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L’Eruzione di Maddaloni: scoperta una delle eruzioni più potenti della storia dei Campi Flegrei

Risale a oltre centomila anni fa una delle eruzioni più significative in quest’area. A rivelarlo, uno studio congiunto CNR-IGAG, Sapienza Università di Roma, INGV e Università Aldo Moro di Bari, pubblicato sulla rivista scientifica Communications Earth and Environment di Nature. La conoscenza approfondita della storia eruttiva di questa regione potrà migliorare la valutazione dei rischi vulcanici associati alla zona.

I Campi Flegrei sono un complesso vulcanico attivo, circondato da aree urbane ad alto rischio. Tra i più studiati al mondo, la loro storia eruttiva è ben documentata solo negli ultimi 40.000 anni. Un nuovo studio rivela che, 109.000 anni fa, si verificò un’eruzione di magnitudo simile all’’Ignimbrite Campana’, la più grande eruzione dell’area mediterranea.

A ricostruire l’entità dell’eruzione, un team italiano di ricercatori e ricercatrici dell’Istituto di geologia ambientale e geoingegneria del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR-IGAG), della Sapienza Università di Roma, dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (INGV), e dell’Università di Bari Aldo Moro. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Communications Earth and Environment di Nature.

“Nell’area dei Campi Flegrei, le testimonianze geologiche dell’attività più antica sono difficilmente accessibili perché giacciono in profondità nel sottosuolo, sotto notevoli spessori di rocce vulcaniche più recenti”, spiegano Gianluca Sottili e Giada Fernandez, della Sapienza Università di Roma. “La ricostruzione dell’intera storia eruttiva di questo vulcano è tuttavia cruciale per evidenziare alcuni parametri fondamentali per la definizione della sua pericolosità, quali la frequenza e la magnitudo degli eventi eruttivi. A tal riguardo, le ceneri prodotte dalle grandi eruzioni depositate in aree remote rispetto al vulcano, offrono la possibilità di estendere molto indietro nel tempo lo studio della storia eruttiva di un vulcano, consentendone una ricostruzione più completa”.

“Come le impronte digitali o il DNA distinguono i singoli individui, alcune proprietà stratigrafiche, chimiche e cronologiche dei livelli di cenere rinvenuti nei sedimenti marini o lacustri, anche a migliaia di chilometri dal vulcano, possono consentire agli scienziati di identificare la sorgente vulcanica e, in alcuni casi, persino il singolo evento eruttivo che le ha prodotte”, aggiunge Biagio Giaccio, del CNR-IGAG. “Più precisamente, attraverso la datazione e l’analisi chimica dei micro-frammenti di pomice, di cui è costituito il materiale vulcanico trasportato dal vento in aree lontane, è possibile ricostruire l’area di dispersione della cenere di uno specifico evento eruttivo”.

“Con i dati già a nostra disposizione e tramite modelli di dispersione delle ceneri vulcaniche, abbiamo potuto ricostruire la dinamica e la magnitudo dell’eruzione”, prosegue Antonio Costa, dell’INGV. “Abbiamo così ottenuto le stime di alcuni parametri fondamentali come, ad esempio, il volume del magma eruttato e l’altezza della colonna o nube di cenere e gas”.

Attraverso questo approccio multidisciplinare, comunemente applicato ad eruzioni recenti le cui tracce sono chiaramente documentate intorno al vulcano, i ricercatori hanno ricostruito i principali parametri eruttivi di un’antica eruzione Flegrea di 109.000 anni fa, denominata ‘Eruzione di Maddaloni, pressoché inaccessibile nell’area del vulcano ma ben documentata dalle ceneri depositate in aree remote, note con la sigla ‘X-6’ e rinvenute in un’ampia area del Mediterraneo, dall’Italia centrale fino alla Grecia.

“Sorprendentemente”, prosegue Antonio Costa, “i risultati della modellazione hanno fornito una stima di magnitudo di 7.6, cioè di poco inferiore a quella della famosa Ignimbrite Campana di circa 40.000 anni fa, definendo l’eruzione di Maddaloni come il secondo più grande evento della storia eruttiva dei Campi Flegrei”.

“Il fatto che questo sistema vulcanico abbia prodotto diverse grandi eruzioni nel corso della sua storia suggerisce che la struttura della caldera, la depressione vulcano-tettonica che si forma durante le grandi eruzioni a seguito del rilascio di un ingente volume di magma in superficie, potrebbe essere molto più complessa di quanto ipotizzato finora”, sottolinea Jacopo Natale, dell’Università Aldo Moro di Bari.

I risultati della ricerca gettano nuova luce sulla ricorrenza degli eventi di grande magnitudo ai Campi Flegrei ed evidenziano come, anche per un vulcano intensamente studiato, una dettagliata e completa ricostruzione della sua storia necessiti di ulteriori indagini per una migliore valutazione della pericolosità vulcanica.

Riferimenti bibliografici:

Fernandez, G., Costa, A., Giaccio, B. et al. The Maddaloni/X-6 eruption stands out as one of the major events during the Late Pleistocene at Campi Flegrei, Commun Earth Environ 6, 27 (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s43247-025-01998-8

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Come si sono formati gli Appennini? Nella ricerca pubblicata sulla rivista Tectonics, un approccio innovativo allo studio dei sedimenti consente di ricostruire l’evoluzione della catena montuosa

Uno studio recentemente pubblicato su Tectonics e condotto dall’INGV e dalle Università Sapienza e Roma Tre ha evidenziato un nuovo potenziale indicatore basato sulle caratteristiche geometriche delle particelle che costituiscono le rocce. Il modello consentirà di definire con maggiore precisione l’età e le trasformazioni geologiche dei bacini sedimentari.

Campionamento a) Esempio di depositi analizzati nello studio b) campionamento per analisi della mineralogia delle argille, c) frustoli legnosi, d) campionamento per analisi di anisotropia della suscettività magnetica
Come si sono formati gli Appennini? Campionamento:
a) Esempio di depositi analizzati nello studio b) campionamento per analisi della mineralogia delle argille, c) frustoli legnosi, d) campionamento per analisi di anisotropia della suscettività magnetica

Una collaborazione tra ricercatori dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), della Sapienza Università di Roma e dell’Università Roma Tre ha permesso di sviluppare un modello innovativo per ricostruire l’evoluzione delle catene montuose.

È quanto emerge dallo studio “Magnetic fabric as a marker of thermal maturity in sedimentary basins: A new approach for reconstructing the tectono‐thermal evolution of fold‐and‐ thrust‐belts”, recentemente pubblicato sulla rivista scientifica Tectonics.

Per stabilire l’età e le trasformazioni delle catene montuose, i geo-scienziati prendono in esame la maturità termica dei sedimenti, ovvero il riscaldamento cui le rocce e in particolare alcuni indicatori in esse presenti – come i minerali delle argille e i frustoli di legno – sono stati sottoposti nel tempo geologico.

“La maturità termica dei sedimenti riflette il grado di evoluzione della materia organica e le trasformazioni dei minerali argillosi durante la diagenesi da seppellimento”, spiega Chiara Caricchi, ricercatrice dell’INGV e prima autrice dell’articolo. “Tale maturità termica è influenzata da fattori come temperatura e tempo, ed è un concetto fondamentale per comprendere la formazione di risorse energetiche come il petrolio e il gas naturale”.

La diagenesi è un processo geologico che coinvolge i cambiamenti chimici, fisici e biologici che i sedimenti subiscono dopo la loro deposizione e prima della loro litificazione, ovvero la loro trasformazione in roccia. Questo processo avviene a temperature relativamente basse (fino a circa 200 °C) e a pressioni moderate (2-3 bar), e può durare milioni di anni.

