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FARMACI ONCOLOGICI: PERCHÉ EUROPA E STATI UNITI D’AMERICA PRENDONO DECISIONI DIVERSE? 

Uno studio dell’Università di Torino evidenzia le discrepanze tra le due principali agenzie regolatorie nell’approvazione dei medicinali per il cancro.

 

L’Università di Torino ha pubblicato sulla prestigiosa rivista Lancet Oncology uno studio intitolato Differences in the on-label cancer indications of medicinal products between Europe and the USA, che mette a confronto le decisioni della Food and Drug Administration (FDA) e della European Medicines Agency (EMA) nell’approvazione dei farmaci oncologici.

La sicurezza dei medicinali è garantita da un’attenta analisi dei dati da parte delle Agenzie Regolatorie. Solo dopo la revisione approfondita dei dati derivanti dagli studi clinici, i farmaci possono essere messi a disposizione dei pazienti. Negli Stati Uniti, questa funzione è svolta dalla FDA, mentre in Europa è di competenza dell’EMA. Tuttavia, lo sviluppo di un farmaco è ormai globale e le diverse Agenzie Regolatorie valutano gli stessi studi clinici, sebbene possano arrivare a conclusioni differenti.

“Ci saremmo aspettati che le due agenzie più importanti del mondo, considerando gli stessi dati, arrivassero alle stesse conclusioni” – spiega Gianluca Miglio, professore di farmacologia all’Università di Torino – “ed invece oltre la metà dei farmaci è approvata per popolazioni leggermente diverse. In altre parole, vi sono pazienti dai due lati dell’Atlantico che hanno o non hanno accesso ad un dato medicinale a seconda della zona geografica in cui vivono”.

Nella ricerca sono state analizzate 162 indicazioni terapeutiche di 80 medicinali per tumori solidi e tumori del sangue autorizzate dall’EMA tra gennaio 2015 e settembre 2022 con le corrispondenti indicazioni approvate dalla FDA. Sono state identificate discrepanze clinicamente rilevanti per il 51,9% delle indicazioni valutate. Le differenze riguardano la collocazione nella terapia, la necessità che i pazienti siano refrattari a terapie precedenti, i requisiti di eleggibilità dei biomarcatori, i trattamenti concomitanti o le caratteristiche dei pazienti.

“Il nostro lavoro non è disegnato per definire quali delle due agenzie sia la migliore, sono entrambe eccezionali” – sottolinea Armando Genazzani, anche lui docente dell’Università di Torino, con esperienze sia in EMA che nell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) – “ma evidenziare quanto sia difficile prendere delle decisioni che impattano su milioni di malati in presenza di incertezze. Da un lato le agenzie mirano a concedere l’accesso del farmaco al maggior numero di persone possibile, e dall’altro, invece, devono essere sufficientemente sicure che per tutti i malati per i quali il farmaco è indicato vi è una ragionevole certezza di efficacia e sicurezza. Quello che cambia tra le due agenzie è il diverso bilanciamento tra questi due obiettivi”.

Le differenze osservate sono sottili, e derivano principalmente dalle discrepanze legislative e dalla differente inclinazione a estrapolare i dati in popolazioni non studiate direttamente nei trial clinici. 

“Le ragioni per le differenze osservate sono molteplici così come lo sono le implicazioni” – continua Genazzani – “La nostra analisi sembra suggerire che l’FDA sia più incline ad allargare il bacino dei pazienti che potenzialmente potrebbero beneficiare del farmaco, mentre l’EMA è più conservativa e maggiormente incline a riservare il farmaco ai pazienti per i quali vi è una dimostrazione chiara. Questo vuol dire che i pazienti americani hanno più opportunità terapeutiche mentre i pazienti Europei hanno maggiori certezze sui farmaci che assumono”.

Con questo studio dell’Università di Torino mira a fornire un contributo fondamentale alla comprensione delle dinamiche di approvazione dei farmaci oncologici a livello internazionale, evidenziando il delicato equilibrio tra accesso alle terapie e sicurezza dei pazienti.

Riferimenti bibliografici:

Perini, Martina et al., Differences in the on-label cancer indications of medicinal products between Europe and the USA, The Lancet Oncology, Volume 26, Issue 2, e103 – e110, DOI: https://doi.org/10.1016/S1470-2045(24)00434-0

cancro intelligenza artificiale nuovo metodo CEST-MRI Case report of first woman of color possibly cured of HIV
Farmaci oncologici: perché Europa e Stati Uniti d’America prendono decisioni diverse? Lo studio è stato pubblicato su The Lancet Oncology. Foto di StockSnap

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

Rigidità muscolare nella malattia di Parkinson: gli effetti della levodopa, il farmaco più efficace per il trattamento dei sintomi motori della patologia

Uno studio internazionale, coordinato dalla Sapienza, ha indagato sperimentalmente i meccanismi alla base della rigidità muscolare nella malattia di Parkinson, individuando inoltre un nuovo circuito nervoso sensibile alla dopamina che potrebbe essere responsabile del sintomo. I risultati, pubblicati sulla rivista Movement Disorders, aprono nuove strade a terapie innovative.

L’incidenza della malattia di Parkinson sembra essere in rapida crescita a livello globale. A oggi la patologia colpisce circa 300 mila persone in tutta Italia. Nonostante la rigidità muscolare sia un segno cardine della malattia – come la bradicinesia, ovvero il rallentamento dei movimenti volontari, e il tremore – tale sintomo rimane ancora poco studiato.

La levodopa, considerata un farmaco “miracoloso” per trattare la malattia di Parkinson, rappresenta ancora oggi il trattamento più efficace per gestire i segni motori della patologia. Tuttavia, a oggi non esistono studi che abbiano valutato e chiarito in modo oggettivo l’effetto della terapia dopaminergica sulla rigidità muscolare in pazienti con malattia di Parkinson.

Lo studio, coordinato da Antonio Suppa del Dipartimento di Neuroscienze Umane della Sapienza in collaborazione con IRCCS Neuromed, intende colmare questo vuoto. Al fine di chiarire l’effetto della levodopa sulla rigidità muscolare nei pazienti affetti da Parkinson, il gruppo di ricerca ha utilizzato un innovativo approccio sperimentale che combina strumentazioni robotiche e misure neurofisiologiche non invasive. Tale approccio metodologico ha consentito di ricostruire con precisione i meccanismi alla base della rigidità muscolare permettendo così di descrivere in modo più accurato le basi fisiopatologiche della rigidità muscolare nella malattia di Parkinson.

Per indagare l’efficacia del trattamento, i segni e i sintomi motori della malattia sui pazienti sono stati valutati sia in stato di OFF farmacologico (almeno 12 ore dopo l’ultima assunzione della dose abituale di levodopa) che in stato di ON farmacologico (almeno 1-2 ore dopo l’assunzione del farmaco).

“Abbiamo dimostrato che la rigidità muscolare dipende da un riflesso specifico, chiamato long-latency stretch reflex (LLR), che nei pazienti affetti da malattia di Parkinson risulta alterato – spiega Antonio Suppa, professore della Sapienza – La levodopa ha mostrato di ridurre significativamente questa anomalia ripristinando dei patterns di attivazione più fisiologici”.

Sulla base dei risultati ottenuti, i ricercatori hanno poi ipotizzato e descritto un nuovo circuito nervoso responsabile della rigidità nella malattia di Parkinson che collega il tronco encefalico, il cervelletto e il midollo spinale. Tale circuito è influenzato dalla dopamina e potrebbe essere il punto di partenza per nuove terapie.

La ricerca sulla rigidità muscolare è ancora in corso ed è tra i principali argomenti di approfondimento del nuovo laboratorio di “Neurologia sperimentale, neuroingegneria e telemedicina” della Sapienza. Dimostrando oggettivamente e nel dettaglio i meccanismi su cui agisce la levodopa e attraverso i quali il farmaco è in grado di ridurre la rigidità muscolare nei pazienti, lo studio rappresenta un importante riferimento scientifico sul tema. Inoltre, l’individuazione del possibile circuito neuronale alla base della rigidità muscolare suscettibile alla stimolazione dopaminergica, apre strade per terapie innovative.

Riferimenti bibliografici:

Falletti M, Asci F, Zampogna A, Patera M, Pinola G, Centonze D, Hallett M, Rothwell J, Suppa A.Rigidity in Parkinson’s Disease: The Objective Effect of Levodopa, Mov Disord. 2025 Jan 8. doi: 10.1002/mds.30114. Epub ahead of print. PMID: 39777428.

SLA Tumore vescica NUMB biomarcatore microscopio SLA molecola leucemia RNA serina idrossimetiltrasferasi serina
Foto PublicDomainPictures 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Individuato un nuovo potenziale biomarcatore della SLA: GDF15, la proteina che riduce l’appetito
Uno studio internazionale, coordinato da Sapienza Università di Roma, ha dimostrato il coinvolgimento della citochina GDF15, nota per causare la riduzione dell’appetito, nella progressione della SLA. Il lavoro, pubblicato sulla rivista Brain Behavior and Immunity, suggerisce un nuovo potenziale biomarcatore e bersaglio terapeutico per il trattamento della malattia.

 

La sclerosi laterale amiotrofica (SLA) è una malattia multifattoriale caratterizzata dalla degenerazione progressiva dei motoneuroni e dalla paralisi muscolare. Nonostante i trattamenti attualmente utilizzati, i pazienti sopravvivono solo 3-5 anni dopo la diagnosi iniziale.

La perdita di peso è un’importante caratteristica clinica, al momento della diagnosi, delle persone affette da SLA. Con una prevalenza stimata del 56%-62%, la perdita di peso è definita come un rilevante e indipendente fattore prognostico. Diversi studi hanno riportato che il decorso della malattia è sfavorevole quando i pazienti perdono peso rapidamente o hanno un indice di massa corporea basso al momento della diagnosi.

Lo studio internazionale, coordinato dalla Sapienza, che ha visto la partecipazione dei dipartimenti di Fisiologia e Farmacologia, di Chimica e Tecnologie del Farmaco, di Neuroscienze Umane e dell’Università di Amsterdam, ha dimostrato che la citochina GDF15 è coinvolta nelle disfunzioni metaboliche che caratterizzano la patologia.

Utilizzando un modello murino della patologia e campioni di pazienti affetti da SLA, i ricercatori hanno osservato che GDF15 è altamente espresso nel sangue periferico e in campioni di tessuto umano a livello della corteccia cerebrale motoria, nel midollo spinale e nel tronco encefalico.

In particolare, lo studio si è focalizzato sul ruolo del recettore GFRAL, presente nei neuroni di una regione specifica del sistema nervoso centrale, e cioè l’area postrema e il nucleo del tratto solitario. I ricercatori hanno mostrato che silenziando l’espressione del GFRAL solo in queste regioni provocava un rallentamento della perdita di peso e di tessuto adiposo, il miglioramento della funzione motoria e una maggiore sopravvivenza nei topi.

I risultati dello studio evidenziano un coinvolgimento dell’asse GDF15-GFRAL nella modulazione delle alterazioni metaboliche alla base della perdita di peso e della progressione della malattia nella SLA. La ricerca mette in luce l’importanza di aumentare l’attenzione sull’aspetto nutrizionale e sui cambiamenti metabolici nei pazienti per anticipare la diagnosi della malattia e per sviluppare interventi terapeutici innovativi.

“Questo studio contribuisce ad aumentare la nostra comprensione dei meccanismi alla base della sclerosi laterale amiotrofica – commenta Cristina Limatola del Dipartimento di Fisiologia e Farmacologia della Sapienza. Sappiamo infatti che la SLA non è più definibile come una patologia del motoneurone, perchè numerose alterazioni sono state descritte a carico della componente gliale e del sistema immunitario prima che si manifestino sintomi nei pazienti e prima che sia misurabile un danno neurodegenerativo. La nostra scoperta del coinvolgimento della citochina GDF15 nella perdita di peso che precede la manifestazione dei sintomi della SLA conferma l’importanza di un approccio olistico per una diagnosi precoce della malattia e l’identificazione di nuovi bersagli terapeutici”.

 

Riferimenti bibliografici:

Cocozza G., Busdraghi L. M., Chece G., Menini A., Ceccanti M., Libonati L., Cambieri C., Fiorentino F., Rotili D., Scavizzi F., Raspa M., Aronica E., Inghilleri M., Garofalo S., Limatola C., “GDF15-GFRAL signaling drives weight loss and lipid metabolism in mouse model of amyotrophic lateral sclerosis”, Brain, Behavior, and Immunity (2025) DOI: https://doi.org/10.1016/j.bbi.2024.12.010

microscopio cellule invecchiamento
Individuato un nuovo potenziale biomarcatore della SLA: GDF15, la proteina che riduce l’appetito; lo studio su Brain, Behavior, and Immunity. Foto PublicDomainPictures 

 

Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Long COVID: scoperta la causa dei disturbi polmonari: il danno polmonare può essere causato da uno stato infiammatorio

I risultati di uno studio di Monzino e Università Statale di Milano, pubblicati sul Journal of American College of Cardiology Basic to Translational Science, identificano nell’infiammazione di basso grado e nell’attivazione piastrinica la causa dei danni polmonari, responsabili dei maggiori disturbi nella sindrome Long Covid, rendendo possibile una cura farmacologica personalizzata.

Milano, 12 dicembre 2024 – Un gruppo di ricercatori dell’IRCCS Centro Cardiologico Monzino e dell’Università degli Studi di Milano, guidati da Marina Camera, Responsabile dell’Unità di Ricerca di Biologia Cellulare e Molecolare Cardiovascolare del Monzino e Professore Ordinario di Farmacologia presso l’Università Statale di Milano, in collaborazione con i clinici del Centro Cardiologico Monzino e dell’Istituto Auxologico Italiano, ha individuato i meccanismi molecolari alla base dei disturbi polmonari nei pazienti che soffrono della sindrome Long COVID, aprendo la strada a una possibile terapia.

I dati della ricerca, pubblicati su JACC BTS (Journal of American College of Cardiology Basic to Translational Science) evidenziano che in questi pazienti il danno polmonare può essere causato da uno stato infiammatorio con attivazione delle piastrine che legandosi ai leucociti formano nel sangue degli etero-aggregati. Questi etero-aggregati, entrando nel microcircolo polmonare, possono determinare danno vascolare e alveolare promuovendo deposizione di tessuto fibrotico responsabile dei principali sintomi riferiti dai pazienti con Long COVID (dispnea, dolore toracico, astenia etc etc). Mediante esperimenti in vitro effettuati con il plasma di questi pazienti, lo studio suggerisce anche che i farmaci antiinfiammatori e antiaggreganti sono in grado di contrastare questi processi e rappresentano dunque una potenziale opzione terapeutica.

Benché l’emergenza pandemica COVID-19 sia terminata, il virus persiste nella popolazione e gli effetti di lungo termine dell’infezione – il cosiddetto Long COVID appunto – hanno ancora un forte impatto negativo sulla qualità di vita di un’alta percentuale di soggetti che hanno contratto la malattia in forma più o meno grave. I sintomi più preoccupanti del Long COVID sono riconducibili alla compromissione del parenchima polmonare e possono durare anche un anno dopo la fase acuta dell’infezione. Per questo la ricerca cardiovascolare internazionale si è concentrata sulle cause della persistenza dei sintomi post-COVID.

Diversi studi sostengono l’ipotesi che il danno polmonare sia causato dalla prolungata disfunzione endoteliale e dall’attivazione delle cellule immunitarie, con produzione di citochine che sostengono il processo infiammatorio. Tuttavia la fisiopatologia dei sintomi e le ragioni dello stato infiammatorio e della conseguente disfunzione polmonare non sono state del tutto chiarite.

I nostri studi hanno identificato un ruolo centrale, che nessuno aveva ancora considerato, sia dell’infiammazione cronica di basso grado che delle piastrine. Livelli anche di poco superiori ai limiti di normalità di proteina C reattiva e di interleuchina 6 possono infatti sinergizzare e sostenere l’attivazione delle piastrine. Gli aggregati che esse formano con i leucociti potrebbero dunque spiegare la disfunzione polmonare promuovendo deposizione di tessuto fibrotico che compromette la funzionalità polmonare”, dichiara Marina Camera.

Nell’era COVID, fra luglio e ottobre 2020, abbiamo reclutato presso il Centro Cardiologico Monzino e l’Istituto Auxologico Italiano 204 pazienti che avevano contratto il COVID nei mesi precedenti. Escludendo chi soffriva di gravi malattie pregresse o stava assumendo una terapia anticoagulante, abbiamo identificato 34 pazienti con sintomi di Long COVID che sono stati quindi confrontati con altrettanti soggetti che non presentavano sintomi dopo l’infezione da COVID-19. A questi soggetti è stato effettuato un prelievo di sangue per la valutazione dello stato di attivazione delle piastrine. I dati ottenuti hanno chiaramente indicato come nei soggetti sintomatici il danno polmonare evidenziato dagli esami TAC sia significativamente associato a un fenotipo piastrinico pro-infiammatorio”, spiega Marta Brambilla, ricercatrice del centro Cardiologico Monzino e prima firma del lavoro.

La ricerca pubblicata su JACC va a completare gli studi sull’impatto cardiovascolare del COVID-19, confermando l’eccellenza, riconosciuta a livello internazionale, del Centro Cardiologico Monzino su questo fronte. “Abbiamo dapprima identificato nel profilo procoagulante piastrinico il meccanismo responsabile delle complicanze trombotiche nei pazienti con infezione acuta da COVID-19. Abbiamo anche evidenziato che i quattro vaccini anti-COVID utilizzati durante la pandemia, pur inducendo un transiente stato infiammatorio tipico della stimolazione immunitaria, non inducono attivazione piastrinica e dunque non aumentano il rischio trombotico nella popolazione generale. Questo ultimo lavoro evidenzia infine non solo i meccanismi fisiopatologici, ma anche i biomarcatori utili per personalizzare la terapia farmacologica nella gestione della sindrome del Long COVID”, conclude Marina Camera.

Immagine di Gerd Altmann

Testo dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.

Repistat: individuata una nuova molecola capace di rallentare la progressione della retinite pigmentosa

L’Università di Pisa partner dello studio che ha guadagnato la copertina del Journal of Medicinal Chemistry.

Si chiama REPISTAT, è una nuova molecola capace di rallentare la progressione della retinite pigmentosa, una rara patologia genetica che può portare negli anni alla totale cecità. La scoperta arriva da uno studio, che si è guadagnato la copertina del Journal of Medicinal Chemistry. A progettare e sintetizzare la molecola è stato un gruppo di ricerca di chimica farmaceutica dell’Ateneo di Siena in collaborazione, per le prove biologiche, con il Dipartimento di Farmacia dell’Ateneo pisano, e con l’Istituto di Neuroscienze del CNR – Pisa, la University College London e l’Università di Ferrara.

La sperimentazione è stata condotta in vitro e su modelli animali e la speranza è che in futuro REPISTAT possa essere alla base della formulazione di un nuovo farmaco, magari un collirio, capace di ritardare l’evoluzione della malattia.

“La retinite pigmentosa è una rara malattia genetica tuttora priva di una cura risolutiva, a causarla sono circa 200 mutazioni su una sessantina di geni, la cura più efficace è la terapia genica, con costi altissimi però, tanto che sono state attualmente sviluppate delle terapie solo per due mutazioni – spiega la professoressa Ilaria Piano del Dipartimento di Farmacia dell’Università di Pisa – ci sono tuttavia degli elementi che accomunano tutte le forme di retinite pigmentosa, come ad esempio i processi infiammatori, ossidativi o l’apoptosi, cioè il meccanismo che regola la morte programmata delle cellule. La molecola che abbiamo sviluppato è in grado di agire come modulatore epigenetico e attraverso questo meccanismo interviene proprio su questi processi aprendo un’opportunità per trattare su larga scala i pazienti, indipendentemente dalla mutazione genica”.

La ricerca è frutto di RePiSTOP, un progetto di ricerca di interesse nazionale del 2022 finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca.

Link articolo scientifico “Targeting Relevant HDACs to Support the Survival of Cone Photoreceptors in Inherited Retinal Diseases: Identification of a Potent Pharmacological Tool with In Vitro and In Vivo Efficacy”, Journal of Medicinal Chemistry, DOI10.1021/acs.jmedchem.4c00477

J. Med. Chem. 2024, 67, 17, 14946–14973, Link:https://doi.org/10.1021/acs.jmedchem.4c00477
Pubblicato il 4 Luglio 2024
Copyright © 2024 American Chemical Society
J. Med. Chem. 2024, 67, 17, 14946–14973, Link:
https://doi.org/10.1021/acs.jmedchem.4c00477
Pubblicato il 4 Luglio 2024
Copyright © 2024 American Chemical Society

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa

Progetto CO-TRANS-NET: farmaci sintetici personalizzati a base di RNA, giovane ricercatrice vince l’ERC Starting Grant

Sempre più vicina la possibilità di creare farmaci su misura del paziente oncologico e della sua malattia e garantire diagnosi ad personam, anche via smartphone

Progetto CO-TRANS-NET farmaci molecola RNA funzionale - crediti per l'immagine: Marco Tripodi, Università Roma Tor Vergata
molecola RNA funzionale – crediti per l’immagine: Marco Tripodi, Università Roma Tor Vergata

Roma, 5 settembre 2024 – Simona Ranallo, 37 anni, romana, attualmente ricercatrice presso il dipartimento di Scienze e tecnologie chimiche dell’Università di Roma Tor Vergata, si aggiudica – unica vincitrice Starting Grant nell’Ateneo – l’ERC Starting Grant 2024, il finanziamento di 1.5 milioni di euro che l’Europa elargisce alle migliori linee di ricerca ogni anno, per il progetto CO-TRANS-NET “Synthetic nucleic acid co-transcriptional networks as diagnostic and therapeutic tools”.

I suoi studi per la ricerca sul cancro l’hanno portata a interessarsi delle interazioni molecolari che avvengono all’interno della cellula e nel corpo umano.

“Ciò che maggiormente ha stimolato la mia curiosità – spiega Simona Ranallo – è sempre stato cercare di migliorare la diagnosi e il trattamento di diverse malattie, incluso il cancro, partendo dallo studio di come funziona la vita. Attraverso processi altamente controllati la cellula è in grado di leggere l’informazione contenuta nel nostro DNA e tradurla in molecole funzionali, quali RNA e proteine, che giocano ruoli chiave nella regolazione delle funzioni vitali e della salute”.

“Ed è proprio da questo concetto – sottolinea la ricercatrice – che nasce l’idea di CO-TRANS-NET (acronimo di Cotranscriptional networks): sviluppare sistemi basati su geni sintetici che, in risposta a specifici biomarcatori tumorali, sono in grado di produrre molecole di RNA funzionali che possono generare un segnale diagnostico o avere funzioni terapeutiche. In questo modo CO-TRANS-NET si pone l’obiettivo di generare una nuova classe di strumenti teranostici, che attraverso l’utilizzo delle nanotecnologie, integrano la diagnosi e la terapia in modo tale che possano essere ottenute simultaneamente”.

L’innovazione del progetto CO-TRANS-NET risiede quindi in una importante scoperta.

“La possibilità di produrre un farmaco a base di RNA in risposta alla presenza di specifici biomarcatori tumorali rappresenta la vera innovazione di CO-TRANS-NET. In questo modo si potrebbe pensare di produrre un farmaco “on demand” quando il livello di un biomarcatore supera il suo specifico range fisiologico, diventando quindi una sorta di allarme e rappresentando una possibilità di trattamento precoce. Si riuscirebbe così ad amministrare la dose di farmaco da somministrare in base alla necessità specifica di ogni singolo paziente, correlata allo stadio della sua malattia”.

La dottoressa Ranallo sottolinea anche le caratteristiche peculiari e la versatilità del progetto:

“CO-TRANS-NET oltre a garantire un monitoraggio costante e un trattamento terapeutico personalizzato rappresenta un innovativo strumento diagnostico in cui in tempi rapidi e senza necessità di apparecchiature di laboratorio ma utilizzando solamente uno smartphone si potrà misurare il livello di biomarcatori tumorali nel sangue dei pazienti con elevata precisione, proprio come il glucometro utilizzato dai pazienti diabetici. Le innovazioni proposte da CO-TRANS-NET in campo diagnostico e terapeutico rappresentano importanti progressi verso la medicina personalizzata e di precisione”.

Il progetto CO-TRANS-NET ha una durata di cinque anni e rientra nel 44% di Starting Grant 2024 vinti da ricercatrici, percentuale in costante aumento negli ultimi anni secondo quanto rivela lo European Research Council. Lo ERC Starting Grant, che per l’anno in corso ha potuto contare su un finanziamento di circa 780 milioni di euro complessivi, supporta giovani ricercatori e ricercatrici all’inizio della loro carriera nelle loro ricerche all’avanguardia.

Simona Ranallo
Simona Ranallo

Biografia

Simona Ranallo si laurea in chimica all’università di Roma Tor Vergata e qui ottiene il dottorato in Scienze chimiche portando avanti la sua ricerca nel Laboratorio di Chimica analitica del dipartimento di Scienze e tecnologie chimiche. Durante il PhD è stata Visiting Researcher presso la University of California Santa Barbara e l’Université de Montréal.

Ha ottenuto finanziamenti post doc dalla Fondazione Umberto Veronesi per continuare la sua ricerca sul cancro e nel 2018 è risultata vincitrice di una Marie Skłodowska-Curie Post Doctoral Global Fellowship, finanziata dalla Comunità Europea. Grazie a questo finanziamento ha svolto due anni di ricerca presso la University of California Santa Barbara per poi tornare nell’ultimo anno di ricerca del finanziamento presso il dipartimento di Scienze e tecnologie chimiche di Roma Tor Vergata, dove attualmente lavora come ricercatrice nel gruppo di ricerca coordinato dal professor Francesco Ricci.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa Università di Roma Tor Vergata

I CARABINIERI TUTELA PATRIMONIO CULTURALE RESTITUISCONO AL NOBILE COLLEGIO CHIMICO FARMACEUTICO DI ROMA UN TESTO RARO DEL XVII SECOLO, UNIVERSALE THEATRO FARMACEUTICO DI ANTONIO DE SGOBBIS

Un importante testo raro del 1682 “Universale Theatro Farmaceutico” dell’autore Antonio De Sgobbis, farmacista veneziano, è stato recuperato dal Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale di Monza. Il bene era stato sottratto nell’anno 1985 dal Nobile Collegio Chimico Farmaceutico di Roma e da allora se ne erano perse le tracce, fino alla sua recente comparsa nel mercato antiquario.

La ricomparsa dell’opera non è passata inosservata al Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, che quotidianamente svolge attività preventiva di controllo e monitoraggio del settore, avvalendosi del supporto tecnologico della Banca Dati dei Beni Culturali Illecitamente Sottratti.

Il riscontro positivo scaturito dalla verifica e la successiva attività d’indagine condotta dal Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale di Monza, coordinata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Como, hanno permesso il recupero dell’opera e la restituzione all’ente di provenienza.

L’Autore, Antonio De Sgobbis, nato e cresciuto a Montagnana intorno al 1600, è stato un importante speziale della Serenissima, diventato famoso farmacista a Venezia dove possedeva una spezieria all’insegna dello struzzo situata nella centralissima zona delle Mercerie.

La sua farmacia divenne un centro di sperimentazione della chimica farmaceutica veneziana che, grazie alla sua passione e curiosità, diede origine alla pubblicazione di diversi testi, fra i quali anche l’Universale Theatro Farmaceutico.

Il volume, che rese l’autore famoso in tutta Europa e di cui si conoscono pochissime copie, rappresenta un’opera strutturata e dettagliata molto rara per l’epoca, una specie di prototipo enciclopedico piuttosto che un manuale di uso pratico da riporre e consultare in farmacia.

Il testo, in folio, ricchissimo di riferimenti bibliografici che per la loro ampiezza e ponderatezza aiutano a comprendere l’arte farmaceutica seicentesca, si compone di più di 800 pagine, corredate da tavole e tabelle di considerevole valore e dal ritratto dell’autore insieme a quello dei colleghi Giorgio Melichio e Alberto Stecchini.

Inoltre, a rendere particolarmente pregevole tale opera fu anche la scelta dell’editore, la Stamperia Baglioni di Venezia divenuta molto famosa già nel 1607 per essere stata scelta da Galileo Galilei per la sua Difesa contro le accuse di Baldassare Capra e il Sidereus Nuncius. Un’opera, quindi, che nella sua monumentalità resta una testimonianza unica e originale dell’appassionato esercizio della farmacopea privata a Venezia che, dopo ben 39 anni e grazie all’attività del Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale di Monza, è potuta tornare al Nobile Collegio Chimico Farmaceutico di Roma.

Testo e immagini  dall’Ufficio Stampa Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale sull’Operazione Pandora VIII

FARMACI: DOMANDA IN AUMENTO E CARENZE SUL MERCATO? Una soluzione dalla tesi di Francesco Destro: in tempo reale una maggiore produzione a un costo inferiore

 

Premiato dall’European Federation of Chemical Engineering Francesco Destro per i nuovi algoritmi di monitoraggio capaci di risolvere il disequilibrio tra domanda e offerta attraverso tecnologie innovative e digital twin, le repliche virtuali dei processi di produzione. La ricerca è stata sviluppata al CAPE-Lab dell’Università di Padova

Ieri, lunedì 3 giugno, all’European Symposium on Computer Aided Process Engineering and International Symposium on Process Systems Engineering che si è tenuto a Firenze – con la seguente motivazione “Relevance to the CAPE terms of reference, innovation, technical quality, scientific impact including industrial relevance, and dissemination of the results” – l’European Federation of Chemical Engineering (EFCE)  ha premiato Francesco Destro, Ricercatore al Dipartimento di Ingegneria Chimica dell’Università di Padova e al Centro di Innovazione Biomedica del Massachusetts Institute of Technology di Boston, per la sua tesi di dottorato dal titolo “Digitalizing pharmaceutical development and manufacturing: advanced mathematical modeling for operation design, process monitoring and process control”.

FRANCESCO DESTRO premiazione

L’immagine idealizzata di laboratori farmaceutici perfettamente efficienti si scontra con la cruda realtà: i processi per la produzione di farmaci sono spesso inefficienti e soggetti ad una serie di sfide. Sebbene i farmaci che troviamo in farmacia siano indiscutibilmente di qualità eccellente, la capacità globale di produzione di farmaci su larga scala è estremamente limitata e i costi sono spesso elevati.

Il risultato? Difficoltà nel soddisfare una domanda in aumento, con conseguenti carenze di farmaci sul mercato. Secondo il rapporto del 2023 di PGEU, Il Gruppo Farmaceutico dell’Unione Europea, l’85% dei Paesi Europei ha segnalato, nel 2023, carenze per più di 300 farmaci, tra cui antibiotici, antitumorali e farmaci per il sistema cardiovascolare. Addirittura, il 42% dei Paesi europei ha riportato carenze per più di 500 farmaci. Le inefficienze nei processi della produzione di farmaci non solo causano queste carenze sullo scaffale della farmacia, ma allungano notevolmente i tempi di attesa per l’approvazione e la distribuzione di nuovi farmaci, rallentando l’innovazione nel settore farmaceutico.

Un esempio emblematico della scarsa efficienza nella produzione farmaceutica è stato l’accesso ai vaccini contro il COVID-19. Dopo l’approvazione dei vaccini COVID, l’Italia, come molti altri Paesi, ha dovuto affrontare una lunga attesa prima di poterli distribuire su larga scala. Questa situazione ha messo in luce la difficoltà dell’industria farmaceutica nel produrre farmaci su larga scala, specialmente quando la domanda cresce improvvisamente. Di nuovo: questo limite non riguarda la qualità dei farmaci a cui abbiamo accesso, ma, appunto, il costo produttivo e la quantità di farmaci che siamo in grado di produrre a livello globale.

«Tuttavia, a fronte di questo scenario esiste un possibile rimedio: la digitalizzazione, la cosiddetta Industria 4.0. L’applicazione di tecnologie come il machine learning e l’intelligenza artificiale stanno aprendo nuove strade per ottimizzare i processi di produzione di farmaci. Questa è esattamente l’area di interesse su cui si è concentrata la mia tesi di dottorato. Nel corso della ricerca, ho sviluppato tecnologie innovative per la digitalizzazione e l’ottimizzazione dei processi di produzione di farmaci – dice Francesco Destro –Ho implementato nuovi algoritmi di monitoraggio di processo basati sul machine learning, che permettono di identificare e correggere eventuali inefficienze o anomalie in tempo reale, consentendo di produrre una maggiore quantità di farmaci ad un costo inferiore. Inoltre, ho lavorato allo sviluppo di cosiddetti digital twin di processi farmaceutici che sono una replica virtuale sullo schermo di un computer di un processo di produzione farmaceutica, completa di tutte le variabili e i parametri che influenzano il processo reale. Questa replica digitale – spiega Francesco Destro – non solo ci consente di testare e ottimizzare diversi scenari da un computer, senza dover intervenire direttamente sul processo reale, ma può anche essere utilizzata per predire e prevenire problemi potenziali prima che si verifichino, garantendo così una produzione di farmaci più efficiente e affidabile».

La ricerca di dottorato si è svolta al CAPE-Lab dell’Università di Padova, sotto la guida del Professor Massimiliano Barolo. Il CAPE-Lab è pioniere in Italia nella digitalizzazione dei processi farmaceutici ed è riconosciuto a livello mondiale per la sua visione innovativa e per progetti all’avanguardia iniziati oltre 10 anni fa nell’ambito di digital twin e machine learning per l’ottimizzazione della produzione di farmaci. Grazie al ruolo di leader che CAPE-Lab ha in questo settore, Francesco Destro ha avuto l’opportunità di collaborare durante la ricerca con istituzioni di primo piano nel mondo accademico e industriale, tra cui Siemens, US Food & Drug Administration, Eli Lilly and Company e Purdue University. Collaborando con i partner si sono validati gli algoritmi e il software sviluppato in CAPE-Lab su impianti industriali, trasformando la ricerca da teorica in soluzioni pratiche che stanno già facendo la differenza nel mondo reale.

«Dopo aver conseguito il dottorato all’Università di Padova nel 2022, ho iniziato a lavorare come Ricercatore associato al Dipartimento di Ingegneria Chimica del Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston, negli Stati Uniti. Al MIT, metto in pratica le conoscenze avanzate acquisite al CAPE-Lab per rivoluzionare la produzione di una nuova generazione di farmaci per terapia genica. Questi farmaci – conclude Francesco Destro – permettono di curare gravi patologie genetiche, ma sono prodotti tramite processi estremamente complessi, con costi di produzione che possono superare i 200.000 euro per una singola dose per un paziente. Attraverso l’applicazione delle tecnologie di digitalizzazione e machine learning che ho sviluppato durante il mio percorso di dottorato a Padova, sto contribuendo a rendere la produzione di questi farmaci innovativi più economica e accessibile a tutti i pazienti che ne hanno bisogno».

«Il gruppo di ricerca CAPE-Lab (Computer-Aided Process Engineering Laboratory) del Dipartimento di Ingegneria Industriale è attivo da vent’anni e da circa quindici è fortemente coinvolto in ricerche nell’ambito dell’ingegneria farmaceutica. Da un punto di vista generale, sviluppiamo tecnologie in grado di migliorare la produzione su larga scala di farmaci; in particolare, cerchiamo di ridurre quanto più possibile il tempo che passa da quando le autorità competenti approvano la messa in commercio di un farmaco, a quando il farmaco diventa effettivamente disponibile per tutti in farmacia – afferma Massimiliano Barolo direttore di CAPE-Lab –. Per raggiungere questo obiettivo, i problemi tecnologici che vanno affrontati sono numerosi. Per esempio: come assicurare che la qualità finale del prodotto sia garantita sempre, indipendentemente da chi fabbrica il farmaco e da quanto variabile è la qualità delle materie prime? come ridurre il numero di esperimenti necessari allo sviluppo su scala industriale del processo produttivo su scala industriale? come trasferire con rapidità la produzione da un sito produttivo a un altro? come ridurre i consumi di energia e gli scarti di produzione? come estrarre informazioni utili dai dati che i moderni sensori restituiscono ogni pochi secondi? Cerchiamo di dare risposta a queste domande impiegando due risorse fondamentali – sottolinea Barolo –. La prima è il bagaglio di tecniche di modellazione matematica, di ottimizzazione, di analisi dei dati e di progettazione degli esperimenti che la nostra disciplina di base ‒ l’ingegneria chimica ‒ ci mette a disposizione. La seconda è il continuo dialogo con l’industria, che ci permette da un lato di essere sistematicamente vicini alle problematiche del mondo produttivo, e dall’altro di sviluppare soluzioni che siano non soltanto scientificamente originali, ma anche efficaci nella pratica. Poter contribuire a rendere meno tortuoso il “viaggio” che un farmaco fa, dal laboratorio dello scienziato che l’ha scoperto alla casa del paziente che lo deve impiegare, ci riempie davvero di orgoglio».

Francesco Destro è Ricercatore Associato al Dipartimento di Ingegneria Chimica e al Centro di Innovazione Biomedica del Massachusetts Institute of Technology di Boston, negli Stati Uniti. La sua ricerca è focalizzata sullo sviluppo di software ed algoritmi per ottimizzare la produzione di farmaci per terapia genica. Tali farmaci sono in grado di curare gravi patologie genetiche, ma hanno attualmente costi produttivi che possono superare 200.000 euro per dose, a causa della complessità intrinseca di questi prodotti biotecnologici. Francesco Destro ha ricevuto il Dottorato di Ricerca in Ingegneria Industriale con Curriculum Ingegneria Chimica ed Ambientale all’Università di Padova. Durante il suo dottorato, Destro ha sviluppato software e algoritmi di machine learning per l’ottimizzazione dei processi di produzione farmaceutica. Attualmente, al MIT, Destro applica queste tecnologie avanzate per rendere la produzione di farmaci per terapia genica più efficiente e sostenibile, contribuendo a ridurre i costi e migliorare l’accessibilità per i pazienti.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

UNA NUOVA SPERANZA PER LA CURA DEL NEUROBLASTOMA INFANTILE: I RISULTATI DELLO STUDIO DELL’UNIVERSITÀ DI TORINO ASSIEME AD HARVARD

I dati della ricerca sostenuta dalla Fondazione AIRC, pubblicati sulla prestigiosa rivista “Cancer Cell”, promettono nuovi sviluppi nella lotta contro il neuroblastoma, un tumore pediatrico ancora difficile da curare.

 

Il neuroblastoma rappresenta una sfida complessa per la pediatria oncologica, il tasso di sopravvivenza a cinque anni per questo tumore si aggira intorno al 50% per i bambini con forme ad alto rischio. Tuttavia, i risultati di uno studio, condotto dal gruppo di ricerca guidato dal Prof. Roberto Chiarle del Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute dell’Università di Torino, e professore presso il Boston Children’s Hospital e la Harvard Medical School, ha delineato una nuova strategia terapeutica che potrebbe migliorare l’efficacia delle cure per questo tipo di tumore.

I ricercatori hanno in particolare dimostrato che l’utilizzo di cellule CAR T contro il recettore ALK, in combinazione con inibitori di ALK stesso, può portare a risultati promettenti nella cura del neuroblastoma. Le cellule CAR T sono cellule del paziente stesso, modificate in laboratorio in modo che in superficie abbiano un recettore chimerico in grado di riconoscere, in questo caso, il recettore ALK.

I risultati dello studio, sostenuto da Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro, sono stati pubblicati sulla rivista Cancer Cell (https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/38039964/).

La terapia con cellule CAR T è una potente arma emergente contro il cancro, che modifica le cellule T dei pazienti in modo che possano riconoscere e attaccare le cellule tumorali in modo più preciso e mirato. Ma le attuali terapie a base di CAR T sono solo parzialmente efficaci contro la maggior parte di tumori solidi, compreso il neuroblastoma, un tumore che in genere inizia nel tessuto nervoso dei bambini e può dare origine a metastasi in diverse aree del corpo.

Roberto Chiarle e colleghi hanno creato in laboratorio una nuova terapia cellulare di tipo CAR T per il neuroblastoma e sperano di iniziare presto a sperimentarla clinicamente nei bambini ad alto rischio. Queste CAR T mirano specificamente al recettore ALK, il cui gene è un noto oncogene implicato in molti altri tipi di tumore. Tuttavia, non tutti i pazienti affetti da neuroblastoma presentano livelli sufficientemente elevati di recettori ALK sulle cellule tumorali per attirare un forte attacco da parte delle cellule CAR T.

Guidato dalla ricercatrice Elisa Bergaggio, il gruppo di Chiarle ha provato ad aggiungere al trattamento con cellule CAR T un farmaco inibitore di ALK. Si è scoperto che l’inibitore non solo silenzia la segnalazione oncogenica da parte dei recettori ALK, ma aumenta anche il numero di questi recettori sulla superficie cellulare, offrendo più bersagli per le cellule CAR T nei pazienti con bassa espressione di ALK.

I risultati preclinici, pubblicati su Cancer Cell, hanno dimostrato l’efficacia di questa combinazione terapeutica in animali con neuroblastoma metastatico, con una significativa riduzione della crescita tumorale e un miglioramento nella sopravvivenza nei topi trattati.

A seguito di queste scoperte, il Dana-Farber/Boston Children’s Hospital sta preparando la richiesta di autorizzazione alla Food and Drug Administration (FDA) americana per avviare uno studio clinico su questa terapia combinata nei bambini affetti da neuroblastoma refrattario alle cure o da una recidiva della malattia. Tale studio clinico si svilupperà a Boston e sarà in parte sostenuto anche dal contributo di filantropi torinesi e piemontesi guidati da Lucio Zanon di Valgiurata.

tumori infantili RNA
Una ricerca per la cura del neuroblastoma infantile aggiunge al trattamento con cellule CAR T un farmaco inibitore di ALK. Foto di RyanMcGuire

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

La proteina SALL4, un nuovo bersaglio nella battaglia contro il medulloblastoma
Il gruppo coordinato da Lucia Di Marcotullio, del Dipartimento di Medicina molecolare della Sapienza Università di Roma, ha realizzato uno studio pionieristico sul ruolo della proteina SALL4 e della sua inibizione nel trattamento del medulloblastoma, un tumore cerebrale pediatrico. I risultati, ottenuti grazie al sostegno di AIRC, sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista Cell Death & Differentiation e premiati al 35° Meeting internazionale dell’Associazione italiana colture cellulari.

Da anni il gruppo guidato da Lucia Di Marcotullio svolge ricerche in campo oncologico nei laboratori della Sapienza di Roma per comprendere i meccanismi molecolari e identificare vie terapeutiche innovative. Di recente il gruppo ha aggiunto un nuovo tassello per chiarire e curare meglio il medulloblastoma, uno dei tumori cerebrali pediatrici più aggressivi.

Lo studio ha permesso di identificare per la prima volta la proteina SALL4 quale importante regolatore della via di segnalazione di Hedgehog, essenziale per lo sviluppo embrionale.  Di Marcotullio e colleghe hanno inoltre chiarito che l’anomalo accumulo della proteina interferisce con questa via di segnalazione, provocandone l’attivazione e la conseguente crescita tumorale.

Uno degli aspetti più promettenti dei risultati ottenuti riguarda alcuni dati che suggeriscono l’uso della talidomide quale strategia terapeutica per indurre la degradazione di SALL4 nei tumori che la esprimono in eccesso. L’inibizione di SALL4 si è rilevata infatti efficace sia nel bloccare la crescita delle cellule tumorali, sia nel contrastare la controparte staminale del tumore, responsabile di recidive e del fallimento delle attuali terapie.

La talidomide, nota per il suo ruolo nella storia come farmaco con effetti altamente tossici per il feto, ha però mostrato un nuovo volto nel campo delle terapie anti-tumorali. Attualmente è utilizzata nel trattamento del mieloma multiplo. In studi clinici in corso si sta valutando la sua possibile efficacia per la cura dei tumori cerebrali, incluso il medulloblastoma, offrendo una prospettiva promettente e innovativa.

“Per fornire dati a sostegno dell’uso di farmaci che inducono la degradazione di SALL4 nel trattamento di questo tumore pediatrico, abbiamo impiegato un approccio multidisciplinare, combinando tecniche di biologia molecolare, analisi di espressione genica, studi di interazione proteina-proteina ed esperimenti preclinici con topi di laboratorio con medulloblastoma”.

Le parole sono di Lucia Di Marcotullio insieme alle ricercatrici che hanno condotto lo studio: Ludovica Lospinoso Severini, che ha ricevuto una borsa di studio AIRC, e le colleghe Elena Loricchio e Shirin Navacci. La ricerca si è svolta prevalentemente presso il Dipartimento di Medicina molecolare della Sapienza, in collaborazione con l’Istituto Curie d’Orsay, in Francia, e dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Cell Death & Differentiation.

“Il passaggio dai risultati della ricerca scientifica alla possibile applicazione nei pazienti – spiega Di Marcotullio – si potrebbe tradurre in un beneficio pubblico, obiettivo ultimo di un lavoro tenace svolto tra banconi di laboratorio, pazienti da seguire, cellule e topolini da accudire, idee da perseverare, ipotesi da dimostrare e, soprattutto, dedizione e costanza”. Le ricercatrici ringraziano Fondazione AIRC per sostenere da decenni la ricerca contro il cancro in Italia con preziosi finanziamenti, e in particolare per avere reso possibile il progetto e assegnato una borsa di studio a Ludovica Lospinoso Severini, prima autrice dell’articolo.

Medulloblastoma
Foto di 藤澤孝志, CC BY-SA 4.0

Riferimenti bibliografici:

SALL4 is a CRL3REN/KCTD11 substrate that drives Sonic Hedgehog-dependent medulloblastoma – Ludovica Lospinoso Severini, Elena Loricchio, Shirin Navacci, Irene Basili, Romina Alfonsi, Flavia Bernardi, Marta Moretti, Marilisa Conenna, Antonino Cucinotta, Sonia Coni, Marialaura Petroni, Enrico De Smaele, Giuseppe Giannini, Marella Maroder, Gianluca Canettieri, Angela Mastronuzzi, Daniele Guardavaccaro, Olivier Ayrault, Paola Infante, Francesca Bufalieri & Lucia Di Marcotullio – Cell Death & Differentiation – Doi: https://doi.org/10.1038/s41418-023-01246-6

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma