulle malattie neurodegenerative.

Nel 2009 la Dr Pennuto è rientrata in Italia con una posizione di ricercatore indipendente presso il Dipartimento di “Neuroscience and Brain Technologies” dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova. Qui ha diretto l’unità di ricerca sulle basi molecolari delle malattie neuromuscolari degenerative quali SBMA e SLA. Nel 2013 ha vinto il premio alla carriera Dulbecco Telethon (DTI) e ha ottenuto una posizione di Ricercatore di tipo B presso il Centro di Biologia Integrata dell’Università di Trento. Nel 2017 Maria ha ottenuto una posizione di Professore Associato presso l’Università degli Studi di Padova. A partire dal 2018 è vicedirettrice e capo unità presso l’Istituto Veneto di Medicina Molecolare (VIMM), Padova.

Testo e immagini dagli Uffici Stampa Istituto Veneto di Medicina Molecolare (VIMM) e Università degli Studi di Padova sui nuovi passi nella scoperta dei meccanismi di tossicità alla base della malattia di Kennedy.

UN PROTOCOLLO INNOVATIVO PER LA SCOPERTA DI NUOVI POTENZIALI FARMACI 

Istituto Telethon Dulbecco, Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, Università di Trento e Università degli Studi di Perugia insieme per la ricerca mirata di farmaci in grado di contrastare gravi malattie neurodegenerative ad oggi incurabili 

protocollo farmaci Università Trento Perugia
Da sinistra: Lidia Pieri (Sibylla), Graziano Lolli (Dip. CIBIO, UniTrento), Maria Letizia Barreca (Dip. Scienze Farmaceutiche, UniPG), Andrea Astolfi (Dip. Scienze Farmaceutiche, UniPG/Sibylla), Giovanni Spagnolli (Dip. CIBIO, UniTrento/Sibylla), Alberto Boldrini (Sibylla), Luca Teruzzi (Sibylla), Emiliano Biasini (Dip. CIBIO, UniTrento), Pietro Faccioli (Dip. Fisica, UniTrento/INFN-TIFPA), Tania Massignan (Dip. CIBIO, UniTrento, ora a Sibylla)

TrentoPerugia, 12 gennaio 2021 – Un protocollo innovativo per la scoperta di nuovi potenziali farmaci è stato messo a punto da un ampio team internazionale guidato da ricercatori e ricercatrici dell’Università degli Studi di Trento (Dipartimento di Biologia Cellulare, Computazionale e Integrativa e dal Dipartimento di Fisica), dell’Università degli Studi di Perugia (Dipartimento di Scienze Farmaceutiche), dell’Istituto Telethon Dulbecco, Fondazione Telethon e dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN).

“Pharmacological Protein Inactivation by Folding Intermediate Targeting” (PPI-FIT), questo il nome del nuovo metodo, è frutto di un lavoro dal forte carattere multidisciplinare, grazie a contributi che vanno dalla fisica teorica all’informatica, alla chimica farmaceutica, dalla biochimica alla biologia cellulare. Il lavoro di ricerca è stato pubblicato oggi sulla rivista Communications Biology – Nature Publishing Group.

«Il nuovo approccio multidisciplinare consiste nell’identificare piccole molecole in grado di bloccare il processo di ripiegamento (folding) di una proteina coinvolta in un processo patologico, promuovendone quindi la degradazione attraverso i meccanismi di controllo presenti nelle cellule» – spiegano i ricercatori. «PPI-FIT è stato applicato per la prima volta nel campo delle malattie da prioni, patologie neurodegenerative rare che colpiscono l’uomo e altri mammiferi e che sono balzate all’attenzione dell’opinione pubblica negli anni Novanta in occasione dell’emergenza “mucca pazza”. Queste patologie sono causate dalla conversione conformazionale di una normale proteina, chiamata proteina prionica cellulare, in una forma patogena aggregata, in grado di propagarsi come un agente infettivo (prione). Grazie al metodo PPI-FIT, gli autori hanno identificato una classe di molecole in grado di ridurre i livelli cellulari della proteina prionica e bloccare la replicazione della forma infettiva nelle colture cellulari».

Il calcolo impiegato nel PPI-FIT si fonda su alcuni metodi matematici originariamente sviluppati in fisica teorica per studiare fenomeni tipici del mondo subatomico, come l’effetto tunnel quantistico. Questi metodi sono poi stati adattati per la simulazione di processi biomolecolari complessi, come il ripiegamento e l’aggregazione di proteine.

I risultati ottenuti indicano che bersagliare i processi di ripiegamento delle proteine potrebbe rappresentare un nuovo paradigma farmacologico per modulare i livelli di diversi fattori coinvolti in processi patologici. Da una prospettiva ancora più ampia, questo studio suggerisce l’esistenza di un generico meccanismo di regolazione dell’espressione proteica, ad oggi non considerato, che agisce al livello dei percorsi di ripiegamento.

Lo studio si è avvalso anche della collaborazione di gruppi di ricerca dell’Università di Santiago de Compostela, dell’Istituto di Biofisica del Consiglio Nazionale delle Ricerche, dell’Institute of Neuropathology dell’University Medical Center di Hamburg-Eppendorf, del Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Padova e dell’Istituto Veneto di Medicina Molecolare di Padova.

I risultati descritti nello studio hanno inoltre generato anche due richieste di brevetto da parte delle istituzioni coinvolte, una già approvata e la seconda attualmente in attesa di approvazione.

La start-up Sibylla Biotech (https://www.sibyllabiotech.it), nata dalla collaborazione scientifica tra alcuni degli autori dello studio – Maria Letizia Barreca, Giovanni Spagnolli, Graziano Lolli, Pietro Faccioli ed Emiliano Biasini – e spin off dell’Università degli Studi di Perugia, dell’ Università di Trento e dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, sta ora impiegando le potenzialità di PPI-FIT per sviluppare farmaci contro un’ampia varietà di patologie umane, quali ad esempio il cancro e più recentemente COVID-19, come ad oggi documentato dal deposito di tre domande di brevetto.

La tecnologia PPI-FIT 

PPI-FIT (Pharmacological Protein Inactivation by Folding Intermediate Targeting) è un protocollo farmacologico in grado di identificare molecole la cui funzione è quella di ridurre l’espressione di una proteina nella cellula, disattivandone la funzione patologica. Questo è possibile perché le molecole sono scelte per legarsi ad una “tasca” proteica identificata su uno stato intermedio del processo di ripiegamento (folding) della proteina. Bloccato a metà strada, il ripiegamento non avviene e la proteina viene degradata dalla cellula stessa.

La possibilità di identificare stati intermedi di folding si basa su una piattaforma di calcolo rivoluzionaria, che permette di simulare al calcolatore i percorsi di ripiegamento di proteine di rilevanza biologica, con livello di precisione atomico. Il metodo di calcolo che ha portato a questo risultato si fonda su metodi matematici di fisica teorica che sono stati adattati per consentire la simulazione di processi biomolecolari complessi, come il ripiegamento e l’aggregazione di proteine, grazie al lavoro di Pietro Faccioli, professore associato nel Dipartimento di Fisica dell’Università di Trento e affiliato all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, e del suo team.

Una proteina esce dal ribosoma come una catena di amminoacidi, e assume la sua forma biologicamente attiva solo in un secondo momento, dopo aver completato il percorso di ripiegamento (folding). A causa dell’intrinseca complessità, lo studio del ripiegamento di proteine biologicamente interessanti richiede tempi di calcolo inaccessibili con i metodi finora disponibili, anche utilizzando il più grande supercomputer al mondo appositamente disegnato per la dinamica molecolare. L’imponente avanzamento tecnologico che permette le simulazioni alla base di PPI-FIT è il frutto di una visione interdisciplinare nata all’interno del panorama scientifico dell’INFN, che collega la fisica teorica con la chimica e la biologia. Avendo la possibilità di osservare per la prima volta questi percorsi di ripiegamento, la tecnologia PPI-FIT consente di identificare e caratterizzare degli stati intermedi conformazionali che sono visitati dalla proteina durante il percorso verso lo stato biologicamente attivo (o nativo), e la cui emivita ha rilevanza biologica. Tali stati intermedi possono contenere una tasca di legame, diventando quindi nuovi bersagli per lo sviluppo di farmaci in grado di legarli e bloccarli, portando alla loro inattivazione.

La tecnologia è stata inventata dai soci fondatori di Sibylla Biotech nell’ambito di una ricerca accademica sulla replicazione del prione supportata da INFN, Fondazione Telethon, Università degli Studi di Trento e Università degli Studi di Perugia ed è stata utilizzata con successo in studi scientifici e brevettati, per ricostruire il meccanismo di replicazione dei prioni, e per sviluppare una nuova strategia farmacologica contro questi agenti infettivi.

*Giovanni Spagnolli, Tania Massignan, Andrea Astolfi, Silvia Biggi, Marta Rigoli, Paolo Brunelli, Michela Libergoli, Alan Ianeselli, Simone Orioli, Alberto Boldrini, Luca Terruzzi, Valerio Bonaldo, Giulia Maietta, Nuria L. Lorenzo, Leticia C. Fernandez, Yaiza B. Codeseira, Laura Tosatto, Luise Linsenmeier, Beatrice Vignoli, Gianluca Petris, Dino Gasparotto, Maria Pennuto, Graziano Guella, Marco Canossa, Hermann C. Altmeppen, Graziano Lolli, Stefano Biressi, Manuel M. Pastor, Jesús R. Requena, Ines Mancini, Maria L. Barreca, Pietro Faccioli, Emiliano Biasini. “Pharmacological Inactivation of the Prion Protein by Targeting a Folding Intermediate”. Communications Biology, 2012

 

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa Università di Trento e Università degli Studi di Perugia