L’affidabilità di una ricostruzione dell’evoluzione delle catene montuose dipende dal numero di indicatori termici utilizzabili, che non sono sempre disponibili.

I ricercatori di INGV, Sapienza e Roma Tre hanno individuato un nuovo potenziale indicatore basato sulle caratteristiche geometriche delle particelle che costituiscono una roccia e le loro relazioni di orientamento reciproco. Queste informazioni si ottengono a partire da una proprietà, la cosiddetta “anisotropia della suscettibilità magnetica” (AMS), che si riferisce alla tendenza dei minerali a predisporsi prevalentemente in piani perpendicolari alla direzione di deposizione e successiva compattazione dei sedimenti. Un processo che avviene quando i sedimenti vengono progressivamente ricoperti da altri depositi più recenti e poi portati in profondità nella crosta, dove sono soggetti a temperature e pressioni crescenti, per poi riemergere in superficie durante la formazione delle catene montuose.

“Le nostre analisi si prefiggono di rispondere alla domanda ‘Fino a che profondità sono stati sepolti i sedimenti analizzati prima di essere riportati in superficie dalla formazione degli Appennini?’, ovvero ‘A quali massime temperature sono stati sottoposti?”, spiega Leonardo Sagnotti, ricercatore dell’INGV e co-autore dell’articolo. “L’AMS è una proprietà che si misura nei laboratori di paleomagnetismo con strumentazione dedicata e che mette in relazione la variabilità della suscettività magnetica con la direzione in cui essa viene misurata, che dipende – a sua volta – dall’orientazione preferenziale dei minerali che costituiscono il sedimento”.

“Il nostro studio si è concentrato nell’Appennino settentrionale, in un’area compresa tra Umbria e Toscana, dove abbiamo prelevato campioni di sedimenti tra loro coerenti per le analisi di AMS e diffrazione a raggi X”, aggiunge Luca Aldega, ricercatore di Sapienza Università Sapienza di Roma e co-autore dell’articolo. “I dati delle analisi indicano che l’AMS di questi sedimenti argillosi può essere messa in diretta correlazione con i processi di deposizione e compattazione, come suggeriscono gli indicatori di maturità termica, riflettendo così l’evoluzione dei sedimenti durante il seppellimento sedimentario e/o tettonico”.

“Questa osservazione ci ha permesso di calibrare un modello basato su una correlazione lineare tra il parametro AMS e gli indicatori paleotermici che può essere applicato con successo per definire i livelli di maturità termica nei bacini sedimentari, superando le limitazioni dei metodi classici e vincolando su scala temporale le condizioni di diagenesi delle successioni sedimentarie”, evidenzia Massimo Mattei, ricercatore dell’Università Roma Tre e co-autore dell’articolo.

Correlazione tra Foliazione (parametro AMS) e gli indicatori paleotermici che può essere applicato per definire i livelli di maturità termica nei bacini sedimentari
Correlazione tra Foliazione (parametro AMS) e gli indicatori paleotermici che può essere applicato per definire i livelli di maturità termica nei bacini sedimentari

Ulteriori ricerche future in questa direzione potranno essere utili per migliorare la definizione della correlazione in caso di stadi di maturità termica avanzata e in successioni sedimentarie altamente deformate.

Riferimenti bibliografici:

Caricchi, L. Aldega, L. Sagnotti, F. Cifelli, S. Corrado, M. Mattei, Magnetic Fabric as a Marker of Thermal Maturity in Sedimentary Basins: A New Approach for Reconstructing the Tectono-Thermal Evolution of Fold-and-Thrust-Belts,Tectonics, Tectonics (2024), DOI: https://doi.org/10.1029/2024TC008530

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

TERREMOTI | Lo studio sul ruolo delle acque accumulate negli acquiferi carsici offre nuovi spunti per l’analisi dell’attività sismica di un team di ricercatori di INGV, UNIPD, FEDERICO II e Acquedotto Pugliese ha investigato le relazioni tra effetti idrologici e processi crostali che rivelano le caratteristiche meccaniche delle rocce di faglia responsabili dei terremoti in Appennino

Uno studio recentemente pubblicato sulla rivista scientifica ‘Nature Communications’, intitolato “Non-linear elasticity, earthquake triggering and seasonal hydrological forcing along the Irpinia fault, Southern Italy” fornisce approfondimenti innovativi sui processi che collegano la variazione stagionale delle masse d’acqua, l’elasticità delle rocce crostali e l’attività sismica in Irpinia.

La ricerca, condotta nell’ambito del progetto multidisciplinare Pianeta Dinamico-MYBURP (Modulation of hYdrology on stress BUildup on the IRPinia Fault), è stata realizzata da un team di ricercatori dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), dell’Università degli Studi di Padova, dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e della società Acquedotto Pugliese.

“Il nostro studio ha rivelato come gli effetti idrologici influenzino le caratteristiche meccaniche del sistema di faglie in Irpinia e la distribuzione temporale della sua sismicità”, spiega Nicola D’Agostino, ricercatore dell’INGV e coordinatore del team di ricerca. “Per scoprirlo, abbiamo analizzato le variazioni stagionali di velocità delle onde sismiche nella crosta terrestre e le serie temporali di deformazione provenienti da una rete avanzata di stazioni sismiche e GNSS dell’Irpinia Near Fault Observatory e della Rete GNSS RING”.

 Analisi della sensitività (β) delle variazioni di velocità delle onde sismiche (δv/v) in funzione della deformazione orizzontale (strain). δv/v è stato misurato attraverso l'analisi temporale delle variazioni del rumore sismico ambientale mentre la deformazione è stata calcolata attraverso i dati delle stazioni della rete GNSS RING. β è un parametro significativo per definire la non-linearità delle proprietà elastiche della crosta terrestre e delle modalità di accumulo e rilascio della deformazione sismica nelle zone di faglia. In a) e b) sono mostrati i valori di δv/v e deformazione in funzione della fase annuale (a) e della velocità di deformazione (b). In c-h sono mostrate le variazioni di δv/v e deformazione per singole annualità
Analisi della sensitività (β) delle variazioni di velocità delle onde sismiche (δv/v) in funzione della deformazione orizzontale (strain). δv/v è stato misurato attraverso l’analisi temporale delle variazioni del rumore sismico ambientale mentre la deformazione è stata calcolata attraverso i dati delle stazioni della rete GNSS RING. β è un parametro significativo per definire la non-linearità delle proprietà elastiche della crosta terrestre e delle modalità di accumulo e rilascio della deformazione sismica nelle zone di faglia. In a) e b) sono mostrati i valori di δv/v e deformazione in funzione della fase annuale (a) e della velocità di deformazione (b). In c-h sono mostrate le variazioni di δv/v e deformazione per singole annualità

I ricercatori hanno infatti scoperto che la ricarica idrologica degli acquiferi carsici dell’Appennino genera deformazioni naturali che modulano la velocità delle onde sismiche e la sismicità locale. Attraverso una tecnica innovativa di analisi del rumore sismico ambientale è stato possibile misurare le variazioni stagionali di velocità delle onde sismiche che attraversano la crosta terrestre e confrontarle con le misure di deformazione crostale indotte dagli effetti idrologici.

“Queste due informazioni ci hanno permesso di misurare le variazioni di velocità delle onde sismiche in funzione della deformazione crostale, parametro importante per quantificare la non-linearità delle proprietà elastiche delle rocce”, sottolinea Stefania Tarantino, assegnista di ricerca dell’INGV e prima autrice dell’articolo.

Piero Poli, Professore dell’Università degli Studi di Padova e coautore dell’articolo aggiunge, infatti, che “osservazioni di laboratorio mostrano come le proprietà elastiche varino in funzione dello stato di deformazione dei materiali (elasticità non-lineare), con significative implicazioni sulle caratteristiche meccaniche con cui le rocce di faglia rispondono all’accumulo di deformazione che precede i terremoti. La sensitività osservata è risultata simile ai valori misurati in laboratorio, confermando la validità dell’approccio scientifico adottato.

“Le nostre osservazioni mostrano inoltre un aumento degli eventi sismici di bassa magnitudo (M < 3.7) in primavera-estate, quando il carico idrologico è maggiore, suggerendo che l’elasticità non-lineare possa giocare un ruolo chiave non solo nei fenomeni sismici minori, ma anche nella preparazione di terremoti di grande magnitudo, come quello che colpì l’Irpinia nel 1980″, sottolinea Aldo Zollo, Professore dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e coautore dell’articolo.

Gaetano Festa, Professore dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e coautore dell’articolo, aggiunge che “l’area geografica oggetto dello studio è oggi monitorata da un’infrastruttura multiparametrica avanzata denominata ‘Irpinia Near Fault Observatory’ e costituita da stazioni sismiche, geodetiche e geochimiche, nonché da un sistema di rilevamento sismico mediante fibra ottica (DAS), gestiti dall’INGV e dall’Università Federico II“.

Aspetto importante del lavoro è stata la sinergia con la società Acquedotto Pugliese, importante infrastruttura pubblica di approvvigionamento idrico-potabile della regione Puglia e gestore della Sorgente Sanità di Caposele, che ha fornito dati indispensabili per la comprensione della relazione tra effetti idrologici e processi crostali. “Siamo particolarmente soddisfatti di aver offerto il nostro contribuito alla realizzazione dello studio. Un contributo reso possibile dall’approfondita conoscenza della materia e dalla vasta esperienza sul campo, come testimoniato, tra l’altro, nel corso del convegno sul tema, organizzato con INGV nel nostro palazzo nel maggio scorso”, dichiara Domenico Laforgia, presidente di Acquedotto Pugliese.

I risultati di questo studio offrono nuove prospettive per comprendere e monitorare sempre meglio i processi di accumulo e rilascio della deformazione sismica, con l’obiettivo di migliorare le tecniche di mitigazione del rischio sismico.

a) Distribuzione dell'intensità della deformazione tettonica (scala cromatica e vettori di velocità) misurati dalle stazioni GNSS della rete RING. Le aree in verde mostrano la distribuzione degli acquiferi carsici responsabili delle deformazioni idrologiche osservate. b) sismicità nell'area irpina, segmenti attivati e meccanismo focale del terremoto Ms 6.9 del 23 novembre 1980. c) Serie temporali delle osservabili usate nello studio: portate della sorgente di Caposele (blu), variazioni di velocità δv/v (verde) e di spostamento alle stazioni MCRV e CAFE (in rosso). Osservare la stretta correlazione tra effetti idrologici, variazioni di velocità e di spostamento alla stazione MCRV (posta in prossimità degli acquiferi carsici) e la mancanza di correlazione a CAFE (posta in posizione più distante). d) rappresentazione schematica delle deformazioni idrologiche e loro relazione con le fasi di ricarica degli acquiferi carsici
a) Distribuzione dell’intensità della deformazione tettonica (scala cromatica e vettori di velocità) misurati dalle stazioni GNSS della rete RING. Le aree in verde mostrano la distribuzione degli acquiferi carsici responsabili delle deformazioni idrologiche osservate. b) sismicità nell’area irpina, segmenti attivati e meccanismo focale del terremoto Ms 6.9 del 23 novembre 1980. c) Serie temporali delle osservabili usate nello studio: portate della sorgente di Caposele (blu), variazioni di velocità δv/v (verde) e di spostamento alle stazioni MCRV e CAFE (in rosso). Osservare la stretta correlazione tra effetti idrologici, variazioni di velocità e di spostamento alla stazione MCRV (posta in prossimità degli acquiferi carsici) e la mancanza di correlazione a CAFE (posta in posizione più distante). d) rappresentazione schematica delle deformazioni idrologiche e loro relazione con le fasi di ricarica degli acquiferi carsici

Riferimenti bibliografici: 

Tarantino, S., Poli, P., D’Agostino, N. et al. Non-linear elasticity, earthquake triggering and seasonal hydrological forcing along the Irpinia fault, Southern Italy, Nat Commun 15, 9821 (2024), DOI: https://doi.org/10.1038/s41467-024-54094-4

Link utili:

Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV)

Università degli Studi di Padova

Università degli Studi di Napoli Federico II

Acquedotto Pugliese

Progetto Pianeta Dinamico-MYBURP

Irpinia Near Fault Observatory

Rete GNSS RING

 

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Rettorato Università degli Studi di Napoli Federico II.

Una ricerca sugli effetti dei flussi piroclastici dell’eruzione del 79 d.C. su Pompei ha evidenziato come la durata degli stessi abbia avuto un tragico impatto sulla popolazione

Pompei correnti piroclastiche
Vista 3D del Vesuvio e dei centri abitati alle sue pendici, veduta da Ovest; DTM con sovrapposta ortofoto digitale a colori (Laboratorio di Geomatica e Cartografia, INGV-OV)

Circa quindici minuti fu la durata delle correnti piroclastiche che colpirono Pompei durante l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.: le loro ceneri vulcaniche, inalate dagli abitanti, furono fatali, provocandone l’asfissia.
Questo è quanto rivela lo studio The impact of pyroclastic density currents duration on humans: the case of the AD 79 eruption of Vesuvius, condotto dall’Università degli Studi di Bari – Dipartimento Scienze della Terra e Geoambientali, in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e il British Geological Survey di Edimburgo, appena pubblicato ‘Scientific Reports’.
“Obiettivo del lavoro”, afferma Roberto Isaia, ricercatore dell’Osservatorio Vesuviano dell’INGV “è stato quello di sviluppare un modello per cercare di capire e di quantificare l’impatto dei flussi piroclastici sull’abitato di Pompei”.

Depositi piroclastici all’interno dell’abitato di Pompei che includono livelli stratificati con strutture di trazione formate dalle correnti piroclastiche

I flussi piroclastici, infatti, sono il fenomeno più devastante delle cosiddette eruzioni esplosive. Paragonabili alle valanghe, si generano dal collasso della colonna eruttiva. I densi flussi che ne derivano scorrono lungo le pendici del vulcano a velocità di centinaia di chilometri orari, ad alta temperatura e con un’alta concentrazione di particelle.
“Per la nostra ricerca”, prosegue Isaia, “abbiamo svolto studi sul terreno e in laboratorio dei depositi piroclastici presenti all’interno degli scavi archeologici di Pompei che hanno portato alla misurazione e alla definizione dei parametri fisico-meccanici delle rocce. Con i dati ottenuti abbiamo sviluppato un modello matematico che ci ha permesso di effettuare delle simulazioni numeriche. Da queste abbiamo ricavato i parametri fisici delle correnti piroclastiche e, quindi, stimarne gli effetti sul territorio, uomo compreso. Il risultato principale è che il perdurare del passaggio delle correnti piroclastiche è avvenuto in un lasso di tempo compreso tra i 10 e i 20 minuti”.

“Il modello elaborato” aggiunge il ricercatore, “può essere applicato anche ad altri vulcani attivi di tutto il mondo. L’esempio di Pompei infatti, distante circa 10 km dal Vesuvio, suggerisce come l’applicazione di questo modello potrebbe essere molto utile per comprendere la durata dei flussi piroclastici e, quindi, i danni derivanti da un’eruzione anche a distanze dove la temperatura e la pressione delle correnti piroclastiche non provoca più effetti dannosi sull’uomo e sull’ambiente. La metodologia applicata può quindi fornire nuovi elementi di conoscenza nell’ambito delle valutazioni di pericolosità di una struttura vulcanica attiva”, conclude Roberto Isaia.
“È molto importante riuscire a ricostruire quanto avvenuto nelle passate eruzioni del Vesuvio partendo dal record geologico, per risalire ai caratteri delle correnti piroclastiche ed all’impatto sull’uomo” dichiara il Prof. Pierfrancesco Dellino dell’Università di Bari, referente per il settore vulcanico della Commissione Grandi Rischi nazionale. “L’approccio da noi seguito aggiunge informazioni che sono racchiuse nei depositi piroclastici e che chiariscono nuovi aspetti sull’eruzione di Pompei e forniscono preziosi spunti per interpretare il comportamento del Vesuvio anche in chiave di protezione civile”.

La scheda

Chi: Università degli Studi di Bari, Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e British Geological Survey di Edimburgo (UK)
Cosa: Sviluppato un modello che ha consentito di calcolare che a Pompei il perdurare del passaggio delle correnti piroclastiche è avvenuto in un lasso di tempo compreso tra i 10 e i 20 minuti provocando effetti letali sui suoi abitanti
Dove: Lo studio The impact of pyroclastic density currents duration on humans: the case of the AD 79 eruption of Vesuvius in ‘Scientific Reports’.
Link: https://www.nature.com/articles/s41598-021-84456-7
Testo e foto dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV)

TESTATO SULLO STROMBOLI UN SISTEMA DI ALLERTAMENTO IN TEMPO REALE DELLE ERUZIONI VIOLENTE

Pubblicati su Nature Communications i risultati dello studio coordinato dall’Università di Firenze, in collaborazione con i ricercatori del Dipartimento della Protezione civile, delle Università di Palermo, di Pisa e di Torino e dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia di Napoli

Monitorando la deformazione del suolo dei vulcani è possibile capire in anticipo quando arriverà una violenta eruzione. Lo ha verificato sul vulcano Stromboli il team di ricercatori coordinati da Maurizio Ripepe, ricercatore dell’Università di Firenze, che ha sviluppato un sistema di allerta automatico in tempo reale. All’indagine, i cui risultati sono pubblicati sull’ultimo numero della rivista Nature communications, hanno collaborato i ricercatori del Dipartimento della Protezione civile, delle Università di Palermo, di Pisa e di Torino, dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) di Napoli e dell’Università di Tohoku in Giappone.

“Le eruzioni vulcaniche esplosive sono fenomeni violenti e improvvisi, la cui dinamica è talmente rapida da sfuggire al controllo della maggior parte delle reti di monitoraggio – racconta Ripepe, responsabile del Laboratorio di geofisica sperimentale Unifi –. Tali eruzioni rappresentano un grave pericolo, soprattutto quando le aree circostanti al vulcano sono densamente abitate oppure costituiscono un’attrazione turistica. Come succede a Stromboli, dove migliaia di visitatori sono richiamati dalle deboli ma spettacolari esplosioni che si verificano ogni giorno. Questa moderata attività esplosiva – prosegue il ricercatore – può essere interrotta da eventi parossistici, come quelli che hanno devastato l’isola a luglio e ad agosto 2019, generando colonne eruttive di diversi chilometri di altezza, incendi e piccole onde di tsunami e ricoprendo di cenere e lapilli i centri abitati dell’isola”.

Proprio sull’isola delle Eolie i ricercatori hanno raccolto negli ultimi 15 anni migliaia di dati, utilizzando sensori clinometrici – che misurano cioè l’inclinazione del suolo – molto sensibili. Questi sensori permettono di stabilire come le esplosioni parossistiche siano precedute da una debole ma chiara deformazione del suolo (dell’ordine di un milionesimo di grado), fenomeno che si è ripetuto in maniera identica per ogni singolo episodio, dal più debole al più violento.

“L’intero edificio vulcano – spiega Ripepe – inizia a ‘gonfiarsi’ quasi 10 minuti prima dell’esplosione parossistica per effetto della espansione dei gas durante il processo di risalita del magma nel condotto di alimentazione”.

I segnali rilevati dai ricercatori con la loro rete multi-parametrica sono cruciali non solo per dare allerta per gli eventi esplosivi ma anche per quelli che si verificano in un lasso di tempo successivo, come i maremoti, che possono avere effetti altrettanto devastanti.

Il sistema di allertamento automatico per le eruzioni parossistiche a Stromboli – spiegano dal Dipartimento della Protezione Civile – è operativo in via sperimentale dall’ottobre 2019 e rappresenta il primo sistema automatico di allertamento al mondo per le eruzioni vulcaniche esplosive”.

Il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino collabora da numerosi anni al monitoraggio geochimico e satellitare di Stromboli e contribuisce allo sviluppo di nuove tecniche di allerta in grado di segnalare repentinamente i cambiamenti di attività di questo vulcano unico nel suo genere

Stromboli sistema di allertamento eruzioni violente vulcani
Foto di Steven W. Dengler, CC BY-SA 3.0

 

 

Testo e video dall’Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

Futuro Remoto 2020 – XXXIV edizione – Pianeta, tra cambiamenti epocali e sfide globali

La ricerca scientifica e tecnologica rappresenta un punto cardine con cui preservare e migliorare il benessere dell’uomo, degli animali e dell’ambiente. Il suo ruolo indiscusso non è sempre in connessione con i cittadini, a discapito di un sapere scientifico che dovrebbe essere accessibile a tutti, soprattutto in un momento storico nel quale le informazioni scorrono in maniera disordinata e rapida, distorcendo spesso la realtà. Quest’anno più di qualsiasi altro ci ha dimostrato uno degli effetti dei cambiamenti che il Pianeta Terra sta subendo, ovvero la pandemia da Covid-19, un fenomeno altamente ripetibile in futuro.

Mostra Missione Antartide alla XXXIV edizione di Futuro Remoto

Futuro Remoto, giunto alla XXXIV edizione, ha come filo conduttore quello di creare una rete di conoscenze tra scienza e pubblico, con più di 300 eventi in programma, tra mostre, rubriche speciali ed incontri internazionali in streaming per discutere dei cambiamenti climatici, della salute del Pianeta e della pandemia da Covid-19. Il festival è promosso da Città della Scienza di Napoli, con il sostegno della Regione Campania, la co-organizzazione delle sette Università della Campania e la collaborazione dell’Istituto Nazionale di Astrofisica-Inaf, del Consiglio Nazionale delle Ricerche-CNR, del Programma Nazionale di Ricerca in Antartide, dell’Ambasciata italiana in Messico, del consolato Generale Usa di Napoli e dell’Unione Industriali di Napoli.

Futuro Remoto XXXIV edizione
La locandina della XXXIV edizione di Futuro Remoto

 

L’evento inaugurale tenutosi il 20 Novembre ha dato inizio, a pieno ritmo, al festival con una diretta tenuta da Riccardo Villari, Presidente Fondazione IDIS – Città della Scienza, che introduce il saluto del Ministro MIUR Gaetano Manfredi e di Valeria Fascione, assessore alla ricerca, innovazione e startup della Regione Campania, i quali ricordano lo spirito di Futuro Remoto come luogo dove far crescere la cultura nella collettività con l’incontro tra scienza e pubblico.

 

Città della Scienza propone da anni il festival come una realtà che possa trasferire il sapere e la conoscenza scientifica ai cittadini, creando una vetrina per la ricerca, affinché si abbia una maggiore consapevolezza sulla salute dell’uomo e, in questo caso, del Pianeta Terra.

È seguito il talk introdotto da Luigi Nicolais – Coordinatore CTS Fondazione IDIS – Città della Scienza – e moderato da Luca Carra – direttore di Scienzainrete – in cui sono intervenuti illustri studiosi. Da Piero Genovesi, zoologo, ecologo specializzato in biodiversità a Filippo Giorgi, fisico e climatologo parte del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPPC). Sono intervenuti poi Roberto Danovaro, ecologo e biologo marino presidente della Stazione zoologica Anton Dohrn, Patrizia Caraveo, astrofisica la quale mette in risalto il tema dell’inquinamento luminoso, e Paolo Vineis, medico epidemiologo e docente all’Imperial College di Londra in salute globale. Egli risponde al tema dell’emergenza ambientale come fattore influente sulla salute dell’uomo insieme alle diseguaglianze sociali.

Al termine dell’inaugurazione, sono intervenuti i rettori delle Università della Campania insieme a Marcella Marconi – Direttore Osservatorio Astronomico di Capodimonte, Luisa Franzese – Ufficio scolastico regionale per la Campania e Massimo Inguscio – Presidente CNR.

 

La settimana successiva è iniziata ancor più a pieno ritmo, con nomi noti al grande pubblico, come Ilaria Capua. La virologa di fama mondiale per gli studi sull’influenza aviaria e i dibattiti riguardo la scienza open-source, ha partecipato alla live moderata da Luca Carra, discutendo su approcci atti a migliorare le metodiche con cui affrontare eventi tra cui quelli pandemici. Durante il talk si sono proposti temi contenuti del suo libro “Salute circolare: una rivoluzione necessaria”, come l’importanza dell’interdisciplinarietà nella ricerca scientifica utile a creare equilibri nuovi e virtuosi rendendola più sostenibile e convergente. Il concetto di salute è da considerare come un punto di connessione tra uomo, animali ed ambiente e le conoscenze trasversali virando l’approccio verticale alla complessità dei problemi.

Nel pomeriggio di Lunedì 23 è seguito un talk di approfondimento a ricordi dei 40 anni dal terremoto dell’Irpinia-Lucania, uno dei più forti che si ricordino in Italia. Giorgio Della Via a moderare insieme a Maddalena De Lucia, addetta alla divulgazione presso l’Osservatorio vesuviano, hanno introdotto gli argomenti trattati ed i relatori, i quali si sono tutti trovati a vivere in prima persona il fenomeno sismico ed in un secondo momento a studiarlo. Mario Castellano, dirigente tecnologo dell’Osservatorio Vesuviano sezione Napoli dell’ INGV, Girolamo Milano, ricercatore geofisico dell’Osservatorio Vesuviano e Giuliana Alessio, ricercatore presso l’Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia, hanno raccontato il tipo di sisma, come fu studiato, le cause e gli aspetti tecnici del terremoto dell’Irpinia. La rete sismica del Meridione era composta da una serie di stazioni il cui numero fu ampliato sul territorio per aumentare le informazioni da raccogliere ed analizzare meglio il fenomeno anche ai finiti studi successivi riguardo la dinamica sismica. Il terremoto del 1980 è stato un momenti di svolta per capire i meccanismi alla base e per confermare, il termini di prevenzione, l’aspetto edile come unica chiave per limitare i danni.

 

Nella mattina di Martedì 24 si è tenuta una live molto interessante, dal titolo “Istruzione, Ricerca e Medicina in Africa” durante la quale sono intervenuti Pasquale Maffia, professore associato in immunologia presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, Mayowa Ojo Owolabi, Preside della Facoltà di Medicina di Ibadan in Nigeria, Ntobeko Ntusi, Preside della Facoltà di Medicina presso l’Università di Cape Town e Wilson Mandala Oda, Professore alla Malawi University of Science and Technology e al College of Medicina dell’Università del Malawi. Si è discusso sul tema pandemia da Covid-19 in Africa, su come è stata affrontata e sul suo andamento in associazione ad un approccio più precario riguardo le campagna di vaccinazione, oltre all’importanza dell’istruzione e dell’università nella risoluzione di problematiche sanitarie, ricerca scientifica e medicina.

Per giovedì 26 gli appuntamenti sono stati tanti, tra cui alle ore 15:00 un talk dal titolo “+Innovation +Green +Future. Tecnologie digitali e processi Industriali Virtuosi di sostenibilità ambientale”. Luigi Nicolais introduce Riccardo Villari, Presidente della Fondazione IDIS, Valeria Fascione, assessore alla ricerca, innovazione e startup della Regione Campania e Maurizio Manfellotto, presidente Unioni Industriali Napoli, i quali hanno riflettuto sul tema della sostenibilità con un richiamo all’assetto politico e sociale che la gestisce.

Il primo intervento è stato di Reimung Neugebauer, Presidente del Fraunhofer – Gesellschaft, la più grande organizzazione di ricerca applicata in Europa. Illustrata la diffusione dei centri in Europa ed in Italia, tra cui con l’Università degli studi di Napoli Federico II, e l’aspetto strategico ed economico del “Fraunhofer model”. Si è sottolineato come sia fondamentale realizzare la sostenibilità e mirare a creare strategie innovative per raggiungere quest’obiettivo, coinvolgendo le industrie.

A seguire Pietro Palatino, Presidente di MediTech Competence Centre I4.0, che ha richiamato il concetto di economia circolare applicata all’industria. Sono intervenuti anche Marco Zigon, Presidente di GETRA, azienda che appartiene alla filiera di produzione e distribuzione dell’energia elettrica; Massimo Moschini, Presidente e Amministratore Delegato Laminazione Sottile e Maria Cristina Piovesana, Vicepresidente Confindustria per l’Ambiente, la Sostenibilità e la Cultura.

Nel pomeriggio di Giovedì 26, un altro appuntamento ha visto come protagonista Barbara Gallavotti, biologa ed autrice di programmi come SuperQuark e Ulisse. La giornalista scientifica ha discusso la paura che l’uomo ha di non poter controllare la scienza, insieme a Giulio Sandini, bioingegnere dell’IIT, a Claudio Franceschi, immunologo dell’Istituto di Scienze Neurologiche di Bologna, a Maurizio Mori, professore di bioetica presso l’Università di Torino e a Gennaro Carillo, filosofo dell’Università SuorOrsola Benincasa di Napoli.

Nella live del titolo “Da Frankenstein al futuro”, la Gallavotti ha raccontato di Mary Shelley e di Frankestein, un corpo che da vita alla paura che la scienza non sia sotto il controllo dell’uomo. Nel talk si è affrontato in maniera interdisciplinare come queste paure siano traslate alla nostra epoca ed al futuro, toccando punto come l’aspettativa di vita, la trasmissione della vita umana ed il non adattamento dell’uomo al mondo.

A cornice dei vari eventi, Venerdì 20, Domenica 22, Lunedì 23, Mercoledì 25 e Sabato 28 il pirata Barbascura X ha tenuto live con ospiti importanti, tutte visionabili sul suo canale Twitch o su YouTube.

Tanti altri eventi si sono articolati in rubriche speciali, mostre virtuali, laboratori virtuali e talk, disponibili sulla pagina Facebook o sul canale YouTube.

Lidar e rifugio, foto dalla mostra Missione Antartide alla XXXIV edizione di Futuro Remoto. Foto copyright B. Healey, ESA, IPEV, PNRA

 

Si ringrazia Futuro Remoto – Città della Scienza per le foto.

Scoperta una correlazione tra terremoti e anidride carbonica in Appennino

L’analisi di dieci anni di campionamento di CO2 disciolta nelle acque delle falde appenniniche ha mostrato la sua massima concentrazione in occasione di intensa attività sismica

terremoti anidride carbonica Appennino
Forte emissione di CO2 associata alla risalita di acqua (piana di San Vittorino, Rieti).
L’emissione è ubicata a circa 30 chilometri dall’epicentro del terremoto dell’Aquila di aprile 2009.

Nella catena appenninica l’emissione di CO2 di origine profonda appare ben correlata con l’occorrenza e l’evoluzione delle sequenze sismiche dell’ultimo decennio. È questo il risultato dello studioCorrelation between tectonic CO2 Earth degassing and seismicity is revealed by a ten-year record in the Apennines, Italy” condotto da un team di ricercatori dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e dell’Università degli Studi di Perugia (UNIPG) appena pubblicato su ‘Science Advances’.

Per la prima volta è stata condotta un’analisi dei dati geochimici e geofisici raccolti dal 2009 al 2018”, spiega Giovanni Chiodini, ricercatore dell’INGV e coordinatore dello studio. “Gli esiti di questa ricerca hanno evidenziato una corrispondenza tra le emissioni di CO2 profonda e la sismicità mostrando come, in periodi di elevata attività sismica, si registrino picchi nel flusso di CO2 profonda che man mano diminuiscono al diminuire dell’energia sismica e del numero di terremoti”.

Il nostro pianeta rilascia CO2 di origine profonda prevalentemente dai vulcani; tuttavia tali emissioni avvengono anche in aree sismiche in cui non sono presenti vulcani attivi. In particolare, questo fenomeno risulta più intenso nelle regioni caratterizzate da tettonica estensionale, come l’area degli Appennini. 

Per quanto le relazioni temporali tra il verificarsi di un evento sismico e il rilascio di CO2 siano ancora da approfondire”, prosegue Chiodini, “in questo studio ipotizziamo che l’evoluzione della sismicità nella zona appenninica sia modulata dalla risalita del gas che deriva dalla fusione di porzioni di placca che si immergono nel mantello”.

Questa produzione continua di CO2 in profondità e su larga scala favorisce la formazione di serbatoi sovrapressurizzati. 

La sismicità nelle catene montuose”, aggiungono i ricercatori dell’INGV Francesca Di Luccio e Guido Ventura, co-autori dello studio, “potrebbe essere correlata alla depressurizzazione di questi serbatoi e al conseguente rilascio di fluidi che, a loro volta, attivano le faglie responsabili dei terremoti”.

Lo studio è stato condotto attraverso il campionamento di sorgenti ad alta portata (decine di migliaia di litri al secondo) situate nelle vicinanze delle zone epicentrali dei terremoti verificatisi in Italia centrale tra il 2009 e il 2018.

Tali campionamenti hanno permesso di caratterizzare l’origine della CO2 disciolta nell’acqua delle falde acquifere e di quantificare l’entità della CO2 profonda”, spiega Carlo Cardellini, ricercatore del Dipartimento di Fisica e Geologia dell’Università di Perugia, anche lui nel team di ricercatori coinvolti nella scoperta.

La stretta relazione tra il rilascio di CO2 e l’entità dei terremoti, unitamente ai risultati di precedenti indagini sismologiche, indica che i terremoti dell’Appennino registrati nel decennio analizzato sono associati alla risalita di CO2 profonda. È interessante rimarcare il fatto che le quantità di CO2 coinvolte sono dello stesso ordine di quelle emesse durante le eruzioni vulcaniche (circa 1,8 milioni di tonnellate)”, conclude Chiodini.

I risultati dello studio forniscono, dunque, delle evidenze su come i fluidi derivati dalla fusione di placca nel mantello svolgano un ruolo importante nella genesi dei terremoti, aprendo nuovi orizzonti nella valutazione delle emissioni di COa scala globale. Questo lavoro dimostra e ricorda, infine, come il moderno studio dei terremoti necessiti di un approccio multidisciplinare in cui integrare dati geochimici, geofisici e geodinamici.

terremoti anidride carbonica Appennino (1)
I terremoti appenninici nel periodo 2007-2019 (inclusi gli eventi catastrofici del 2009 e 2016) sono stati accompagnati da picchi evidenti nella quantità di CO2 trasportata dalle grandi sorgenti in Appennino (tonnellate al giorno di CO2 nel grafico)

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Abstract 

Deep CO 2 emissions characterize many non-volcanic, seismically active regions worldwide and the involvement of deep CO 2 in the earthquake cycle is now generally recognized. However, no long-time records of such emissions have been published and the temporal relations between earthquake occurrence and tectonic CO 2 release remain enigmatic. Here we report a ten-year record (2009-2018) of tectonic CO 2 flux in the Apennines (Italy) during intense seismicity. The gas emission correlates with the evolution of the seismic sequences: peaks in the deep CO 2 flux are observed in periods of high seismicity and decays as the energy and number of earthquakes decrease. We propose that the evolution of seismicity is modulated by the ascent of CO 2 accumulated in crustal reservoirs and originating from the melting of subducted carbonates. This large scale, continuous process of CO 2 production favors the formation of overpressurized CO 2 -rich reservoirs potentially able to trigger earthquakes at crustal depth.

 

Testo e immagini sulla correlazione tra terremoti e anidride carbonica in Appennino dagli Uffici Stampa Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia e dell’Università di Perugia.

Accostare la parola “marea” alla Geologia può lasciare perplessi in prima battuta, scavando nella memoria difficilmente si recupera un ricordo che le vede accomunate. Un termine notoriamente associato al movimento di masse liquide e la scienza che studia le masse rocciose: in che modo sono legati?

A partire dalla metà del ventesimo secolo, la teoria della tettonica a placche è entrata a far parte stabilmente del pensiero scientifico: da allora gli esperti dibattono sui processi che governano il moto dei blocchi tettonici. Postulata e dimostrata la teoria della deriva dei continenti, gli scienziati hanno ricercato le sue cause nella struttura interna della Terra ed in particolare nei moti convettivi del mantello superiore, che determinano l’allontanamento o la collisione delle placche.

Secondo i dati raccolti, però, i movimenti relativi dei blocchi non sono governati esclusivamente dalla dinamica del mantello: esiste una componente orizzontale regolata da un processo diverso. Da ricercare fuori e non dentro il pianeta. Ecco che entrano in gioco le “maree solide”, movimenti di blocchi di litosfera dipendenti dai moti solari e lunari con lungo periodo di oscillazione (maggiore di un anno).

Lo studio “Tidal modulation of plate motions” di Davide Zaccagnino (Università Sapienza di Roma), Francesco Vespe (Agenzia Spaziale Italiana) e Carlo Doglioni (Università Sapienza di Roma e INGV) pubblicato su Earth Science Reviews fornisce dati a sostegno di questa teoria, facendo uso di misurazioni satellitari registrate in uno spazio temporale di più di venti anni.

La sezione di Terra oggetto di studio è la litosfera, l’insieme della crosta terrestre e della parte superiore del mantello. Il suo comportamento – se sottoposta a sforzo – è di tipo rigido, a differenza della sottostante astenosfera più fluida e facilmente deformabile. La separazione tra queste due masse è garantita dalla low velocity zone (LVZ), una fascia a basse velocità delle onde sismiche sulla quale la litosfera scorre con poca frizione.

 

maree solide Carlo Doglioni
La struttura della terra: 1) crosta, 2) mantello, 3) nucleo (esterno liquido e interno solido), 4) litosfera, 5) astenosfera. Immagine USGS, vettoriale di Anasofiapaixao, pubblico dominio

La ricerca ha analizzato la distanza relativa di una serie coppie di stazioni GNSS (Global Navigation Satellite Systems) collocate su placche differenti (9) ed una coppia di controllo sulla stessa placca. Lo studio si è focalizzato sui moti ciclici del Sole e della Luna con oscillazioni comprese tra uno e 18,61 anni. Cicli più brevi e quindi più frequenti vengono mascherati da effetti climatici sull’atmosfera e sul sottosuolo (influenzando ad esempio pressione dei fluidi). Inoltre, i cataloghi delle misurazioni satellitari hanno a disposizione dati degli ultimi 15-20 anni.

Il professor Carlo Doglioni ha quindi risposto per noi ad alcune domande relative a questo ultimo, importante studio.

Professor Doglioni, ci sono teorie e/o ricerche riguardo oscillazioni astronomiche con periodo maggiore? Che cataloghi e misurazioni vengono usati in quel caso?

Lo studio pubblicato è un tassello importante di un percorso di ricerca iniziato circa 30 anni fa, quando si è iniziato a vedere che le placche (cioè i frammenti della litosfera, il guscio esterno della Terra) non si muovono a caso, ma seguono un flusso primario, descritto da quello che abbiamo definito ‘equatore tettonico’, che fa un angolo di circa 30° rispetto all’equatore geografico.

Guarda caso, la proiezione del passaggio della Luna sulla Terra descrive un angolo molto simile. Poi però negli anni sono state documentate delle profonde asimmetrie della tettonica in funzione della polarità geografica, per esempio le differenze tra le catene montuose legate a subduzioni verso ‘est’ o verso ‘ovest’.

Infine è stato documentato come il guscio litosferico, circa 100 km di spessore, abbia un ritardo verso ‘ovest’ di alcuni centimetri l’anno rispetto al mantello sottostante. Quindi la tettonica delle placche è polarizzata. Queste osservazioni cruciali sono state in larga parte ignorate o liquidate come effetti secondari della sola dinamica interna di raffreddamento della Terra.

Ora abbiamo invece una prova sperimentale che le maree solide – e quindi le forze astronomiche – hanno invece un effetto cruciale sulla dinamica delle placche, in particolare quelle che hanno frequenze compatibili con le alte viscosità del mantello terrestre. L’equatore tettonico, per esempio, sembra avere una inclinazione controllata dalla precessione dell’asse di rotazione terrestre, cioè circa 26.000 anni.

Quindi sì, dovrebbero esserci effetti importanti anche con frequenze con periodi più lunghi a quelli delle nutazioni (18.6 anni). In questo caso però non ci sono cataloghi né sismici, né geodetici che ci possano aiutare, se non i dati geologici di lungo periodo.

maree solide Carlo Doglioni
Immagine di Arek Socha

Lo studio conferma inoltre la teoria secondo cui l’attività sismica ha un legame con il movimento relativo di Sole e Luna. Che impatto ha questa relazione sullo studio dei terremoti, in particolare sui cataloghi degli eventi sismici passati e sul monitoraggio delle aree attive? Potranno esserci (o esistono già) studi in “tempo reale” (geologicamente parlando) dell’effetto sui diversi tipi di faglia?

La gravità rimane sempre uno dei segreti più straordinari della natura e i suoi effetti sono in parte ancora da scoprire. Basti pensare che pur avendo il Sole il 99% della massa di tutto il sistema solare, il baricentro del sistema solare oscilla continuamente per effetto della massa rimanente inferiore all’1% di cui Giove fa la parte del leone. Le forze mareali, inoltre, vanno con il cubo della distanza, e questo spiega perché la Luna, pur essendo infinitamente più piccola, ha un effetto mareale circa doppio rispetto al Sole.

La tettonica delle placche e quindi la sismicità esistono però perché il mantello terrestre può convettere, e questo è possibile perché la temperatura e la composizione interna della Terra determinano viscosità che permettono questa mobilità. Tuttavia, la domanda è se i moti convettivi sono l’unico motore attivo oppure se esiste un’altra forza che li mette in movimento.

La componente orizzontale della marea solida ora è il candidato ideale per far scivolare la litosfera sul mantello sottostante, per farla sprofondare nelle zone di subduzione o permettere la risalita per isostasia del mantello al di sotto delle dorsali oceaniche che si formano dove i gradienti di viscosità determinano velocità diverse tra le placche a parità di effetto mareale. In sostanza la convezione mantellica viene polarizzata e attivata dalla componente orizzontale della marea solida; una componente che sposta avanti e indietro il suolo di 10-20 cm a ogni passaggio è la miglior candidata a pompare il sistema tettonico.

Vediamo infatti una certa correlazione con la sismicità in funzione dei periodi in cui la componente orizzontale è maggiore. Tuttavia, la sismicità è la liberazione di gradienti di pressione che si formano nei decenni, se non millenni, e la rottura che provoca il terremoto si attua nel momento in cui le rocce non sono più in grado di accumulare energia; viene dunque raggiunta la soglia critica e si attivano le faglie che producono i terremoti.

La faglia di Sant’Andrea. Foto di Ikluft, CC BY-SA 4.0

In sostanza, la correlazione tra maree e terremoti è più subdola, nel senso che c’è una frequenza maggiore di terremoti quando le placche vanno un po’ più veloci, ma i terremoti avvengono anche quando le placche si muovono più lentamente, qualora lo stato limite o condizione critica siano stati raggiunti. La componente orizzontale fornisce l’energia al sistema, mentre la componente verticale della marea modifica e modula continuamente, ogni secondo, la gravità terrestre, alzando e ribassando la litosfera e quindi anche la superficie terrestre di 30-40 cm, e quindi modificando anche il peso delle rocce: questa oscillazione favorisce o sfavorisce i terremoti in funzione della loro natura.

Per esempio, i terremoti estensionali avvengono più frequentemente durante le fasi di bassa marea (quando cioè la gravità terrestre è massima), mentre i terremoti compressivi avvengono più spesso durante le fasi di alta marea perché con una leggera diminuzione della forza di gravità si facilita lo scorrimento contrazionale.

In sostanza, la componente orizzontale carica il sistema, mentre quella verticale può essere il grilletto che innesca i terremoti, ma questi possono avvenire indipendentemente dalla marea quando la ‘misura è colma’. La Terra esercita delle maree solide che innalzano il suolo lunare di circa 10 metri, e la sismicità lunare ha una ciclicità mensile concentrata nell’emisfero rivolto verso la Terra.

La Luna non ha una tettonica delle placche perché evidentemente non ha temperature interne sufficientemente alte da determinare basse viscosità che permettano la convezione e inoltre si trova in tidal-locking, cioè guarda la Terra sempre con la stessa faccia, quindi manca la rotazione del corpo celeste come per il nostro pianeta. Quindi sì, c’è un controllo gravitazionale fondamentale sulla sismicità, ma questo non significa che ora siamo in grado di prevedere i terremoti.

Sismogramma all’Osservatorio di Weston, Massachussetts. Foto di Z22, CC BY-SA 3.0

Abbiamo però una chiave di lettura che ci permetterà di approfondire quei settori delle geoscienze che ci possono dare informazioni deterministiche sull’evoluzione delle aree a maggiore pericolosità sismica: dalla geodesia alla geochimica dei fluidi, dalla statistica all’intelligenza artificiale, discipline che ci permettono di riconoscere dei transienti o anomalie che preludono l’attivazione delle faglie, o meglio il rilascio dell’energia accumulata nei volumi adiacenti alle faglie stesse che sono dei piani passivi di rilascio e canalizzazione di una parte di questa energia.

Che impatto può avere questa ricerca sullo studio degli hotspot, ad esempio quello delle Hawaii? Può aiutare a definire la profondità di origine del magma che alimenta l’apparato vulcanico? Può aiutare a determinare la dinamica dello spostamento dell’hotspot stesso (se lo spostamento esiste)?

Uno studio relativamente recente – grazie alla tecnica sismologica delle receiver functions – ha permesso di ricostruire la profondità a circa 130 km della camera magmatica sotto le Hawaii: questo significa che sì, gli hotspot pacifici sono alimentati da magma che proviene appunto da quel livello sotto la litosfera che si chiama canale a bassa velocità (low-velocity zone, LVZ) che costituisce la parte alta dell’astenosfera che va da circa 100 a 410 km di profondità.

I magmi delle Hawaii inoltre, sulla base dei dati petrologici sappiamo che si sono formati a una temperatura di circa 1500°C, a conferma del dato sismologico, e sono quindi relativamente superficiali, non provenienti cioè dal limite nucleo-mantello a 2900 km, come alcuni ricercatori avevano ipotizzato. Le Hawaii, come varie altre catene magmatiche, ci documentano che la litosfera si muove rispetto all’astenosfera e questo dato ci permette di calcolare la deriva della litosfera verso ‘ovest’ rispetto al mantello.

Carta batimetrica delle isole Hawaii. Immagine USGS in pubblico dominio; credits per Barry W. Eakins, Joel E. Robinson, Japan Marine Science e Technology Center: Toshiya Kanamatsu, Jiro Naka, University of Hawai’i: John R. Smith, Tokyo Institute of Technology: Eiichi Takahashi, e Monterey Bay Aquarium Research Institute: David A. Clague – Bathymetry image PDF, tratta dalla pubblicazione USGS Geologic Investigations Series Map I-2809: Hawaii’s Volcanoes Revealed

Vi sono anche altri tipi di catene magmatiche che venivano etichettate come hotspot, in particolare posizionate sulle dorsali oceaniche come l’Islanda, le Azzorre, Ascencion, ma è stato dimostrato dalle ricerche di scienziati italiani come Enrico Bonatti e Marco Ligi che in realtà sono zone dove il mantello fonde a una temperatura più bassa per il maggiore contenuto di fluidi, a cominciare dall’acqua stessa. Sono chiamati appunto wetspot o punti bagnati e hanno quindi un’origine e una composizione diversa rispetto agli hotspot come le Hawaii. Lo spostamento degli hotspot e wetspot è documentato, ma ha natura e significato geodinamico diverso. Nessun punto o margine di placca sulla Terra è fisso, tutto si muove, a velocità diverse, rispetto al mantello sottostante.

Quali campi altri di ricerca potranno beneficiare delle conclusioni di questo studio?

Il nostro auspicio (con Davide Zaccagnino e Francesco Vespe, coautori della ricerca, ma anche di numerosi altri colleghi che nel corso degli anni hanno contribuito in modo fondamentale a queste ricerche) è che questa scoperta sia l’inizio di un percorso che ci permetterà di capire sempre meglio non solo la sismicità, ma anche i meccanismi fondamentali di funzionamento della Terra e le sue interazioni con la dinamica planetaria e, perché no, anche dell’origine ed evoluzione della vita.

maree solide Carlo Doglioni
Immagine di malith d karunarathne

 

Riferimenti:

Tidal modulation of plate motions – Davide Zaccagnino, Francesco Vespe, Carlo Doglioni – Earth Science Reviews https://doi.org/10.1016/j.earscirev.2020.103179

Le maree solide muovono i continenti 

Le forze di natura astronomica come le maree solide svolgono un ruolo attivo sulla tettonica delle placche: è quanto affermano i risultati di una ricerca frutto della collaborazione fra l’Università Sapienza di Roma, l’ASI e l’INGV

 

Il motore della dinamica delle placche tettoniche è ancora relativamente poco chiaro. Da decenni si è pensato che la Luna e il Sole potessero contribuire alla dinamica interna della Terra, ma, nonostante vi fossero molte evidenze indirette, la loro influenza non era mai stata dimostrata in modo convincente.

Non tutti sanno che oltre alle maree liquide vi sono anche le maree solide che deformano continuamente la crosta terrestre, dislocando il suolo sia sulla verticale che sulla orizzontale di diversi decimetri. Con lo studio “Tidal modulation of plate motions” appena pubblicato su Earth Science Reviews, gli scienziati dell’Università Sapienza di Roma, dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) e dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) hanno fatto luce sull’importanza delle maree solide, (cioè di quelle deformazioni del suolo e di tutta la crosta terrestre che avvengono durante il passaggio allo zenit dei due corpi celesti) provando il legame fra gli spostamenti delle placche tettoniche e le forze di natura astronomica come le maree, in particolare nella loro componente orizzontale.

Gli effetti periodici delle maree si verificano a intervalli di tempo molto diversi. Alcuni hanno alta frequenza, cioè avvengono con cadenza semidiurna, diurna, bisettimanale e mensile. Altri, invece sono a bassa frequenza con cadenze più lunghe: semi-annuali, annuali, 8,8 e i 18,6 anni circa, fino ad arrivare a quella della precessione degli equinozi che ha un periodo di 26.000 anni. Quelle con periodi di 8,8 e 18,6 anni, sulle quali si è focalizzato lo studio, sono dovute, rispettivamente, alla precessione del perigeo e del nodo ascendente della Luna.

Le oscillazioni ad alta frequenza sono per lo più smorzate dall’alta viscosità del guscio esterno della Terra, la litosfera, che è spessa circa 100 km e il cui movimento relativo al mantello sottostante è rimasto finora inspiegato. Inoltre, le oscillazioni ad alta frequenza si confondono con fattori climatici e stagionali dovuti a oscillazioni della pressione atmosferica e dei cicli dei fluidi nel sottosuolo e nei bacini oceanici. Da qui l’idea di ricercare oscillazioni orizzontali di bassa frequenza sulle linee di base inter-continentali, perché univocamente attribuibili alle sollecitazioni mareali.
Ciò è stato possibile grazie alla rete globale di stazioni GNSS permanenti (la sigla sta per “Global Navigation Satellite Systems”, che comprende sia il GPS americano che il sistema GALILEO europeo) attraverso la quale è possibile effettuare misure di velocità tra le placche anche tra stazioni a migliaia di chilometri di distanza.

Grazie a importanti servizi internazionali operanti da almeno 30 anni come l’International GNSS Service (IGS), cui contribuisce in modo significativo l’ASI attraverso il suo Centro di Geodesia Spaziale di Matera, le stazioni hanno accumulato serie storiche delle loro coordinate giornaliere lunghe ormai almeno 20 anni, necessarie per svolgere questo tipo di analisi.
Così Davide Zaccagnino, Francesco Vespe e Carlo Doglioni hanno effettuato l’analisi delle variazioni nel tempo della velocità di allontanamento o avvicinamento tra le placche.
Dai loro studi è emerso che la deriva secolare dei continenti, cioè delle placche litosferiche in cui è suddiviso il guscio del pianeta, è modulata da una vibrazione che oscilla alle stesse basse frequenze delle maree. È stata fatta una controprova per linee di base intra-placca per capire se queste oscillazioni persistessero o meno.

Proprio la trascurabilità riscontrata su linee di base intra-placca ha confermato che queste forze astronomiche giocano un ruolo decisivo nel descrivere i moti della deriva dei continenti che, quindi, lentamente si muovono verso ‘ovest’ grazie alla spinta orizzontale delle maree solide rispetto al mantello sottostante, lungo un flusso ondulato descritto dal cosiddetto equatore tettonico che fa un angolo di circa 30° con l’equatore geografico.

Riferimenti:

Tidal modulation of plate motions – Davide Zaccagnino, Francesco Vespe, Carlo Doglioni – Earth Science Reviews https://doi.org/10.1016/j.earscirev.2020.103179

maree solide continenti
Immagine realizzata da SoylentGreen, con texture della NASA, CC BY-SA 3.0

Testo dall’Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma.