La tigre dai denti a sciabola dell’Era Glaciale sarà uno dei reperti esposti al Museo della Natura e dell’Uomo (MNU) dell’Università di Padovache aprirà il 23 giugno 2023 al Complesso di Palazzo Cavalli.
MERAVIGLIE IN VISTA / 1
«Nasce a Padova un nuovo luogo di partecipazione collettiva e democratica alla conoscenza, un grande museo scientifico inclusivo, che incentra la sua narrazione su migliaia di reperti originali di straordinario valore – dice Telmo Pievani, Responsabile scientifico del Museo della Natura e dell’Uomo –. Al MNU si farà ricerca, conservazione, didattica, condivisione dei saperi scientifici, sensibilizzazione sui temi ambientali, aprendosi ai pubblici più diversi, soprattutto giovani e giovanissimi. Sarà un teatro appassionante di cittadinanza scientifica».
«La nostra Università sta per compiere un altro grande salto verso il futuro con un progetto museale unico a livello universitario in Europa e probabilmente tra i più importanti progetti museali al mondo nel suo genere – afferma Fabrizio Nestola, Presidente del Centro di Ateneo per i Musei –. Da un Ateneo come il nostro non potevamo aspettarci che questo: un enorme investimento economico e di risorse umane completamente dedicato alla cultura e al territorio. Siamo tutti pronti ad iniziare questa entusiasmante avventura con l’obiettivo di educare ed ispirare le future generazioni».
Il Museo della Natura e dell’Uomo (MNU) dell’Università di Padova, che aprirà venerdì 23 giugno 2023, nasce dalla fusione delle ricchissime collezioni naturalistiche che sono state costruite nei secoli da studiosi ed esploratori dell’Università patavina, a fini di ricerca e didattica. Il nuovo allestimento riunisce in un unico percorso espositivo i preesistenti musei universitari di Mineralogia, Geologia e Paleontologia, Antropologia e Zoologia, integrandoli in una narrazione coerente e appassionante, arricchita da un intelligente apparato grafico, testuale e multimediale, a raccontare una storia planetaria dai suoi esordi, più di quattro miliardi di anni fa, fino ai giorni nostri.
Il MNU si articola in 38 sale per un totale di circa 3.800 mq, cui si aggiungono un ambiente per le esposizioni temporanee di circa 300 metri quadri.
Una delle sezioni del museo sarà quella di Geologia e Paleontologia – Dalla comparsa della vita a Homo sapiens con 6 sale e 940 metri quadri a disposizione per illustrare ed esporre i suoi reperti: tra questi anche la tigre dai denti a sciabola dell’Era Glaciale.
«La tigre dai denti a sciabola, Smilodon fatalis, unico esemplare nel suo genere in Italia e fra i pochi presenti nei musei europei, è un fossile che risale al Pleistocene Superiore e proviene da Rancho La Brea in California (USA), uno tra i più importanti giacimenti fossiliferi al mondo per quantità e varietà di specie ivi recuperate – sottolinea Mariagabriella Fornasiero, conservatrice della sezione di Geologia e Paleontologia –. Il genere Smilodon è vissuto nelle Americhe circa 2 milioni di anni fa. Carattere distintivo di questo grosso felino sono i denti canini enormemente sviluppati che lo rendevano un temibile predatore. Probabilmente viveva in branco e poteva cacciare grossi erbivori, come ad esempio i mammut, ma non è escluso che si nutrisse anche di carcasse. Lungo più di 2 metri e alto circa 1,20 metri (al garrese), poteva pesare fino a 300 chilogrammi».
«Recentemente l’esemplare è stato oggetto di studio. Ricerche d’archivio hanno consentito di stabilire che esso è stato donato nel 1933 dal Museum of Paleontology dell’Università di Berkeley (California) in cambio di un reperto di Ursus spelaeus proveniente dal Carso triestino. Grazie ai codici numerici individuati per la prima volta sullo scheletro – conclude Luca Giusberti, referente scientifico della sezione di Geologia e Paleontologia – è stato possibile definire con precisione la provenienza delle singole ossa che lo compongono e stabilire che il loro recupero è avvenuto negli anni tra il 1906 e il 1913. La tigre con i denti a sciabola è da sempre l’animale icona dell’era Glaciale che più colpisce l’immaginario di grandi e piccoli».
Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Università di Padova
Il Museo dei Botroidi di Luigi Fantini è un piccolo spazio che promuove la più grande collezione al mondo di botroidi. Si propone come obiettivo la conservazione del patrimonio locale e la sua condivisione col pubblico.
L’esplorazione della Val di Zena
La Val di Zena offre una grande varietà sotto l’aspetto speleologico, naturalistico, botanico, archeologico e non ultimo, geologico. Situata nell’Appennino Bolognese, è una valle stretta con ampie zone a calanchi, caratterizzata da pochi e piccoli centri abitati.
Veduta della Val di Zena. Foto associazione Parco museale della Val di Zena
La ragione non è soltanto la sua conformazione poco adatta allo sviluppo di grandi centri urbani, bensì l’attività di preservazione del territorio e della sua storia ad opera dei suoi abitanti. I personaggi di spicco di questo movimento furono Francesco Orsoni e Luigi Fantini, a cui è dedicato il Museo dei Botroidi nella frazione di Tazzola.
Orsoni e Fantini furono instancabili esploratori della Val di Zena. Nel 1871 Orsoni scoprì la Grotta del Farneto, un importante deposito preistorico risalente all’Età del Bronzo. Dagli anni 30 del Novecento Fantini lavorò per tenere in vita la memoria di Orsoni e per continuare la sua opera di esplorazione e preservazione. Le fotografie scattate e il materiale raccolto in quasi cinquant’anni di attività, hanno popolato le vetrine del Museo Civico di Bologna e le pagine della pubblicazione Antichi Edifici della Montagna Bolognese (1972). Ed ora anche del Museo dei Botroidi.
Fantini sulla porta della casa natale al Farneto e mentre fotografa con la sua macchina fotografica a lastra sotto il Monte delle Formiche. Foto Gruppo Speleologico bolognese, dal sito Parco museale della Val di Zena
Il Museo dei Botroidi, un museo senza barriere
La filosofia dietro la realizzazione del museo è quella di una “geologia a portata di mano”. La visita non prevede l’esposizione in tradizionali vetrine: l’ospite è invitato a sperimentare la geologia attraverso tutti i sensi.
“L’idea nasce dalla volontà di rendere accessibile in senso ampio il museo (non solo a chi ha disabilità ma anche a chi magari ignora certi argomenti) cercando di creare stimoli e curiosità verso il paesaggio, il suolo e l’ambiente” dice il suo curatore Lamberto Monti.
La visita al museo è possibile in completa autonomia e “permette di conoscere caratteristiche, forme e particolarità di fossili e minerali veri, toccando, manipolando e coinvolgendo attraverso sollecitazioni sensoriali. Il percorso è adatto a tutti; l’accessibilità non è uno strumento accessorio ma diventa parte integrante del museo.”
Lamberto Monti durante un incontro con i ragazzi di una scuola in vista al Museo. Foto associazione Parco museale della Val di Zena
La location scelta è una stalla in roccia, restaurata in terra cruda e materiali naturali situata nel comune di Pianoro (Bologna).
L’allestimento è suddiviso in sezioni, principalmente a tema geologia ma anche archeologia e paleontologia. La sezione principale è quella relativa alla geologia della Val di Zena, che ripercorre l’evoluzione della valle a partire dal periodo Cretaceo (oltre 65 milioni di anni fa) fino al Pleistocene (0.8 milioni di anni fa).
Foto palma fossile di Idan J Grunberg
Grazie ai campioni esposti, il visitatore ha modo di scoprire che nell’epoca in cui la Terra era popolata dai dinosauri quest’area era occupata dall’Oceano Ligure. Può inoltre imparare dove andare alla ricerca del luogo dove furono trovati i resti fossili di una Balenoptera acuto rostrata, abitante di un mare caldo e tranquillo circa 5 milioni di anni fa ma abituata a risalire i corsi d’acqua verso la foce. Ed imparare cosa siano le “Scodellette del diavolo”. Spoiler: non servono a servire la zuppa!
Interno del Museo Tattile dei Botroidi. Foto associazione Parco museale della Val di Zena
I botroidi
Il pezzo forte della zona e del museo è la più grande collezione al mondo di botroidi, sassi di origine pliocenica dalle forme antropomorfe. Per questa loro particolarità vengono chiamati anche “pupazzi di pietra”. Nei sotterranei del castello di Zena nel 2006 furono ritrovati più di 500 esemplari raccolti dal Fantini e questo diede la spinta per creare il museo come spazio per conservarli, tutelarli e farli conoscere.
Botroide della collezione Fantini. Foto associazione Parco museale della Val di Zena
Per definizione, tutte le forme rocciose simili a grappoli rientrano nella categoria dei botroidi. Si trovano nelle rocce clastiche pelitiche e finemente sabbiose, nel nostro caso nelle sabbie gialle che costituiscono la sezione più giovane dell’esposizione. Il visitatore può ammirare sia le forme locali raccolte dal Fantini sia quelle provenienti dai continenti africano ed americano (ad esempio Algeria ed Alaska).
Botroide della collezione Luigi Fantini. Foto associazione Parco museale della Val di Zena
Il museo offre anche visite guidate su richiesta e percorsi didattici geotattili per scuole. Inoltre, uno degli obiettivi del progetto è “coniugarsi con il territorio per un reciproco sviluppo, creare valore dalla relazione con la realtà geografica”. Vicino al museo passano importanti sentieri che sono parte integrante dell’esposizione: percorso CAI 815, Via Mater Dei e Via del Fantini.
Ritrovato a Roma il fossile del primo lupo d’Europa
L’enigmatico fossile ritrovato nei pressi di Ponte Galeria (Roma) è stato analizzato da un gruppo di paleontologi e geologi del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza Università di Roma e dell’Università Statale di Milano. La ricostruzione 3D dei resti ha permesso di identificare il fossile come il più antico esemplare adulto di lupo (Canis lupus) in Europa, databile a circa 400.000 anni fa. I risultati dello studio, che gettano nuova luce sulle dinamiche di diffusione del lupo nel nostro continente, sono stati pubblicati sulla rivista Scientific Reports.
Ritrovato a Roma il fossile del primo lupo d’Europa
Il lupo è una delle specie più emblematiche della biodiversità europea, animale simbolo delle foreste del nostro continente, così radicato nel nostro immaginario da entrare a far parte della cultura, del folklore e della tradizione di tutti i popoli europei. Sebbene l’uomo conviva con il lupo da migliaia di anni, la storia evolutiva di questo predatore iconico è ancora fonte di dibattito nella comunità scientifica, con punti interrogativi sul momento in cui questo animale si è diffuso nel nostro continente.
Ritrovato a Roma il fossile del primo lupo d’Europa
Un gruppo di paleontologi e geologi del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza Università di Roma e del Dipartimento di Scienze della Terra “Ardito Desio” dell’Università Statale di Milano, ha esaminato un enigmatico cranio fossile di canide di grandi dimensioni sono stati ritrovati nei pressi di Roma, più precisamente a Ponte Galeria. La scansione 3D dei resti frammentari ha permesso di identificare il cranio fossile come il più antico esemplare adulto di lupo (Canis lupus), risalente a circa 400.000 anni fa (Pleistocene Medio). I risultati dello studio sono stati pubblicati su Scientific Reports, rivista scientifica internazionale del gruppo Nature.
“In particolare i frammenti fossili sono stati scansionati tramite TAC e poi uniti digitalmente per ricreare l’assetto originale del cranio, il quale è stato poi analizzato, misurato e comparato con altre scansioni di canidi moderni come lo sciacallo, o il lupo appenninico che popola attualmente la penisola italiana”, spiega Dawid A. Iurino, primo autore dello studio.
Poiché l’area di Ponte Galeria è ricca di giacimenti di diverse datazioni, il gruppo di ricerca ha analizzato il sedimento vulcanico che ricopriva e riempiva i frammenti fossili per stabilire l’età precisa del reperto.
“Prima di questa ricerca i resti fossili più antichi di lupo erano quelli datati intorno ai 300.000 anni ritrovati in Francia (Lunel-Viel) e in Italia (Polledrara di Cecanibbio, di cui però manca una descrizione formale del reperto) – commenta Raffaele Sardella, coordinatore dello studio. “Questo nuovo studio ha permesso quindi di individuare nel lupo di Ponte Galeria il resto fossile di questa specie più antico rinvenuta fino ad ora in Europa”.
Le nuove analisi hanno dimostrato come la dispersione del lupo sia avvenuta durante il “Mid-Brunhes Event”, una fase del Pleistocene caratterizzata dall’aumento dell’ampiezza dei cicli/interglaciali, che diventano più lunghi e più intensi. Questo cambiamento climatico ebbe una forte ripercussione sugli ecosistemi terrestri favorendo probabilmente la diffusione di nuove specie in Europa tra cui il lupo.
Riferimenti:
A Middle Pleistocene wolf from central Italy provides insights on the first occurrence of Canis lupus in Europe – Dawid A. Iurino, Beniamino Mecozzi, Alessio Iannucci, Alfio Moscarella, Flavia Strani, Fabio Bona, Mario Gaeta & Raffaele Sardella – Scientific Reportshttps://doi.org/10.1038/s41598-022-06812-5
Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
Come la vita e il nostro Pianeta sono evoluti insieme
Parte il progetto CoEvolve: indaga la coevoluzione della vita con la Terra
CoEvolve indaga la coevoluzione della vita con la Terra
CoEvolve, il progetto finanziato dal Consiglio Europeo delle Ricerche, guidato dal microbiologo della Federico II di Napoli, Donato Giovannelli, è ufficialmente decollato. Il progetto condurrà il team del Giovannelli-Lab dall’Artico ai deserti delle Ande cilene, e poi dal Costa Rica all’Islanda, alla ricerca di microrganismi che verranno raccolti negli ambienti estremi del nostro pianeta per capire come la Terra e la vita si sono mutualmente influenzati, in una sorta di coevoluzione tra la geosfera e la biosfera terrestre.
‘Quando guardiamo il nostro pianeta tendiamo a pensare che la geologia sia una forza inarrestabile che modella i continenti e gli oceani, e che la vita si adatti a questi cambiamenti ed evolva per tenere il passo. Questo è vero per la maggior parte del tempo, ma ci sono state diverse occasioni durante la storia della Terra in cui l’evoluzione di alcuni processi biologici hanno influenzato notevolmente la geologia, la mineralogia e quindi la traiettoria evolutiva della Terra’ – spiega il coordinator Donato Giovannelli. La realtà è che il nostro pianeta e la vita si sono coevoluti nel tempo, influenzandosi a vicenda per oltre 4 miliardi di anni. ‘È come una delicata danza in cui la vita e il pianeta Terra lavorano insieme per mantenere l’abitabilità del pianeta e sostenere la vita stessa’, dice Donato Giovannelli. Nonostante questo, l’estensione della coevoluzione e le sue forze motrici sono in gran parte sconosciute’.
Il progetto CoEvolve mira a capire come la vita, in particolare i microrganismi, e il pianeta si sono coevoluti nel tempo, concentrandosi sul ruolo dei metalli. Il progetto è finanziato con una sovvenzione di 2,1 milioni di euro dal Consiglio Europeo della Ricerca (ERC Starting Grant 2020).
I microrganismi sono fondamentali per il funzionamento del pianeta e sono stati la forza trainante nel ciclo dei nutrienti e degli elementi dall’origine della vita su questo pianeta. Per controllare il ciclo dei nutrienti e degli elementi, i microrganismi utilizzano un insieme di proteine che contengono metalli nel loro nucleo, utilizzati per controllare efficacemente le reazioni chimiche. A causa di questa relazione, il ruolo dei metalli è importante per la vita (basti pensare solo a cosa comporta un calo di ferro nel sangue).
‘Le conoscenze degli ultimi decenni sulla evoluzione della vita terrestre ci ha fatto comprendere che la disponibilità di metalli è cambiato drammaticamente nel tempo, in gran parte a causa del cambiamento delle concentrazioni di ossigeno nell’atmosfera – sottolinea Giovannelli -. In sintesi, metalli potrebbero aver controllato in una certa misura l’evoluzione della vita microbica stessa’.
Il progetto CoEvolve utilizza microrganismi raccolti in ambienti estremi, dai poli ai deserti, che sono una sorta di modello di antichi tempi geologici, per capire la relazione tra disponibilità di metallo e metabolismo microbico. Una selezione di ambienti diversi, da sorgenti termali negli altipiani del Cile all’Artico norvegese, saranno campionati nei prossimi 5 anni in una serie di missioni la cui delicata logistica richiede una lunga e attenta pianificazione.
CoEvolve indaga la coevoluzione della vita con la Terra
Donato Giovannelli, dunque, sta raccogliendo nel Giovannelli-Lab un team di scienziati e scienziate con diversi background per affrontare la natura multidisciplinare del progetto CoEvolve, che richiede competenze in microbiologia, biologia molecolare, geochimica, geologia, astrobiologia e big data. La prima fase del progetto è attualmente in corso, con l’allestimento di un nuovo laboratorio geo-bio presso l’Università di Napoli Federico II, e a partire dal 20 febbraio 2022, il team comincia con la prima tappa delle missioni: presso la base artica Dirigibile Italia del CNR (Isole Svalbard, Norvegia) a Ny-Ålesund (78°55′ N, 11°56′ E). La prima spedizione, i cui dati contribuiranno al CoEvolve, è finanziata con un Progetto di Ricerca in Artico del MUR.
“La mia speranza è che il progetto cambierà il modo in cui comprendiamo e interagiamo con il mondo microbico, aprendo nuove strade in diversi campi come la bioremediation, le biotecnologie e la ricerca sul microbioma umano e potrebbe anche cambiare il modo in cui cerchiamo la vita nell’Universo”, conclude Donato Giovannelli.
CoEvolve in breve:
– Al via il progetto CoEvolve del Dipartimento di Biologia della Federico II di Napoli. Durerà 5 anni, beneficia di un finanziamento ERC europeo di 2.1 milioni di euro. Alla sua guida il microbiologo Donato Giovannelli.
– Studierà organismi di ambienti estremi, raccolti in Cile, Islanda, Norvegia, Russia, Italia, Costa Rica, per comprendere come la geologia terrestre ha influenzato la vita, e come la vita, a modo suo, abbia a sua volta influenzato la geologia.
– La prima tappa, in atto in questo momento, alle Isole Svalbard, in Norvegia, presso la base artica del CNR Dirigibile Italia. Il team di microbiologi raccoglierà microorganismi adattati ad un ambiente estremamente freddo.
Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università Federico II di Napoli.
Il Carbonio controlla la profondità di genesi dei magmi nel mantello superiore della Terra
In un nuovo studio (https://www.nature.com/articles/s41561-021-00797-y), pubblicato sulla rivista Nature Geoscience (https://www.nature.com/ngeo/), un team di ricercatori italiani guidato da Alessandro Aiuppa (Università di Palermo) e che vede fra i co-autori Federico Casetta (Università di Ferrara), Massimo Coltorti (Università di Ferrara), Vincenzo Stagno (Sapienza Università di Roma) e Giancarlo Tamburello (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Sezione di Bologna), ha sviluppato un nuovo approccio per ricostruire la quantità di Carbonio immagazzinato nel mantello superiore della terra, dalla cui fusione sono segregati i magmi.
Il Carbonio, il quarto elemento più abbondante in termini di massa nell’universo, è un elemento chiave per la vita. Il suo ricircolo, da e verso l’interno della Terra, regola i livelli di CO2 nell’atmosfera, giocando quindi un ruolo fondamentale nel rendere il nostro pianeta abitabile. Il Carbonio è un elemento unico, perché può essere immagazzinato nelle profondità della Terra in varie forme: all’interno di fluidi, come componente di fasi minerali, oppure disciolto nei magmi. Si ritiene, inoltre, che il Carbonio giochi un ruolo chiave nella geodinamica terrestre, in quanto questo elemento è in grado di controllare i processi di fusione che avvengono mantello superiore. Vista la sua tendenza ad essere incorporato nei magmi prodotti per fusione delle rocce peridotitiche nel mantello superiore, il Carbonio è facilmente trasportato verso la superficie terrestre, ove viene poi rilasciato come CO2 nelle emissioni gassose di vulcani attivi o quiescenti. I magmi ed i gas derivati dal mantello sono, pertanto, i mezzi di trasporto più efficaci per portare il Carbonio verso l’idrosfera e l’atmosfera, dove gioca un ruolo primario nel controllo dei cambiamenti climatici su scala geologica.
Ma quanto Carbonio è immagazzinato all’interno della Terra?
Questa domanda ha ispirato ricerche in diversi ambiti delle geoscienze, che si sono avvalse di molteplici approcci empirici, quali lo studio dei gas emessi in aree vulcaniche, del contenuto in CO2 nelle lave eruttate lungo le dorsali medio-oceaniche e/o nelle inclusioni di magma all’interno dei cristalli, delle inclusioni fluide in xenoliti di mantello portati in superficie dai magmi, e le misure sperimentali sviluppate con lo scopo di comprendere la massima quantità di CO2 che può essere disciolta nei magmi a pressioni e temperature tipiche dell’interno della Terra. Sfortunatamente, questi approcci hanno portato spesso a conclusioni contrastanti, al punto che le stime sul contenuto di Carbonio del mantello (così come dell’intera Terra) divergono di più di un ordine di grandezza. Le “melt inclusions”, o inclusioni di magma, cioè piccole goccioline di fuso silicatico intrappolate nei cristalli al momento della loro formazione nei magmi, possono essere sorgenti di informazione uniche per quantificare il contenuto di Carbonio del mantello da cui i magmi stessi sono segregati. Tuttavia, il massivo rilascio di gas (degassamento), tra cui CO2, a cui i magmi sono soggetti durante la loro risalita verso la superficie (prima della loro messa in posto ed eruzione) ha rappresentato un fattore limitante nella comprensione delle variazioni di concentrazione di Carbonio nel mantello.
Nel loro studio, Aiuppa e co-autori hanno revisionato e catalogato i dati relativi al contenuto in CO2 (e zolfo) nei gas vulcanici emessi da 12 vulcani di hot-spot e di rifting continentale, i cui magmi sono generati da sorgenti mantelliche più profonde rispetto a quelle del mantello impoverito da cui derivano i magmi delle dorsali medio-oceaniche.
Gas magmatici ricchi in CO2 rilasciati dal degassamento del lago di lava a condotto aperto presso il vulcano Nyiragongo, Repubblica Democratica del Congo (foto di Sergio Calabrese, Università di Palermo)
I risultati ottenuti hanno permesso di comprendere che il mantello superiore (50-250 km di profondità) che alimenta il vulcanismo in aree di rifting continentale e di hot-spot contiene in media 350 parti per milione (ppm) di Carbonio (intervallo compreso tra 100 e 700 ppm di C). Questo ampio range conferma la visione di un mantello superiore fortemente eterogeneo, la cui composizione è stata variabilmente modificata, in tempi geologici, dall’infiltrazione di fusi carbonatici-silicatici generati in profondità. Le nuove stime ottenute da Aiuppa e co-autori indicano che il mantello superiore ha una capacità totale di Carbonio di circa ~1.2·1023 g. È possibile che la Terra, nelle sue porzioni interne, sia in grado di contenere ancora più Carbonio, come suggerito dai diamanti provenienti da profondità sub-litosferiche (fino a 700 km), i quali mostrano evidenze dell’esistenza di minerali e fusi che contengono significative quantità di C.
In aggiunta, il team di ricercatori ha stimato che il contenuto di Carbonio aumenta con la profondità di fusione parziale nel mantello. Questa scoperta permette di validare i dati sperimentali, che suggeriscono come il Carbonio giochi un ruolo nel determinare percentuale e profondità di fusione parziale nelle sorgenti di mantello che alimentano i vulcani in aree di rift continentali e di hot-spot. I risultati ottenuti, indicando che le porzioni di mantello ricche in Carbonio fondono più in profondità rispetto a porzioni povere in Carbonio, confermano il ruolo di primaria importanza giocato da questo elemento nel guidare i cicli geodinamici.
Aumento della concentrazione di Carbonio con la profondità di fusione nel mantello superiore terrestre. I magmi prodotti in contesti di Isole Oceaniche e di Rift Continentale sono alimentati da sorgenti di mantello più ricche in Carbonio rispetto alle porzioni di “Depleted MORB Mantle (DMM)”, cioè di mantello impoverito da cui sono prodotti i “Mid-Ocean Ridge Basalts (MORB)”, ovvero basalti di dorsale medio-oceanica
L’esistenza di un mantello ricco in Carbonio, evidenziata da Aiuppa e co-autori, ha profonde implicazioni rispetto alle modalità di immagazzinamento del Carbonio primordiale nel mantello, e per il suo riciclo nel tempo e nello spazio. I risultati ottenuti con questo studio sono anche importanti per comprendere le possibili variazioni nel ciclo geologico del Carbonio causate da eventi vulcanici di grande magnitudo, quali la messa in posto delle “Large Igneous Provinces (LIP)”, o grandi province ignee. Se i magmi prodotti dai “plume”, o pennacchi, di mantello sono ricchi in Carbonio, come suggerito da questo studio, allora il rilascio di Carbonio dalle grandi province ignee nel Fanerozoico può aver contribuito a causare le estinzioni di massa, le cui tracce sono preservate nei record sedimentari in tutto il mondo.
Sezione schematica dall’Oceano Atlantico all’Oceano Indiano (passando attraverso il cratone Africano), che mostra le variazioni nelle concentrazioni di Carbonio ricostruite nelle sorgenti di mantello da cui sono prodotti i magmi delle Isole Oceaniche e dei Rift Continentali
Il Carbonio controlla la profondità di genesi dei magmi nel mantello superiore della Terra
CITAZIONE
Alessandro Aiuppa, Federico Casetta, Massimo Coltorti, Vincenzo Stagno and Giancarlo Tamburello (2021), Carbon concentration increases with depth of melting in Earth’s upper mantle, Nature Geoscience, https://doi.org/10.1038/s41561-021-00797-y
Il Carbonio controlla la profondità di genesi dei magmi nel mantello superiore della Terra. Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma, Università di Palermo, Università di Ferrara, Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia.
Accostare la parola “marea” alla Geologia può lasciare perplessi in prima battuta, scavando nella memoria difficilmente si recupera un ricordo che le vede accomunate. Un termine notoriamente associato al movimento di masse liquide e la scienza che studia le masse rocciose: in che modo sono legati?
A partire dalla metà del ventesimo secolo, la teoria della tettonica a placche è entrata a far parte stabilmente del pensiero scientifico: da allora gli esperti dibattono sui processi che governano il moto dei blocchi tettonici. Postulata e dimostrata la teoria della deriva dei continenti, gli scienziati hanno ricercato le sue cause nella struttura interna della Terra ed in particolare nei moti convettivi del mantello superiore, che determinano l’allontanamento o la collisione delle placche.
Secondo i dati raccolti, però, i movimenti relativi dei blocchi non sono governati esclusivamente dalla dinamica del mantello: esiste una componente orizzontale regolata da un processo diverso. Da ricercare fuori e non dentro il pianeta. Ecco che entrano in gioco le “maree solide”, movimenti di blocchi di litosfera dipendenti dai moti solari e lunari con lungo periodo di oscillazione (maggiore di un anno).
La sezione di Terra oggetto di studio è la litosfera, l’insieme della crosta terrestre e della parte superiore del mantello. Il suo comportamento – se sottoposta a sforzo – è di tipo rigido, a differenza della sottostante astenosfera più fluida e facilmente deformabile. La separazione tra queste due masse è garantita dalla low velocity zone (LVZ), una fascia a basse velocità delle onde sismiche sulla quale la litosfera scorre con poca frizione.
La struttura della terra: 1) crosta, 2) mantello, 3) nucleo (esterno liquido e interno solido), 4) litosfera, 5) astenosfera. ImmagineUSGS, vettoriale di Anasofiapaixao, pubblico dominio
La ricerca ha analizzato la distanza relativa di una serie coppie di stazioni GNSS (Global Navigation Satellite Systems) collocate su placche differenti (9) ed una coppia di controllo sulla stessa placca. Lo studio si è focalizzato sui moti ciclici del Sole e della Luna con oscillazioni comprese tra uno e 18,61 anni. Cicli più brevi e quindi più frequenti vengono mascherati da effetti climatici sull’atmosfera e sul sottosuolo (influenzando ad esempio pressione dei fluidi). Inoltre, i cataloghi delle misurazioni satellitari hanno a disposizione dati degli ultimi 15-20 anni.
Il professor Carlo Doglioni ha quindi risposto per noi ad alcune domande relative a questo ultimo, importante studio.
Professor Doglioni, ci sono teorie e/o ricerche riguardo oscillazioni astronomiche con periodo maggiore? Che cataloghi e misurazioni vengono usati in quel caso?
Lo studio pubblicato è un tassello importante di un percorso di ricerca iniziato circa 30 anni fa, quando si è iniziato a vedere che le placche (cioè i frammenti della litosfera, il guscio esterno della Terra) non si muovono a caso, ma seguono un flusso primario, descritto da quello che abbiamo definito ‘equatore tettonico’, che fa un angolo di circa 30° rispetto all’equatore geografico.
Guarda caso, la proiezione del passaggio della Luna sulla Terra descrive un angolo molto simile. Poi però negli anni sono state documentate delle profonde asimmetrie della tettonica in funzione della polarità geografica, per esempio le differenze tra le catene montuose legate a subduzioni verso ‘est’ o verso ‘ovest’.
Infine è stato documentato come il guscio litosferico, circa 100 km di spessore, abbia un ritardo verso ‘ovest’ di alcuni centimetri l’anno rispetto al mantello sottostante. Quindi la tettonica delle placche è polarizzata. Queste osservazioni cruciali sono state in larga parte ignorate o liquidate come effetti secondari della sola dinamica interna di raffreddamento della Terra.
Ora abbiamo invece una prova sperimentale che le maree solide – e quindi le forze astronomiche – hanno invece un effetto cruciale sulla dinamica delle placche, in particolare quelle che hanno frequenze compatibili con le alte viscosità del mantello terrestre. L’equatore tettonico, per esempio, sembra avere una inclinazione controllata dalla precessione dell’asse di rotazione terrestre, cioè circa 26.000 anni.
Quindi sì, dovrebbero esserci effetti importanti anche con frequenze con periodi più lunghi a quelli delle nutazioni (18.6 anni). In questo caso però non ci sono cataloghi né sismici, né geodetici che ci possano aiutare, se non i dati geologici di lungo periodo.
Lo studio conferma inoltre la teoria secondo cui l’attività sismica ha un legame con il movimento relativo di Sole e Luna. Che impatto ha questa relazione sullo studio dei terremoti, in particolare sui cataloghi degli eventi sismici passati e sul monitoraggio delle aree attive? Potranno esserci (o esistono già) studi in “tempo reale” (geologicamente parlando) dell’effetto sui diversi tipi di faglia?
La gravità rimane sempre uno dei segreti più straordinari della natura e i suoi effetti sono in parte ancora da scoprire. Basti pensare che pur avendo il Sole il 99% della massa di tutto il sistema solare, il baricentro del sistema solare oscilla continuamente per effetto della massa rimanente inferiore all’1% di cui Giove fa la parte del leone. Le forze mareali, inoltre, vanno con il cubo della distanza, e questo spiega perché la Luna, pur essendo infinitamente più piccola, ha un effetto mareale circa doppio rispetto al Sole.
La tettonica delle placche e quindi la sismicità esistono però perché il mantello terrestre può convettere, e questo è possibile perché la temperatura e la composizione interna della Terra determinano viscosità che permettono questa mobilità. Tuttavia, la domanda è se i moti convettivi sono l’unico motore attivo oppure se esiste un’altra forza che li mette in movimento.
La componente orizzontale della marea solida ora è il candidato ideale per far scivolare la litosfera sul mantello sottostante, per farla sprofondare nelle zone di subduzione o permettere la risalita per isostasia del mantello al di sotto delle dorsali oceaniche che si formano dove i gradienti di viscosità determinano velocità diverse tra le placche a parità di effetto mareale. In sostanza la convezione mantellica viene polarizzata e attivata dalla componente orizzontale della marea solida; una componente che sposta avanti e indietro il suolo di 10-20 cm a ogni passaggio è la miglior candidata a pompare il sistema tettonico.
Vediamo infatti una certa correlazione con la sismicità in funzione dei periodi in cui la componente orizzontale è maggiore. Tuttavia, la sismicità è la liberazione di gradienti di pressione che si formano nei decenni, se non millenni, e la rottura che provoca il terremoto si attua nel momento in cui le rocce non sono più in grado di accumulare energia; viene dunque raggiunta la soglia critica e si attivano le faglie che producono i terremoti.
In sostanza, la correlazione tra maree e terremoti è più subdola, nel senso che c’è una frequenza maggiore di terremoti quando le placche vanno un po’ più veloci, ma i terremoti avvengono anche quando le placche si muovono più lentamente, qualora lo stato limite o condizione critica siano stati raggiunti. La componente orizzontale fornisce l’energia al sistema, mentre la componente verticale della marea modifica e modula continuamente, ogni secondo, la gravità terrestre, alzando e ribassando la litosfera e quindi anche la superficie terrestre di 30-40 cm, e quindi modificando anche il peso delle rocce: questa oscillazione favorisce o sfavorisce i terremoti in funzione della loro natura.
Per esempio, i terremoti estensionali avvengono più frequentemente durante le fasi di bassa marea (quando cioè la gravità terrestre è massima), mentre i terremoti compressivi avvengono più spesso durante le fasi di alta marea perché con una leggera diminuzione della forza di gravità si facilita lo scorrimento contrazionale.
In sostanza, la componente orizzontale carica il sistema, mentre quella verticale può essere il grilletto che innesca i terremoti, ma questi possono avvenire indipendentemente dalla marea quando la ‘misura è colma’. La Terra esercita delle maree solide che innalzano il suolo lunare di circa 10 metri, e la sismicità lunare ha una ciclicità mensile concentrata nell’emisfero rivolto verso la Terra.
La Luna non ha una tettonica delle placche perché evidentemente non ha temperature interne sufficientemente alte da determinare basse viscosità che permettano la convezione e inoltre si trova in tidal-locking, cioè guarda la Terra sempre con la stessa faccia, quindi manca la rotazione del corpo celeste come per il nostro pianeta. Quindi sì, c’è un controllo gravitazionale fondamentale sulla sismicità, ma questo non significa che ora siamo in grado di prevedere i terremoti.
Sismogramma all’Osservatorio di Weston, Massachussetts. Foto di Z22, CC BY-SA 3.0
Abbiamo però una chiave di lettura che ci permetterà di approfondire quei settori delle geoscienze che ci possono dare informazioni deterministiche sull’evoluzione delle aree a maggiore pericolosità sismica: dalla geodesia alla geochimica dei fluidi, dalla statistica all’intelligenza artificiale, discipline che ci permettono di riconoscere dei transienti o anomalie che preludono l’attivazione delle faglie, o meglio il rilascio dell’energia accumulata nei volumi adiacenti alle faglie stesse che sono dei piani passivi di rilascio e canalizzazione di una parte di questa energia.
Che impatto può avere questa ricerca sullo studio degli hotspot, ad esempio quello delle Hawaii? Può aiutare a definire la profondità di origine del magma che alimenta l’apparato vulcanico? Può aiutare a determinare la dinamica dello spostamento dell’hotspot stesso (se lo spostamento esiste)?
Uno studio relativamente recente – grazie alla tecnica sismologica delle receiver functions – ha permesso di ricostruire la profondità a circa 130 km della camera magmatica sotto le Hawaii: questo significa che sì, gli hotspot pacifici sono alimentati da magma che proviene appunto da quel livello sotto la litosfera che si chiama canale a bassa velocità (low-velocity zone, LVZ) che costituisce la parte alta dell’astenosfera che va da circa 100 a 410 km di profondità.
I magmi delle Hawaii inoltre, sulla base dei dati petrologici sappiamo che si sono formati a una temperatura di circa 1500°C, a conferma del dato sismologico, e sono quindi relativamente superficiali, non provenienti cioè dal limite nucleo-mantello a 2900 km, come alcuni ricercatori avevano ipotizzato. Le Hawaii, come varie altre catene magmatiche, ci documentano che la litosfera si muove rispetto all’astenosfera e questo dato ci permette di calcolare la deriva della litosfera verso ‘ovest’ rispetto al mantello.
Vi sono anche altri tipi di catene magmatiche che venivano etichettate come hotspot, in particolare posizionate sulle dorsali oceaniche come l’Islanda, le Azzorre, Ascencion, ma è stato dimostrato dalle ricerche di scienziati italiani come Enrico Bonatti e Marco Ligi che in realtà sono zone dove il mantello fonde a una temperatura più bassa per il maggiore contenuto di fluidi, a cominciare dall’acqua stessa. Sono chiamati appunto wetspot o punti bagnati e hanno quindi un’origine e una composizione diversa rispetto agli hotspot come le Hawaii. Lo spostamento degli hotspot e wetspot è documentato, ma ha natura e significato geodinamico diverso. Nessun punto o margine di placca sulla Terra è fisso, tutto si muove, a velocità diverse, rispetto al mantello sottostante.
Quali campi altri di ricerca potranno beneficiare delle conclusioni di questo studio?
Il nostro auspicio (con Davide Zaccagnino e Francesco Vespe, coautori della ricerca, ma anche di numerosi altri colleghi che nel corso degli anni hanno contribuito in modo fondamentale a queste ricerche) è che questa scoperta sia l’inizio di un percorso che ci permetterà di capire sempre meglio non solo la sismicità, ma anche i meccanismi fondamentali di funzionamento della Terra e le sue interazioni con la dinamica planetaria e, perché no, anche dell’origine ed evoluzione della vita.
Le forze di natura astronomica come le maree solide svolgono un ruolo attivo sulla tettonica delle placche: è quanto affermano i risultati di una ricerca frutto della collaborazione fra l’Università Sapienza di Roma, l’ASI e l’INGV
Il motore della dinamica delle placche tettoniche è ancora relativamente poco chiaro. Da decenni si è pensato che la Luna e il Sole potessero contribuire alla dinamica interna della Terra, ma, nonostante vi fossero molte evidenze indirette, la loro influenza non era mai stata dimostrata in modo convincente.
Non tutti sanno che oltre alle maree liquide vi sono anche le maree solide che deformano continuamente la crosta terrestre, dislocando il suolo sia sulla verticale che sulla orizzontale di diversi decimetri. Con lo studio “Tidal modulation of plate motions” appena pubblicato su Earth Science Reviews, gli scienziati dell’Università Sapienza di Roma, dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) e dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) hanno fatto luce sull’importanza delle maree solide, (cioè di quelle deformazioni del suolo e di tutta la crosta terrestre che avvengono durante il passaggio allo zenit dei due corpi celesti) provando il legame fra gli spostamenti delle placche tettoniche e le forze di natura astronomica come le maree, in particolare nella loro componente orizzontale.
Gli effetti periodici delle maree si verificano a intervalli di tempo molto diversi. Alcuni hanno alta frequenza, cioè avvengono con cadenza semidiurna, diurna, bisettimanale e mensile. Altri, invece sono a bassa frequenza con cadenze più lunghe: semi-annuali, annuali, 8,8 e i 18,6 anni circa, fino ad arrivare a quella della precessione degli equinozi che ha un periodo di 26.000 anni. Quelle con periodi di 8,8 e 18,6 anni, sulle quali si è focalizzato lo studio, sono dovute, rispettivamente, alla precessione del perigeo e del nodo ascendente della Luna.
Le oscillazioni ad alta frequenza sono per lo più smorzate dall’alta viscosità del guscio esterno della Terra, la litosfera, che è spessa circa 100 km e il cui movimento relativo al mantello sottostante è rimasto finora inspiegato. Inoltre, le oscillazioni ad alta frequenza si confondono con fattori climatici e stagionali dovuti a oscillazioni della pressione atmosferica e dei cicli dei fluidi nel sottosuolo e nei bacini oceanici. Da qui l’idea di ricercare oscillazioni orizzontali di bassa frequenza sulle linee di base inter-continentali, perché univocamente attribuibili alle sollecitazioni mareali.
Ciò è stato possibile grazie alla rete globale di stazioni GNSS permanenti (la sigla sta per “Global Navigation Satellite Systems”, che comprende sia il GPS americano che il sistema GALILEO europeo) attraverso la quale è possibile effettuare misure di velocità tra le placche anche tra stazioni a migliaia di chilometri di distanza.
Grazie a importanti servizi internazionali operanti da almeno 30 anni come l’International GNSS Service (IGS), cui contribuisce in modo significativo l’ASI attraverso il suo Centro di Geodesia Spaziale di Matera, le stazioni hanno accumulato serie storiche delle loro coordinate giornaliere lunghe ormai almeno 20 anni, necessarie per svolgere questo tipo di analisi.
Così Davide Zaccagnino, Francesco Vespe e Carlo Doglioni hanno effettuato l’analisi delle variazioni nel tempo della velocità di allontanamento o avvicinamento tra le placche.
Dai loro studi è emerso che la deriva secolare dei continenti, cioè delle placche litosferiche in cui è suddiviso il guscio del pianeta, è modulata da una vibrazione che oscilla alle stesse basse frequenze delle maree. È stata fatta una controprova per linee di base intra-placca per capire se queste oscillazioni persistessero o meno.
Proprio la trascurabilità riscontrata su linee di base intra-placca ha confermato che queste forze astronomiche giocano un ruolo decisivo nel descrivere i moti della deriva dei continenti che, quindi, lentamente si muovono verso ‘ovest’ grazie alla spinta orizzontale delle maree solide rispetto al mantello sottostante, lungo un flusso ondulato descritto dal cosiddetto equatore tettonico che fa un angolo di circa 30° con l’equatore geografico.