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Infinitamente piccolo, infinitamente grande, di Mauro Ferrari, Arnoldo Mondadori Editore – recensione e intervista all’autore

Mauro Ferrari è prima di tutto una persona curiosa, poi un ultra-maratoneta e, non ultimo, anche un accademico e imprenditore, impegnato nella ricerca sulle nanotecnologie applicate alla cura dei tumori. Padova, Berkeley, Bethesda, Houston. Non è il percorso della sua ultima performance sportiva, ma è certamente una parte del suo percorso di vita personale e professionale.

Laureatosi in Matematica all’Università di Padova, nel 1987 si trasferisce negli Stati Uniti, dove consegue il Master e il Ph.D. in Ingegneria Meccanica alla University of California, Berkeley, e inizia subito la carriera come professore di Ingegneria dei Materiali e Ingegneria Civile. Contemporaneamente alla docenza e alla direzione del dipartimento di Ingegneria Biomedica alla Ohio State University, a 43 anni inizia a studiare medicina e collabora con il National Cancer Institute a Bethesda, dove dà inizio al programma federale USA di nanotecnologia oncologica. Nel 2006 si trasferisce in Texas, dove è professore ordinario di Medicina Interna e direttore del dipartimento di Nanomedicina alla University of Texas, Houston, e professore ordinario di Terapie Sperimentali (Anderson Cancer Center). Seguono i dieci anni alla presidenza del Methodist Hospital Research Institute, e la brevissima esperienza all’European Research Council. Attualmente è presidente e amministratore delegato di BrYet Pharma, consigliere d’amministrazione di Arrowhead Pharmaceutics e professore di Scienze Farmaceutiche all’Università di Washington. Non si contano i premi, gli incarichi e le partecipazioni a ricerche dalle quali sono nati alcuni dei farmaci più innovativi per la cura dei tumori. Mauro Ferrari conta 60 brevetti a suo nome e oltre 500 pubblicazioni su riviste internazionali.

Il libro Infinitamente piccolo, infinitamente grande, edito da Mondadori, è un dialogo coinvolgente con il lettore: si legge come se fosse una chiacchierata con un conoscente. La scienza diventa metafora/analogia di tutte le attività umane. Giochi di parole, salti temporali, gioie e dolori, successi e fallimenti. Il saggio è un viaggio nella mente dell’autore, un’avventura nel flusso di pensieri dello scienziato, a volte condivisibili, altre volte comprensibili e quasi mai superficiali. Nella mente dello scienziato non vi sono solo numeri, formule, specifiche tecniche dei materiali usati per la nanomedicina oncologica, ma anche tanto sport (sembra di correre con lui), moltissima musica, la creatività, la natura, e l’amore. Infinitamente grande è l’amore per il proprio lavoro, per la ricerca scientifica sull’infinitamente piccolo al servizio della comunità. Il libro ha tutte le caratteristiche per essere una fonte di ispirazione per i giovani.

La copertina del libro Infinitamente piccolo, infinitamente grande, di Mauro Ferrari, pubblicata da Arnoldo Mondadori Editore
La copertina del libro Infinitamente piccolo, infinitamente grande, di Mauro Ferrari, pubblicato da Arnoldo Mondadori Editore

È anche possibile ascoltare il professore in musica: l’album Mauro Ferrari e LA Rhythm & Blues Band, della Rhythm & Blues Band di Cividale e Mauro Ferrari si può ascoltare su Spotify, Youtube, Amazon Music, e altri distributori musicali. Il disco è la colonna sonora dello spettacolo di scienza e musica che fa con la band.

Ringraziamo Mauro Ferrari, per aver risposto alle domande di ScientifiCult, con grande spontaneità e generosità:

Infinitamente piccolo infinitamente grande Mauro Ferrari

Nel suo libro Infinitamente piccolo, infinitamente grande fa spesso riferimento ai giovani, alla fiducia che meritano e ai talenti che, a volte inconsapevolmente, possiedono. Quanto è importante, nel suo lavoro, incoraggiare i giovani?

Beh, per me a questo punto della vita credo che sia la cosa più importante: incoraggiare/sostenere e talvolta anche avere un po’ di amorevole pazienza (ovvio, viste le quantità industriali che hanno avuto i miei mentori con me). Ci tengo tantissimo. Negli anni ho avuto la fortuna ed il privilegio di fare da mentore a giovani che, nonostante la mia guida (spericolata) sono diventati fortissimi in carriera, come professori e leader in posti importanti come Oxford, EPFL, Berkeley, MIT, Duke, Brown, Univ Washington, Univ Florida, UC San Francisco, Houston Methodist, Brown University, e altre ancora… In Italia ad esempio all’IIT, a Trento e Udine, a Milano e Catanzaro. Anche Torino.

Devo dire che sto ricevendo molto riscontro per il libro proprio tra giovani, specialmente da quelli/e che hanno un interesse per le scienze, ma anche per le altre cose di cui racconto storie. Che so, la musica, le maratone, e quant’altro (mi hanno detto che leggere il libro è come stare in un frullatore acceso – non sai mai se arriva una carota, un pezzo di pomodoro, di arancia, o i semi di qualcosa che non si sa, tra il miele e qualche goccia di cognac, di quelli che non costano troppo). Sto facendo tante conferenze e incontri con gioventù (di ogni età) e mi diverto moltissimo (almeno io, loro non so); spesso porto qualche musicista con me così racconto di scienza con un po’ del linguaggio del jazz e blues, o in stile cantautorale (che sto un po’ imparando, ma non mi riesce troppo bene, sono più a mio agio con blues e jazz, dopo 42 anni negli USA). P.S.: canto e suono il sax.

Ho fatto e sto facendo incontri di questo tipo in università certo, ma anche nelle scuole superiori, medie, elementari e persino negli asili! Ad esempio, qualche settimana fa mi sono trovato a Napoli con un ragazzo delle superiori che ho invitato sul palco in teatro e che si è messo a fare rap, dialogando con i miei messaggi e con altre musiche: era proprio bravo e mi sono divertito tantissimo!

Vedi, magari i presenti si dimenticheranno molto in fretta dei dettagli tecnici e scientifici di cui ho parlato (come capita a tutti, non tiriamocela tanto…) ma l’emozione resta in memoria. Se poi vai via pensando che ti sei divertito ad un incontro con uno scienziato, vedi un po’, magari ti viene voglia di scienza, provi simpatia invece che la paura di non capire.

E l’avrete già capito – INVITATEMI E IO VENGO! I miei contatti sono disponibili per tutti nel libro, a pagina 23, ed eccoli qui di nuovo mauroferrari.boh@gmail.com.

(Perché pagina 23? Beh perché nella smorfia napoletana il 23 è lo scemo del villaggio, così non vi dimenticate più di me, no?)

Rispetto al passato, il mondo della scienza sta cambiando e in diversi campi di studio si assiste ad un progressivo bilanciamento tra i due sessi. Nel suo libro si legge “le donne sono grandi protagoniste dell’ingegneria spaziale”. Tuttavia, vi sono ancora numerosi ostacoli per le donne alla costruzione di una carriera nella scienza. Infatti, sono poche le donne che occupano posizioni da leader e, spesso, eccellenti scienziate non hanno la visibilità che meriterebbero per i loro contributi scientifici. Sulla base della sua esperienza, potrebbe suggerire una via d’uscita al problema?

Io sono stato molto fortunato perché la maggioranza dei successi dei miei mentee sono donne, che nei miei settori di lavoro (almeno lato bio/farma) sono spesso la maggioranza. Ma sul lato ingegneria/fisica/matematica (e pure imprenditoria) c’è tantissimo talento femminile, ma ahimè non abbastanza visibilità, hai ragione. Il mondo fortunatamente si sta svegliando su questo, ma troppo lentamente. Come fare ad accelerare? Ci sono tanto approcci in corso d’opera, in giro per il mondo, e tutti hanno dei meriti importanti, ma credo che alla fine siano le success stories che fanno la differenza, role models di successo reale e profondo, e questo richiede tempo e costanza nell’impegno della promozione femminile: non bastano proclami e operazioni brevi. Ho letto uno studio che diceva che la variabile più importante nel determinare se e quanto un uomo è favorevole al women’s empowerment nelle professioni dipende da quante figlie ha… Io con 4 (due coppie di gemelle) credo di stare abbastanza bene, dai! Di queste, Ilaria sta svolgendo un MD/PhD ed è già laureata in ingegneria meccanica alla Columbia University, Chiara è disegnatrice di cartoni animati e regista per DreamWorks, Kim fa anche lei cartoni animati, ma per la Khan Academy come direttrice dell’animazione, e Federica fa l’indossatrice e modella e gestisce un sistema di palestre. Tutte negli USA, dove sono nate. E poi c’è Giacomo, il primogenito, che è informatico a Seattle.

