Repistat: individuata una nuova molecola capace di rallentare la progressione della retinite pigmentosa
L’Università di Pisa partner dello studio che ha guadagnato la copertina del Journal of Medicinal Chemistry.
Si chiama REPISTAT, è una nuova molecola capace di rallentare la progressione della retinite pigmentosa, una rara patologia genetica che può portare negli anni alla totale cecità. La scoperta arriva da uno studio, che si è guadagnato la copertina del Journal of Medicinal Chemistry. A progettare e sintetizzare la molecola è stato un gruppo di ricerca di chimica farmaceutica dell’Ateneo di Siena in collaborazione, per le prove biologiche, con il Dipartimento di Farmacia dell’Ateneo pisano, e con l’Istituto di Neuroscienze del CNR – Pisa, la University College London e l’Università di Ferrara.
La sperimentazione è stata condotta in vitro e su modelli animali e la speranza è che in futuro REPISTAT possa essere alla base della formulazione di un nuovo farmaco, magari un collirio, capace di ritardare l’evoluzione della malattia.
“La retinite pigmentosa è una rara malattia genetica tuttora priva di una cura risolutiva, a causarla sono circa 200 mutazioni su una sessantina di geni, la cura più efficace è la terapia genica, con costi altissimi però, tanto che sono state attualmente sviluppate delle terapie solo per due mutazioni – spiega la professoressa Ilaria Piano del Dipartimento di Farmacia dell’Università di Pisa – ci sono tuttavia degli elementi che accomunano tutte le forme di retinite pigmentosa, come ad esempio i processi infiammatori, ossidativi o l’apoptosi, cioè il meccanismo che regola la morte programmata delle cellule. La molecola che abbiamo sviluppato è in grado di agire come modulatore epigenetico e attraverso questo meccanismo interviene proprio su questi processi aprendo un’opportunità per trattare su larga scala i pazienti, indipendentemente dalla mutazione genica”.
La ricerca è frutto di RePiSTOP, un progetto di ricerca di interesse nazionale del 2022 finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca.
Link articolo scientifico “Targeting Relevant HDACs to Support the Survival of Cone Photoreceptors in Inherited Retinal Diseases: Identification of a Potent Pharmacological Tool with In Vitro and In Vivo Efficacy”, Journal of Medicinal Chemistry, DOI: 10.1021/acs.jmedchem.4c00477
Testo e immagine dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa
Progetto CO-TRANS-NET: farmaci sintetici personalizzati a base di RNA, giovane ricercatrice vince l’ERC Starting Grant
Sempre più vicina la possibilità di creare farmaci su misura del paziente oncologico e della sua malattia e garantire diagnosi ad personam, anche via smartphone
Roma, 5 settembre 2024 – Simona Ranallo, 37 anni, romana, attualmente ricercatrice presso il dipartimento di Scienze e tecnologie chimiche dell’Università di Roma Tor Vergata, si aggiudica – unica vincitrice Starting Grant nell’Ateneo – l’ERC Starting Grant 2024, il finanziamento di 1.5 milioni di euro che l’Europa elargisce alle migliori linee di ricerca ogni anno, per il progetto CO-TRANS-NET “Synthetic nucleic acid co-transcriptional networks as diagnostic and therapeutic tools”.
I suoi studi per la ricerca sul cancro l’hanno portata a interessarsi delle interazioni molecolari che avvengono all’interno della cellula e nel corpo umano.
“Ciò che maggiormente ha stimolato la mia curiosità – spiega Simona Ranallo – è sempre stato cercare di migliorare la diagnosi e il trattamento di diverse malattie, incluso il cancro, partendo dallo studio di come funziona la vita. Attraverso processi altamente controllati la cellula è in grado di leggere l’informazione contenuta nel nostro DNA e tradurla in molecole funzionali, quali RNA e proteine, che giocano ruoli chiave nella regolazione delle funzioni vitali e della salute”.
“Ed è proprio da questo concetto – sottolinea la ricercatrice – che nasce l’idea di CO-TRANS-NET (acronimo di Cotranscriptional networks): sviluppare sistemi basati su geni sintetici che, in risposta a specifici biomarcatori tumorali, sono in grado di produrre molecole di RNA funzionali che possono generare un segnale diagnostico o avere funzioni terapeutiche. In questo modo CO-TRANS-NET si pone l’obiettivo di generare una nuova classe di strumenti teranostici, che attraverso l’utilizzo delle nanotecnologie, integrano la diagnosi e la terapia in modo tale che possano essere ottenute simultaneamente”.
L’innovazione del progetto CO-TRANS-NET risiede quindi in una importante scoperta.
“La possibilità di produrre un farmaco a base di RNA in risposta alla presenza di specifici biomarcatori tumorali rappresenta la vera innovazione di CO-TRANS-NET. In questo modo si potrebbe pensare di produrre un farmaco “on demand” quando il livello di un biomarcatore supera il suo specifico range fisiologico, diventando quindi una sorta di allarme e rappresentando una possibilità di trattamento precoce. Si riuscirebbe così ad amministrare la dose di farmaco da somministrare in base alla necessità specifica di ogni singolo paziente, correlata allo stadio della sua malattia”.
La dottoressa Ranallo sottolinea anche le caratteristiche peculiari e la versatilità del progetto:
“CO-TRANS-NET oltre a garantire un monitoraggio costante e un trattamento terapeutico personalizzato rappresenta un innovativo strumento diagnostico in cui in tempi rapidi e senza necessità di apparecchiature di laboratorio ma utilizzando solamente uno smartphone si potrà misurare il livello di biomarcatori tumorali nel sangue dei pazienti con elevata precisione, proprio come il glucometro utilizzato dai pazienti diabetici. Le innovazioni proposte da CO-TRANS-NET in campo diagnostico e terapeutico rappresentano importanti progressi verso la medicina personalizzata e di precisione”.
Il progetto CO-TRANS-NET ha una durata di cinque anni e rientra nel 44% di Starting Grant 2024 vinti da ricercatrici, percentuale in costante aumento negli ultimi anni secondo quanto rivela lo European Research Council. Lo ERC Starting Grant, che per l’anno in corso ha potuto contare su un finanziamento di circa 780 milioni di euro complessivi, supporta giovani ricercatori e ricercatrici all’inizio della loro carriera nelle loro ricerche all’avanguardia.
Biografia
Simona Ranallo si laurea in chimica all’università di Roma Tor Vergata e qui ottiene il dottorato in Scienze chimiche portando avanti la sua ricerca nel Laboratorio di Chimica analitica del dipartimento di Scienze e tecnologie chimiche. Durante il PhD è stata Visiting Researcher presso la University of California Santa Barbara e l’Université de Montréal.
Ha ottenuto finanziamenti post doc dalla Fondazione Umberto Veronesi per continuare la sua ricerca sul cancro e nel 2018 è risultata vincitrice di una Marie Skłodowska-Curie Post Doctoral Global Fellowship, finanziata dalla Comunità Europea. Grazie a questo finanziamento ha svolto due anni di ricerca presso la University of California Santa Barbara per poi tornare nell’ultimo anno di ricerca del finanziamento presso il dipartimento di Scienze e tecnologie chimiche di Roma Tor Vergata, dove attualmente lavora come ricercatrice nel gruppo di ricerca coordinato dal professor Francesco Ricci.
Testo e immagini dall’Ufficio stampa Università di Roma Tor Vergata
I CARABINIERI TUTELA PATRIMONIO CULTURALE RESTITUISCONO AL NOBILE COLLEGIO CHIMICO FARMACEUTICO DI ROMA UN TESTO RARO DEL XVII SECOLO, UNIVERSALE THEATRO FARMACEUTICO DI ANTONIO DE SGOBBIS
Un importante testo raro del 1682 “Universale Theatro Farmaceutico” dell’autore Antonio De Sgobbis, farmacista veneziano, è stato recuperato dal Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale di Monza. Il bene era stato sottratto nell’anno 1985 dal Nobile Collegio Chimico Farmaceutico di Roma e da allora se ne erano perse le tracce, fino alla sua recente comparsa nel mercato antiquario.
La ricomparsa dell’opera non è passata inosservata al Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, che quotidianamente svolge attività preventiva di controllo e monitoraggio del settore, avvalendosi del supporto tecnologico della Banca Dati dei Beni Culturali Illecitamente Sottratti.
Il riscontro positivo scaturito dalla verifica e la successiva attività d’indagine condotta dal Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale di Monza, coordinata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Como, hanno permesso il recupero dell’opera e la restituzione all’ente di provenienza.
L’Autore, Antonio De Sgobbis, nato e cresciuto a Montagnana intorno al 1600, è stato un importante speziale della Serenissima, diventato famoso farmacista a Venezia dove possedeva una spezieria all’insegna dello struzzo situata nella centralissima zona delle Mercerie.
La sua farmacia divenne un centro di sperimentazione della chimica farmaceutica veneziana che, grazie alla sua passione e curiosità, diede origine alla pubblicazione di diversi testi, fra i quali anche l’Universale Theatro Farmaceutico.
Il volume, che rese l’autore famoso in tutta Europa e di cui siconoscono pochissime copie, rappresenta un’opera strutturata e dettagliata molto rara per l’epoca, una specie di prototipo enciclopedico piuttosto che un manuale di uso pratico da riporre e consultare in farmacia.
Il testo, in folio, ricchissimo di riferimenti bibliografici che per la loro ampiezza e ponderatezza aiutano a comprendere l’arte farmaceutica seicentesca, si compone di più di 800 pagine, corredate da tavole e tabelle di considerevole valore e dal ritratto dell’autore insieme a quello dei colleghi Giorgio Melichio e Alberto Stecchini.
Inoltre, a rendere particolarmente pregevole tale opera fu anche la scelta dell’editore, la Stamperia Baglioni di Venezia divenuta molto famosa già nel 1607 per essere stata scelta da Galileo Galilei per la sua Difesa contro le accuse di Baldassare Capra e il Sidereus Nuncius. Un’opera, quindi, che nella sua monumentalità resta una testimonianza unica e originale dell’appassionato esercizio della farmacopea privata a Venezia che, dopo ben 39 anni e grazie all’attività del Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale di Monza, è potuta tornare al Nobile Collegio Chimico Farmaceutico di Roma.
Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale sull’Operazione Pandora VIII
FARMACI: DOMANDA IN AUMENTO E CARENZE SUL MERCATO? Una soluzione dalla tesi di Francesco Destro: in tempo reale una maggiore produzione a un costo inferiore
Premiato dall’European Federation of Chemical Engineering Francesco Destro per i nuovi algoritmi di monitoraggio capaci di risolvere il disequilibrio tra domanda e offerta attraverso tecnologie innovative e digital twin, le repliche virtuali dei processi di produzione. La ricerca è stata sviluppata al CAPE-Lab dell’Università di Padova
Ieri, lunedì 3 giugno, all’European Symposium on Computer Aided Process Engineering and International Symposium on Process Systems Engineering che si è tenuto a Firenze – con la seguente motivazione “Relevance to the CAPE terms of reference, innovation, technical quality, scientific impact including industrial relevance, and dissemination of the results” – l’European Federation of Chemical Engineering (EFCE) ha premiato Francesco Destro, Ricercatore al Dipartimento di Ingegneria Chimica dell’Università di Padova e al Centro di Innovazione Biomedica del Massachusetts Institute of Technology di Boston, per la sua tesi di dottorato dal titolo “Digitalizing pharmaceutical development and manufacturing: advanced mathematical modeling for operation design, process monitoring and process control”.
L’immagine idealizzata di laboratori farmaceutici perfettamente efficienti si scontra con la cruda realtà: i processi per la produzione di farmaci sono spesso inefficienti e soggetti ad una serie di sfide. Sebbene i farmaci che troviamo in farmacia siano indiscutibilmente di qualità eccellente, la capacità globale di produzione di farmaci su larga scala è estremamente limitata e i costi sono spesso elevati.
Il risultato? Difficoltà nel soddisfare una domanda in aumento, con conseguenti carenze di farmaci sul mercato. Secondo il rapporto del 2023 di PGEU, Il Gruppo Farmaceutico dell’Unione Europea, l’85% dei Paesi Europei ha segnalato, nel 2023, carenze per più di 300 farmaci, tra cui antibiotici, antitumorali e farmaci per il sistema cardiovascolare. Addirittura, il 42% dei Paesi europei ha riportato carenze per più di 500 farmaci. Le inefficienze nei processi della produzione di farmaci non solo causano queste carenze sullo scaffale della farmacia, ma allungano notevolmente i tempi di attesa per l’approvazione e la distribuzione di nuovi farmaci, rallentando l’innovazione nel settore farmaceutico.
Un esempio emblematico della scarsa efficienza nella produzione farmaceutica è stato l’accesso ai vaccini contro il COVID-19. Dopo l’approvazione dei vaccini COVID, l’Italia, come molti altri Paesi, ha dovuto affrontare una lunga attesa prima di poterli distribuire su larga scala. Questa situazione ha messo in luce la difficoltà dell’industria farmaceutica nel produrre farmaci su larga scala, specialmente quando la domanda cresce improvvisamente. Di nuovo: questo limite non riguarda la qualità dei farmaci a cui abbiamo accesso, ma, appunto, il costo produttivo e la quantità di farmaci che siamo in grado di produrre a livello globale.
«Tuttavia, a fronte di questo scenario esiste un possibile rimedio: la digitalizzazione, la cosiddetta Industria 4.0. L’applicazione di tecnologie come il machine learning e l’intelligenza artificiale stanno aprendo nuove strade per ottimizzare i processi di produzione di farmaci. Questa è esattamente l’area di interesse su cui si è concentrata la mia tesi di dottorato. Nel corso della ricerca, ho sviluppato tecnologie innovative per la digitalizzazione e l’ottimizzazione dei processi di produzione di farmaci – dice Francesco Destro –. Ho implementato nuovi algoritmi di monitoraggio di processo basati sul machine learning, che permettono di identificare e correggere eventuali inefficienze o anomalie in tempo reale, consentendo di produrre una maggiore quantità di farmaci ad un costo inferiore. Inoltre, ho lavorato allo sviluppo di cosiddetti digital twin di processi farmaceutici che sono una replica virtuale sullo schermo di un computer di un processo di produzione farmaceutica, completa di tutte le variabili e i parametri che influenzano il processo reale. Questa replica digitale – spiega Francesco Destro – non solo ci consente di testare e ottimizzare diversi scenari da un computer, senza dover intervenire direttamente sul processo reale, ma può anche essere utilizzata per predire e prevenire problemi potenziali prima che si verifichino, garantendo così una produzione di farmaci più efficiente e affidabile».
La ricerca di dottorato si è svolta al CAPE-Lab dell’Università di Padova, sotto la guida del Professor Massimiliano Barolo. Il CAPE-Lab è pioniere in Italia nella digitalizzazione dei processi farmaceutici ed è riconosciuto a livello mondiale per la sua visione innovativa e per progetti all’avanguardia iniziati oltre 10 anni fa nell’ambito di digital twin e machine learning per l’ottimizzazione della produzione di farmaci. Grazie al ruolo di leader che CAPE-Lab ha in questo settore, Francesco Destro ha avuto l’opportunità di collaborare durante la ricerca con istituzioni di primo piano nel mondo accademico e industriale, tra cui Siemens, US Food & Drug Administration, Eli Lilly and Company e Purdue University. Collaborando con i partner si sono validati gli algoritmi e il software sviluppato in CAPE-Lab su impianti industriali, trasformando la ricerca da teorica in soluzioni pratiche che stanno già facendo la differenza nel mondo reale.
«Dopo aver conseguito il dottorato all’Università di Padova nel 2022, ho iniziato a lavorare come Ricercatore associato al Dipartimento di Ingegneria Chimica del Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston, negli Stati Uniti. Al MIT, metto in pratica le conoscenze avanzate acquisite al CAPE-Lab per rivoluzionare la produzione di una nuova generazione di farmaci per terapia genica. Questi farmaci – conclude Francesco Destro – permettono di curare gravi patologie genetiche, ma sono prodotti tramite processi estremamente complessi, con costi di produzione che possono superare i 200.000 euro per una singola dose per un paziente. Attraverso l’applicazione delle tecnologie di digitalizzazione e machine learning che ho sviluppato durante il mio percorso di dottorato a Padova, sto contribuendo a rendere la produzione di questi farmaci innovativi più economica e accessibile a tutti i pazienti che ne hanno bisogno».
«Il gruppo di ricerca CAPE-Lab (Computer-Aided Process Engineering Laboratory) del Dipartimento di Ingegneria Industriale è attivo da vent’anni e da circa quindici è fortemente coinvolto in ricerche nell’ambito dell’ingegneria farmaceutica. Da un punto di vista generale, sviluppiamo tecnologie in grado di migliorare la produzione su larga scala di farmaci; in particolare, cerchiamo di ridurre quanto più possibile il tempo che passa da quando le autorità competenti approvano la messa in commercio di un farmaco, a quando il farmaco diventa effettivamente disponibile per tutti in farmacia – afferma Massimiliano Barolo direttore di CAPE-Lab –. Per raggiungere questo obiettivo, i problemi tecnologici che vanno affrontati sono numerosi. Per esempio: come assicurare che la qualità finale del prodotto sia garantita sempre, indipendentemente da chi fabbrica il farmaco e da quanto variabile è la qualità delle materie prime? come ridurre il numero di esperimenti necessari allo sviluppo su scala industriale del processo produttivo su scala industriale? come trasferire con rapidità la produzione da un sito produttivo a un altro? come ridurre i consumi di energia e gli scarti di produzione? come estrarre informazioni utili dai dati che i moderni sensori restituiscono ogni pochi secondi? Cerchiamo di dare risposta a queste domande impiegando due risorse fondamentali – sottolinea Barolo –. La prima è il bagaglio di tecniche di modellazione matematica, di ottimizzazione, di analisi dei dati e di progettazione degli esperimenti che la nostra disciplina di base ‒ l’ingegneria chimica ‒ ci mette a disposizione. La seconda è il continuo dialogo con l’industria, che ci permette da un lato di essere sistematicamente vicini alle problematiche del mondo produttivo, e dall’altro di sviluppare soluzioni che siano non soltanto scientificamente originali, ma anche efficaci nella pratica. Poter contribuire a rendere meno tortuoso il “viaggio” che un farmaco fa, dal laboratorio dello scienziato che l’ha scoperto alla casa del paziente che lo deve impiegare, ci riempie davvero di orgoglio».
Francesco Destro è Ricercatore Associato al Dipartimento di Ingegneria Chimica e al Centro di Innovazione Biomedica del Massachusetts Institute of Technology di Boston, negli Stati Uniti. La sua ricerca è focalizzata sullo sviluppo di software ed algoritmi per ottimizzare la produzione di farmaci per terapia genica. Tali farmaci sono in grado di curare gravi patologie genetiche, ma hanno attualmente costi produttivi che possono superare 200.000 euro per dose, a causa della complessità intrinseca di questi prodotti biotecnologici. Francesco Destro ha ricevuto il Dottorato di Ricerca in Ingegneria Industriale con Curriculum Ingegneria Chimica ed Ambientale all’Università di Padova. Durante il suo dottorato, Destro ha sviluppato software e algoritmi di machine learning per l’ottimizzazione dei processi di produzione farmaceutica. Attualmente, al MIT, Destro applica queste tecnologie avanzate per rendere la produzione di farmaci per terapia genica più efficiente e sostenibile, contribuendo a ridurre i costi e migliorare l’accessibilità per i pazienti.
Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova
UNA NUOVA SPERANZA PER LA CURA DEL NEUROBLASTOMA INFANTILE: I RISULTATI DELLO STUDIO DELL’UNIVERSITÀ DI TORINO ASSIEME AD HARVARD
I dati della ricerca sostenuta dalla Fondazione AIRC, pubblicati sulla prestigiosa rivista “Cancer Cell”, promettono nuovi sviluppi nella lotta contro il neuroblastoma, un tumore pediatrico ancora difficile da curare.
Il neuroblastoma rappresenta una sfida complessa per la pediatria oncologica, il tasso di sopravvivenza a cinque anni per questo tumore si aggira intorno al 50% per i bambini con forme ad alto rischio. Tuttavia, i risultati di uno studio, condotto dal gruppo di ricerca guidato dal Prof. Roberto Chiarle del Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute dell’Università di Torino, e professore presso il Boston Children’s Hospital e la Harvard Medical School, ha delineato una nuova strategia terapeutica che potrebbe migliorare l’efficacia delle cure per questo tipo di tumore.
I ricercatori hanno in particolare dimostrato che l’utilizzo di cellule CAR T contro il recettore ALK, in combinazione con inibitori di ALK stesso, può portare a risultati promettenti nella cura del neuroblastoma. Le cellule CAR T sono cellule del paziente stesso, modificate in laboratorio in modo che in superficie abbiano un recettore chimerico in grado di riconoscere, in questo caso, il recettore ALK.
I risultati dello studio, sostenuto da Fondazione AIRCper la ricerca sul cancro, sono stati pubblicati sulla rivista Cancer Cell (https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/38039964/).
La terapia con cellule CAR T è una potente arma emergente contro il cancro, che modifica le cellule T dei pazienti in modo che possano riconoscere e attaccare le cellule tumorali in modo più preciso e mirato. Ma le attuali terapie a base di CAR T sono solo parzialmente efficaci contro la maggior parte di tumori solidi, compreso il neuroblastoma, un tumore che in genere inizia nel tessuto nervoso dei bambini e può dare origine a metastasi in diverse aree del corpo.
Roberto Chiarle e colleghi hanno creato in laboratorio una nuova terapia cellulare di tipo CAR T per il neuroblastoma e sperano di iniziare presto a sperimentarla clinicamente nei bambini ad alto rischio. Queste CAR T mirano specificamente al recettore ALK, il cui gene è un noto oncogene implicato in molti altri tipi di tumore. Tuttavia, non tutti i pazienti affetti da neuroblastoma presentano livelli sufficientemente elevati di recettori ALK sulle cellule tumorali per attirare un forte attacco da parte delle cellule CAR T.
Guidato dalla ricercatrice Elisa Bergaggio, il gruppo di Chiarle ha provato ad aggiungere al trattamento con cellule CAR T un farmaco inibitore di ALK. Si è scoperto che l’inibitore non solo silenzia la segnalazione oncogenica da parte dei recettori ALK, ma aumenta anche il numero di questi recettori sulla superficie cellulare, offrendo più bersagli per le cellule CAR T nei pazienti con bassa espressione di ALK.
I risultati preclinici, pubblicati su Cancer Cell, hanno dimostrato l’efficacia di questa combinazione terapeutica in animali con neuroblastoma metastatico, con una significativa riduzione della crescita tumorale e un miglioramento nella sopravvivenza nei topi trattati.
A seguito di queste scoperte, il Dana-Farber/Boston Children’s Hospital sta preparando la richiesta di autorizzazione alla Food and Drug Administration (FDA) americana per avviare uno studio clinico su questa terapia combinata nei bambini affetti da neuroblastoma refrattario alle cure o da una recidiva della malattia. Tale studio clinico si svilupperà a Boston e sarà in parte sostenutoanche dal contributo di filantropi torinesi e piemontesi guidati da Lucio Zanon di Valgiurata.
Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino
La proteina SALL4, un nuovo bersaglio nella battaglia contro il medulloblastoma Il gruppo coordinato da Lucia Di Marcotullio, del Dipartimento di Medicina molecolare della Sapienza Università di Roma, ha realizzato uno studio pionieristico sul ruolo della proteina SALL4 e della sua inibizione nel trattamento del medulloblastoma, un tumore cerebrale pediatrico. I risultati, ottenuti grazie al sostegno di AIRC, sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista Cell Death & Differentiation e premiati al 35° Meeting internazionale dell’Associazione italiana colture cellulari.
Da anni il gruppo guidato da Lucia Di Marcotullio svolge ricerche in campo oncologico nei laboratori della Sapienza di Roma per comprendere i meccanismi molecolari e identificare vie terapeutiche innovative. Di recente il gruppo ha aggiunto un nuovo tassello per chiarire e curare meglio il medulloblastoma, uno dei tumori cerebrali pediatrici più aggressivi.
Lo studio ha permesso di identificare per la prima volta la proteina SALL4 quale importante regolatore della via di segnalazione di Hedgehog, essenziale per lo sviluppo embrionale. Di Marcotullio e colleghe hanno inoltre chiarito che l’anomalo accumulo della proteina interferisce con questa via di segnalazione, provocandone l’attivazione e la conseguente crescita tumorale.
Uno degli aspetti più promettenti dei risultati ottenuti riguarda alcuni dati che suggeriscono l’uso della talidomide quale strategia terapeutica per indurre la degradazione di SALL4 nei tumori che la esprimono in eccesso. L’inibizione di SALL4 si è rilevata infatti efficace sia nel bloccare la crescita delle cellule tumorali, sia nel contrastare la controparte staminale del tumore, responsabile di recidive e del fallimento delle attuali terapie.
La talidomide, nota per il suo ruolo nella storia come farmaco con effetti altamente tossici per il feto, ha però mostrato un nuovo volto nel campo delle terapie anti-tumorali. Attualmente è utilizzata nel trattamento del mieloma multiplo. In studi clinici in corso si sta valutando la sua possibile efficacia per la cura dei tumori cerebrali, incluso il medulloblastoma, offrendo una prospettiva promettente e innovativa.
“Per fornire dati a sostegno dell’uso di farmaci che inducono la degradazione di SALL4 nel trattamento di questo tumore pediatrico, abbiamo impiegato un approccio multidisciplinare, combinando tecniche di biologia molecolare, analisi di espressione genica, studi di interazione proteina-proteina ed esperimenti preclinici con topi di laboratorio con medulloblastoma”.
Le parole sono di Lucia Di Marcotullio insieme alle ricercatrici che hanno condotto lo studio: Ludovica Lospinoso Severini, che ha ricevuto una borsa di studio AIRC, e le colleghe Elena Loricchio e Shirin Navacci. La ricerca si è svolta prevalentemente presso il Dipartimento di Medicina molecolare della Sapienza, in collaborazione con l’Istituto Curie d’Orsay, in Francia, e dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Cell Death & Differentiation.
“Il passaggio dai risultati della ricerca scientifica alla possibile applicazione nei pazienti – spiega Di Marcotullio – si potrebbe tradurre in un beneficio pubblico, obiettivo ultimo di un lavoro tenace svolto tra banconi di laboratorio, pazienti da seguire, cellule e topolini da accudire, idee da perseverare, ipotesi da dimostrare e, soprattutto, dedizione e costanza”. Le ricercatrici ringraziano Fondazione AIRC per sostenere da decenni la ricerca contro il cancro in Italia con preziosi finanziamenti, e in particolare per avere reso possibile il progetto e assegnato una borsa di studio a Ludovica Lospinoso Severini, prima autrice dell’articolo.
Riferimenti bibliografici:
SALL4 is a CRL3REN/KCTD11 substrate that drives Sonic Hedgehog-dependent medulloblastoma – Ludovica Lospinoso Severini, Elena Loricchio, Shirin Navacci, Irene Basili, Romina Alfonsi, Flavia Bernardi, Marta Moretti, Marilisa Conenna, Antonino Cucinotta, Sonia Coni, Marialaura Petroni, Enrico De Smaele, Giuseppe Giannini, Marella Maroder, Gianluca Canettieri, Angela Mastronuzzi, Daniele Guardavaccaro, Olivier Ayrault, Paola Infante, Francesca Bufalieri & Lucia Di Marcotullio – Cell Death & Differentiation – Doi: https://doi.org/10.1038/s41418-023-01246-6
Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
SLA: alla Statale di Milano un finanziamento per lo studio di nuovi biomarcatori
Laura Calabresi, docente di Farmacologia, studierà il metabolismo del colesterolo nel plasma e nel liquido cerebrospinale per identificare nuovi biomarcatori della malattia.
Il finanziamento, un Pilot Grant erogato da AriSLA, è di oltre 58mila euro.
Milano, 10 gennaio 2024 – Laura Calabresi, docente di Farmacologia del Dipartimento di Scienze Farmacologiche e Biomolecolari dell’Università degli Studi di Milano, si è aggiudicata un finanziamento annuale di oltre 58mila euro da Fondazione AriSLA, il più importante ente non profit che finanzia in Italia la ricerca sulla SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica), gravissima malattia neurodegenerativa che solo nel nostro Paese coinvolge circa 6mila persone e che ad oggi non ha una terapia efficace.
Si tratta di uno dei tre “Pilot Grant” annuali finanziati da AriSLA tramite il bando 2023 per sperimentare idee innovative ed originali,che andranno a identificare dei nuovi biomarcatori, fondamentali sia per la diagnosi della SLA che per comprendere la sua progressione nel tempo, in modo da poter intervenire in modo più tempestivo e mirato.
Lo studio ‘Chol-ALS’ (Investigating brain cholesterol esterification in Amyotrophic Lateral Sclerosis / Esterificazione del colesterolo nel cervello di pazienti con la SLA) ha l’obiettivo di studiare il metabolismo del colesterolo nel plasma e nel liquido cerebrospinale nei pazienti affetti da SLA, verificando se l’esterificazione del colesterolo è alterata nella SLA e se questa alterazione è collegata alla gravità e alla progressione della malattia.
Il colesterolo svolge un ruolo fondamentale nelle funzioni del cervello e alterazioni nel suo metabolismo nel sistema nervoso centrale sono state associate a diversi disturbi neurodegenerativi, tra cui la malattia di Alzheimer. Il trasporto del colesterolo nel cervello è operato da lipoproteine simili a quelle che circolano nel sangue (HDL), e pertanto chiamate particelle HDL-simili. Come avviene per le HDL plasmatiche, le lipoproteine cerebrali vengono assemblate attraverso l’attività dei trasportatori di membrana del colesterolo e subiscono un rimodellamento mediato da specifici enzimi e proteine di trasporto. Per rendere la molecola di colesterolo ancora più lipofila e adatta alla conservazione ed al trasporto tramite lipoproteine, la molecola del colesterolo viene esterificata nei fluidi biologici principalmente tramite la lecitina colesterolo aciltransferasi (LCAT), che svolge quindi un ruolo importante nel rimodellamento delle HDL. Nonostante ci siano alcune ipotesi secondo cui gli esteri del colesterolo sarebbero alterati nella SLA, il processo di esterificazione non è mai stato studiato in questi pazienti. Per studiare il metabolismo del colesterolo saranno analizzati quindi il trasporto del colesterolo e la struttura delle lipoproteine nel plasma e nel liquido cerebrospinale di pazienti con SLA, correlando i risultati con la gravità della malattia e la sua progressione.
Lo studio ‘Chol-ALS’ è uno dei sette progetti selezionati attraverso il bando AriSLA 2023: la Fondazione ha investito complessivamente quasi 1 milione di euro per lo sviluppo dei nuovi studi di ricerca focalizzati sulla Sclerosi Laterale Amiotrofica.
Testo e foto dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano
Long COVID: una possibilità di cura dai farmaci antistaminici e antiulcera
Uno studio multicentrico, coordinato dal professor Carmine Gazzaruso, ha analizzato il ruolo dell’istamina nella malattia, conseguenza dell’infezione da SARS-Cov-2
Vigevano, 7 settembre 2023 – Una combinazione di vecchi farmaci antistaminici e antiulcera accende la speranza in coloro che soffrono della sindrome del Long COVID, una malattia multisistemica conseguenza dell’infezione da SARS-Cov-2. A dimostrarlo è uno studio multicentrico coordinato dal professor Carmine Gazzaruso – responsabile Centro di Ricerca Clinico (Ce.R.C.A.) dell’Istituto Clinico Beato Matteo di Vigevano (Gruppo San Donato) e professore di Endocrinologia dell’Università Statale di Milano – che indaga il ruolo dei mastociti, cellule del sangue, nella fisiopatologia del Long COVID e l’efficacia del trattamento con bloccanti dei recettori dell’istamina, che è una delle sostanze rilasciate dai mastociti.
Il Long COVID è una patologia, talvolta invalidante, che ad oggi non ha una terapia standard ed efficace e può presentare una grande varietà di sintomi: cardiovascolari, psicologici, neurologici, respiratori, gastrointestinali, dermatologici e muscoloscheletrici. Tra queste manifestazioni le più comuni sono tachicardia, palpitazioni, ipotensione posturale, affaticamento, deterioramento cognitivo, mancanza di respiro e tosse.
Il team dei ricercatori guidati dal professor Carmine Gazzaruso ha preso in esame quattro gruppi di sintomi caratteristici nel Long COVID: stanchezza e astenia, alterazione cardiaca, nebbia mentale e alterazione della memoria, disturbi gastrointestinali (dolore, meteorismo, gonfiore). È stato quindi selezionato un campione di 27 soggetti affetti da questa condizione, che presentavano però caratteristiche comuni: soffrire di Long Covid da oltre 6 mesi, essersi sottoposti a diversi trattamenti – come ad esempio aver assunto multivitaminici, betabloccanti e aver affrontato percorsi riabilitativi – con risultati fallimentari.
“Inoltre i pazienti arruolati per il nostro trial non erano vaccinati contro il Sars-Cov-2, perché il vaccino potrebbe modificare i sintomi del Long COVID, non erano soggetti allergici e non avevano mai sofferto, prima della infezione da SARS-Cov-2, di uno dei sintomi presi in considerazione nello studio” afferma il professor Gazzaruso, principal investigator del lavoro, pubblicato sulla rivista Frontiers in cardiovascular medicine.“La stanchezza, che accomunava tutto il campione preso in esame, doveva essere accompagnata, per la validità dello studio, da almeno uno degli altri sintomi. Nella media dei pazienti esaminati il dato è stato confermato, registrando, anzi, la presenza di tre sintomi, se non addirittura dell’intera sintomatologia”.
Studi precedenti, condotti a livello nazionale e internazionale, avevano evidenziato come nei pazienti con Long COVID vi fosse una maggiore attivazione dei mastociti, rispetto al normale, reazione simile a quanto avviene nei soggetti allergici con i quali vi è, effettivamente, anche un’assonanza di sintomi. Nel paziente allergico si verifica una grande produzione di istamina e prostaglandine, sostanze liberate in eccesso dai mastociti, esattamente come rilevato anche nel campione dello studio. Si evince quindi che nei pazienti con Long COVID si scateni una reazione cronica infiammatoria sostenuta con un meccanismo tipico dell’allergia.Questa evidenza ha generato nei ricercatori l’idea di inibire la reazione prodotta, bloccando due dei quattro recettori dell’istamina, detti H1 e H2, mediante l’impiego di due farmaci datati, ormai poco utilizzati nella pratica clinica quotidiana: un antistaminico (la fexofenadina) e un antiulcera (la famotidina), molto usato prima dell’avvento dell’omeprazolo. Nello specifico, l’antistaminico bloccava il recettore H1 dell’istamina, mentre il secondo inibiva il recettore H2.
Il campione è stato poi suddiviso in due gruppi: il primo, formato da 14 persone, ha ricevuto la terapia farmacologica combinata, mentre al secondo, il gruppo di controllo formato da 13 persone, non è stato somministrato nulla.
I risultati sono stati promettenti: i sintomi del Long COVID sono scomparsi completamente nel 29% dei pazienti del primo gruppo, dopo soli 20 giorni di trattamento. In tutti gli altri pazienti trattati si è comunque rilevato un miglioramento significativo di ciascuno dei sintomi considerati. Nel gruppo di controllo, invece, non si sono registrate variazioni in merito allo stato di salute.
Lo studio è stato condotto grazie al contributo dell’Istituto Clinico Beato Matteo di Vigevano (Pavia), dell’Università Statale di Milano, dell’IRCCS MultiMedica di Sesto San Giovanni (Milano) e del Centro Medico Ticinello di Pavia.
“Questa scoperta permetterà alle persone affette da Long COVID, che presentano questo disturbo legato ai mastociti, di guarire o migliorare la propria condizione di salute, attraverso una terapia molto semplice e anche facilmente reperibile” afferma il professor Gazzaruso. “La nostra intuizione è frutto anche del lavoro di tanti colleghi sparsi per il mondo che stanno cercando delle risposte e delle cure per tutti coloro che, a distanza di anni, vivono ancora le conseguenze, talvolta molto gravi e invalidanti, dell’infezione da COVID-19”.
Testo e foto dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano sullo studio multicentrico sul Long COVID che indaga il ruolo dell’istamina, rivelando una possibilità di cura dai farmaci antistaminici e antiulcera.
RICERCA SUI TUMORI, PREMIATA L’ECCELLENZA DI UNITO: DAL MUR UN FINANZIAMENTO DI 8 MILIONI PER STUDIARE I MECCANISMI DI RESISTENZA AI FARMACI ANTI-NEOPLASTICI
Il Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino riconosciuto Dipartimento di Eccellenza dal Ministero dell’Università e della Ricerca. Martedì 5 settembre presentazione del Progetto “DIORAMA” per combattere la resistenza dei tumori ai farmaci anti-neoplastici con l’obiettivo di aumentare l’aspettativa e migliorare la qualità di vita dei pazienti oncologici.
Il Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino è stato riconosciuto Dipartimento di Eccellenza dal Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR) e ha ricevuto un finanziamento straordinario di circa 8 milioni di euro per il quinquennio 2023-2027 con l’obiettivo di rafforzare e valorizzare l’eccellenza della ricerca tramite investimenti in capitale umano, infrastrutture e attività didattiche di alta qualificazione.
Martedì 5 settembre, alle ore 10.00 presso l’Ospedale San Luigi Gonzaga di Orbassano in Aula Pescetti si terrà il kick-off meeting del Progetto Dipartimenti di Eccellenza intitolato “DIORAMA – Dinamiche evolutive in campioni vitali di pazienti Oncologici per Ricerche Avanzate sui Meccanismi di progressione metastatica e di resistenza alle terapie Antineoplastiche”.
Il progetto si propone di studiare i meccanismi di resistenza ai farmaci anti-neoplastici messi in atto dai tumori e in particolarela presenza di lesioni genetiche multiple che si sostituiscono al bersaglio della terapia mirata per sostenere la proliferazione tumorale e l’innesco di segnali adattativi di sopravvivenza che contrastano l’azione del trattamento. Per indagare queste due facce della resistenza alle terapie, il Dipartimentosfrutterà una risorsa caratterizzante: una collezione di centinaia di campioni tumorali da paziente, raccolti in forma vitale e coltivati sotto forma di organoidi tridimensionali che racchiudono tutte le caratteristiche dei tumori originali donati dai pazienti. Come il diorama è una rappresentazione in miniatura di un paesaggio, così l’organoide è una replica fedele, propagabile in laboratorio, di un tumore che cresce e si sviluppa in un essere umano. DIORAMA si concentra su tre tipi di tumore estremamente diffusi: il cancro del colon, il cancro del polmone e il cancro della prostata. Lavorando sugli organoidi, i ricercatori e i medici del Dipartimento di Oncologia esploreranno nuove strade per migliorare la risposta alle terapie esistenti e identificheranno nuove vulnerabilità da bersagliare con farmaci di ultima generazione, con ricadute dirette sulla aspettativa e qualità di vita dei pazientioncologici.
La giornata sarà aperta dal Direttore del Dipartimento, Prof. Federico Bussolino; proseguirà con interventi dedicati a illustrare il progetto DIORAMA, coordinato dal Prof. Livio Trusolino, e si chiuderà con un dibattito finale a cura dei Proff. Jan Paul Medema, Pasquale Rescigno e Gabriella Sozzi (componenti del comitato scientifico dei revisori) con la partecipazione di Federico Bussolino, Livio Trusolino e Silvia Novello (vice-direttore alla Ricerca del Dipartimento).
Testo e immagini dall’Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino
Lanciato verso la Stazione Spaziale Internazionale l’esperimento ZePrion, che avrà il compito di confermare il meccanismo molecolare alla base di un innovativo protocollo farmaceutico per contrastare le malattie da prioni. Sviluppato da un gruppo internazionale di ricercatori, tra cui le scienziate e gli scienziati italiani delle università di Milano-Bicocca e Trento, della Fondazione Telethon, dell’INFN Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e dell’Istituto di Biologia e Biotecnologia Agraria del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR-IBBA), l’esperimento potrebbe avere ricadute importanti anche per altre malattie.
Un esperimento lanciato con successo oggi, mercoledì 2 agosto 2023, verso la Stazione Spaziale Internazionale (ISS), potrebbe portare ad una validazione del meccanismo di funzionamento di un protocollo del tutto innovativo per lo sviluppo di nuovi farmaci contro gravi malattie neurodegenerative e non solo. Frutto di una collaborazione internazionale che coinvolge diversi istituti accademici e l’azienda israeliana SpacePharma, l’esperimento ZePrion vede un fondamentale contributo dell’Italia attraverso l’Università Milano-Bicocca, l’Università di Trento, la Fondazione Telethon, l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), e l’Istituto di Biologia e Biotecnologia Agraria del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR-IBBA). Decollato con la missione spaziale robotica di rifornimento NG-19 dalla base di Wallops Island, in Virginia (USA), ZePrion si propone di sfruttare le condizioni di microgravità presenti in orbita per verificare la possibilità di indurre la distruzione di specifiche proteine nella cellula, interferendo con il loro naturale meccanismo di ripiegamento (folding proteico). L’arrivo di NG-19 e ZePrion sulla ISS è previsto per venerdì 4 agosto, quando in Italia saranno all’incirca le 8:00.
Il successo dell’esperimento ZePrion fornirebbe un possibile modo per confermare il meccanismo molecolare alla base di una nuova tecnologia di ricerca farmacologica denominata Pharmacological Protein Inactivation by Folding Intermediate Targeting (PPI-FIT), sviluppata da due ricercatori delle Università Milano-Bicocca e di Trento e dell’INFN. L’approccio PPI-FIT si basa sull’identificazione di piccole molecole (dette ligandi), in grado di unirsi alla proteina che costituisce il bersaglio farmacologico durante il suo processo di ripiegamento spontaneo, evitando così che questa raggiunga la sua forma finale.
“La capacità di bloccare il ripiegamento di specifiche proteine coinvolte in processi patologici apre la strada allo sviluppo di nuove terapie per malattie attualmente incurabili”,
spiega Pietro Faccioli, professore dell’Università Milano-Bicocca, ricercatore dell’INFN, coordinatore dell’esperimento e co-inventore della tecnologia PPI-FIT.
Un tassello finora mancante per la validazione della tecnologia è la possibilità di ottenere un’immagine ad alta risoluzione del legame tra le piccole molecole terapeutiche e le forme intermedie delle proteine bersaglio (quelle che si manifestano durante il ripiegamento), in grado di confermare in maniera definitiva l’interruzione del processo di ripiegamento stesso. In genere, questo tipo di immagine viene ottenuta analizzando con una tecnica chiamata cristallografia a raggi X cristalli formati dal complesso ligando-proteina. Nel caso degli intermedi proteici, però, gli esperimenti necessari non sono realizzabili all’interno dei laboratori sulla Terra, in quanto la gravità genera effetti che interferiscono con la formazione dei cristalli dei corpuscoli composti da ligando e proteina, quando questa non abbia ancora raggiunto la sua forma definitiva. Questo ha spinto le ricercatrici e i ricercatori della collaborazione ZePrion a sfruttare la condizione di microgravità che la Stazione Spaziale Internazionale mette a disposizione.
“Esiste infatti chiara evidenza che la microgravità presente in orbita fornisca condizioni ideali per la creazione di cristalli di proteine”, illustra Emiliano Biasini, biochimico dell’Università di Trento e altro co-inventore di PPI-FIT, “ma nessun esperimento ha provato fino ad ora a generare cristalli di complessi proteina-ligando in cui la proteina non si trovi in uno stato definitivo”.
Esattamente quanto si propone di fare l’esperimento ZePrion, lavorando in modo specifico sulla proteina prionica, balzata tristemente agli onori della cronaca negli anni Novanta durante la crisi del ‘morbo della mucca pazza’. Questa malattia è infatti causata da una forma alterata della proteina prionica chiamata prione, coinvolta in gravi malattie neurodegenerative dette appunto ‘da prioni’ tra le quali la malattia di Creutzfeld-Jakob o l’insonnia fatale familiare.
“Anche grazie al sostegno di Fondazione Telethon, che da sempre supporta le mie ricerche per individuare nuove terapie contro queste malattie, abbiamo l’opportunità di validare del meccanismo di funzionamento della tecnologia PPI-FIT, che potrebbe rappresentare veramente un punto di svolta in questo settore”, aggiunge Biasini.
“In orbita sarà possibile generare cristalli formati da complessi tra una piccola molecola e una forma intermedia della proteina prionica, che in condizioni di gravità ‘normale’ non sarebbero stabili. Questi cristalli potranno poi essere analizzati utilizzando la radiazione X prodotta con acceleratori di particelle, per fornire una fotografia tridimensionale del complesso con un dettaglio di risoluzione atomico. Campioni non cristallini ottenuti alla SSI verranno inoltre analizzati per Cryo-microscopia Elettronica di trasmissione (Cryo/EM)”, sottolinea Pietro Roversi, ricercatore CNR-IBBA.
ZePrion si compone di un vero e proprio laboratorio biochimico in miniatura (lab-in-a-box) realizzato da SpacePharma, che opererà a bordo della Stazione Spaziale Internazionale e verrà controllato da remoto. Oltre alla componente italiana, la collaborazione ZePrion si avvale della partecipazione delle scienziate e degli scienziati dell’Università di Santiago di Compostela.
Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca.