News
Ad
Ad
Ad
Tag

INFN

Browsing

EINSTEIN TELESCOPE: INAUGURATO A FIRENZE IL LABORATORIO DI OTTICA ADATTIVA ADONI-ET 

Firenze, 13 maggio 2025 – Nel quadro del progetto PNRR ETIC è stato inaugurato oggi, martedì 13 maggio, il laboratorio di ottica adattiva ADONI-ET all’Osservatorio Astrofisico di Arcetri, la sede fiorentina dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). L’evento inaugurale è stato aperto dai saluti istituzionali di Simone Esposito, direttore dell’INAF di Arcetri, e Giovanni Passaleva, direttore della sezione di Firenze dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN). A seguire, prima del tradizionale taglio del nastro, Michele Punturo, coordinatore scientifico del progetto ETIC e responsabile internazionale di Einstein Telescope, e Armando Riccardi, responsabile di ADONI-ET, hanno illustrato rispettivamente le sfide del progetto ET e del nuovo laboratorio di ottica adattiva.

La realizzazione del laboratorio ADONI-ET rientra nel progetto Einstein Telescope Infrastructure Consortium (ETIC), finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR), nell’ambito della Missione 4 del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), di cui l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) è capofila.

INAF partecipa al progetto PNRR ETIC attraverso il laboratorio nazionale per ottiche adattive ADONI, che ha nella propria missione il trasferimento delle tecnologie adattive sviluppate per i telescopi ottici in altri campi scientifici.

Nel campo degli interferometri gravitazionali come l’Einstein Telescope, l’obiettivo del laboratorio ADONI-ET è studiare un concetto innovativo per la correzione degli specchi di ET, che utilizza fasci infrarossi per controllare la forma di un elemento correttore mediante il riscaldamento locale. È previsto che il sistema funzioni in ciclo chiuso, regolando il riscaldamento locale utilizzando le informazioni di un canale di misura che verifica la forma effettiva degli specchi da controllare.

«Il laboratorio, progettato e realizzato grazie ai fondi del PNRR-ETIC, nasce dall’esperienza consolidata dell’Istituto Nazionale di Astrofisica e del suo laboratorio ADONI, punto di riferimento a livello nazionale e internazionale nel campo dell’ottica adattiva per applicazioni astronomiche», sottolinea il direttore di INAF Arcetri Simone Esposito. «Le tecniche sviluppate in questo ambito trovano nuova applicazione nel controllo dei fasci ottici degli interferometri gravitazionali. Il programma PNRR-ETIC ha quindi offerto un impulso molto importante allo sviluppo multidisciplinare dell’ottica adattiva, estendendone l’uso a strumenti scientifici d’avanguardia come gli interferometri gravitazionali».

«Come direttore della Sezione INFN di Firenze, sono particolarmente felice e orgoglioso dell’inizio delle attività del laboratorio ETIC-ADONI, presso l’Osservatorio di Arcetri. ETIC-ADONI è stato finanziato nell’ambito del progetto PNRR ETIC, con capofila l’INFN, che si occupa dello studio di fattibilità e della caratterizzazione del sito italiano candidato a ospitare Einstein Telescope e della creazione di una rete di laboratori di ricerca per lo sviluppo delle tecnologie che saranno adottate dal nuovo osservatorio gravitazionale, coinvolgendo molte università ed enti di ricerca italiani, tra cui l’INAF», aggiunge il direttore di INFN Firenze Giovanni Passaleva. «L’INAF è un partner fondamentale per ETIC e con il laboratorio ETIC-ADONI giocherà un ruolo chiave, trasferendo le proprie competenze di eccellenza nell’ottica adattiva nell’ambito della ricerca sulle onde gravitazionali. Si aggiunge così un altro tassello all’eccellenza della ricerca fiorentina, che vede INFN e INAF collaborare insieme a uno dei progetti scientifici più importanti e rivoluzionari dei prossimi decenni, sulla storica collina di Arcetri che ospitò giganti della scienza come Galileo, Fermi, Occhialini, Hack e Pacini».

«I segnali generati dalle onde gravitazionali sono talmente deboli da richiedere strumenti perfettamente isolati e privi di distorsioni ottiche, per evitare che gli effetti di tali “imperfezioni” riducano drasticamente la sensibilità della detezione. Questo è particolarmente vero per l’Einstein Telescope, che si propone di aumentare di un ordine di grandezza la sensibilità rispetto all’attuale generazione di telescopi gravitazionali (LIGO, Virgo), richiedendo soluzioni innovative per il controllo del sistema. In particolare ogni differenza delle ottiche del fascio di misura dalla loro forma ideale, che sia un inevitabile residuo di fabbricazione o una deformazione dovuta alla variazione della loro temperatura, deve essere compensata. L’ottica adattiva ha esattamente questo scopo: agire con un elemento correttore all’interno del sistema per compensare gli effetti delle deformazioni delle ottiche in tempo reale», spiega il responsabile di ADONI-ET Armando Riccardi. «Il laboratorio ADONI-ET, presso l’Osservatorio Astrofisico di Arcetri, ha lo scopo di trasferire l’esperienza acquisita in INAF con le tecniche di ottica adattiva, per la correzione degli effetti della turbolenza atmosferica sulle immagini astronomiche, a Einstein Telescope. In particolare, nel laboratorio stiamo sviluppando e verificheremo la capacità di uno specchio deformabile di modulare la luce di un laser di potenza, per variare la mappa di temperatura di un’ottica da utilizzare come elemento correttore dei fasci di misura di ET (compensation plate) e verificare che le distorsioni del fronte d’onda ottenute siano in accordo con le accuratezze richieste da questo formidabile strumento per la detezione delle onde gravitazionali».

Con questo progetto del laboratorio ADONI, INAF si candida concretamente a contribuire allo sviluppo di un sistema adattivo per ET anche attraverso la formazione di giovani ricercatrici e ricercatori.

Il consorzio ETIC è composto da quattordici università ed enti di ricerca italiani, con l’obiettivo di sostenere la candidatura italiana a ospitare il futuro osservatorio di onde gravitazionali di nuova generazione Einstein Telescope (ET), una delle più grandi e ambiziose infrastrutture di ricerca che saranno costruite in Europa nei prossimi decenni, incluso nella roadmap di ESFRI (European Strategy Forum on Research Infrastructure), l’organismo che indica su quali infrastrutture scientifiche è decisivo investire in Europa.

A fronte di un investimento totale di 50 milioni di euro, le attività di ETIC si stanno concentrando, da un lato, sulla caratterizzazione del sito candidato a ospitare ET, nell’area intorno alla miniera dismessa di Sos Enattos, nel Nuorese, in Sardegna, e dall’altro sulla realizzazione o potenziamento di una rete di laboratori di ricerca per lo sviluppo delle tecnologie che saranno adottate dal nuovo osservatorio gravitazionale.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

L’interazione tra buchi neri e onde gravitazionali si studia con un esperimento da tavolo

Lo studio, basato sulla tesi di Chiara Coviello, laureata in Fisica all’Unipi, è stato pubblicato sulla rivista AVS Quantum.

Uno studio basato sulla tesi di Chiara Coviello, laureata in Fisica all’Università di Pisa nel 2023 e adesso al King’s College di Londra per un dottorato di ricerca, è stato recentemente pubblicato dalla rivista AVS Quantum Science. Al centro dello studio – intitolato “Gravitational waves and Black Hole perturbations in acoustic analogues” – ci sono i buchi neri che, con il loro fascino oscuro, sono tra gli oggetti più affascinanti del cosmo e sono incredibilmente difficili da analizzare. Per comprenderli meglio, il gruppo di ricerca interdisciplinare di cui fa parte Coviello ha esaminato i buchi neri acustici, un equivalente analogico che intrappola le onde sonore e può essere creato in un esperimento da tavolo. Tra gli autori e le autrici dello studio ci sono anche la professoressa Marilù Chiofalo dell’Università di Pisa, i professori Dario Grasso dell’INFN di Pisa, Stefano Liberati della SISSA di Trieste e Massimo Mannarelli dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso, con la dottoressa Silvia Trabucco, dottoranda di ricerca al Gran Sasso Institute Science dopo essersi laureata in Fisica a Pisa.

buchi_neri UniPi esperimento da tavolo
L’interazione tra buchi neri e onde gravitazionali si studia con un esperimento da tavolo; lo studio pubblicato su AVS Quantum Science

Coviello e gli altri autori e autrici hanno indagato se i buchi neri acustici possano essere utilizzati per comprendere le interazioni tra le onde gravitazionali e i buchi neri astrofisici. In un’analisi teorica, hanno esplorato come generare perturbazioni simili a onde gravitazionali in un condensato di Bose-Einstein di atomi ultrafreddi, uno stato della materia in cui qualche centinaia di migliaia di atomi si comportano collettivamente come se fossero un unica grande molecola. Nei condensati di Bose-Einstein, le eccitazioni di più bassa energia sono perturbazioni della densità, descritte da particella quantistiche chiamate fononi. Nello studio, i fononi si muovono come particelle senza massa in una geometria che può essere ingegnerizzata in modo da riprodurre caratteristiche di un buco nero per quanti di luce, o fotoni, cioè un buco nero astrofisico. Negli analoghi buchi neri acustici, infatti, sono i fononi a rimanere intrappolati e al tempo stesso costituire la cosiddetta radiazione di Hawking, predetta dal celebre astrofisico Stephen Hawking per i buchi neri astrofisici. Utilizzando quanto noto sulle onde gravitazionali, le autrici e gli autori hanno sviluppato un dizionario tra buchi neri astrofisici e buchi neri acustici, per comprendere meglio gli effetti di perturbazioni simili alle onde gravitazionali sull’orizzonte acustico di un buco nero da laboratorio. L’idea è usare esperimenti di fisica della materia in tavoli ottici di qualche metro quadro come simulatori quantistici altamente accurati e controllabili per studiare proprietà di oggetti di interesse astrofisico e cosmologico.

“Siamo entusiasti che questa fisica possa essere studiata in esperimenti attualmente realizzabili, ad esempio con atomi ultra-freddi, offrendo un nuovo modo per analizzare questi sistemi in un ambiente controllato”, ha dichiarato l’autrice Chiara Coviello.

Chiara Coviello
Chiara Coviello

I risultati potrebbero essere utilizzati per studiare gli effetti di dissipazione e riflessione delle perturbazioni simili alle onde gravitazionali nei buchi neri acustici. Gli autori e le autrici ritengono che ciò contribuirà a far luce sui comportamenti universali e sul ruolo delle fluttuazioni quantistiche nei buchi neri astrofisici.

Il team di ricerca, composto da una collaborazione tra diverse università e centri di ricerca, intende proseguire lo studio analizzando le proprietà di viscosità dell’orizzonte acustico in relazione alla sua entropia, note per avere comportamenti universali, cioè non dipendenti dallo specifico sistema fisico. I risultati potrebbero fornire nuove intuizioni sulla teoria fisica di base e sulle simmetrie dei buchi neri astrofisici.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

UN ANELLO PERFETTO PER LA MISSIONE EUCLID: NGC 65o5 È LA PRIMA LENTE GRAVITAZIONALE FORTE

La missione Euclid dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) ha scoperto la sua prima lente gravitazionale forte: l’immagine di una galassia lontana che appare sotto forma di anello, grazie alla forza di gravità di una galassia molto più vicina a noi (NGC 6505) che si trova, casualmente, sulla stessa linea di vista. I risultati dello studio, guidato da una collaborazione internazionale a cui partecipano ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), dell’Università di Bologna, dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e di molti atenei italiani, sono stati pubblicati oggi su Astronomy & Astrophysics.

Immagine della galassia NGC 6505: l'anello di Einstein creato da questa lente gravitazionale si può vedere al centro dell'immagine
Immagine della galassia NGC 6505: l’anello di Einstein creato da questa lente gravitazionale si può vedere al centro dell’immagine. Crediti: ESA/Euclid/Euclid Consortium/NASA, image processing by J.-C. Cuillandre, T. Li 

Lanciata nel luglio del 2023, Euclid sta scansionando il cielo in profondità per costruire la più precisa mappa 3D mai realizzata dell’Universo, spingendosi fino a 10 miliardi di anni fa per studiare la storia cosmica e indagare i misteri delle enigmatiche materia oscura ed energia oscura. La missione, che vede un forte contributo italiano attraverso l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), l’INAF, l’INFN e numerosi atenei, deve raccogliere una enorme mole di dati per raggiungere i suoi ambiziosi obiettivi scientifici. E tra questi dati si nascondono moltissime sorprese.

Una delle prime sorprese è la galassia NGC 6505, nota sin dalla fine dell’Ottocento e relativamente vicina a noi – la sua luce è partita “appena” 590 milioni di anni fa. Grazie a Euclid si è scoperto che questa galassia agisce come lente gravitazionale, deviando la luce proveniente da un’altra galassia molto più lontana, la cui luce è partita ben 4,42 miliardi di anni fa. Il risultato è un’immagine distorta di quest’ultima galassia: distorta al punto giusto da formare un anello perfetto. La ricerca è guidata da Conor O’Riordan dell’Istituto Max Plack per l’Astrofisica (Max Planck Institute for Astrophysics) di Monaco di Baviera, Germania.

Secondo la teoria della relatività generale di Einstein, i corpi dotati di massa “piegano” il tessuto dello spaziotempo che pervade l’Universo, deflettendo il percorso di qualsiasi altro oggetto nelle vicinanze, compresa la luce. Questo fenomeno, chiamato lensing gravitazionale, produce immagini distorte dei corpi celesti, proprio come quelle create da una comune lente d’ingrandimento. La missione Euclid userà il lensing gravitazionale nella sua forma “debole” per studiare l’invisibile materia oscura attraverso la sua influenza sulle immagini leggermente deformate di miliardi di galassie. In rari casi, per esempio quando galassie a diverse distanze da noi si trovano fortuitamente allineate, il lensing gravitazionale si manifesta nella sua forma più eclatante, detta “forte”, dando luogo a immagini multiple di una stessa galassia o eccezionalmente a un intero anello, detto anello di Einstein.

Dettagli dell'anello di Einstein, immagine distorta di una galassia lontana creata dalla lente gravitazionale NGC 6505.Crediti: ESA/Euclid/Euclid Consortium/NASA, image processing by J.-C. Cuillandre, T. Li
NGC 6505 è la prima lente gravitazionale forte scoperta dalla missione Euclid, lo studio è stato pubblicato su Astronomy & Astrophysics. Dettagli dell’anello di Einstein, immagine distorta di una galassia lontana creata dalla lente gravitazionale NGC 6505.
Crediti: ESA/Euclid/Euclid Consortium/NASA, image processing by J.-C. Cuillandre, T. Li

“Questa prima lente gravitazionale forte scoperta da Euclid ha caratteristiche uniche”, spiega Massimo Meneghetti, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, associato all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, tra gli autori del nuovo studio. “È veramente raro poter trovare una galassia relativamente prossima a noi, come questa che si trova nel catalogo NGC (New galaxy catalog, uno dei cataloghi di galassie vicine), che agisca da lente gravitazionale forte. Galassie così vicine infatti non sono generalmente in grado di focalizzare la luce di sorgenti retrostanti e formare immagini multiple, a meno che non contengano enormi quantità di materia nelle loro regioni centrali. La formazione di anelli di Einstein completi come quello di NGC 6505 è un evento ancora più raro, perché richiede che la galassia lente e quella sorgente siano perfettamente allineate con il nostro telescopio. Per questi motivi, non ci aspettiamo che Euclid osserverà molte lenti come NGC 6505. Anche considerando la vasta area di cielo che verrà coperta nel corso della missione, ci aspettiamo di poter scoprire al massimo 20 lenti come questa”.

Questa lente gravitazionale è stata scoperta per caso, in una delle prime zone di cielo osservate da Euclid, analizzando i dati della fase di verifica della missione appena due mesi dopo il lancio, dall’astronomo Bruno Altieri dell’ESA: per questo il gruppo di ricerca l’ha soprannominata “lente di Altieri”. Benché la galassia NGC 6505 sia stata osservata per la prima volta nel 1884, l’anello di Einstein scoperto con Euclid non era mai stato notato prima, dimostrando le straordinarie capacità di scoperta della missione.

La distorsione indotta dal lensing gravitazionale dipende dalla distribuzione e dalla densità di materia della galassia che agisce da lente. Per questo motivo, analizzando la distorsione è possibile misurare la sua massa sia in termini di stelle che di materia oscura. In questo caso, inoltre, visto che l’anello di Einstein della lente di Altieri ha un raggio più piccolo rispetto a quello di NGC 6505, è stato possibile studiare accuratamente la composizione e la struttura delle regioni centrali, dove la materia oscura è meno prominente, e dove la galassia è dominata dalle stelle.

“Dato che il lensing gravitazionale è il metodo più preciso per misurare la massa, combinando il modello dell’anello di Einstein e della distribuzione di stelle della galassia, abbiamo potuto misurare che la frazione di massa composta da materia oscura al centro della lente è soltanto l’11 per cento”, spiega la co-autrice Giulia Despali, ricercatrice al Dipartimento di Fisica e Astronomia “Augusto Righi” dell’Università di Bologna, associata dell’INAF e dell’INFN. “Ricordiamo che la materia oscura costituisce circa l’85 per cento della materia totale del nostro Universo, quindi le regioni centrali delle galassie sono veramente particolari. Abbiamo infatti misurato le proprietà della galassia con estrema precisione, scoprendo una struttura complessa che varia con la distanza dal centro e stimando la funzione di massa iniziale, e cioè la proporzione di stelle di piccola e grande massa. Le nuove osservazioni di Euclid ci aiutano quindi a capire di più sia sull’Universo oscuro che sui processi di formazione ed evoluzione delle galassie”.

Se questa scoperta è avvenuta per caso, all’interno della collaborazione Euclid c’è un vasto gruppo dedicato alla ricerca di lenti gravitazionali, e ci si aspetta di trovarne oltre centomila nei 14mila gradi quadrati di cielo che saranno osservati nel corso della missione. Queste indagini sfruttano, da un lato, strumenti sofisticati come l’intelligenza artificiale, e dall’altro anche la citizen science, coinvolgendo il pubblico non esperto nell’ispezione visuale delle immagini, in collaborazione con la piattaforma Zooniverse. L’obiettivo è quello di realizzare una mappa dettagliata della distribuzione della materia, sia quella visibile che quella oscura, nelle galassie e negli ammassi di galassie a varie distanze dall’Universo locale per poter così studiare la natura e l’evoluzione nel tempo della materia oscura e dell’energia oscura.

Testo e immagini dagli Uffici Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna

CECILIA PAYNE E HENRIETTA LEAVITT. DUE ASTRONOME, UN CENTENARIO 

Una mostra fotografica e un ciclo di conferenze per celebrare due donne che hanno cambiato la nostra comprensione dell’Universo 

Inaugurazione con la divulgatrice statunitense Dava Sobel che presenterà anche il saggio su Marie Curie 

1925 - 2025 Payne e Leavitt - Due astronome, un centenario

Mercoledì 29 gennaio alle ore 18, al Rettorato (via Verdi 8, Torino), prende il via l’iniziativa promossa dall’Università di Torino con Accademia delle Scienze, Infini.to – Planetario di Torino, Museo dell’Astronomia e dello Spazio “Attilio Ferrari”, Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e patrocinata dal Cirsde, con l’inaugurazione della mostra fotografica 1925 – 2025 Payne e Leavitt – Due astronome, un centenario prodotta da UniVerso per celebrare le straordinarie figure di Cecilia Payne e Henrietta Leavitt, due scienziate dello Harvard College Observatory che, con le loro ricerche, hanno segnato una svolta nella storia dell’astrofisica. 

Esattamente cento anni fa, nel 1925, due loro scoperte hanno infatti rivoluzionato la comprensione dell’Universo: grazie a Cecilia Helena Payne abbiamo capito di cosa sono fatte le stelle e grazie a Henrietta Swan Leavitt che la nostra galassia, la Via Lattea, è solo una tra miriadi di galassie. Queste due scoperte fondamentali non solo hanno aperto nuove frontiere per la conoscenza umana, ma hanno anche ispirato generazioni di scienziati e scienziate. 

La mostra fotografica 

La mostra, curata da Infini.to – Planetario di Torino, Museo dell’Astronomia e dello Spazio “Attilio Ferrari” con il coordinamento scientifico di Antonaldo Diaferio, ripercorre attraverso testi e immagini le vite di Cecilia Payne e Henrietta Leavitt, che iniziarono il loro cammino scientifico seguendo percorsi inizialmente lontani dall’astrofisica – Payne studiando botanica e Leavitt interessandosi alla musica – per poi essere attratte dalla sfida di comprendere l’Universo. La loro dedizione, creatività e tenacia permisero loro di superare le barriere di un mondo scientifico dominato dagli uomini, contribuendo in modo determinante alla nostra comprensione del cosmo. Questa iniziativa non è solo un tributo alle loro scoperte, ma anche un invito a riflettere sulle qualità imprescindibili di chi si dedica alla scienza: una curiosità instancabile e una tenacia indomabile. 

La mostra, allestita nel Cortile del Rettorato (via Verdi 8, Torino), sarà inaugurata alle ore 18 alla presenza di Dava Sobel, divulgatrice scientifica autrice del libro Le scienziate che misurarono il cielo, che terrà un discorso per rendere omaggio al contributo di Payne e Leavitt alla conoscenza umana. 

Il ciclo di conferenze per esplorare l’Universo 

Sempre il 29 gennaio, alle ore 21, presso l’Accademia delle Scienze di Torino, con la lectio dal titolo Cecilia Payne e Henrietta Leavitt: lo Harvard College Observatory nei primi decenni del XX secolo, Dava Sobel aprirà il ciclo di 16 conferenze pubbliche tenute da astrofisiche e astrofisici di fama internazionale. Gli incontri si svolgeranno nell’arco di tutto il 2025 in tre sedi prestigiose: l’Accademia delle Scienze di Torino, Infini.to – Planetario di Torino Museo dell’Astronomia e dello Spazio “Attilio Ferrari”, e l’Archivio di Stato di Torino. Il programma completo delle conferenze è disponibile sul sito del Planetario. 

Infine, a corollario dell’iniziativa, giovedì 30 gennaio, alle ore 21 al Circolo dei lettori (via Bogino 9, Torino) si terrà l’incontro con Dava Sobel dal titolo Gli elementi di Marie Curie a partire dal suo libro Nel laboratorio di Marie Curie (Rizzoli, 2025). Dialogando con Silvia Rosa Brusin, l’autrice accompagnerà il pubblico con originalità e competenza nella vita di Marie Curie, una delle figure più importanti e influenti del nostro tempo, con le sue straordinarie scoperte, e delle scienziate sue eredi. Per informazioni: https://torino.circololettori.it/gli-elementi-di-marie-curie/   

Informazioni utili 

Mostra fotografica 1925 – 2025 Payne e Leavitt – Due astronome, un centenario
Università di Torino, Cortile del Rettorato, via Verdi 8/via Po 17
Dal 29 gennaio al 29 marzo 2025
Orario di apertura da lunedì a sabato ore 10-18 Ingresso gratuito 

Inaugurazione 29 gennaio, ore 18, Palazzo del Rettorato 

Ciclo di conferenze 

Gli appuntamenti si terranno presso Accademia delle Scienze di Torino, Infini.to – Planetario, Museo dell’Astronomia e dello Spazio “Attilio Ferrari” e Archivio di Stato di Torino.
Per info sul programma completo https://planetarioditorino.it/calendario-cicli-payne-e-leavitt 

Inaugurazione 29 gennaio, ore 21, Accademia delle Scienze di Torino 

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

IL BUCO NERO SUPERMASSICCIO 1ES 1927+654, CON LA CORONA OSCILLANTE

Grazie a una lunga campagna di osservazioni realizzate con il telescopio spaziale XMM-Newton dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), un gruppo internazionale di ricerca guidato dal Massachusetts Institute of Technology (MIT), di cui fa parte anche Ciro Pinto dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, ha rilevato oscillazioni quasi periodiche dei segnali X provenienti dalla “corona” di particelle che circonda un buco nero supermassiccio situato nel cuore di una galassia vicina. L’evoluzione di queste oscillazioni non solo suggerisce la presenza di un altro oggetto celeste in orbita attorno al buco nero, ma indica inoltre che questi oggetti compatti divorano la materia in modi più complessi di quanto gli astronomi inizialmente pensassero.

I risultati dello studio, in uscita sulla rivista Nature, suggeriscono che a produrre tale variabilità possa essere una nana bianca attorno al buco nero, che viene divorata a piccoli “morsi” a ogni orbita. Il lavoro, basato su osservazioni del buco nero supermassiccio 1ES 1927+654, al centro dell’omonima galassia situata in direzione della costellazione del Dragone, è stato presentato oggi al 245mo meeting dell’American Astronomical Society in corso a National Harbor (Maryland, Stati Uniti). Durante il meeting sono stati presentati altri due studi, dedicati a osservazioni dello stesso buco nero, firmati tra gli altri da Gabriele Bruni, Francesca Panessa e Susanna Bisogni dell’INAF.

I buchi neri supermassicci sono mostri cosmici che imprigionano qualsiasi cosa varchi il loro “confine”, una regione dello spaziotempo nota come orizzonte degli eventi. Previsti dalla teoria della relatività generale di Albert Einstein, si distinguono per la loro capacità di accrescere massa attraverso un disco di accrescimento riscaldato dall’attrito, emettendo luce visibile, ultravioletta e raggi X. Intorno al disco si sviluppa una corona di particelle caldissime che emette raggi X ad alta energia, la cui intensità varia in base alla quantità di materia che fluisce verso il buco nero.

Le emissioni descritte nell’articolo di Nature sono segnali a raggi X variabili nel tempo e in frequenza, chiamate oscillazioni quasi periodiche, o QPO (dall’inglese Quasi Periodic Oscillations). Le osservazioni hanno rivelato picchi di emissione X che variano su tempi scala brevissimi, dell’ordine di 500 secondi.

Gli autori dello studio, guidato da Megan Masterson del Massachusetts Institute of Technology, negli Stati Uniti, osservano 1ES 1927+654 con XMM-Newton fin dal 2011. All’inizio il buco nero si trovava in una fase di basso accrescimento, una sorta di “regime alimentare dietetico”. Le cose sono cambiate nel 2018, quando è entrato in una fase di accrescimento estremo, caratterizzata da una potente esplosione (outburst in inglese) associata all’emissione da parte del disco di accrescimento di luce visibile e ultravioletta, come pure di potenti venti relativistici: il segno tangibile di un “pasto abbondante”. In quell’occasione, i ricercatori hanno anche osservato la scomparsa dell’emissione X ad alta energia della corona – precedentemente osservata -, sinonimo di distruzione della corona stessa.

Dopo il ripristino del flusso di raggi X emessi dalla corona nel 2021, nuove osservazioni condotte sempre con XMM-Newton a luglio del 2022 hanno però mostrato rapide variazioni di questo flusso, con periodi compresi tra 400 e 1000 secondi. Il profilo di emissione presentava picchi che si alternavano a bruschi cali del segnale: le oscillazioni quasi periodiche (QPO), fluttuazioni dell’emissione X notoriamente difficili da rilevare nei buchi neri supermassicci, e che, a distanza di anni dalla loro scoperta, non si sa ancora per certo che cosa li produca fisicamente.

“A marzo del 2024, abbiamo osservato nuovamente il buco nero con XMM-Newton e le oscillazioni erano ancora presenti” sottolinea Ciro Pinto, ricercatore INAF, tra i firmatari dello studio. “L’oggetto orbitava a quasi la metà della velocità della luce, completando un’orbita ogni sette minuti”.

Per spiegare una tale curva di luce, il team ha proposto due ipotesi alternative. La prima ipotesi è che nei pressi del buco nero si sia verificato un evento di distruzione mareale, ossia la disintegrazione di un corpo celeste, ad esempio una stella, da parte delle forze di marea del buco nero. Un tale evento potrebbe spiegare la perturbazione della nube di particelle della corona. L’altra ipotesi prevede che a determinare il profilo di emissione di 1ES 1927+654 possa essere stata invece una nana bianca, un “cadavere stellare” catturato dalla immane forza di gravità del buco nero che, orbitando rapidamente attorno a esso, avrebbe spazzato via a ogni orbita il gas della corona responsabile delle emissioni.

I calcoli effettuati dai ricercatori sembravano avallare la seconda ipotesi. Le fluttuazioni dell’emissione X erano molto probabilmente determinate da una nana bianca dieci volte meno massiccia del Sole, che completa un’orbita attorno al buco nero, a una distanza di circa cento milioni di chilometri, ogni diciotto minuti circa.

Le nuove osservazioni hanno tuttavia messo in discussione entrambe le ipotesi. Lo studio dell’evoluzione della frequenza delle emissioni nel tempo ha infatti mostrato che le oscillazioni aumentavano la loro frequenza: un simile comportamento esclude che a produrre la curva di luce possa essere stato un evento di distruzione mareale, che avrebbe causato la scomparsa dei picchi di emissione X nell’arco di alcuni mesi. In questo caso, invece, le oscillazioni sono state osservate per almeno due anni. I dati di XMM-Newton del 2024 hanno mostrato inoltre che, su tempi scala ancora più lunghi, i picchi di emissione X coronali si sono stabilizzati, il che esclude anche l’ipotesi della nana bianca, o quanto meno che la distruzione sia avvenuta in un colpo solo. Si potrebbe però considerare una nana bianca alla quale il buco nero strappa materia “a piccoli bocconi”: questa non sarebbe stata consumata in un solo pasto, dunque, ma poco a poco.

A discriminare tra i vari scenari potrebbe essere un’altra osservazione, quella di onde gravitazionali. Quando due oggetti compatti, come nane bianche o buchi neri, ruotano l’uno attorno all’altro, vengono infatti prodotte queste increspature nello spazio tempo che si propagano nel cosmo. Se l’ipotesi della nana bianca fatta a pezzi “a piccoli morsi” dal buco nero fosse vera, si dovrebbero captare questi segnali: non con gli osservatori terrestri, che osservano onde gravitazionali ad alte frequenze, ma con osservatori spaziali come la futura missione LISA, il primo osservatorio spaziale di onde gravitazionali, che l’ESA lancerà nel 2035. Progettato per rilevare onde gravitazionali esattamente nella gamma di frequenze che 1ES 1927+654 sta emettendo, LISA potrebbe confutare o confermare l’ipotesi dei ricercatori.

“A partire dagli anni 2030 per questo tipo di astrofisica si apriranno nuove frontiere”, conclude Ciro Pinto. “Il primo grande passo verso nuove scoperte sarà il lancio della missione LISA, che permetterà la rilevazione di onde gravitazionali da buchi neri supermassicci. A questo obiettivo si aggiungerà la missione NewAthena che, dotata di ottiche più potenti dei precedenti osservatori a raggi X, fornirà misurazioni di oscillazioni quasi periodiche più accurate e per più sorgenti. Tale combinazione di strumenti è indispensabile per valutare quale tra le varie interpretazioni o modelli finora disponibili circa l’origine delle oscillazioni quasi periodiche sia corretta. Tutto ciò è rilevante per comprendere i meccanismi di formazione dei buchi neri supermassicci, ancora oggi in discussione”.

Illustrazione artistica che mostra una nana bianca in orbita attorno a un buco nero supermassiccio in accrescimento. Crediti: NASA/Sonoma State University, Aurore Simonnet
Illustrazione artistica che mostra una nana bianca in orbita attorno a un buco nero supermassiccio in accrescimento. Crediti: NASA/Sonoma State University, Aurore Simonnet

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “Millihertz Oscillations Near the Innermost Orbit of a Supermassive Black Hole”, di Megan Masterson et al., in uscita su Nature.

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.

L’INATTESO BRILLAMENTO NEL GETTO DI M87 OSSERVATO DALLE ONDE RADIO AI RAGGI GAMMA

Curva di luce del brillamento a raggi gamma (in basso) e raccolta di immagini quasi-simulatneee del getto di M87 (in alto) a varie scale ottenute in radio e raggi X durante la campagna del 2018. Lo strumento, la lunghezza d'onda di osservazione e la scala sono mostrati in alto a sinistra di ogni immagine. Crediti: EHT Collaboration, Fermi-LAT Collaboration, H.E.S.S. Collaboration, MAGIC Collaboration, VERITAS Collaboration, EAVN Collaboration
Curva di luce del brillamento a raggi gamma (in basso) e raccolta di immagini quasi-simulatneee del getto di M87 (in alto) a varie scale ottenute in radio e raggi X durante la campagna del 2018. Lo strumento, la lunghezza d’onda di osservazione e la scala sono mostrati in alto a sinistra di ogni immagine. Crediti: EHT Collaboration, Fermi-LAT Collaboration, H.E.S.S. Collaboration, MAGIC Collaboration, VERITAS Collaboration, EAVN Collaboration

È il primo episodio registrato dal 2010. I dati sono stati raccolti dalla collaborazione Event Horizon Telescope (EHT) nel corso di una campagna osservativa a diverse lunghezze d’onda del 2018 sfruttando numerosi telescopi in orbita come Fermi, HST, NuSTAR, Chandra, Swift della NASA, insieme ai tre più grandi telescopi Cherenkov sulla Terra: H.E.S.S., MAGIC e VERITAS.

Gli osservatori e i telescopi che hanno partecipato alla campagna multibanda del 2018 per la rilevazione del brillamento di raggi gamma ad alte energie dal buco nero M87*. Crediti: EHT Collaboration, Fermi-LAT Collaboration, H.E.S.S. Collaboration, MAGIC Collaboration, VERITAS Collaboration, EAVN Collaboration
Gli osservatori e i telescopi che hanno partecipato alla campagna multibanda del 2018 per la rilevazione del brillamento di raggi gamma ad alte energie dal buco nero M87*. Crediti: EHT Collaboration, Fermi-LAT Collaboration, H.E.S.S. Collaboration, MAGIC Collaboration, VERITAS Collaboration, EAVN Collaboration

La collaborazione scientifica internazionale Event Horizon Telescope (EHT), che nel 2019 aveva pubblicato la prima “foto” di un buco nero, quello supermassiccio al centro della galassia Messier 87 (denominato M87*), ha recentemente osservato e studiato a diverse lunghezze d’onda uno spettacolare brillamento (flare in inglese) proveniente dal potente getto relativistico al centro della stessa galassia, la più luminosa dell’ammasso della Vergine. Lo studio, coordinato dal gruppo di ricerca EHT-MWL che include anche l’Università degli studi di Trieste, l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), presenta i dati della seconda campagna osservativa di EHT realizzata nell’aprile del 2018 che ha coinvolto oltre 25 telescopi terrestri e in orbita. Nello studio gli autori riportano la prima osservazione in oltre un decennio di un brillamento di raggi gamma ad altissime energie – fino a migliaia di miliardi di elettronvolt – da M87* dopo aver ottenuto quasi in simultanea gli spettri della galassia con il più ampio intervallo di lunghezze d’onda finora raccolti. L’articolo è stato pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

“Siamo stati fortunati a rilevare un brillamento di raggi gamma da M87* durante la campagna multi-lunghezza d’onda dell’Event Horizon Telescope. Questo è il primo episodio di brillamento di raggi gamma in questa sorgente dal 2010. Le osservazioni, comprese quelle eseguite con un’infrastruttura più sensibile nel 2021 e 2022, così come quelle pianificate per i prossimi anni, ci offriranno ulteriori approfondimenti e un’incredibile opportunità per investigare la fisica attorno al buco nero supermassiccio M87*, spiegando la connessione tra il disco di accrescimento e il getto emesso, nonché l’origine e i meccanismi responsabili dell’emissione di fotoni di raggi gamma”, commenta Giacomo Principe, responsabile del progetto, ricercatore dell’Università degli studi di Trieste, associato INAF e INFN.

Il brillamento energetico, durato circa tre giorni, ha rivelato che l’emissione era sbilanciata verso energie più elevate di quelle tipiche emesse dal buco nero di M87.

“Insieme alle osservazioni sub-millimetriche dell’EHT, i nuovi dati raccolti in molteplici bande di radiazione offrono un’opportunità unica per comprendere le proprietà della regione di emissione di raggi gamma, collegarla a potenziali cambiamenti nel getto di M87 e consentire test più sensibili sulla relatività generale”, sottolinea Principe.

Spingendo materiale ad altissima energia al di fuori della galassia ospite, il getto relativistico esaminato dai ricercatori e dalle ricercatrici ha un’estensione sorprendente arrivando a dimensioni che superano quelle dell’orizzonte degli eventi del buco nero per decine di milioni di volte: come dire la differenza che c’è in termini di dimensioni tra un batterio e la più grande balenottera azzurra conosciuta.

Tra i telescopi coinvolti nella campagna troviamo Fermi (con lo strumento LAT), NuSTAR, Chandra e Swift della NASA, e i tre più grandi apparati di telescopi IACT (Imaging Atmospheric Cherenkov Telescope) per astronomia a raggi gamma di altissima energia da terra (H.E.S.S., MAGIC e VERITAS), con i quali è stato possibile osservare e studiare le caratteristiche di durata ed emissione del brillamento ad alta energia.

Elisabetta Cavazzuti, responsabile del programma Fermi per l’ASI, racconta: “Fermi-LAT ha rivelato un aumento notevole di flusso nello stesso periodo degli altri osservatori contribuendo a cercare di identificare la zona di emissione dei raggi gamma durante questi aumenti di luminosità. M87 è un laboratorio che ci dimostra ancora una volta l’importanza di avere osservazioni coordinate a più lunghezze d’onda e anche ben campionate per caratterizzare pienamente la variabilità spettrale della sorgente, variabilità che probabilmente si estende su diverse scale temporali, con una visione il più possibile completa attraverso tutto lo spettro elettromagnetico”.

Dati di elevata qualità sono stati poi raccolti nella banda dei raggi X da Chandra e NuSTAR. Le osservazioni radio VLBA (Very Long Baseline Array), per le quali sono state coinvolte anche le stazioni radioastronomiche dell’INAF, presentano un chiaro cambiamento, su base annuale, dell’angolo di posizione del getto entro pochi milliarcosecondi dal nucleo della galassia.

Principe continua: “In particolare, questi risultati offrono la prima possibilità in assoluto di identificare il punto in cui vengono accelerate le particelle che causano il brillamento, il che potrebbe potenzialmente risolvere un dibattito di lunga data sull’origine dei raggi cosmici (particelle ad altissima energia provenienti dallo spazio) rilevati sulla Terra”.

I dati pubblicati nell’articolo mostrano anche una variazione significativa nell’angolo di posizione dell’asimmetria dell’anello (il cosiddetto “orizzonte degli eventi” del buco nero), così come nella posizione del getto, rivelando connessioni tra queste strutture su scale dimensionali molto diverse. Il ricercatore spiega:

“Nella prima immagine durante la compagna osservativa del 2018 si era visto che questo anello non era omogeneo, presentava quindi delle asimmetrie (cioè delle zone più brillanti). Le successive osservazioni condotte nel 2018 e legate a questa pubblicazione scientifica hanno confermato i dati evidenziando però che l’angolo di posizione dell’asimmetria era cambiato”.

“Come e dove le particelle vengono accelerate nei getti del buco nero supermassiccio è un mistero di lunga data. Per la prima volta possiamo combinare l’imaging diretto delle regioni vicine all’orizzonte degli eventi di un buco nero durante i brillamenti di raggi gamma derivanti da eventi di accelerazione delle particelle, e possiamo testare le teorie sulle origini dei brillamenti stessi”, dice Sera Markoff, professoressa presso l’Università di Amsterdam e co-autrice dello studio.

Giacomo Principe conclude: “Queste osservazioni possono far luce su alcuni principali quesiti dell’astrofisica tuttora ancora irrisolti: come sono originati i potenti getti relativistici che vengono osservati in alcune galassie? Dove vengono accelerate le particelle responsabili dell’emissione dei raggi gamma? Quale fenomeno le accelera fino a energie del TeV (migliaia di miliardi di elettronvolt)? Qual è l’origine dei raggi cosmici?”


 

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “Broadband Multi-wavelength Properties of M87 during the 2018 EHT Campaign including a Very High Energy Flaring Episode”, di Event Horizon Telescope – Multi-wavelength science working group, Event Horizon Telescope Collaboration, Fermi Large Area Telescope Collaboration, H.E.S.S. Collaboration, MAGIC Collaboration, VERITAS Collaboration, EAVN Collaboration, è stato pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Testo, video e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

Acceleratore SuperKEKB: il 20 febbraio la prima collisione elettrone-positrone nell’ambito della raccolta dati Run 2

Continua l’esperimento Belle II nel laboratorio KEK di Tsukuba in Giappone con il contributo del Dipartimento di Fisica dell’Università di Pisa e dell’INFN

l'acceleratore KEKB a Tsukuba, Giappone
l’acceleratore KEKB a Tsukuba, Giappone. Foto Flickr di yellow_bird_woodstock, CC BY-SA 2.0

Il 20 febbraio scorso l’acceleratore SuperKEKB del laboratorio KEK di Tsukuba, in Giappone, ha registrato la prima collisione elettrone-positrone nell’ambito della nuova campagna di raccolta dati “Run 2”.

Continua così l’esperimento Belle II in corso dal 2019 per studiare le proprietà della materia a livello microscopico attraverso le collisioni elettrone-positrone, un fenomeno che genera principalmente mesoni B, ma anche mesoni con charm e leptoni tau. Obiettivo generale degli scienziati è quello di trovare il cosiddetto “cigno nero, ovvero anomalie (come ad esempio nuove particelle e nuovi fenomeni fisici) rispetto al Modello Standard che definisce la fisica così come la conosciamo oggi.

La nuova fase di raccolta dati è partita il 29 gennaio dopo un anno e mezzo di lavori di potenziamento e manutenzione per permettere all’acceleratore di raggiungere luminosità sempre più elevate, e all’esperimento di ricostruire con maggiore precisione ed efficienza gli eventi prodotti.

Il Dipartimento di Fisica dell’Università di Pisa partecipa a Belle II insieme all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) con un gruppo di circa 70 ricercatori e ricercatrici di che fanno parte di otto strutture: i Laboratori Nazionali di Frascati, e le Sezioni di Napoli, Padova, Perugia, Pisa, Roma Tre, Torino e Trieste.

“L’intervento di maggiore rilevanza che ha riguardato Belle II è stata l’installazione di un nuovo rivelatore di tracce nello strato più interno dell’esperimento, e quindi più vicino al punto di interazione fra elettroni e positroni: si tratta di un rivelatore a pixel di silicio che, insieme al rivelatore a strip di silicio Silicon Vertex Detector (SVD) che lo circonda, permette di misurare con altissima precisione il punto di passaggio delle particelle cariche”, spiega Giuliana Rizzo, ricercatrice all’INFN e professoressa all’Università di Pisa, project leader del Silicon Vertex Detector.

“L’intervento ha richiesto il completo smontaggio e rimontaggio del rivelatore SVD, costruito e gestito grazie a un importante contributo italiano, e ha compreso anche l’installazione di un nuovo tubo a vuoto intorno al punto di interazione, e il potenziamento delle schermature del rivelatore dal ‘fondo’ di radiazione prodotto dall’acceleratore in misura maggiore all’aumentare della luminosità. Tutte queste operazioni sono state completate con successo nei tempi stabiliti, permettendo di testare la piena funzionalità del rivelatore con i raggi cosmici e il ripristino delle performance precedenti l’intervento”, conclude Rizzo.

Testo dall’Unità Comunicazione Istituzionale dell’Università di Pisa.

ALLA SCOPERTA DELL’UNIVERSO PRIMORDIALE: AL VIA LE ANALISI DEI FRAMMENTI DELL’ASTEROIDE RYUGU

Un team tutto italiano composto da ricercatori e ricercatrici dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), dell’Università degli Studi di Firenze (UNIFI) e dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) avvia le analisi dei due preziosissimi campioni dell’asteroide Ryugu ricevuti a maggio del 2023 nell’ambito di un bando internazionale per l’analisi dei materiali cosmici riportati a Terra dalla missione Hayabusa-2 dell’Agenzia Spaziale giapponese JAXA.

I due grani a disposizione del gruppo di ricerca sono denominati C0242 (del peso di 0,7 milligrammi e lunghezza di 1,712 millimetri) e A0226 (pesante 1,9 milligrammi e lunghezza di 2,288 millimetri). Ciascun grano è posto all’interno di un particolare recipiente di acciaio riempito di azoto, il cui scopo è sia di preservare il grano evitando contaminazioni dovute alle polveri e al vapore d’acqua presenti nell’ambiente, sia di permettere un trasporto sicuro. Per rendere onore alla cultura giapponese, il team italiano ha deciso di assegnare un nome ai due grani attingendo alla tradizione degli anime, in particolare le opere dello studio Ghibli con il suo creatore Hayao Miyazaki. I nomi sono stati scelti guardando sia alla forma (A0226-Totoro) dal film Il mio vicino Totoro, sia al compito di Hayabusa2 di spedire a Terra campioni extraterrestri (C0242-Kiki) dal film Kiki – Consegne a domicilio.

analisi frammenti asteroide Ryugu Foto grani
Al via le analisi dei frammenti dell’asteroide Ryugu. Foto dei grani. Crediti INFN – LNF

Le prime indagini di spettroscopia nell’infrarosso prendono il via presso il laboratorio di luce di sincrotrone Dafne Luce dei Laboratori Nazionali di Frascati dell’INFN, sfruttando così la luce prodotta dall’acceleratore di particelle dei laboratori, Dafne. E, per preservare al meglio i due frammenti di asteroide, i ricercatori hanno ideato e realizzato delle attrezzature speciali:

“per la prima volta apriremo i contenitori dove sono contenuti in atmosfera protetta per poter fare le prime analisi spettroscopiche nell’infrarosso. In questi mesi abbiamo messo a punto dei portacampioni “universali” in grado di poter tener fermo ciascuno dei due frammenti per tutta la durata delle analisi, che durerà alcuni mesi”

spiega Ernesto Palomba, ricercatore INAF e professore presso l’Università “Federico II” di Napoli, che coordina le operazioni di analisi.

“Le tecniche e gli strumenti che abbiamo progettato e realizzato permetteranno di analizzare i campioni preservandoli dalla contaminazione dell’atmosfera terrestre che li danneggerebbe irreversibilmente, cancellando informazioni preziose per capire i meccanismi di formazione ed evoluzione del nostro Sistema solare e dei corpi che lo abitano, compresa la nostra Terra”.

Con le prime analisi il gruppo di ricerca si focalizzerà sullo studio della mineralogia, della materia organica e dell’acqua presente in questi campioni per ottenere le prime informazioni da questi veri e propri fossili del Sistema solare, che risalirebbero proprio alle primissime fasi di formazione del nostro sistema planetario, ovvero circa quattro miliardi di anni fa.

“La luce di sincrotrone di Dafne consentirà di analizzare in modo totalmente non distruttivo i micro-frammenti dei minerali contenuti nei grani dell’asteroide Ryugu.  Le analisi verranno svolte utilizzando un rivelatore per imaging nel medio infrarosso e consentiranno di evidenziare una eventuale presenza di tracce di materiale organico, fornendo importanti informazioni sulle interazioni fisico-chimiche tra molecole organiche e minerali che potrebbero aver avuto un ruolo nell’origine della vita sulla Terra o in altri corpi del Sistema Solare,”

spiega Mariangela Cestelli Guidi, ricercatrice INFN, responsabile della linea di luce di sincrotrone nell’infrarosso del Laboratorio Dafne Luce.

Le analisi dei campioni a Frascati si protrarranno per circa due settimane. Poi i grani di Ryugu verranno trasportati all’Università di Firenze per ulteriori indagini volte ad ottenere maggiori informazioni sulla storia di questi campioni.

“I grani di Ryugu arriveranno a Firenze entro un mese e vi rimarranno per circa sei settimane”

sottolinea Giovanni Pratesi, docente di Mineralogia Planetaria presso l’Università di Firenze e leader del gruppo di ricerca UNIFI.

“L’obiettivo di queste ulteriori indagini è quello di caratterizzare la morfologia e la composizione chimica della superficie dei frammenti, cosa che ci permetterà di avere informazioni preziose per aiutarci a ricostruire la storia di questo asteroide ma anche del nostro Sistema solare”.

Testo, video e immagini dagli Uffici Stampa INAF e INFN.

QUEL FOTONE CHE NON SAREBBE MAI DOVUTO ARRIVARE SULLA TERRA: UNA NUOVA INTERPRETAZIONE DI GRB 221009A

Un fotone di altissima energia associato al lampo gamma più potente finora registrato ha messo in crisi l’attuale modello che descrive questi violentissimi eventi celesti. Un gruppo tutto italiano composto da ricercatrici e ricercatori dell’INAF e dell’INFN prova a far luce su questo fotone che non sarebbe mai dovuto arrivare sulla Terra, proponendo un’interpretazione che contempla la presenza di una oscillazione tra fotoni e ALP, ipotetiche particelle previste dalla teoria delle stringhe.

GRB 221009A immagine artistica di un lampo di raggi gamma (GRB). Crediti: ESO/A. Roquette
immagine artistica di un lampo di raggi gamma (GRB). Crediti: ESO/A. Roquette

Un singolo fotone ma talmente energetico da mettere in crisi gli attuali modelli astrofisici sulla propagazione dei raggi gamma.  L’evento nel quale è stato osservato, chiamato BOAT (brightest of all time, ovvero il più luminoso di tutti i tempi), è il lampo di raggi gamma (gamma-ray burst, GRB) GRB 221009A, emesso da una galassia a oltre due miliardi di anni luce da noi e rivelato – da terra e nello spazio – il 9 ottobre 2022. Tra i fotoni gamma di altissima energia intercettati dal rivelatore cinese LHAASO in occasione di questo evento, ce n’era, appunto, uno di addirittura 18 TeV: l’energia più elevata mai registrata da un GRB. Un’interessante interpretazione di questa inaspettata osservazione viene fornita da uno studio interamente italiano, coordinato da INAF Istituto Nazionale di Astrofisica insieme a INFN Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, con autori Giorgio Galanti, Lara Nava, Marco Roncadelli, Fabrizio Tavecchio e Giacomo Bonnoli, pubblicato oggi, 18 dicembre, su Physical Review Letters.

“Pochi minuti dopo aver avuto notizia dell’esplosione – ricorda Giorgio Galanti dell’INAF, primo autore dell’articolo – abbiamo intuito che questo GRB non solo poteva essere un evento astrofisico straordinario ma poteva anche rappresentare un’opportunità unica per studi di fisica fondamentale, in particolare riguardo alle axion-like particles”.

Secondo l’ipotesi avanzata dal gruppo di ricerca, quel fotone così energetico potrebbe essere un ‘fotone trasformista’: capace cioè di cambiare natura, oscillando da una ‘personalità’ all’altra mentre viaggia alla velocità della luce. E le ALP – le axion-like particles, ipotetiche particelle previste dalla teoria delle stringhe candidate per costituire la materia oscura fredda, simili ad altre particelle altrettanto ipotetiche, gli assioni – sarebbero una di queste personalità. Un po’ come Mr. Hyde, una ALP è infatti in grado di compiere azioni che un fotone, il Dr. Jekyll di questa strana storia, non riuscirebbe mai a portare a termine: attraversare indenne la cosiddetta EBL – l’extragalactic background light, la luce di fondo extragalattica, ovvero la luce emessa da tutte le stelle durante l’intera evoluzione dell’universo.

Quando un fotone di alta energia — diciamo superiore a 100 GeV — urta un fotone dell’EBL, c’è una probabilità che si formi una coppia elettrone-positrone, che fa scomparire il fotone di alta energia. E questo effetto diventa progressivamente più importante al crescere sia dell’energia, sia della distanza. Ritornando, quindi, al GRB 221009A, secondo la fisica convenzionale, i fotoni di energia superiore a circa 10 TeV verrebbero completamente assorbiti. Considerando il redshift della sorgente, e dunque l’enorme distanza percorsa dal lampo gamma, i fotoni a energie più elevate in teoria non sarebbero mai stati in grado di giungere fino a noi. Come è allora possibile che LHAASO, unico strumento per la rivelazione dei lampi gamma a non essere andato in saturazione quel 9 ottobre di un anno fa, abbia osservato fotoni del GRB 221009A a energie comprese fra 500 GeV e 18 TeV? È qui che entrano in gioco, appunto, le ALP.

“Secondo la nostra ipotesi, in presenza di campi magnetici, i fotoni si tramutano in ALP e viceversa, — spiega Marco Roncadelli, ricercatore associato all’INFN e all’INAF — rendendo così possibile raggiungere la Terra a un maggior numero di fotoni, perché le ALP sono invisibili ai fotoni del fondo extragalattico”.

Entrando un po’ più nel dettaglio, le ALP si accoppiano a due fotoni, ma non a un singolo fotone. Questo fatto implica che in presenza di un campo magnetico esterno – che, come è ben noto, è costituito da fotoni – si possono avere ‘oscillazioni fotone-ALP’. Queste sono molto simili alle oscillazioni dei neutrini massivi di tipo diverso, con la sola differenza che per le ALP l’esistenza del campo magnetico è essenziale al fine di garantire la conservazione del momento angolare, in quanto il fotone ha spin 1 mentre le ALP hanno spin 0: lo spin mancante o eccedente è compensato dal campo magnetico esterno.

L’oscillazione tra fotoni e ALP per aggirare l’opacità del fondo extragalattico ai fotoni di energia elevata non è un’idea inedita: è una soluzione proposta per la prima volta nel 2007 da Alessandro De Angelis, Oriana Mansutti e Marco Roncadelli. Ed è una soluzione a un problema più generale di quello posto da questo gamma-ray burst. Oltre ai lampi di raggi gamma, ci sono infatti altre sorgenti distanti che emettono fotoni a energie elevatissime eppure in grado di giungere fino a noi, in barba alla fisica standard. Sorgenti come i quasar di tipo FSRQ (flat spectrum radio quasar), dove la componente ‘opaca’ che intralcia la corsa dei fotoni ad alta energia, fino a renderne teoricamente impossibile la fuoriuscita, non è la ELB ma qualcosa di molto simile: un campo di radiazione ultravioletta all’interno della sorgente stessa. O i blazar di tipo BL Lac, il cui spettro – come mostrato da uno studio pubblicato nel 2020 dagli stessi Galanti, Roncadelli e De Angelis insieme a Giovanni F. Bignami – sarebbe in alcuni casi inspiegabile senza ricorrere a un meccanismo che consenta di aumentare la ‘trasparenza cosmica’, riducendo quindi l’assorbimento prodotto dall’EBL.

Fotoni da quasar FSRQ, fotoni da blazar BL Lac e ora fotoni da questo lampo gamma BOAT, dunque. Tutt’e tre apparentemente inconcepibili entro il perimetro della fisica standard. Ma tutt’e tre spiegabili se al posto di ‘semplici’ fotoni ci fossero particelle “Jekyll-Hyde” che oscillano da fotone ad ALP e viceversa. Per dare solidità a questa ipotesi, serviranno altre osservazioni, e saranno per questo di grande aiuto i nuovi osservatori astrofisici per alte energie – primi fra tutti CTA e l’italiano ASTRI – pronti a entrare in funzione nei prossimi anni.

L’articolo Observability of the very-high-energy emission from GRB 221009A di Giorgio Galanti, Lara Nava, Marco Roncadelli, Fabrizio Tavecchio, Giacomo Bonnoli viene pubblicato oggi sulla rivista Physical Review Letters.

 

Testo e immagine dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

IL LAMPO GAMMA COSÌ POTENTE DA PERTURBARE L’ALTA IONOSFERA

Rivelata per la prima volta una forte perturbazione della parte più alta della ionosfera terrestre generata da un lampo di raggi gamma, grazie ai dati del satellite INTEGRAL dell’Agenzia Spaziale Europea e del sino-italiano CSES-01. I risultati dello studio, guidato da ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, l’Agenzia Spaziale Italiana e diverse università italiane, sono pubblicati su Nature Communications.

Illustrazione del lampo di raggi gamma che ha colpito la Terra il 9 ottobre 2022, è stato rivelato dal satellite ESA INTEGRAL e ha prodotto una forte perturbazione della parte più alta della ionosfera terrestre, registrata dal satellite CSES (CNSA-ASI). Crediti: ESA/ATG Europe; CC BY-SA 3.0 IGO
Illustrazione del lampo di raggi gamma che ha colpito la Terra il 9 ottobre 2022, è stato rivelato dal satellite ESA INTEGRAL e ha prodotto una forte perturbazione della parte più alta della ionosfera terrestre, registrata dal satellite CSES (CNSA-ASI). Crediti: ESA/ATG Europe; CC BY-SA 3.0 IGO

Il 9 ottobre 2022, 15:21 ora italiana, molti satelliti in orbita attorno alla Terra e nello spazio interplanetario hanno registrato il più forte lampo di raggi gamma (in inglese gamma-ray burst, o GRB) mai osservato. Tra questi, anche il satellite INTEGRAL (INTErnational Gamma-Ray Astrophysics Laboratory) dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) ha rivelato un flusso di raggi gamma estremamente intenso e di lunga durata. Contemporaneamente, il satellite CSES-01 (China Seismo-Electromagnetic Satellite), una collaborazione tra l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) e quella cinese (CNSA), ha registrato una perturbazione macroscopica del campo elettrico nella parte superiore della ionosfera, lo strato più alto e tenue dell’atmosfera terrestre, dovuta a un’improvvisa, forte corrente. Un effetto del genere non era mai stato osservato in questo strato dell’atmosfera.

Simili perturbazioni nella ionosfera sono solitamente associate a eventi energetici legati all’attività del Sole, ma in questo caso la coincidenza con l’arrivo del lampo gamma indica che l’origine è da ricercarsi molto più lontano, nell’esplosione di una stella a quasi due miliardi di anni luce di distanza. I risultati dell’analisi, condotta da un team multidisciplinare a guida italiana che è riuscito a sintetizzare dati da due discipline molto diverse – l’astronomia a raggi gamma e la ricerca delle interazioni tra Sole, Terra e cosmo – sono pubblicati su Nature Communications.

“Siamo stati fortunati perché, al momento dell’arrivo del lampo, il satellite CSES si trovava dalla parte del pianeta colpita dall’enorme flusso di raggi gamma” dice Mirko Piersanti, ricercatore dell’Università dell’Aquila e associato all’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), primo autore dell’articolo, che ha lavorato alla ricerca insieme a Pietro Ubertini dell’INAF, principal investigator dello strumento IBIS a bordo di INTEGRAL. “È stato eccitante scoprire l’effetto registrato a bordo di CSES pochi istanti dopo l’arrivo del GRB registrato da INTEGRAL. Era la prova che la ionosfera terrestre era stata ionizzata in modo così intenso da raggi gamma di alta energia, da generare una variazione della conducibilità tale da produrre variazioni del campo elettrico ionosferico.”

Il lampo gamma del 9 ottobre 2022 è stato il più luminoso mai rivelato sinora: il secondo in ordine di intensità è dieci volte meno luminoso. Lo studio indica come eventi cosmici dovuti a raggi gamma di estrema intensità possano avere una forte influenza nell’equilibrio della composizione della ionosfera. Il lampo gamma, generato in una galassia lontana, una volta arrivato sulla Terra aveva ancora abbastanza energia da perturbare la nostra atmosfera in modo molto marcato, “spostando” sostanzialmente la ionosfera verso il basso per tutta la sua durata. Un effetto simile si registra durante brillamenti solari di forte intensità che provocano veri e propri black-out radio.

“È sorprendente come fenomeni che avvengono nello spazio profondo riescano a produrre conseguenze così significative sul nostro pianeta”, nota Piergiorgio Picozza dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), responsabile della collaborazione CSES-Limadou.

Statisticamente, un lampo di raggi gamma così intenso colpisce la Terra ogni diecimila anni. Se fosse stato generato da un’esplosione simile nella nostra galassia, anziché – come in questo caso – in una galassia a quasi due miliardi di anni luce, avrebbe potuto avere conseguenze molto serie per il nostro pianeta, mettendo in pericolo la sopravvivenza della biosfera terrestre. Il dibattito scientifico sulle possibili conseguenze di un ipotetico GRB proveniente dalla Via Lattea, potenzialmente miliardi di volte più intenso di questo, prevede, nel peggiore dei casi, un’alterazione dello strato di ozono atmosferico che protegge la biosfera dalle radiazioni ultraviolette prodotte dal Sole. È stata anche avanzata l’ipotesi che un simile effetto possa aver causato alcune delle estinzioni di massa avvenute in passato sulla Terra.

L’interazione del GRB con la ionosfera è durata più di 800 secondi (quasi un quarto d’ora) ed è stata così intensa da attivare i rivelatori di fulmini in India. In Germania, strumenti a terra hanno registrato per ore disturbi della trasmissione radio ionosferica. Conoscendo bene gli effetti che lampi di luce solare provocano nella ionosfera, i ricercatori italiani della collaborazione CSES hanno subito capito che un GRB straordinariamente intenso come quello del 9 ottobre 2022 poteva avere avuto un impatto profondo sulla parte alta dell’atmosfera. In passato, tuttavia, solo alcuni GRB erano stati in grado di generare variazioni significative sulla ionosfera, ma solo a basse quote e di notte, quando il contributo legato all’illuminazione solare non è presente. Non era mai stato osservato l’effetto di un GRB all’altezza dell’alta atmosfera dove orbita CSES-01.

“Questo risultato avvalora la scelta dell’ASI di sostenere fin dal 2016 un team multidisciplinare per l’analisi dei dati CSES, che include astrofisici, geofisici, fisici delle particelle, fisici dell’atmosfera ed esperti di space weather”, racconta Simona Zoffoli dell’Unità Osservazione della Terra dell’Agenzia Spaziale Italiana. “La contaminazione tra diverse competenze è preziosa e ha permesso di utilizzare i dati di CSES per obiettivi nuovi inizialmente non previsti”.

La ionosfera, tra 50 e 950 km di altitudine, è uno strato fondamentale per la propagazione delle onde radio, senza la quale non si potrebbero effettuare trasmissioni radio di bassa frequenza attorno al pianeta. La sua densità è però così bassa che i satelliti riescono a orbitare al suo interno. Uno di questi satelliti è proprio CSES-01, che monitora l’alta ionosfera (oltre 350 km di altitudine) e la magnetosfera per rivelare perturbazioni collegabili a fenomeni naturali sia di origine terrestre, come terremoti, tsunami o eruzioni vulcaniche, sia di origine esterna come le perturbazioni dovute a tempeste solari.

Tra gli strumenti a bordo del satellite CSES-01, un rivelatore di particelle (High Energetic Particle Detector) è stato realizzato in collaborazione tra ASI e INFN, e un rivelatore di campo elettrico (Electric Field Detector) è stato sviluppato in collaborazione tra ASI, INAF e INFN. Completano l’equipaggiamento scientifico una serie di rivelatori, tra cui quelli di campo magnetico e delle proprietà del plasma, realizzati da ricercatori cinesi. I dati di tutti gli strumenti sono archiviati e messi a disposizione della comunità scientifica presso il centro ASI SSDC. È stata proprio la straordinaria sensibilità dello strumento di campo elettrico che ha permesso di osservare per la prima volta questo effetto. Dopo questa scoperta, il team della collaborazione CSES ha iniziato ad analizzare sistematicamente tutti i dati del rivelatore di campo elettrico registrati in coincidenza con i GRB a partire dal lancio del satellite, nel 2018.

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “First Evidence of Earth’s top-side ionospheric electric field variation triggered by impulsive cosmic photons”, di Mirko Piersanti, Pietro Ubertini, Roberto Battiston, Angela Bazzano, Giulia D’Angelo, James G. Rodi, Piero Diego, Roberto Ammendola, Davide Badoni, Simona Bartocci, Stefania Beolè, Igor Bertello, William J. Burger, Donatella Campana, Antonio Cicone, Piero Cipollone, Silvia Coli, Livio Conti, Andrea Contin, Marco Cristoforetti, Fabrizio De Angelis, Cinzia De Donato, Cristian De Santis, Andrea Di Luca, Emiliano Fiorenza, Francesco M. Follega, Giuseppe Gebbia, Roberto Iuppa, Alessandro Lega, Marco Lolli, Bruno Martino, Matteo Martucci, Giuseppe Masciantonio, Matteo Mergè, Marco Mese, Alfredo Morbidini, Coralie Neubüser, Francesco Nozzoli, Fabrizio Nuccilli, Alberto Oliva, Giuseppe Osteria, Francesco Palma, Federico Palmonari, Beatrice Panico, Emanuele Papini, Alexandra Parmentier, Stefania Perciballi, Francesco Perfetto, Alessio Perinelli, Piergiorgio Picozza, Michele Pozzato, Gianmaria Rebustini, Dario Recchiuti, Ester Ricci, Marco Ricci, Sergio B. Ricciarini, Andrea Russi, Zuleika Sahnoun, Umberto Savino, Valentina Scotti, Alessandro Sotgiu, Roberta Sparvoli, Silvia Tofani, Nello Vertolli, Veronica Vilona, Vincenzo Vitale, Ugo Zannoni, Simona Zoffoli, e Paolo Zuccon, è stato pubblicato online sulla rivista Nature Communications.

Testo e immagine dagli Uffici Stampa INAF, ASI, INFN