Nel suo libro è forte il messaggio della scienza come servizio diretto alla comunità e che possa portare beneficio al mondo, soprattutto a chi ne ha più bisogno. Altrettanto forte è l’auspicio/invito alle scienziate e agli scienziati a svolgere il proprio lavoro con responsabilità e di portarlo a termine. La politica le sembra sempre pienamente consapevole del ruolo sociale della scienza?

Chiarisco: io rispetto completamente punti di vista diversi, e non ho nessunissima intenzione di fare il predicatore e/o convincere nessuno a fare come piace fare a me, figuriamoci. Ognuno faccia il suo a modo proprio: che bella la libertà, che bello il rispetto. I due pastori della chiesa (capita che sia Metodista) dove vado quando sono a Houston (la chiesa è St John’s Downtown, vai a vederla online se vuoi: fenomenale chiesa, storicamente nera con grandissima musica e un imbattibile spirito di solidarietà per tutti!) si chiamano Rudy e Juanita e hanno il motto: ”I love you and there is nothing you can do about it” (Ti voglio bene e non ci puoi fare nulla!). Differenze d’opinione, pestate di calli, pure un dito nell’occhio e quello che ti pare, and I still love you! Quindi benissimo quelsiasi approccio alla scienza, e se vogliamo essere amici o comunque comportarci da esseri comunicanti, magari possiamo condividere quali sono le nostre motivazioni interne o no? Beh, per me ormai a questo punto della vita e per quello che resta, piace fare cose utili per chi si può aiutare. E non è che ci riesca sempre, ma quando succede devo dire che dà un senso alla vita, vero?

Quando la ricerca tocca da vicino i temi della salute e si ha davanti un pubblico sofferente e fragile, predatori senza scrupoli possono approfittarne. Si entra nella dimensione della frode e diventano concreti i rischi per la società. Nel suo libro cita il caso Stamina, ma l’elenco delle cure salvifiche senza alcun fondamento scientifico potrebbe essere molto lungo. In ambito oncologico, purtroppo, non mancano le ‘terapie alternative’ (omeopatia, medicina ayurvedica, naturopatia). Come reagisce alle frodi che riguardano la salute?

Tante frodi, tanto sfruttamento della sofferenza, è orribile a vedersi e dolorosissimo a maggior ragione perché è vero danno inferto su persone particolarmente disperate e fragili. Noi come scienziati abbiamo delle responsabilità, perché ci siamo persi tanta della fiducia che avevano in noi le comunità in seno alle quali siamo al servizio (nota: a me piace molto il concetto di essere un servitore della comunità; mi sembra giusto visto che è la comunità che ci fornisce gli strumenti che utilizziamo per fare gli studi che ci piace fare, ti pare?). E così la gente va verso le magie e le superstizioni, invece che verso la scienza. Anche in questo senso Covid è stato un disastro. Tutti in televisione a dare come certezze cose che si sapeva benissimo che non lo potevano essere, esagerando tutte le affermazioni, mescolando la scienza con la politica e l’ideologia, facendo spettacolo di giochi di potere… per forza la gente non si fida! Dobbiamo imparare a dire la verità, nel bene e nel male. Basta complessi di superiorità e onnipotenza! E basta paternalismi, “Noi” (scienza, stato, apparato) a dire a tutti cosa è meglio per loro e per il mondo. Ragà, il dubbio è la chiave della scienza, no? E basta fare credere che la verità scientifica si basa sul numero di persone che “votano a favore”: la scienza che conta succede nelle divergenze! E quindi verità e trasparenza sono le chiavi. E per quanto riguarda le terapie varie, che ci piaccia o no, e che sia migliorabile non ci piove, ma l’unico strumento scientifico che abbiamo sono i trial clinici con sufficienti valenze statistiche. Quello che non è passato per questo sistema magari è ancora meglio – importante dire che non lo possiamo sapere fino a quando non sia stato rigorosamente testato – ma senza trial clinici non ci può essere autorizzazione clinica. E che palle tutte queste teorie della cospirazione che si vedono – credo abbastanza universalmente una grande perdita di tempo ed energie – se non credi a sistema sarebbe tanto meglio mettersi a lavorare per risolvere i problemi, invece che sognarsi follie cospirazioniste, che dici? Ad esempio trovare fondi/modi per testare in maniera rigorosa una strategia terapeutica non tradizionale?

E per rispondere direttamente alla domanda – in politica (Oh My God!) veramente sembra che nessuno capisca nulla di scienza! Ma la realtà è che è peggio dell’ignoranza (che a me è pure simpatica), è una scelta! Che a lungo (e neppure troppo) andare affossa le civiltà e le culture. E temo che l’Italia sia molto a rischio su questo.

Lei si occupa di ricerca contro il cancro, la missione dichiarata della sua vita. Una ricerca che lei porta avanti da molto tempo perché la scienza richiede la verifica dei dati da parte della comunità scientifica. Spesso si ha fretta di divulgare risultati promettenti, anche prima che la comunità scientifica li abbia messi alla prova. Questo, a lungo andare, si traduce in sfiducia nella scienza e disinformazione. Cosa ne pensa al riguardo?

Sempre difficile per lo scienziato stare attento a non dare troppa speranza, è vero – tante volte la comunicazione un po’ troppo gloriosa nasce solo dall’entusiasmo, dall’ottimismo, dalla passione che alla fine sono le cose che ci spingono alla vita nella scienza, no? Ma comunque sia, è nostra responsabilità presentare le nostre conclusioni ed aspettative in maniera equilibrata – non facile, credimi – ed è certamente capitato anche a me di proiettare dell’ottimismo che poi si è rivelato prematuro. Resta la triste realtà che dalla scoperta scientifica al prodotto farmaceutico in clinica ci sono in media almeno 15 anni e 2 miliardi di Euro, e quindi quasi tutte le scoperte promettenti di cui si legge sui giornali non arrivano mai in clinica, e se ci arrivano, arrivano troppo tardi per chi sta oggi soffrendo del male che si vuole curare con la scoperta annunciata. È in qualche modo il prezzo da pagare del sistema dei trial clinici del mondo farmaceutico: un mondo che va certamente riformato, in maniera profondissima, per raggiungere un servizio ottimale alla comunità globale, specialmente nelle sue componenti meno abbienti, che sono quasi completamente abbandonate a se stesse.

La nanomedicina consiste nel veicolare i farmaci tramite particelle (per esempio di silicio, lipidiche, virali), completamente innocue per il corpo, caricate di medicinale. Quale è secondo lei la sfida più urgente della nanomedicina?

La nanomedicina ha tantissime linee tecnologiche che sono presenti nella medicina di tutti i giorni: spesso non ce ne rendiamo conto, ma è veramente dapertutto. Basti pensare al Covid: i test diagnostici usano microfluidica su quantità nanoscopiche di fluidi e reagenti. Cose che ho visto nascere all’alba della nanomedicina, trent’anni fa. E sempre riguardo il Covid: i vaccini con mRNA, ad esempio quelli di Pfizer e Moderna, non funzionerebbero mai senza le nanoparticelle lipidiche (no, non ci sono le nanocose che connettono il cervello a Bill Gates tramite le torri 5G, quelle sono appunto scemenze cospirazioniste). Ho visto nascere anche le nanoparticelle per uso in medicina, anzi ho diretto la formulazione ed il lancio del programma federale USA in questo, che nel tempo ha dato dozzine di farmaci anticancro (e altre malattie) che vengono ormai usate in tutto il mondo. La sfida più importante adesso? Le metastasi, specialmente quelle ai polmoni ed al fegato, indipendentemente dal sito del tumore primario: restano la principale cause di morte in oncologia. È su queste che io lavoro (da trent’anni) e finalmente penso di essere a meno di 12 mesi da sperimentazioni cliniche. Ma anche in passato mi è successo di pensarlo: vedi sopra!

Le dico tre parole estrapolate dal suo libro, che lei chiama “pilastri fondamentali della scienza”: motivazione, conoscenza, amore. Potrebbe spiegarci brevemente cosa intende?

Beh, credo che sia il capitolo centrale del libro, “I (miei) (tre) pilastri della scienza”, che si trova subito dopo agli altri due capitoli fondamentali: “Figure di M… auro” (ce ne sono tante ed è per quello che il libro ha tante pagine) e “I miei 29 anni di fallimenti” (che se lo scrivessi oggi sarebbero quasi trentuno). “Miei” è tra parentesi proprio per il rispetto delle prospettiva altrui, vedi sopra. E pure “tre”, perché comincio a pensare che invece sono quattro.

E non sono pilastri nel senso della topologia e dell’architettura diciamo – dei templi greci – ma spero ci capiremo lo stesso. Il primo: la conoscenza, è ovvio, no? Il nostro mestiere nella scienza è creare conoscenza e condividerla/insegnarla. Bello ed emozionante di per sé, non occorre altro. Ma per qualcuno è importante chiedersi “perché?” – motivazione – secondo pilastro. Perché faccio questo mestiere? E perché è importante scoprire e condividere conoscenza? In modi diversi, per strade diverse, alcuni che se lo chiedono giungono alla conclusione che è per fare del bene al mondo. Fichissimo. Ci si arriva per vie cristiane, musulmane, ebraiche, buddiste, per altre religioni, da nessuna religione come atei, agnostici, militari e metà prezzo come direbbe forse Totò, pure da milanisti, interisti, juventini e tifosi del Darwin Football Club (chi lo sa?!), e pure venendo da filosofie fichissime, da Kant a Popper e Feyerabend e pure da sua zia Evelyn. Sembra sia una costante universale, voler fare del bene al mondo. Bene, comunque ci si arrivi. Ma come si fa a sapere quando ci si è arrivati, alla prospettiva giusta sul perché si fa la scienza? Un bel libro di argomentazioni convincenti e uno splendido teorema del vivere? Ohi, proprio non mi sembra. Non il cervello – neppure per noi scienziati –, ce lo dice il cuore (metaforico!). L’emozione, pure a noi veneratori della ragione scientifica! Ohi ohi ohi! E allora se è vero che è l’ emozione che guida, beh, scegliamocela bene questa emozione fondante, no? Io dico: Amore (Ohi, si può dire in circoli scientifici? Si offende nessuno?). Ma se hai un’idea migliore fammelo sapere e la mettiamo su Internet, ok?

Le dico altre tre parole (non in ordine): correre, idee, salute. La sua vita personale e professionale ha sempre avuto un legame con lo sport. Qual è la migliore idea che le è passata per la mente facendo sport?

Di idee buone non ne ho avute poi tante, anzi. Ma quelle che vengono nella fase creativa delle corse lunghe (per me dopo diciamo un’ora) sono spesso le migliori. Attenzione: come quando si beve alcoolici, anche nella corsa si passa rapidamente dalle fase creativa allo stato di ebbrezza, nel quale le idee non sempre, anzi quasi mai sono da mettere in pratica… Attenzione! Capitolo di riferimento: “Pioggia Neve o Tiri Vento – Me li Faccio Tutti e Cento”, dove racconto le mie esperienze con l’ultramaratona del Passatore (appunto, 100 km di corsa a piedi). La migliore idea venuta correndo? La prossima, spero!

La storia della scienza è sia storia di fallimenti sia di grandi innovazioni e scoperte. Spesso sono più numerosi gli errori e i fallimenti dei grandi risultati. Lei racconta in modo efficace gli errori, i fallimenti e i successi delle sue ricerche. Qual è la cosa più importante che ha imparato dai suoi fallimenti?

Come canta (anzi canterà prossimamente) il grande Piero Sidoti: “Settecento Volte Perdenti, Settecento e Una Sognanti”. Frank Sinatra canta “That’s Life”, per dire che se finisci faccia a terra ti devi rialzare e ripartire: “pick yourself up and get back in the race!” I Samurai dicevano “sette volte a terra, otto volte in piedi”. Nel nostro mestiere, ahimè, molte più di sette… e dopo un po’ ci si rompe le palle di doversi rialzare di nuovo, e magari fa male un po’ dapertutto… E se lo facciamo per noi stessi, per il successo, per la carriera, per le più svariate ragioni, allora dopo un po’ si smette di rialzarsi o si cerca un altro lavoro. A meno che – ed è questa la scoperta! – lo si faccia per aiutare qualcuno che ha bisogno che ci arriviamo a quella scoperta o a portarla in clinica. E se si pensa alle persone che si possono aiutare, che tu le conosca o no, allora per forza ci si rialza tutte le volte che serve!

Nel suo libro si legge “L’idea vincente viene da chi non te lo aspetteresti […] Succede solo se sai ascoltare e sai mettere tutti nella condizione di poter essere ascoltati”. Come si relaziona con i suoi collaboratori?

A tirarsela tanto non finisce mai bene. Il successo è 90% risultato di circostanze fortunate (posto giusto, momento giusto, dove sei nato e cresciuto, che risorse ti hanno dato, e soprattutto chi hai intorno), mentre le sconfitte quelle sì che sono 90% merito nostro – e anche in quelle le persone intorno a noi sono la chiave – perché ci aiutano a rialzarci e a imparare dalle sconfitte (che poi è l’ unico modo per imparare sul serio). Quindi i collaboratori sono la chiave e bisogna trovare quelli giusti per noi – valori condivisi, modo di lavorare compatibile – e soprattutto tanta inossidabile fiducia reciproca! E per citare il presidente Ronald Reagan: “The secret of success is to surround yourself with great people – and get out of their way!”

Infinitamente piccolo infinitamente grande Mauro Ferrari

Fonti:

Dalla guerra alla speranza

Le immagini provenienti dall’Ucraina mostrano, purtroppo da mesi, sofferenza e distruzione. Una situazione ancora più gravosa se si è malati. A volte, però, vi è speranza. Nel marzo scorso, quando la guerra imperversava su più fronti del territorio ucraino, due sorelle trentenni, affette da epidermolisi bollosa, sono riuscite a fuggire e a salvarsi, grazie all’associazione “Le Ali di Camilla”. Sono giunte a Modena, per essere assistite nelle cure di cui hanno bisogno presso il Policlinico cittadino, un’eccellenza internazionale per questa malattia rara. L’associazione, dal luglio 2019, aiuta i pazienti che si recano a Modena per le cure, supporta la ricerca scientifica sulla patologia e fa parte dell’Alleanza Malattie Rare (AMR). Inoltre, è impegnata nell’invio di farmaci e medicazioni all’estero, su richiesta delle associazioni locali coordinate da Debra International (l’associazione internazionale di raccordo tra tutte le associazioni locali che nei vari Stati supportano le famiglie dei pazienti), e nel trasferimento e accoglienza delle famiglie che hanno lasciato l’Ucraina per venire in Italia. Il supporto non è stato solo sanitario: in poco tempo, diverse associazioni locali e comuni cittadini si sono attivati per accogliere.

Immagine di Elena Mozhvilo

Epidermolisi bollosa

L’epidermolisi bollosa (EB) è una malattia genetica ereditaria, rara e invalidante, che provoca eruzione cutanea grave con vescicole e cicatrizzazione, e lesioni delle mucose interne (comprese quelle della bocca, della gola, degli occhi e dell’ano). Queste si verificano spontaneamente o a causa di una lieve frizione. La patologia è più nota come “sindrome dei bambini farfalla” perché i pazienti sono molto fragili come le ali di una farfalla.

L’epidermolisi bollosa può trasmettersi secondo due modalità: la prima è autosomica dominante, cioè un genitore malato ha il 50% di probabilità di trasmettere la patologia alla progenie; la seconda è autosomica recessiva, ossia genitori portatori sani della malattia avranno il 25% di probabilità di avere un figlio malato (è possibile la diagnosi prenatale in gravidanza). A livello mondiale, la prevalenza è 1:17.000 nati, mentre in Italia 1:82.000. La più recente classificazione distingue quattro tipologie principali della malattia, a seconda del gene mutato: simplex, distrofica, giunzionale e Kindler. La forma meno grave, responsabile di più del 50% dei casi, è la variante simplex, perché le bolle si formano più spesso solo a livello delle mani e dei piedi. Invece, la forma distrofica è causata dal danneggiamento o dall’assenza di placche di ancoraggio, costituite da una proteina chiamata collagene di tipo VII, presenti nelle giunzioni tra epidermide e derma, e che mantengono adese le cellule fra loro. In tal caso la formazione di bolle è generalizzata, costante e lascia cicatrici. La forma giunzionale può essere letale fin dalla prima infanzia, poiché le lesioni lasciano la persona esposta agli agenti esterni e, quindi, particolarmente suscettibile di infezioni. Infine, nella EB di Kindler le lesioni, indotte da azione meccanica, si possono formare in diversi strati della pelle. 

La diagnosi consiste nell’’osservazione clinica, seguita dalla biopsia della pelle, e dai test genetici di conferma.

Epidermolisi bollosa
Immagine di Alfred Schrock

Il primo farmaco specifico per la EB

Il primo trattamento autorizzato per la EB e Filsuvez della Amryt Pharmaceuticals DAC. È un gel per uso topico, cioè l’azione farmacologica si esplica direttamente sulla cute o la mucosa dove è applicata, per il trattamento di ferite che interessano gli strati superiori della pelle. Tale farmaco, qualificato come “medicinale orfano” (cioè utilizzato nelle malattie rare) è indicato per pazienti con malattia in forma giunzionale o distrofica. Filsuvez contiene un estratto secco di due specie di corteccia di betulla costituita da sostanze presenti in natura denominate triterpeni.

Il più ampio studio globale mai condotto su pazienti affetti da EB è lo quello di Fase III EASE, condotto su 223 pazienti. Il 41% dei soggetti trattati con Filsuvez e con la medicazione ha mostrato un recupero completo della ferita entro 45 giorni, rispetto a coloro che che hanno ricevuto un trattamento fittizio e la medicazione (29%). Dopo 90 giorni non è stata osservata alcuna differenza rispetto al gel di controllo. Pur essendo modesti, gli effetti sono stati considerati clinicamente significativi per i pazienti con forma distrofica e giunzionale. Inoltre, il medicinale ha evidenziato un profilo di sicurezza accettabile, con effetti indesiderati localizzati e gestibili. Pertanto l’Agenzia europea per i medicinali (EMA) ha deciso che i benefici di Filsuvez sono superiori ai rischi e che il suo uso può essere autorizzato nell’UE.

Immagine di Diana Polekhina

La terapia genica per l’epidermolisi bollosa giunzionale

Negli ultimi anni le prospettive di cura non hanno riguardato solo lo sviluppo di nuovo farmaci: la terapia genica ha mostrato che i bambini farfalla possono essere curati. Gli studi del professor Michele De Luca e della professoressa Graziella Pellegrini del Centro di Medicina rigenerativa “Stefano Ferrari” hanno aperto la strada ad un campo di ricerca in continua crescita. La ricerca italiana di Holostem e di altre realtà accademiche e cliniche europee ha permesso di mettere a punto una terapia genica utile per l’EB giunzionale. È ormai entrato nella storia della medicina il caso del piccolo rifugiato siriano Hassan, accolto in Germania insieme alla sua famiglia nel 2015. Il paziente mostrava gravi danni alla pelle, esponendolo ad un elevato rischio di morte. I ricercatori italiani prelevarono parte delle sue cellule staminali e le coltivarono in laboratorio con l’intento di correggere il difetto genetico e ottenere una nuova pelle. Tale approccio è detto terapia genica ex-vivo, ossia prevede l’allestimento di colture autologhe – ovvero dello stesso paziente – di epidermide geneticamente corretta. Obiettivo raggiunto e terapia di successo: la nuova pelle fu reimpiantata con 3 operazioni allo University Children’s Hospital di Bochum e consentì di ricostruire diverse aree del corpo. Dal 2015 ad oggi, il bambino è stato seguito dal punto di vista clinico e, nel 2021, i risultati del follow-up biologico-molecolare sono stati pubblicati sul New England Journal of Medicine. Sono stati eseguiti test clinici, cellulari e molecolari, dimostrando, tra i numerosi parametri considerati, la ricostruzione del sistema immunitario della pelle e un adeguato livello di idratazione delle stesse aree con la presenza di ghiandole sebacee e sudoripare. Inoltre, il trattamento si è dimostrato sicuro, confermando i risultati ottenuti in vitro in oltre 30 anni di ricerca di base.

Immagine di Rossoporpora, CC BY-SA 3.0

La terapia genica per l’epidermolisi bollosa distrofica

Il gene COL7A1, responsabile della produzione della proteina collagene di tipo VII, è mutato nei pazienti affetti da EB distrofica. I ricercatori della Stanford University School of Medicine hanno sviluppato una terapia genica “in vivo” per correggere il difetto. Beremagene geperpavec è una terapia genica non invasiva, applicata come un “gel” ad uso topico. Alla base del trattamento vi è virus modificato (Herpes simplex virus) che contiene il gene corretto per fornire alle cellule della pelle del paziente “uno stampo” da cui produrre la proteina. Al termine degli studi di fase I e II, la terapia genica si è dimostrata sicura ed efficace nel promuovere la guarigione delle lesioni. I risultati positivi hanno dato il via allo studio di fase III prima dell’eventuale commercializzazione.

Sebbene la strada verso la completa guarigione dei diversi e numerosi casi di epidermolisi bollosa sia lunga, la ricerca di base si conferma un tassello fondamentale per la medicina translazionale. Modena è sempre più un punto di riferimento nazionale e internazionale per la medicina rigenerativa avanzata basata su colture di cellule staminali epiteliali per terapia cellulare e genica per pazienti privi di alternative terapeutiche.

Immagine di Braňo

Fonti:

 

epidermolisi bollosa
Immagine di Thomas Kinto

LO SPIN OFF DI UNITO DDC FINANZIATO CON 1,5 MLN DI EURO PER LO SVILUPPO DI TERAPIE MOLECOLARMENTE MIRATE RIVOLTE ALLA CURA DI LEUCEMIA E TUMORE AL SENO

Grazie all’investimento di Utopia SIS, la startup Drug Discovery and Clinic – nata all’interno dell’Incubatore 2i3T – fa un passo avanti per portare alla sperimentazione umana il proprio candidato farmaco per la Leucemia Mieloide Acuta.

La Drug Discovery and Clinic srl (DDC) – startup Spin-Off accademico dell’Università di Torino – ha ricevuto un finanziamento di 1,5 milioni di euro da parte di Utopia SIS (società di investimento specializzata in healthcare e biomedicale) per la messa a punto di terapie oncologiche per la cura di leucemie e di carcinomi della mammella.

Drug Discovery and Clinic srl DDC
foto del team di DDC con Utopia SIS

La DDC, nata all’interno dell’Incubatore d’imprese dell’Ateneo torinese 2i3T dall’unione di eccellenze di ricerca in ambito chimico farmaceutico (Dipartimento di Scienza e Tecnologia del Farmaco di UniTo) e clinico (Ospedale Mauriziano e Istituto Scientifico Romagnolo per lo Studio e la cura dei Tumori), ha come missione lo sviluppo di una piattaforma per lo sviluppo di terapie molecolarmente mirate basate su inibitori innovativi di un enzima denominato Diidroorotato Deidrogenasi umana (hDHODH).

Le terapie molecolarmente mirate, volte a colpire direttamente le cellule neoplastiche che determinano l’insorgenza dei tumori, rappresentano i pilastri fondamentali delle più moderne ed efficaci terapie antitumorali, spesso in grado di sostituire completamente la più tradizionale e tossica chemioterapia. L’attività di DDC è focalizzata a sviluppare nuovi farmaci di questo tipo e di valutarne l’efficacia non solo in ambito oncologico, ma anche in altri settori della medicina come malattie immunologiche o causate da virus”, spiega il Prof. Giuseppe Saglio, Presidente del CdA e Clinical Scientific Officer di DDC.

Con il finanziamento di Utopia SIS, società promossa e partecipata dalla Fondazione Golinelli, dalla Fondazione Sardegna e dal Vice Presidente Esecutivo Antonio Falcone, DDC entra in una nuova fase della sua vita iniziando gli studi certificati necessari per portare alla sperimentazione umana per la Leucemia Mieloide Acuta il proprio candidato farmaco, una molecola risultata essere molto efficace nel ridurre l’incidenza della malattia su modelli animali.

“Questo investimento di Utopia è per noi molto strategico ed è di grande soddisfazione perché stiamo contribuendo al sostegno e allo sviluppo di una importante ricerca polifunzionale estremamente interessante e di grandissimo impatto scientifico. Il nostro Paese è ricco di eccellenze cliniche e di poli di ricerca che hanno bisogno di essere finanziati per terminare il percorso di sviluppo e l’importante impegno del Mediocredito Centrale, che rilascerà una garanzia sull’investimento per l’80%, anche in questa occasione rappresenta una testimonianza strategica per il settore”, commenta Antonio Falcone, Vice Presidente Esecutivo di Utopia SIS.

“Abbiamo compiuto un passo fondamentale per DDC, ne siamo molto soddisfatti e orgogliosi. L’ingresso di un partner come Utopia, un investitore di ampia e specifica esperienza in ambito healthcare, non porta solamente l’accesso ai fondi necessari per lo sviluppo strategico dell’azienda ma rappresenta un valore aggiunto di credibilità e una fonte di future opportunità”, conclude il Prof. Marco L. Lolli, CEO di DDC, che insieme al core team Donatella Boschi, Stefano Sainas, Marta Giorgis, Giuseppe Saglio, Paola Circosta e Agnese Chiara Pippione ha raggiunto l’accordo.

DDC è stata assistita in tutte le fasi dell’operazione dallo studio Leading Law e nello specifico da i partner Mario Donadio e Stefano Balzola, coadiuvati dal junior associate Stefano Flammini.

Testo e foto dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino

ATTUALI FARMACI E NUOVE MUTAZIONI DEL SARS-COV-2 

LO STUDIO COMPUTAZIONALE DELL’UNIVERSITÀ DI PADOVA

Tutti i mutanti che hanno sperimentalmente dimostrato una riduzione di attività nei confronti dei farmaci antivirali analizzati sono stati correttamente “predetti” dalla ricerca computazionale della Sezione di Modellistica Molecolare del Dipartimento di Scienze del Farmaco dell’Università di Padova

Una delle domande più insidiose nell’ambito del trattamento terapeutico antivirale di SARS-CoV-2 è relativa a quanto gli attuali farmaci in uso possano essere efficaci sulle nuove mutazioni che la “macchina virale” potrebbe mettere in campo nel corso del tempo.

Per rispondere al quesito il gruppo di ricerca internazionale coordinato dalla prof.ssa Dorothee von Laer della Divisione di Virologia della Innsbruck Medical University ha pensato di precorrere i tempi andando a costruire in laboratorio tutte le possibili variazioni (mutazioni) di una delle proteine bersaglio di una importante famiglia di farmaci antivirali contro la proteasi principale del virus, denominata 3CLpro.

Attuali farmaci e nuove mutazioni del SARS-CoV-2; lo studio computazionale dell'Università degli Studi di Padova
Immagine di Gerd Altmann

L’efficacia dei farmaci in uso, come nirmatrelvir o ensitrelvir, è stata quindi determinata sperimentalmente per anticipare quali, tra le possibili nuove mutazioni, potrebbe ridurre o eliminare la loro efficacia terapeutica. Alla ricerca dal titolo “SARS-CoV-2 3CLpro mutations selected in a VSV-based system confer resistance to nirmatrelvir, ensitrelvir, and GC376” pubblicata su «Science Translational Medicine» ha partecipato la Sezione di Modellistica Molecolare del Dipartimento di Scienze del Farmaco dell’Università di Padova, coordinata dal Professor Stefano Moro,  che ha come missione lo sviluppo e l’applicazione di metodologie informatico-computazionali con l’obiettivo principale di supportare la progettazione, identificazione e ottimizzazione di nuovi candidati farmaci.

Parallelamente al lavoro sperimentale svolto dai colleghi austriaci, il gruppo di ricerca padovano ha effettuato lo stesso studio utilizzando delle tecniche computazionali: sia tutti i mutanti della proteina 3CLpro che le loro interazioni con i farmaci antivirali sono stati simulati con l’obiettivo di avere un riscontro sulla capacità predittiva di questi metodi che consentirebbero, qualora si dimostrassero accurati, una importante riduzione dei tempi di accesso a queste informazioni ed una conseguente riduzione dei costi della ricerca.

Un importante risultato ottenuto da questo studio è che tutti i mutanti che hanno sperimentalmente dimostrato una riduzione di attività nei confronti dei farmaci antivirali analizzati sono stati correttamente predetti dallo studio computazionale padovano, consentendo inoltre di interpretarne a livello molecolare le motivazioni analizzando le singole interazioni tra farmaco e proteina che venivano a modificarsi nei vari mutanti.

«La buona capacità predittiva dei metodi computazionali utilizzati in questo studio – dicono gli autori del team del Dipartimento di Scienze del Farmaco Matteo Pavan, Davide Bassani e Stefano Moro – apre alla possibilità del loro utilizzo anche per altri bersagli molecolari di interesse terapeutico, per i quali l’aspetto della resistenza rappresenta un problema clinico rilevante, fornendo un supporto alle tecniche sperimentali di biologia molecolare e biochimica utilizzate di routine nella identificazione di nuovi candidati farmaci».

La Sezione di Modellistica Molecolare del Dipartimento di Scienze del Farmaco dell’Università di Padova che ha come missione lo sviluppo e l’applicazione di metodologie informatico-computazionali con l’obiettivo principale di supportare la progettazione, identificazione e ottimizzazione di nuovi candidati farmaci. Esso costituisce l’interfaccia tra i laboratori biologici/farmacologici e chimici del Dipartimento aggiungendo le proprie competenze computazionali in base alle necessità di sintesi organica, fitochimica, biochimica, biologia molecolare e farmacologia. L’obiettivo è quello di affrontare i problemi della chimica medicinale e della medicina in collaborazione con gli esperti del settore sviluppando nuove strategie per la progettazione e la scoperta di farmaci integrando informatica, chimica, biologia e medicina. Attualmente MMS utilizza strategie chimiche e strutturali per comprendere i meccanismi di base delle malattie umane e scoprire una nuova generazione di farmaci.

Link alla ricerca: https://www.science.org/doi/10.1126/scitranslmed.abq7360

Titolo: “SARS-CoV-2 3CLpro mutations selected in a VSV-based system confer resistance to nirmatrelvir, ensitrelvir, and GC376” – «Science Translational Medicine» 2022

Autori: Emmanuel Heilmann, Francesco Costacurta, Arad Moghadasi, Chengjin Ye, Matteo Pavan, Davide Bassani, Andre Volland, Claudia Ascher, Alexander Kurt, Hermann Weiss, David Bante, Reuben S. Harris, Stefano Moro, Bernhard Rupp, Luis Martinez-Sobrido and Dorothee von Laer.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Padova

Una sonda per aiutare la chirurgia oncologica
A compiere un nuovo passo avanti verso una “chirurgia di precisione” sempre più sofisticata e ottimizzata sul paziente potrebbe contribuire una sperimentazione in-vivo su pazienti avviata nelle scorse settimane per validare una tecnica di chirurgia radioguidata con farmaci che emettono radiazione beta. La nuova tecnica, sviluppata dalla Sapienza Università di Roma e dall’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare), è frutto della stretta collaborazione interdisciplinare tra fisici, chimici, radio-farmacisti, medici nucleari e chirurghi, e potrebbe diventare uno strumento aggiuntivo a supporto del chirurgo oncologico durante la rimozione dei tumori.

La chirurgia radioguidata è una tecnica che permette di identificare in tempo reale i residui tumorali. La tecnica consiste nel rivelare, grazie ad una sonda, la radiazione emessa da una sostanza radioattiva, un radiofarmaco contenente una specifica molecola che viene riconosciuta e metabolizzata dai recettori delle cellule tumorali. In questo modo è possibile verificare direttamente durante l’operazione se i tessuti analizzati siano tumorali o meno, e quindi guidare il chirurgo sulle sedi da rimuovere.
radiazioni alfa beta gamma sonda chirurgia oncologica
Immagine di Stannered / opera derivata: Ehamberg, CC BY 2.5

Il progetto si basa su un’idea iniziale, brevettata nel 2013 da Sapienza, INFN e Centro Fermi Museo della Scienza, che prevedeva l’utilizzo di radiazione beta-: un tipo di radiazione poco penetrante composta da elettroni, che però pone problemi di natura applicativa a causa della limitata disponibilità di radiofarmaci con questo tipo di emissione.

“Essendo particelle cariche, – spiega Riccardo Faccini, Professore Ordinario del Dipartimento di Fisica della Sapienza e attualmente Preside della Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali, tra gli inventori della tecnica – gli elettroni di cui si compone la radiazione beta perdono velocemente la loro energia a seguito delle interazioni con le altre particelle cariche presenti in tutti i tessuti del corpo umano. Ciò determina l’impossibilità per gli elettroni di uscire dal paziente. Questa è la ragione che ci ha spinti a concepire uno strumento a cui i chirurghi avrebbero potuto far ricorso durante le operazioni, andandolo a posizionare direttamente sui tessuti da analizzare. Sebbene la procedura sia risultata efficace, le difficoltà di somministrazione, i costi elevati e la limitata diffusione dei farmaci beta-, ci hanno spinto a cercare soluzioni alternative più accessibili e sostenibili”.
Dopo studi condotti in collaborazione con l’Istituto Neurologico “Carlo Besta”, l’Istituto Europeo di Oncologia, il Leiden University Medical Center e il Policlinico Universitario Fondazione Agostino Gemelli, la scelta è quindi ricaduta sulla radiazione beta+, caratterizzata dall’emissione di un positrone, l’antiparticella dell’elettrone, e da due fotoni, usata quotidianamente nei reparti di medicina nucleare per gli esami diagnostici PET (Tomografia ad Emissione di Positroni).
“Mentre la radiazione beta-, alla luce delle sue caratteristiche, risulta poco adatta alle indagini diagnostiche – chiarisce Francesco Collamati, ricercatore della sezione INFN di Roma, attuale Principal Investigator dello studio -, i fotoni della radiazione beta+ sono in grado di attraversare senza ostacoli i tessuti del paziente, per essere infine rivelati da apparati diagnostici esterni. Da qui il diffuso utilizzo negli ospedali di farmaci beta+, che potranno quindi essere in parte utilizzati anche per la nostra tecnica.”
Nonostante la loro reperibilità, rispetto a quelli emettenti beta-, questi radiofarmaci presentano difficoltà legate all’abbondanza dei fotoni prodotti non solo nei tessuti malati, ma anche in tutte le aree del corpo raggiunte dalla molecola dopo la somministrazione, che possono disturbare i segnali rivelati dalla sonda.
“Per questa ragione risulta necessario continuare a effettuare test che consentano di comprendere e calibrare il dispositivo e di fornire ai medici indicazioni, per esempio, sui livelli di conteggi associati all’effettiva presenza di un tumore”, conclude Collamati.
Dopo anni di studi di fattibilità e test ex-vivo, effettuati cioè su campioni di tessuto asportati dai pazienti sottoposti a operazioni, recenti sperimentazioni sono ora in corso, con il prototipo sviluppato dalla NUCLEOMED S.r.l., presso lo IEO di Milano, dove sono studiate nel dettaglio le potenzialità della tecnica sia sui tumori Neuro-Endocrini del tratto gastro-intestinale (GEP-NET) che sui carcinomi prostatici, e l’Ospedale ‘Molinette della Città della Salute di Torino’, nel caso di tumori prostatici.Settore Ufficio stampa e comunicazione
Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Terapia innovativa contro il cancro alla prostata. Via libera dell’Aifa

Il progetto TITAN, in cui la Sapienza è stata centro coordinatore per l’Italia, ha individuato un nuovo trattamento per il tumore alla prostata metastatico. Dopo gli enti regolatori europeo e americano, anche l’Aifa ne ha approvato la prescrivibilità e la rimborsabilità.

 

Il carcinoma della prostata è il tumore più frequente nell’uomo ed è difficile da diagnosticare soprattutto nelle fasi iniziali. Infatti, non è individuabile con una semplice ecografia, ma occorrono visite urologiche approfondite e il monitoraggio periodico dell’antigene prostatico specifico (PSA), un enzima che ha la funzione di mantenere la fluidità del liquido seminale e la cui quantità aumenta in caso di tumore alla prostata.

Il progetto TITAN, coordinato in Sapienza e per l’Italia da Alessandro Sciarra del Dipartimento Materno Infantile e Scienze Urologiche, ha dimostrato i vantaggi di una nuova terapia sistemica con apalutamide per il trattamento del carcinoma alla prostata metastatico. Questa ricerca multicentrica e internazionale è stata oggetto di diverse pubblicazioni sulla prestigiosa rivista New England Journal of Medicine.

Ora anche l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha approvato la nuova terapia, dopo la validazione dell’ente statunitense Food and Drug Administration (FDA) e dell’Agenzia europea per i medicinali (Ema) prevedendo l’uso dell’apalutamide, un composto in grado di inibire gli effetti biologici degli androgeni.

“Circa il 15 % dei tumori della prostata – spiega Alessandro Sciarra, – si presenta alla prima diagnosi già in fase metastatica e il 20% progredisce più o meno lentamente con lo sviluppo di metastasi dopo i trattamenti primari. Lo studio TITAN ha introdotto una modalità di trattamento di questo carcinoma alternativa alla classica terapia con la sola castrazione farmacologica. Ciò ha prodotto un significativo vantaggio per i pazienti sia in termini di sopravvivenza globale, che riguardo alla qualità di vita”.

Oltre a rallentare la progressione del tumore, prolungando la sopravvivenza dei pazienti, questo nuovo schema terapeutico ha un’ottima tollerabilità e una gestione del clinico relativamente semplice.

“Con la recente approvazione da parte degli enti regolatori Ema ed Aifa, questo nuovo trattamento – continua Alessandro Sciarra – può essere oggi prescritto e rimborsato, accedendo alle farmacie ospedaliere degli enti che hanno in carico i pazienti”.

“I risultati ottenuti con questo progetto permettono – conclude Alessandro Sciarra – di implementare le possibilità terapeutiche del paziente con carcinoma alla prostata metastatico e ormone-sensibile, sia alla prima diagnosi che progressivo, e rappresentano quindi un’alternativa vantaggiosa alle attuali terapie”.

 

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Terapia innovativa contro il cancro alla prostata. Foto di tahabaz

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma sul via libera dell’AIFA, l’Agenzia italiana del farmaco, che ha approvato la nuova terapia che prevede l’uso di apalutamide per il trattamento del cancro alla prostata, dopo la validazione dell’ente statunitense Food and Drug Administration (FDA) e dell’Agenzia europea per i medicinali (Ema).

Quando la leucemia era “un male incurabile”: storia di un successo medico tutto italiano


Il 23 giugno è stato pubblicato sul New England Journal of Medicine l’articolo a nome di Robin Foà e Sabina Chiaretti della Sapienza, che ripercorre le tappe fondamentali della ricerca ventennale, tutta italiana, che ha portato al cambiamento radicale nel trattamento e nella prognosi dei pazienti con leucemia acuta linfoblastica Philadelphia-positiva.

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Quando la leucemia era “un male incurabile”: storia di un successo medico tutto italiano. Foto di  VashiDonsk, CC BY-SA 3.0

Roma, 18 luglio 2022 – Sono passati quasi vent’anni da quando in Italia fu sperimentata per la prima volta una sostanza, l’imatinib, appartenente a una nuova classe di farmaci antitumorali mirati, in pazienti con leucemia acuta linfoblastica (LAL), associata a un’alterazione del cromosoma Philadelphia (LAL Ph+) per il trattamento iniziale di questi pazienti. Poiché si trattava di un approccio terapeutico rivoluzionario, furono arruolati per questa sperimentazione solo pazienti anziani, di oltre 60 anni, per molti dei quali venivano offerte esclusivamente terapie palliative.

Dopo essere stati trattati con una combinazione di imatinib, inibitore delle tirosin-chinasi (TKI) e steroide, tutti i pazienti ottennero una remissione della malattia.

Da allora questa strategia terapeutica iniziale basata solo su un TKI (più lo steroide) ha permesso di ottenere percentuali di risposta nel 94-100% dei pazienti adulti di tutte le età con LAL Ph+, senza ricorrere a chemioterapia sistemica (solo profilassi del sistema nervoso centrale) e con bassissima tossicità per i pazienti.

Negli anni la ricerca del gruppo coordinato dal Robin Foà (Professore Emerito di Ematologia della Sapienza) è andata avanti con l’obiettivo di arrivare alla guarigione dei pazienti affetti da questa patologia ematologica.

Per questo motivo la prestigiosa rivista New England Journal of Medicine ha chiesto al Professor Foà di descrivere i risultati più importanti raggiunti e pubblicati in questo ventennio sulla LAL Ph+ e come sia cambiata la storia naturale di questa malattia, una volta considerata la neoplasia ematologica più infausta. La review “Philadelphia Chromosome–Positive Acute Lymphoblastic Leukemia”, pubblicata il 23 giugno scorso, ripercorre appunto le tappe fondamentali di questo successo tutto italiano della ricerca medica.

Dopo la prima sperimentazione dell’imatinib in pazienti con LAL Ph+, si è progressivamente compreso che, per evitare una recidiva di malattia e migliorare le possibilità di guarigione, non bastasse una remissione ematologica, ma fosse essenziale ottenere uno stato di negatività della malattia residua minima (MRD, minimal residual disease).

Nel 2016 iniziò il primo studio multicentrico italiano per pazienti adulti con LAL Ph+ (senza limiti di età) nel quale fu prevista l’aggiunta al TKI del blinatumomabprimo farmaco nella classe degli anticorpi bi-specifici BiTE®, che agiscono stimolando una doppia reazione: da un lato il blinatumomab si lega alla proteina espressa dalle cellule leucemiche e dall’altro attiva nell’organismo una risposta immunologia. Questo approccio chemio-free, basato sulla combinazione di una terapia iniziale mirata su un TKI (dasatinib) e steroide (di induzione), seguita da una strategia immunoterapica (blinatumomab, che attiva i linfociti T del paziente) come terapia di consolidamento, ha portato a remissioni nel 98% dei pazienti e, soprattutto, a remissioni molecolari fino all’80% dei casi. I risultati dello studio sono stati pubblicati il 22 ottobre 2020 sempre sul New England Journal of Medicine. Va, altresì, ricordato come risultati incoraggianti si stiano ottenendo con il blinatumomab in un altro studio italiano per pazienti con LAL Ph- e come sia in sviluppo una più maneggevole formulazione sottocute.

Nella review viene discusso l’uso negli anni dei TKI di seconda e terza generazione, da soli o insieme a dosi ridotte di chemioterapia, nel trattamento di prima linea di pazienti con LAL Ph+, di come consolidare le risposte ottenute con i TKI, e di come l’immunoterapia con blinatumomab abbia potenziato significativamente le risposte ottenute con i TKI. Viene, inoltre, discussa la gestione delle recidive sulla base delle nuove prospettive terapeutiche e valutato il ruolo che oggi ha il trapianto allogenico di cellule staminali, alla luce dei risultati ottenuti dalla combinazione della targeted therapy con l’immunoterapia.

Un paragrafo è dedicato a “Role of Laboratory Testing in Management” in quanto i risultati ottenuti nelle LAL Ph+ (come in molte altre patologie ematologiche dove, peraltro, l’Italia ha sempre offerto importanti contributi), sono stati e sono possibili solo attraverso la disponibilità di laboratori certificati, che utilizzano metodiche standardizzate (e con controlli di qualità).

Per le LAL Ph+ è essenziale ottenere una diagnosi molecolare precisa nella prima settimana dalla diagnosi di LAL, così da poter iniziare tempestivamente il trattamento con un TKI. Inoltre, va effettuato uno studio molecolare volto a definire se un paziente ha un profilo genetico sfavorevole o meno, va studiata la possibile presenza di mutazioni che conferiscono resistenza ad alcuni TKI, va monitorizzata accuratamente la MRD con tecniche di PCR quantitativa e ora anche con tecniche più sensibili (come la droplet digital PCR), e vanno monitorizzate le modulazioni indotte dal trattamento con TKI e blinatumomab sul compartimento immunitario dei pazienti trattati. Uno sforzo organizzativo assai impegnativo, ma essenziale per l’ottenimento dei risultati.

Questo complesso network non è, ovviamente, disponibile a livello globale, e anzi sta diventando sempre più difficile gestire al meglio i pazienti. Risultano essenziali, quindi, gli studi cooperativi, presenti in diversi paesi. Tra questi, in Italia si annoverano il GIMEMA per gli adulti e l’AIEOP per i bambini. Nei protocolli GIMEMA per le LAL tutti i campioni dei pazienti arruolati sono centralizzati dal 1996 (alla diagnosi e nel follow-uppresso i laboratori di Ematologia del Policlinico universitario Umberto I, per garantire che tutti i pazienti siano studiati in modo uniforme. Questo è possibile solo con personale qualificato e adeguatamente formato, che si accerti che tutti i complessi test necessari vengano adeguatamente effettuati in laboratori certificati.

Nella review viene trattata anche la questione della “Accessibility and Sustainability”. Quanti pazienti hanno accesso a tutto questo? In termini di test di laboratorio e di accesso ai farmaci? Ancor oggi in molte parti del mondo la disponibilità di TKI è limitata. Di fatto, troppo spesso l’accesso ai laboratori per i test necessari e alle terapie è possibile solo per chi può permetterselo.

Questo approccio di induzione e consolidamento senza chemioterapia sistemica è stato particolarmente importante anche durante il primo picco della pandemia da Covid-19, perché ha permesso ai pazienti di ridurre i tempi di ospedalizzazione e soprattutto di non interrompere il trattamento.

Nel paragrafo conclusivo della review viene infine chiarito che gli studi attualmente in corso – in primis il nuovo protocollo GIMEMA aperto all’arruolamento – potranno stabilire in modo conclusivo se una quota di pazienti con LAL Ph+ potrà essere trattata in futuro senza chemioterapia sistemica e trapianto.

“Un risultato impensabile anche solo pochi anni fa – dichiara Robin Foà – che mi porta a dire ai più giovani di credere nelle loro idee, soprattutto se originali, e di perseguirle con ostinazione. Anche per noi non fu facile all’inizio, ma questa storia tutta italiana ci insegna che spesso i sogni si realizzano”.

Riferimenti:

Philadelphia Chromosome–Positive Acute Lymphoblastic Leukemia – Robin Foà, Sabina Chiaretti – New England Journal of Medicine (2022) https://doi.org/10.1056/NEJMra2113347

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

TUMORE AL PANCREAS, SCIENZIATI DI UNITO IDENTIFICANO UN NUOVO MARCATORE PER INDIRIZZARE MEGLIO LE TERAPIE

Lo studio pre-clinico pubblicato dalla prestigiosa rivista internazionale Gut dimostra come PI3K-C2γ giochi un ruolo chiave nello sviluppo di uno dei tumori attualmente più aggressivi

 

Un nuovo studio preclinico, svolto al Centro di Biotecnologie Molecolari “Guido Tarone” dell’Università di Torino, ha reso possibile la scoperta di una nuova terapia focalizzata per un sottogruppo di pazienti affetti da neoplasia maligna del pancreas. Il gruppo di ricerca guidato dalla Prof.ssa Miriam Martini e dal Prof. Emilio Hirsch ha dimostrato che la proteina PI3K-C2γ gioca un ruolo chiave nello sviluppo del tumore al pancreas. L’indagine scientifica ha permesso di far luce sui meccanismi di sviluppo di questo tumore e potrebbe consentire, in futuro, di massimizzare l’efficacia delle attuali opzioni terapeutiche di uno dei tumori attualmente più aggressivi.

Emilio Hirsch cause invecchiamento
Emilio Hirsch

In Italia, ogni anno vengono diagnosticati circa 13.000 nuovi casi di tumore al pancreas e la percentuale di sopravvivenza a 5 anni è meno del 10%. Si prevede che, entro il 2030, il tumore al pancreas diventi la seconda causa di morte oncologica. La gravità e la mancanza di trattamenti efficaci rendono necessari studi per la ricerca di nuove terapie e marcatori che possano aiutare a scegliere il farmaco più efficace. Per poter crescere, le cellule tumorali hanno bisogno di nutrienti e fonti d’energia.

proteina tumore del pancreas
Tumore al pancreas, un nuovo marcatore per indirizzare meglio le terapie. Anatomia del pancreas. Immagine BruceBlaus, Blausen.com staff. “Blausen gallery 2014”. Wikiversity Journal of Medicine. DOI:10.15347/wjm/2014.010. ISSN 20018762. – CC BY-SA 3.0

L’aggressività del tumore al pancreas è dovuta alla capacità di adattarsi in condizioni avverse, come ad esempio la scarsità di nutrienti e fonti energetiche, che vengono sfruttate dalle cellule per sopravvivere. Recentemente, sono stati sviluppati dei farmaci che impediscono l’utilizzo di tali nutrienti, come ad esempio la glutammina.

PI3K-C2γ controlla la via di segnalazione intracellulare di mTOR, che regola il metabolismo e la crescita della cellula, e influisce sull’utilizzo della glutammina per favorire la progressione tumorale. Nel tumore al pancreas, la proteina PI3K-C2γ non è presente in circa il 30% dei pazienti, i quali sviluppano una forma maggiormente aggressiva della malattia

La Dott.ssa Maria Chiara De Santis, primo autore dello studio pubblicato sulla prestigiosa rivista internazionale Gut, ha dimostrato che la perdita di PI3K-C2γ accelera lo sviluppo del tumore, ma allo stesso tempo rende più sensibili a farmaci che colpiscono mTOR e all’utilizzo della glutammina.

Lo studio guidato dagli scienziati di UniTo è stato frutto di un intenso lavoro di collaborazione con gruppi nel territorio italiano ed internazionale, tra cui quelli del Prof. Francesco Novelli, Prof.ssa Paola Cappello e Prof. Paolo Ettore Porporato (Università di Torino), Prof. Andrea Morandi (Università di Firenze), Prof. Vincenzo Corbo e Prof. Aldo Scarpa (Università di Verona), Prof. Gianluca Sala e Prof. Rossano Lattanzio (Università di Chieti) e Prof.ssa Elisa Giovannetti (Università di Amsterdam e Fondazione Pisana per la Scienza).

 

Testo dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino

Una nuova opzione terapeutica combatte efficacemente le complicanze cardiache e renali del diabete: gli effetti benefici sono diversi in base al sesso

Per la prima volta uno studio clinico coordinato dalla Sapienza rivela che l’uso quotidiano di tadalafil – un farmaco attualmente utilizzato per la disfuzione erettile – migliora la situazione cardiaca di pazienti diabetici solo di sesso maschile, mentre favorisce la funzione immunitaria e renale sia negli uomini che nelle donne. I risultati di questa ricerca sono pubblicati sulla rivista Science Translational Medicine.

Uomini e donne non rispondono allo stesso modo ai farmaci. Nonostante, siano ben riconosciute le differenze fra i due sessi in diverse patologie, ad esempio in quelle cardiovascolari, per anni gli studi clinici hanno trascurato questo aspetto anche in termini di progettazione degli studi stessi, coinvolgendo prevalentemente pazienti di sesso maschile.

opzione terapeutica complicanze cardiache e renali diabete
Una nuova opzione terapeutica combatte efficacemente le complicanze cardiache e renali del diabete: gli effetti benefici sono diversi in base al sesso. Credits: Andrea Isidori

Per la prima volta uno studio randomizzato, placebo controllato, è stato espressamente disegnato per studiare le differenze di sesso in pazienti diabetici, maschi e femmine, con cardiomiopatia diabetica, nella risposta al tadalafil, un farmaco testato inizialmente come vasodilatatori per combattere alcune patologie cardiovascolari e attualmente utilizzato per combattere la disfunzione erettile.

Accade spesso nella ricerca scientifica che un farmaco testato contro una malattia si dimostri efficace anche contro altre. È stato il caso degli inibitori della fosfodiesterasi di tipo 5 (PDE5i), come Viagra e Cialis. Per questo motivo, l’indicazione dei PDE5i virò al campo andrologico, determinando la fine dell’interesse “commerciale” per la ricerca in ambito cardiovascolare.

Tuttavia il gruppo di ricerca, coordinato da Andrea Isidori del Dipartimento di Medicina sperimentale della Sapienza, ha evidenziato i potenziali benefici dei PDE5i anche nel trattamento delle complicanze del diabete, identificando coloro che potrebbero trarre giovamento da questa classe di farmaci: gli uomini affetti da problemi microvascolari correlati alla patologia (disfunzione erettile, cardiomiopatia, malattia renale) e le donne in menopausa a rischio per malattia renale, aprendo scenari interessanti sul ruolo degli estrogeni nel mediare gli effetti dei farmaci a livello cardiaco.

“L’efficacia in campo andrologico dei PDE5i – continua Andrea Isidori – ha attirato l’attenzione della comunità medica a tal punto da far ignorare il loro possibile utilizzo nelle donne. Abbiamo quindi insistito nel voler indagare altri target di questi farmaci. Dopo aver dimostrato l’efficacia dei PDE5i sul rimodellamento cardiaco in uomini diabetici, abbiamo messo insieme, attraverso una metanalisi, tutte le evidenze scientifiche, riscontrando differenze legate al sesso nelle popolazioni di studio. Successivamente abbiamo scoperto che anche i reni possono essere target dei PDE5i. Oggi, con questo nuovo lavoro, abbiamo infine dimostrato come gli effetti dei PDE5i siano sesso e tessuto specifici, rivelando il notevole potenziale di questi farmaci, specialmente nell’ambito della medicina di precisione”.

Lo studio, nato dalla collaborazione tra i dipartimenti di Medicina sperimentale, di Scienze cliniche internistiche, anestesiologiche e cardiovascolari, di Medicina traslazionale e di precisione, di Scienze radiologiche, oncologiche e anatomo-patologiche della Sapienza e l’IRCCS Neuromed di Pozzilli, l’Università Campus bio-medico di Roma, l’Ospedale Fatebenefratelli e l’Università di Cagliari, è stato pubblicato sulla rivista Science Translational Medicine.

Tramite un approccio multidimensionale, che ha sfruttato la risonanza magnetica cardiaca, l’imaging renale vascolare, il profilo immunitario e i vari pattern molecolari analizzati tramite digital-PCR, gli autori hanno studiato ogni componente tra i tanti possibili target della PDE5.

“Siamo sicuri – aggiunge Andrea Isidori – che sia la mancanza di estrogeni il motivo per cui le donne non sono riuscite a raggiungere il miglioramento cardiaco osservato negli uomini. Le aziende farmaceutiche dovrebbero considerare che le donne in pre-menopausa e quelle in post-menopausa possono rispondere in modo diverso ai farmaci e, quindi, dovrebbero essere adeguatamente rappresentate negli studi clinici”.

È importante sottolineare che questi risultati sono stati raggiunti a fronte di effetti collaterali trascurabili, con un farmaco molto economico e fuori brevetto. In ogni caso, è sempre necessaria una prescrizione da parte del personale medico che possa monitorare i potenziali effetti avversi di questa classe di farmaci e soprattutto l’interazione con altri farmaci assunti.

 “La prescrizione di una terapia farmacologica deve tener conto – spiegano i primi autori Riccardo Pofi ed Elisa Giannetta del Dipartimento di Medicina sperimentale della Sapienza – del sesso, della menopausa, dello stadio della malattia, delle terapie farmacologiche concomitanti e, perché no, anche del costo della terapia. Questa ricerca dimostra che i PDE5i sono una classe di farmaci sicura e ben tollerata, di cui non dobbiamo aver paura, oltre a essere economica e con effetti benefici ad oggi ancora sottostimati”.

Riferimenti:

Sex-specific effects of daily tadalafil on diabetic heart kinetics in RECOGITO, a randomized, double-blind, placebo-controlled trial – Riccardo Pofi, Elisa Giannetta, Tiziana Feola, Nicola Galea, Federica Barbagallo, Federica Campolo, Roberto Badagliacca, Biagio Barbano, Federica Ciolina, Giuseppe Defeudis, Tiziana Filardi, Franz Sesti, Marianna Minnetti, Carmine D. Vizza, Patrizio Pasqualetti, Pierluigi Caboni, Iacopo Carbone, Marco Francone, Carlo Catalano, Paolo Pozzilli, Andrea Lenzi, Mary Anna Venneri, Daniele Gianfrilli, Andrea M. Isidori – Science Translational Medicine (2022) http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.3745196


Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma sulla nuova opzione terapeutica per combattere le complicanze cardiache e renali del diabete

ALLA PROF. SSA CHIARA EMILIA IRMA CORDERO LO SCIENTIFIC ACHIEVEMENT AWARD

Docente di chimica degli alimenti al Dipartimento di Scienza e Tecnologia del Farmaco, Chiara Cordero è la prima donna premiata per l’attività di ricerca riconosciuta a livello internazionale nell’ambito della cromatografia bidimensionale.

La Prof.ssa Chiara Emilia Irma Cordero ha ricevuto lo Scientific Achievement Award, il prestigioso riconoscimento scientifico alla carriera per la sua attività di ricerca nell’ambito delle scienze separative ed in particolare della gas cromatografia bidimensionale “comprehensive” (GC×GC). Il premio viene assegnato ad un/una ricercatore/ricercatrice che da almeno 15 anni sia impegnato/a in attività di ricerca di eccellenza per lo sviluppo hardware della tecnica GC×GC e nella sua applicazione a problemi applicativi complessi. Il riconoscimento è stato consegnato nel corso del 19° International GC×GC Symposium, che si è tenuto dal 29 Maggio al 2 Giugno 2022 in Alberta, Canada.

Chiara Emilia Irma Cordero Scientific Achievement Award
La Prof.ssa Chiara Emilia Irma Cordero ha ricevuto lo “Scientific Achievement Award”

Per la prima volta lo Scientific Achievement Award, che fino ad ora ha visto premiare ricercatori uomini di fama internazionale, riconosce ad una donna il contributo originale all’evoluzione della tecnica GC×GC ed alle sue applicazioni che riguardano in particolare la food metabolomics e l’Artificial Intelligence smelling.

L’Università di Torino ha creato le condizioni affinché la ricerca nell’ambito disciplinare della chimica degli alimenti abbia potuto tradurre in “azione” le idee di innovazione maturate nel solco della tradizione di ricerca ed eccellenza nelle scienze separative, ed in particolare della gas cromatografia. Innovazione che ha permesso di sviluppare nuovi approcci hardware e strategie di indagine che integrano le informazioni di composizione chimica degli alimenti con l’Artificial Intelligence (Computer Vision e AI smelling machine), pronti ad affrontare le sfide del futuro.

“Questo riconoscimento – dichiara la Prof.ssa Cordero – sia uno stimolo per le giovani studentesse e ricercatrici che si impegnano nello studio e nella ricerca in discipline chimiche applicate e chimico analitiche, affinché il loro talento trovi lo spazio per misurarsi ed esprimersi e sia alimentato dalla passione, creatività e determinazione che portano la ricerca di base e pionieristica in ambiti molto specializzati in vantaggi per tutti.”

Per le attività di ricerca nell’ambito della gas cromatografia applicata alla ricerca in chimica degli alimenti, la Prof.ssa Cordero ha ricevuto altri prestigiosi riconoscimenti Internazionali. Nel 2008 il Leslie S. Ettre Award (prima edizione del Premio Internazionale per un giovane sotto i 35 anni la cui ricerca nell’ambito della gas cromatografia fosse applicata a temi alimentari e/o ambientali) e nel 2014 il John B. Phillips Award per la sua attività di ricerca nel campo della gas cromatografia bidimensionale “comprehensive”. Nel 2016 è stata inserita nella Power List di The Analytical Scientist’s come una delle 50 donne più influenti nelle scienze analitiche, due sola italiane in tutta la lista delle premiate.

 

Testo e foto dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino