News
Ad
Ad
Ad
Tag

farmaco

Browsing

Dalla guerra alla speranza

Le immagini provenienti dall’Ucraina mostrano, purtroppo da mesi, sofferenza e distruzione. Una situazione ancora più gravosa se si è malati. A volte, però, vi è speranza. Nel marzo scorso, quando la guerra imperversava su più fronti del territorio ucraino, due sorelle trentenni, affette da epidermolisi bollosa, sono riuscite a fuggire e a salvarsi, grazie all’associazione “Le Ali di Camilla”. Sono giunte a Modena, per essere assistite nelle cure di cui hanno bisogno presso il Policlinico cittadino, un’eccellenza internazionale per questa malattia rara. L’associazione, dal luglio 2019, aiuta i pazienti che si recano a Modena per le cure, supporta la ricerca scientifica sulla patologia e fa parte dell’Alleanza Malattie Rare (AMR). Inoltre, è impegnata nell’invio di farmaci e medicazioni all’estero, su richiesta delle associazioni locali coordinate da Debra International (l’associazione internazionale di raccordo tra tutte le associazioni locali che nei vari Stati supportano le famiglie dei pazienti), e nel trasferimento e accoglienza delle famiglie che hanno lasciato l’Ucraina per venire in Italia. Il supporto non è stato solo sanitario: in poco tempo, diverse associazioni locali e comuni cittadini si sono attivati per accogliere.

Immagine di Elena Mozhvilo

Epidermolisi bollosa

L’epidermolisi bollosa (EB) è una malattia genetica ereditaria, rara e invalidante, che provoca eruzione cutanea grave con vescicole e cicatrizzazione, e lesioni delle mucose interne (comprese quelle della bocca, della gola, degli occhi e dell’ano). Queste si verificano spontaneamente o a causa di una lieve frizione. La patologia è più nota come “sindrome dei bambini farfalla” perché i pazienti sono molto fragili come le ali di una farfalla.

L’epidermolisi bollosa può trasmettersi secondo due modalità: la prima è autosomica dominante, cioè un genitore malato ha il 50% di probabilità di trasmettere la patologia alla progenie; la seconda è autosomica recessiva, ossia genitori portatori sani della malattia avranno il 25% di probabilità di avere un figlio malato (è possibile la diagnosi prenatale in gravidanza). A livello mondiale, la prevalenza è 1:17.000 nati, mentre in Italia 1:82.000. La più recente classificazione distingue quattro tipologie principali della malattia, a seconda del gene mutato: simplex, distrofica, giunzionale e Kindler. La forma meno grave, responsabile di più del 50% dei casi, è la variante simplex, perché le bolle si formano più spesso solo a livello delle mani e dei piedi. Invece, la forma distrofica è causata dal danneggiamento o dall’assenza di placche di ancoraggio, costituite da una proteina chiamata collagene di tipo VII, presenti nelle giunzioni tra epidermide e derma, e che mantengono adese le cellule fra loro. In tal caso la formazione di bolle è generalizzata, costante e lascia cicatrici. La forma giunzionale può essere letale fin dalla prima infanzia, poiché le lesioni lasciano la persona esposta agli agenti esterni e, quindi, particolarmente suscettibile di infezioni. Infine, nella EB di Kindler le lesioni, indotte da azione meccanica, si possono formare in diversi strati della pelle. 

La diagnosi consiste nell’’osservazione clinica, seguita dalla biopsia della pelle, e dai test genetici di conferma.

Epidermolisi bollosa
Immagine di Alfred Schrock

Il primo farmaco specifico per la EB

Il primo trattamento autorizzato per la EB e Filsuvez della Amryt Pharmaceuticals DAC. È un gel per uso topico, cioè l’azione farmacologica si esplica direttamente sulla cute o la mucosa dove è applicata, per il trattamento di ferite che interessano gli strati superiori della pelle. Tale farmaco, qualificato come “medicinale orfano” (cioè utilizzato nelle malattie rare) è indicato per pazienti con malattia in forma giunzionale o distrofica. Filsuvez contiene un estratto secco di due specie di corteccia di betulla costituita da sostanze presenti in natura denominate triterpeni.

Il più ampio studio globale mai condotto su pazienti affetti da EB è lo quello di Fase III EASE, condotto su 223 pazienti. Il 41% dei soggetti trattati con Filsuvez e con la medicazione ha mostrato un recupero completo della ferita entro 45 giorni, rispetto a coloro che che hanno ricevuto un trattamento fittizio e la medicazione (29%). Dopo 90 giorni non è stata osservata alcuna differenza rispetto al gel di controllo. Pur essendo modesti, gli effetti sono stati considerati clinicamente significativi per i pazienti con forma distrofica e giunzionale. Inoltre, il medicinale ha evidenziato un profilo di sicurezza accettabile, con effetti indesiderati localizzati e gestibili. Pertanto l’Agenzia europea per i medicinali (EMA) ha deciso che i benefici di Filsuvez sono superiori ai rischi e che il suo uso può essere autorizzato nell’UE.

Immagine di Diana Polekhina

La terapia genica per l’epidermolisi bollosa giunzionale

Negli ultimi anni le prospettive di cura non hanno riguardato solo lo sviluppo di nuovo farmaci: la terapia genica ha mostrato che i bambini farfalla possono essere curati. Gli studi del professor Michele De Luca e della professoressa Graziella Pellegrini del Centro di Medicina rigenerativa “Stefano Ferrari” hanno aperto la strada ad un campo di ricerca in continua crescita. La ricerca italiana di Holostem e di altre realtà accademiche e cliniche europee ha permesso di mettere a punto una terapia genica utile per l’EB giunzionale. È ormai entrato nella storia della medicina il caso del piccolo rifugiato siriano Hassan, accolto in Germania insieme alla sua famiglia nel 2015. Il paziente mostrava gravi danni alla pelle, esponendolo ad un elevato rischio di morte. I ricercatori italiani prelevarono parte delle sue cellule staminali e le coltivarono in laboratorio con l’intento di correggere il difetto genetico e ottenere una nuova pelle. Tale approccio è detto terapia genica ex-vivo, ossia prevede l’allestimento di colture autologhe – ovvero dello stesso paziente – di epidermide geneticamente corretta. Obiettivo raggiunto e terapia di successo: la nuova pelle fu reimpiantata con 3 operazioni allo University Children’s Hospital di Bochum e consentì di ricostruire diverse aree del corpo. Dal 2015 ad oggi, il bambino è stato seguito dal punto di vista clinico e, nel 2021, i risultati del follow-up biologico-molecolare sono stati pubblicati sul New England Journal of Medicine. Sono stati eseguiti test clinici, cellulari e molecolari, dimostrando, tra i numerosi parametri considerati, la ricostruzione del sistema immunitario della pelle e un adeguato livello di idratazione delle stesse aree con la presenza di ghiandole sebacee e sudoripare. Inoltre, il trattamento si è dimostrato sicuro, confermando i risultati ottenuti in vitro in oltre 30 anni di ricerca di base.

Immagine di Rossoporpora, CC BY-SA 3.0

La terapia genica per l’epidermolisi bollosa distrofica

Il gene COL7A1, responsabile della produzione della proteina collagene di tipo VII, è mutato nei pazienti affetti da EB distrofica. I ricercatori della Stanford University School of Medicine hanno sviluppato una terapia genica “in vivo” per correggere il difetto. Beremagene geperpavec è una terapia genica non invasiva, applicata come un “gel” ad uso topico. Alla base del trattamento vi è virus modificato (Herpes simplex virus) che contiene il gene corretto per fornire alle cellule della pelle del paziente “uno stampo” da cui produrre la proteina. Al termine degli studi di fase I e II, la terapia genica si è dimostrata sicura ed efficace nel promuovere la guarigione delle lesioni. I risultati positivi hanno dato il via allo studio di fase III prima dell’eventuale commercializzazione.

Sebbene la strada verso la completa guarigione dei diversi e numerosi casi di epidermolisi bollosa sia lunga, la ricerca di base si conferma un tassello fondamentale per la medicina translazionale. Modena è sempre più un punto di riferimento nazionale e internazionale per la medicina rigenerativa avanzata basata su colture di cellule staminali epiteliali per terapia cellulare e genica per pazienti privi di alternative terapeutiche.

Immagine di Braňo

Fonti:

 

epidermolisi bollosa
Immagine di Thomas Kinto

ATTUALI FARMACI E NUOVE MUTAZIONI DEL SARS-COV-2 

LO STUDIO COMPUTAZIONALE DELL’UNIVERSITÀ DI PADOVA

Tutti i mutanti che hanno sperimentalmente dimostrato una riduzione di attività nei confronti dei farmaci antivirali analizzati sono stati correttamente “predetti” dalla ricerca computazionale della Sezione di Modellistica Molecolare del Dipartimento di Scienze del Farmaco dell’Università di Padova

Una delle domande più insidiose nell’ambito del trattamento terapeutico antivirale di SARS-CoV-2 è relativa a quanto gli attuali farmaci in uso possano essere efficaci sulle nuove mutazioni che la “macchina virale” potrebbe mettere in campo nel corso del tempo.

Per rispondere al quesito il gruppo di ricerca internazionale coordinato dalla prof.ssa Dorothee von Laer della Divisione di Virologia della Innsbruck Medical University ha pensato di precorrere i tempi andando a costruire in laboratorio tutte le possibili variazioni (mutazioni) di una delle proteine bersaglio di una importante famiglia di farmaci antivirali contro la proteasi principale del virus, denominata 3CLpro.

Attuali farmaci e nuove mutazioni del SARS-CoV-2; lo studio computazionale dell'Università degli Studi di Padova
Immagine di Gerd Altmann

L’efficacia dei farmaci in uso, come nirmatrelvir o ensitrelvir, è stata quindi determinata sperimentalmente per anticipare quali, tra le possibili nuove mutazioni, potrebbe ridurre o eliminare la loro efficacia terapeutica. Alla ricerca dal titolo “SARS-CoV-2 3CLpro mutations selected in a VSV-based system confer resistance to nirmatrelvir, ensitrelvir, and GC376” pubblicata su «Science Translational Medicine» ha partecipato la Sezione di Modellistica Molecolare del Dipartimento di Scienze del Farmaco dell’Università di Padova, coordinata dal Professor Stefano Moro,  che ha come missione lo sviluppo e l’applicazione di metodologie informatico-computazionali con l’obiettivo principale di supportare la progettazione, identificazione e ottimizzazione di nuovi candidati farmaci.

Parallelamente al lavoro sperimentale svolto dai colleghi austriaci, il gruppo di ricerca padovano ha effettuato lo stesso studio utilizzando delle tecniche computazionali: sia tutti i mutanti della proteina 3CLpro che le loro interazioni con i farmaci antivirali sono stati simulati con l’obiettivo di avere un riscontro sulla capacità predittiva di questi metodi che consentirebbero, qualora si dimostrassero accurati, una importante riduzione dei tempi di accesso a queste informazioni ed una conseguente riduzione dei costi della ricerca.

Un importante risultato ottenuto da questo studio è che tutti i mutanti che hanno sperimentalmente dimostrato una riduzione di attività nei confronti dei farmaci antivirali analizzati sono stati correttamente predetti dallo studio computazionale padovano, consentendo inoltre di interpretarne a livello molecolare le motivazioni analizzando le singole interazioni tra farmaco e proteina che venivano a modificarsi nei vari mutanti.

«La buona capacità predittiva dei metodi computazionali utilizzati in questo studio – dicono gli autori del team del Dipartimento di Scienze del Farmaco Matteo Pavan, Davide Bassani e Stefano Moro – apre alla possibilità del loro utilizzo anche per altri bersagli molecolari di interesse terapeutico, per i quali l’aspetto della resistenza rappresenta un problema clinico rilevante, fornendo un supporto alle tecniche sperimentali di biologia molecolare e biochimica utilizzate di routine nella identificazione di nuovi candidati farmaci».

La Sezione di Modellistica Molecolare del Dipartimento di Scienze del Farmaco dell’Università di Padova che ha come missione lo sviluppo e l’applicazione di metodologie informatico-computazionali con l’obiettivo principale di supportare la progettazione, identificazione e ottimizzazione di nuovi candidati farmaci. Esso costituisce l’interfaccia tra i laboratori biologici/farmacologici e chimici del Dipartimento aggiungendo le proprie competenze computazionali in base alle necessità di sintesi organica, fitochimica, biochimica, biologia molecolare e farmacologia. L’obiettivo è quello di affrontare i problemi della chimica medicinale e della medicina in collaborazione con gli esperti del settore sviluppando nuove strategie per la progettazione e la scoperta di farmaci integrando informatica, chimica, biologia e medicina. Attualmente MMS utilizza strategie chimiche e strutturali per comprendere i meccanismi di base delle malattie umane e scoprire una nuova generazione di farmaci.

Link alla ricerca: https://www.science.org/doi/10.1126/scitranslmed.abq7360

Titolo: “SARS-CoV-2 3CLpro mutations selected in a VSV-based system confer resistance to nirmatrelvir, ensitrelvir, and GC376” – «Science Translational Medicine» 2022

Autori: Emmanuel Heilmann, Francesco Costacurta, Arad Moghadasi, Chengjin Ye, Matteo Pavan, Davide Bassani, Andre Volland, Claudia Ascher, Alexander Kurt, Hermann Weiss, David Bante, Reuben S. Harris, Stefano Moro, Bernhard Rupp, Luis Martinez-Sobrido and Dorothee von Laer.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Padova

UN GEL LUBRIFICANTE A BASE DI MUCO ANIMALE EFFICACE CONTRO LE INFEZIONI VIRALI

La scoperta del KTH Royal Institute of Technology di Stoccolma, in collaborazione con l’Università di Torino, potrebbe essere la risposta alle malattie sessualmente trasmissibili come Herpes e HIV

Una ricerca del KTH Royal Institute of Technology di Stoccolma, condotta in collaborazione con Sonia Visentin e Cosmin Stefan Butnarasu del Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute dell’Università di Torino, ha sviluppato un gel sintetico a base di muco bovino in grado di ridurre in vitro del 70% la virulenza del virus HIV-1 e dell’80% quella dell’HSV-2.

Una mucca - Un gel lubrificante a base di muco animale efficace contro infezioni virali come HIV-1 e HSV-2, lo studio pubblicato su Advanced Science
Un gel lubrificante a base di muco animale efficace contro infezioni virali come HIV-1 e HSV-2, lo studio pubblicato su Advanced Science. Foto di Ulrike Leone

I risultati sono stati pubblicati il 14 settembre su Advanced Science. Oltre a KTH e UniTo, al progetto hanno contribuito anche ricercatori del Technical University of Munich (TUM) e del Karolinska Institutet (KI). Il gel sviluppato dai ricercatori deriva dalla mucina, la principale glicoproteina del muco che riveste tutte le superfici umide del nostro organismo. Le molecole di mucina possono legarsi e formare un gel tridimensionale in grado di intrappolare le particelle virali, eliminandole successivamente attraverso il naturale ricambio del muco.

“Il gel sviluppato – dichiara Hongji Yan, ricercatore del KTH e leader del progetto – replica la funzione di autorigenerazione, proprietà fondamentale del materiale che consente la lubrificazione e la profilassi del muco contro le infezioni. La ragione per cui il gel sintetico è così efficace nel ridurre la virulenza di HIV e HSV, senza il rischio di effetti collaterali o sviluppo di resistenza come con altri composti antivirali, deriva dalla naturale complessità delle mucine. Tali proprietà sarebbero difficili da ottenere con un tipo di polimero diverso dalle mucine. Inoltre, le mucine utilizzate per sintetizzare il gel riducono anche l’attivazione delle cellule immunitarie, le quali, quando attivate, facilitano la replicazione e la diffusione dell’HIV”.

“Da tempo nei nostri laboratori UniTo ci occupiamo di mucine in ambito farmaceutico. Lo studio, condotto in collaborazione con i ricercatori del KTH, è un’ulteriore prova delle potenzialità che le mucine possono avere in ambito biomedico – aggiunge Sonia Visentin, docente del Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute UniTo. Oltre all’applicazione in ambito antivirale, il nostro laboratorio studia anche l’impatto che la mucina esercita sull’attività dei farmaci, ma anche il suo utilizzo come veicolo per principi attivi. Negli ultimi decenni la ricerca globale ha permesso di comprendere meglio la struttura e le funzioni di questa proteina. Solo recentemente però si è capito l’enorme versatilità che la mucina ha in ambito farmaceutico e biotecnologico”.

Dal punto di vista applicativo il gel potrebbe aiutare molte persone a gestire un maggiore controllo sulla propria attività sessuale, salvaguardando la salute ed esponendo a minori rischi. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS)ogni giorno più di 1 milione di malattie sessualmente trasmissibili vengono acquisite in tutto il mondo e la maggior parte di esse sono asintomatiche. L’AIDS, la malattia causata dall’HIV, rimane ad oggi un’epidemia globale contando più di 1.5 milioni di casi nel solo 2021.

 

Testo dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino

Terapia innovativa contro il cancro alla prostata. Via libera dell’Aifa

Il progetto TITAN, in cui la Sapienza è stata centro coordinatore per l’Italia, ha individuato un nuovo trattamento per il tumore alla prostata metastatico. Dopo gli enti regolatori europeo e americano, anche l’Aifa ne ha approvato la prescrivibilità e la rimborsabilità.

 

Il carcinoma della prostata è il tumore più frequente nell’uomo ed è difficile da diagnosticare soprattutto nelle fasi iniziali. Infatti, non è individuabile con una semplice ecografia, ma occorrono visite urologiche approfondite e il monitoraggio periodico dell’antigene prostatico specifico (PSA), un enzima che ha la funzione di mantenere la fluidità del liquido seminale e la cui quantità aumenta in caso di tumore alla prostata.

Il progetto TITAN, coordinato in Sapienza e per l’Italia da Alessandro Sciarra del Dipartimento Materno Infantile e Scienze Urologiche, ha dimostrato i vantaggi di una nuova terapia sistemica con apalutamide per il trattamento del carcinoma alla prostata metastatico. Questa ricerca multicentrica e internazionale è stata oggetto di diverse pubblicazioni sulla prestigiosa rivista New England Journal of Medicine.

Ora anche l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha approvato la nuova terapia, dopo la validazione dell’ente statunitense Food and Drug Administration (FDA) e dell’Agenzia europea per i medicinali (Ema) prevedendo l’uso dell’apalutamide, un composto in grado di inibire gli effetti biologici degli androgeni.

“Circa il 15 % dei tumori della prostata – spiega Alessandro Sciarra, – si presenta alla prima diagnosi già in fase metastatica e il 20% progredisce più o meno lentamente con lo sviluppo di metastasi dopo i trattamenti primari. Lo studio TITAN ha introdotto una modalità di trattamento di questo carcinoma alternativa alla classica terapia con la sola castrazione farmacologica. Ciò ha prodotto un significativo vantaggio per i pazienti sia in termini di sopravvivenza globale, che riguardo alla qualità di vita”.

Oltre a rallentare la progressione del tumore, prolungando la sopravvivenza dei pazienti, questo nuovo schema terapeutico ha un’ottima tollerabilità e una gestione del clinico relativamente semplice.

“Con la recente approvazione da parte degli enti regolatori Ema ed Aifa, questo nuovo trattamento – continua Alessandro Sciarra – può essere oggi prescritto e rimborsato, accedendo alle farmacie ospedaliere degli enti che hanno in carico i pazienti”.

“I risultati ottenuti con questo progetto permettono – conclude Alessandro Sciarra – di implementare le possibilità terapeutiche del paziente con carcinoma alla prostata metastatico e ormone-sensibile, sia alla prima diagnosi che progressivo, e rappresentano quindi un’alternativa vantaggiosa alle attuali terapie”.

 

ospedale terapia cancro alla prostata
Terapia innovativa contro il cancro alla prostata. Foto di tahabaz

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma sul via libera dell’AIFA, l’Agenzia italiana del farmaco, che ha approvato la nuova terapia che prevede l’uso di apalutamide per il trattamento del cancro alla prostata, dopo la validazione dell’ente statunitense Food and Drug Administration (FDA) e dell’Agenzia europea per i medicinali (Ema).

TUMORE AL PANCREAS, SCIENZIATI DI UNITO IDENTIFICANO UN NUOVO MARCATORE PER INDIRIZZARE MEGLIO LE TERAPIE

Lo studio pre-clinico pubblicato dalla prestigiosa rivista internazionale Gut dimostra come PI3K-C2γ giochi un ruolo chiave nello sviluppo di uno dei tumori attualmente più aggressivi

 

Un nuovo studio preclinico, svolto al Centro di Biotecnologie Molecolari “Guido Tarone” dell’Università di Torino, ha reso possibile la scoperta di una nuova terapia focalizzata per un sottogruppo di pazienti affetti da neoplasia maligna del pancreas. Il gruppo di ricerca guidato dalla Prof.ssa Miriam Martini e dal Prof. Emilio Hirsch ha dimostrato che la proteina PI3K-C2γ gioca un ruolo chiave nello sviluppo del tumore al pancreas. L’indagine scientifica ha permesso di far luce sui meccanismi di sviluppo di questo tumore e potrebbe consentire, in futuro, di massimizzare l’efficacia delle attuali opzioni terapeutiche di uno dei tumori attualmente più aggressivi.

Emilio Hirsch cause invecchiamento
Emilio Hirsch

In Italia, ogni anno vengono diagnosticati circa 13.000 nuovi casi di tumore al pancreas e la percentuale di sopravvivenza a 5 anni è meno del 10%. Si prevede che, entro il 2030, il tumore al pancreas diventi la seconda causa di morte oncologica. La gravità e la mancanza di trattamenti efficaci rendono necessari studi per la ricerca di nuove terapie e marcatori che possano aiutare a scegliere il farmaco più efficace. Per poter crescere, le cellule tumorali hanno bisogno di nutrienti e fonti d’energia.

proteina tumore del pancreas
Tumore al pancreas, un nuovo marcatore per indirizzare meglio le terapie. Anatomia del pancreas. Immagine BruceBlaus, Blausen.com staff. “Blausen gallery 2014”. Wikiversity Journal of Medicine. DOI:10.15347/wjm/2014.010. ISSN 20018762. – CC BY-SA 3.0

L’aggressività del tumore al pancreas è dovuta alla capacità di adattarsi in condizioni avverse, come ad esempio la scarsità di nutrienti e fonti energetiche, che vengono sfruttate dalle cellule per sopravvivere. Recentemente, sono stati sviluppati dei farmaci che impediscono l’utilizzo di tali nutrienti, come ad esempio la glutammina.

PI3K-C2γ controlla la via di segnalazione intracellulare di mTOR, che regola il metabolismo e la crescita della cellula, e influisce sull’utilizzo della glutammina per favorire la progressione tumorale. Nel tumore al pancreas, la proteina PI3K-C2γ non è presente in circa il 30% dei pazienti, i quali sviluppano una forma maggiormente aggressiva della malattia

La Dott.ssa Maria Chiara De Santis, primo autore dello studio pubblicato sulla prestigiosa rivista internazionale Gut, ha dimostrato che la perdita di PI3K-C2γ accelera lo sviluppo del tumore, ma allo stesso tempo rende più sensibili a farmaci che colpiscono mTOR e all’utilizzo della glutammina.

Lo studio guidato dagli scienziati di UniTo è stato frutto di un intenso lavoro di collaborazione con gruppi nel territorio italiano ed internazionale, tra cui quelli del Prof. Francesco Novelli, Prof.ssa Paola Cappello e Prof. Paolo Ettore Porporato (Università di Torino), Prof. Andrea Morandi (Università di Firenze), Prof. Vincenzo Corbo e Prof. Aldo Scarpa (Università di Verona), Prof. Gianluca Sala e Prof. Rossano Lattanzio (Università di Chieti) e Prof.ssa Elisa Giovannetti (Università di Amsterdam e Fondazione Pisana per la Scienza).

 

Testo dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino

Una nuova opzione terapeutica combatte efficacemente le complicanze cardiache e renali del diabete: gli effetti benefici sono diversi in base al sesso

Per la prima volta uno studio clinico coordinato dalla Sapienza rivela che l’uso quotidiano di tadalafil – un farmaco attualmente utilizzato per la disfuzione erettile – migliora la situazione cardiaca di pazienti diabetici solo di sesso maschile, mentre favorisce la funzione immunitaria e renale sia negli uomini che nelle donne. I risultati di questa ricerca sono pubblicati sulla rivista Science Translational Medicine.

Uomini e donne non rispondono allo stesso modo ai farmaci. Nonostante, siano ben riconosciute le differenze fra i due sessi in diverse patologie, ad esempio in quelle cardiovascolari, per anni gli studi clinici hanno trascurato questo aspetto anche in termini di progettazione degli studi stessi, coinvolgendo prevalentemente pazienti di sesso maschile.

opzione terapeutica complicanze cardiache e renali diabete
Una nuova opzione terapeutica combatte efficacemente le complicanze cardiache e renali del diabete: gli effetti benefici sono diversi in base al sesso. Credits: Andrea Isidori

Per la prima volta uno studio randomizzato, placebo controllato, è stato espressamente disegnato per studiare le differenze di sesso in pazienti diabetici, maschi e femmine, con cardiomiopatia diabetica, nella risposta al tadalafil, un farmaco testato inizialmente come vasodilatatori per combattere alcune patologie cardiovascolari e attualmente utilizzato per combattere la disfunzione erettile.

Accade spesso nella ricerca scientifica che un farmaco testato contro una malattia si dimostri efficace anche contro altre. È stato il caso degli inibitori della fosfodiesterasi di tipo 5 (PDE5i), come Viagra e Cialis. Per questo motivo, l’indicazione dei PDE5i virò al campo andrologico, determinando la fine dell’interesse “commerciale” per la ricerca in ambito cardiovascolare.

Tuttavia il gruppo di ricerca, coordinato da Andrea Isidori del Dipartimento di Medicina sperimentale della Sapienza, ha evidenziato i potenziali benefici dei PDE5i anche nel trattamento delle complicanze del diabete, identificando coloro che potrebbero trarre giovamento da questa classe di farmaci: gli uomini affetti da problemi microvascolari correlati alla patologia (disfunzione erettile, cardiomiopatia, malattia renale) e le donne in menopausa a rischio per malattia renale, aprendo scenari interessanti sul ruolo degli estrogeni nel mediare gli effetti dei farmaci a livello cardiaco.

“L’efficacia in campo andrologico dei PDE5i – continua Andrea Isidori – ha attirato l’attenzione della comunità medica a tal punto da far ignorare il loro possibile utilizzo nelle donne. Abbiamo quindi insistito nel voler indagare altri target di questi farmaci. Dopo aver dimostrato l’efficacia dei PDE5i sul rimodellamento cardiaco in uomini diabetici, abbiamo messo insieme, attraverso una metanalisi, tutte le evidenze scientifiche, riscontrando differenze legate al sesso nelle popolazioni di studio. Successivamente abbiamo scoperto che anche i reni possono essere target dei PDE5i. Oggi, con questo nuovo lavoro, abbiamo infine dimostrato come gli effetti dei PDE5i siano sesso e tessuto specifici, rivelando il notevole potenziale di questi farmaci, specialmente nell’ambito della medicina di precisione”.

Lo studio, nato dalla collaborazione tra i dipartimenti di Medicina sperimentale, di Scienze cliniche internistiche, anestesiologiche e cardiovascolari, di Medicina traslazionale e di precisione, di Scienze radiologiche, oncologiche e anatomo-patologiche della Sapienza e l’IRCCS Neuromed di Pozzilli, l’Università Campus bio-medico di Roma, l’Ospedale Fatebenefratelli e l’Università di Cagliari, è stato pubblicato sulla rivista Science Translational Medicine.

Tramite un approccio multidimensionale, che ha sfruttato la risonanza magnetica cardiaca, l’imaging renale vascolare, il profilo immunitario e i vari pattern molecolari analizzati tramite digital-PCR, gli autori hanno studiato ogni componente tra i tanti possibili target della PDE5.

“Siamo sicuri – aggiunge Andrea Isidori – che sia la mancanza di estrogeni il motivo per cui le donne non sono riuscite a raggiungere il miglioramento cardiaco osservato negli uomini. Le aziende farmaceutiche dovrebbero considerare che le donne in pre-menopausa e quelle in post-menopausa possono rispondere in modo diverso ai farmaci e, quindi, dovrebbero essere adeguatamente rappresentate negli studi clinici”.

È importante sottolineare che questi risultati sono stati raggiunti a fronte di effetti collaterali trascurabili, con un farmaco molto economico e fuori brevetto. In ogni caso, è sempre necessaria una prescrizione da parte del personale medico che possa monitorare i potenziali effetti avversi di questa classe di farmaci e soprattutto l’interazione con altri farmaci assunti.

 “La prescrizione di una terapia farmacologica deve tener conto – spiegano i primi autori Riccardo Pofi ed Elisa Giannetta del Dipartimento di Medicina sperimentale della Sapienza – del sesso, della menopausa, dello stadio della malattia, delle terapie farmacologiche concomitanti e, perché no, anche del costo della terapia. Questa ricerca dimostra che i PDE5i sono una classe di farmaci sicura e ben tollerata, di cui non dobbiamo aver paura, oltre a essere economica e con effetti benefici ad oggi ancora sottostimati”.

Riferimenti:

Sex-specific effects of daily tadalafil on diabetic heart kinetics in RECOGITO, a randomized, double-blind, placebo-controlled trial – Riccardo Pofi, Elisa Giannetta, Tiziana Feola, Nicola Galea, Federica Barbagallo, Federica Campolo, Roberto Badagliacca, Biagio Barbano, Federica Ciolina, Giuseppe Defeudis, Tiziana Filardi, Franz Sesti, Marianna Minnetti, Carmine D. Vizza, Patrizio Pasqualetti, Pierluigi Caboni, Iacopo Carbone, Marco Francone, Carlo Catalano, Paolo Pozzilli, Andrea Lenzi, Mary Anna Venneri, Daniele Gianfrilli, Andrea M. Isidori – Science Translational Medicine (2022) http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.3745196


Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma sulla nuova opzione terapeutica per combattere le complicanze cardiache e renali del diabete

DIMOSTRATA L’INEFFICACIA DEL FARMACO ANTI-ALZHEIMER CON LA TECNICA STATISTICA DI ALAN TURING

La ricerca di due docenti UniTo che prova come il prodotto sviluppato dalla multinazionale Biogen sia inefficace contro la patologia neurodegenerativa

inefficacia farmaco Alzheimer
Dimostrata l’inefficacia del farmaco contro l’Alzheimer. Nell’immagine, neuroni.

 

È stata pubblicata martedì 31 maggio, sulla rivista Journal of Alzheimer’s Disease, la ricerca intitolata “A Bayesian Reanalysis of the Phase III Aducanumab (ADU) Trial”, realizzata dai Proff. Tommaso Costa e Franco Cauda del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Torino. Lo studio analizza l’efficacia dell’aducanumab (ADU), un farmaco prodotto dall’azienda farmaceutica Biogen per curare il morbo di Alzheimer. Grazie all’applicazione della statistica bayesiana, una tecnica già usata da Alan Turing per decifrare la macchina Enigma, i docenti UniTo hanno dimostrato che l’efficacia di ADU nel trattamento della patologia era molto bassa.

Tutto ha inizio nel 1999, quando alcuni ricercatori dimostrano che l’immunizzazione contro la produzione di placche di proteina beta-amiloide aveva invertito i deficit neurologici nei topi transgenici. Questa scoperta dà l’avvio a ricerche nel mondo accademico e nelle industrie farmaceutiche per sviluppare terapie di immunizzazione per il morbo di Alzheimer. A partire dal 2019, nonostante i risultati promettenti ottenuti nelle prime fasi dei trial clinici, i farmaci anti-immunizzazione falliscono nella fase III dei test e le principali sperimentazioni si interrompono. A causa del fallimento dei loro trial anche Biogen, la multinazionale americana di biotecnologie,  annuncia l’interruzione della sua sperimentazione di fase III del farmaco ADU. Alcuni mesi dopo però, dicembre 2019, a seguito di un ulteriore trial clinico, torna sui propri passi e dichiara la potenziale efficacia del farmaco ad alti valori di dosaggio.

I risultati vengono presentati in un incontro internazionale a San Diego (California) e la Biogen, basandosi su queste nuove evidenze, presenta nel luglio 2020 alla Food and Drug Administration (FDA) una nuova domanda per proseguire nello sviluppo del farmaco. Tuttavia, molti dubbi sull’efficacia di questo farmaco vengono sollevati nel mondo scientifico e della ricerca, in particolare dai ricercatori dell’Office of Biostatistics (OBS) della FDA, secondo i quali non erano state fornite prove sostanziali di efficacia del farmaco. I dubbi derivano dal fatto che i valori di significatività statistica sull’efficacia del farmaco sono al confine tra significativo e non significativo. Cioè i risultati statistici erano molto ambigui. Nonostante le osservazioni e raccomandazioni espresse dall’OBS, la FDA approva comunque il proseguimento dei trial clinici sul farmaco.

Il lavoro di Costa e Cauda si è proposto di rianalizzare i dati resi pubblici dalla Biogen per verificare se fosse possibile, utilizzando altre tecniche statistiche, ottenere evidenze scientifiche più forti sulla effettiva efficacia del farmaco. Gli unici dati e risultati disponibili della fase III purtroppo, non essendo stati rilasciati pubblicamente i dati grezzi, sono state le statistiche sommarie dei risultati dei trial clinici svolti presentati a San Diego. Per analizzare questo tipo di dati i docenti UniTo hanno applicato delle tecniche di statistica bayesiana, un tipo di statistica in cui l’evidenza su uno stato vero del mondo è espressa in termini di gradi di credibilità o più specificamente di probabilità. Si tratta di una tecnica già usata da Alan Turing negli anni ‘40 per decifrare la macchina Enigma, chiamata Fattore di Bayes (BF).Questo tipo di statistica costituisce un approccio diverso dalla statistica frequentista tradizionale, usata solitamente nell’accademia e anche nei trial clinici.

“Adottando questa tecnica – dichiara il Prof. Tommaso Costa – abbiamo potuto dimostrare che l’evidenza dell’efficacia del farmaco ADU, cioè la probabilità che funzioni come trattamento per la malattia di Alzheimer, è molto bassa. I risultati hanno mostrato che, contrariamente a ciò che ha affermato la Biogen, anche nella condizione ad alto dosaggio del farmaco, l’efficacia infatti è sempre bassa. Questo lavoro, insieme ad altri, ha dimostrato che la statistica bayesiana consente di superare difficoltà computazionali, fornire risultati in modo rapido e semplice e una puntuale interpretazione e valutazione dei risultati degli studi clinici che la rende molto promettente per lo sviluppo e la ricerca nel campo dei trial clinici”.

 

Testo e foto dall’Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

SARS-COV-2 E PATOLOGIE CARDIOVASCOLARI

Team di ricercatori dell’Università di Padova chiarisce non solo che l’angiotensina II aumenta ACE2, il recettore cellulare del virus SARS-CoV-2, ma promuove anche l’infezione delle cellule bronchiali

Un lavoro scientifico pubblicato su «International Journal of Molecular Sciences» dal titolo “Angiotensin II Promotes SARS‐CoV‐2 Infection via Upregulation of ACE2 in Human Bronchial Cells” dal gruppo di ricerca multidisciplinare dell’Università di Padova coordinato dal Prof. Gian Paolo Rossi del Dipartimento di Medicina ha chiarito perché l’infezione da virus SARS-CoV-2 determini una prognosi peggiore nei pazienti con patologie cardiovascolaricome l’ipertensione arteriosa e lo scompenso cardiaco. Tali pazienti presentano un’attivazione di uno dei più importanti sistemi che regolano la pressione arteriosa, il sistema renina-angiotensina.

Attraverso una serie di esperimenti su cellule bronchiali umane, utilizzando sia il virus SARS-CoV-2 che una serie di pseudovirus, i ricercatori sono riusciti a dimostrare, per la prima volta, non solo che l’angiotensina II aumenta ACE2, il recettore cellulare del virus SARS-CoV-2, ma promuove anche l’infezione delle cellule bronchiali.  Secondo i ricercatori ciò avviene attraverso il recettore AT1 dell’angiotensina II, e l’attivazione della proteasi TMPRSS2, il bersaglio dell’antivirale giapponese nafamostat, attualmente in sperimentazione presso l’Azienda Ospedale-Università di Padova.

Questo studio fornisce un contributo fondamentale alla comprensione del meccanismo attraverso il quale i farmaci bloccanti del sistema renina-angiotensina – ACE inibitori e sartani – contrastando gli effetti dell’angiotensina II abbiano un effetto protettivo nei riguardi dell’infezione e quindi non debbano essere sospesi nei pazienti che s’ammalano di Covid-19.

«Merito del gruppo interdisciplinare di ricerca non è stato solo quello di chiarire questi aspetti dell’infezione da Covid-19, che sono assai importanti per la scelta della terapia – afferma Gian Paolo Rossi nel commentare lo studio – ma anche quello di valorizzare vari giovani ricercatori come Ilaria Caputo, Brasilina Caroccia, Ilaria Frasson, Elena Poggio, Tito Calì e Stefania Zamberlan che con approcci diversi e complementari hanno lavorato sotto la guida dei Professori: Sara Ritcher, Marisa Brini, Teresa Seccia e Margherita Morpurgo, appartenenti a diversi Dipartimenti dell’Ateneo patavino».

SARS-COV-2 E PATOLOGIE CARDIOVASCOLARI
Gian Paolo Rossi

Lo studio è frutto del progetto di ricerca risultato vincitore di un bando competitivo nazionale promosso dalla Banca Intesa San Paolo di Torino.

 

Link alla ricerca: https://doi.org/10.3390/ijms23095125

Titolo: Angiotensin II Promotes SARS‐CoV‐2 Infection via Upregulation of ACE2 in Human Bronchial Cells – «International Journal of Molecular Sciences» – 2022

Autori: Ilaria Caputo, Brasilina Caroccia, Ilaria Frasson, Elena Poggio, Stefania Zamberlan, Margherita Morpurgo, Teresa M. Seccia, Tito Calì, Marisa Brini, Sara N. Richter e Gian Paolo Rossi

 

Testi e foto dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Padova

L’AUTOFAGIA MITOCONDRIALE È UN NUOVO TARGET MOLECOLARE PER CONTRASTARE IL FENOMENO DELLA RESISTENZA AI FARMACI PLATINANTI 

Team di ricercatori dell’Università di Padova e dell’Istituto Veneto di Medicina Molecolare (VIMM), coordinato dalla Prof.ssa Monica Montopoli e dalla Dott.ssa Marta Giacomello, ha dimostrato come la Mitofagia sia un processo chiave nel fenomeno della resistenza ai farmaci platinanti.

Monica Montopoli autofagia mitocondriale resistenza farmaci platinanti
Monica Montopoli

La ricerca “Cisplatin resistance can be curtailed by blunting BNIP3-mediated mithocondrial autophagy”, condotta dalla Dott.ssa Caterina Vianello e pubblicata sulla rivista “Cell, Death and Disease” riporta i risultati degli studi sul processo cellulare di degradazione autofagica selettiva dei mitocondri.

“Il cisplatino e i suoi derivati sono agenti chemioterapici utilizzati in prima linea nel trattamento di diversi tumori soldi, tra cui carcinomi ovarici e sarcomi – spiega la Prof.ssa Montopoli – Tuttavia, la resistenza a questi farmaci spesso ne impedisce l’efficacia terapeutica: comprendere i meccanismi molecolari alla base di questo fenomeno è quindi fondamentale per la ricerca sul cancro”.

Il team internazionale di ricercatori ha osservato in particolare che nell’osteosarcoma e nel carcinoma ovarico con fenotipo resistente, i livelli di mitofagia sono aumentati, causando cambiamenti anche nella morfologia mitocondriale e nella sua comunicazione con il reticolo endoplasmatico. Questi cambiamenti sono dovuti in particolare al recettore mitofagico BNIP3, particolarmente espresso nei diversi modelli sperimentali analizzati e incluso in dati clinici di pazienti affetti da cancro ovarico resistente ai trattamenti platinanti.

Alla luce di questa scoperta, i ricercatori hanno messo a punto un approccio farmacologico basato sull’utilizzo di due nuovi inibitori della proteina VSP34 che bloccano la formazione di autofagosomi, in combinazione con il cisplatino. Tale trattamento combinatorio si è dimostrato efficace nel sensibilizzare le cellule resistenti al chemioterapico, ponendo così le basi per lo sviluppo di una nuova strategia terapeutica atta a contrastare la resistenza al cisplatino nel carcinoma ovarico e nell’osteosarcoma.

“Grazie alla scoperta di questa correlazione tra mitofagia (ed in particolare BNIP3), e resistenza al cisplatino– conclude la Prof.ssa Montopoli– il nostro lavoro potrà fornire un possibile biomarcatore per individuare la resistenza al chemioterapico e dare avvio allo sviluppo di nuove strategie terapeutiche per contrastare la resistenza al cisplatino”.

 

Link all’articolo: https://doi.org/10.1038/s41419-022-04741-9

 

Monica Montopoli è Associate Investigator presso la Fondazione per la Ricerca Biomedica Avanzata Onlus – VIMM e Professore Associato in Farmacologia presso il Dipartimento di Scienze del Farmaco (Facoltà di Medicina) dell’Università di Padova. Direttrice di 2 corsi di alta formazione e docente di master di primo e secondo livello.


La sua attività di ricerca, finanziata da istituzioni pubbliche e aziende private, è documentata da più di 65 articoli peer-reviewed, oltre 100 partecipazioni a convegni nazionali ed internazionali. È tra i fondatori di Metabolism Meets Function (MMF) group, nato grazie alla collaborazione con altre due università. Il gruppo organizza congressi con Top scientist nel campo del metabolismo tumorale.

Testi e foto dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Padova sul nuovo studio che individua l’autofagia mitocondriale come nuovo target molecolare per contrastare la resistenza ai farmaci platinanti.

È TUTTA QUESTIONE DI METODO – Quello padovano per la progettazione di nuovi candidati farmaci è il migliore

A cavallo tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021 si è svolta SAMPL7 challenge, una competizione internazionale nella quale si sono confrontati gruppi di ricerca specializzati nell’uso di metodologie computazionali per la progettazione di nuovi candidati farmaci. Il focus della competizione era predire la modalità di interazione specifica (riconoscimento) tra piccole molecole organiche (frammenti) e le proteine coinvolte in una terapia.

Perché è importante sapere a priori come si comporteranno le molecole? In un processo di drug discovery, cioè l’individuazione di un nuovo efficace farmaco per combattere una malattia, le fasi sono sostanzialmente quelle di definire l’obiettivo (la malattia), identificare e validare il target (sia esso enzima, recettore, DNA o altro), identificare la molecola farmacologicamente promettente (Lead) e ottimizzare il lead in una molecola farmacologicamente attiva.

La particolare difficoltà è proprio data dal fatto che i composti di piccole dimensioni (frammenti) solitamente vengono ospitati in luoghi (cavità) molto più grandi di loro e quindi l’accuratezza predittiva del loro posizionamento è solitamente molto bassa. Se da un lato l’appetibilità farmaceutica di questi composti di piccole dimensioni è che, attraverso un’opportuna sintesi chimica, si possono far crescere facilmente per poi per essere trasformati in veri e propri candidati farmaci, dall’altro il collo di bottiglia consiste nel fatto che la modalità di crescita è sempre strettamente condizionata dal loro posizionamento iniziale.

Ad oggi tutte le tecniche sperimentalmente disponibili (cristallografia ai raggi X, risonanza magnetica nucleare NMR) richiedono tempi relativamente lunghi e alti costi importanti: possedere un metodo predittivo ad elevata accuratezza taglierebbe drasticamente tempi e costi.

metodo progettazione farmaci UniPD
È tutta questione di metodo, quello padovano per la progettazione di nuovi candidati farmaci è il migliore. Foto di gruppo: da sinistra Mattia Sturlese, Stefano Moro, Maicol Bissaro, Giovanni Bolcato, Matteo Pavan e Davide Bassani

La ricerca pubblicata sul «Journal of Computer-Aided Molecular Design» dal titolo “SAMPL7 protein-ligand challenge: A community-wide evaluation of computational methods against fragment screening and pose-predictionriconosce la metodologia SuMD (Supervised Molecular Dynamics) proposta dal Molecular Modeling Section (MMS) del Dipartimento di Scienze del Farmaco dell’Università di Padova come la migliore. Il risultato predittivo ipotizzato dal team padovano è stato confermato sperimentalmente attraverso la cristallografia ai raggi X.

La metodologia SuMD – Supervised Molecular Dynamics

«Le tecniche di dinamica molecolare classica si basano sulla capacità di simulare il comportamento di un sistema molecolare nel tempo. In particolare, nel nostro laboratorio – dice il Professor Stefano Moro, Direttore del Dipartimento di Scienze del farmaco dell’Università di Padova e del Molecular Modeling Section – abbiamo messo a punto una nuova tecnica di dinamica molecolare, detta supervisionata, che ci consente di simulare il processo di riconoscimento tra loro di due strutture molecolare. Perché è diverso dagli altri? Solitamente questo processo di riconoscimento è estremamente difficile da osservare con le tecniche di dinamica classica perché esse richiedono simulazioni molto lunghe e/o l’utilizzo di computer particolarmente potenti. Con la nostra tecnica supervisionata queste simulazioni hanno tempi molto più brevi e non necessitano di computer particolarmente potenti, mantenendo inalterata l’accuratezza predittiva».

Stefano Moro

I risultati dello studio pubblicato

Dopo l’analisi comparativa (il posizionamento previsto confrontato con quello osservato), gli autori della ricerca hanno sottolineato, non solo l’ottimo risultato della metodologia padovana SuMD, ma che la tecnica proposta è un unicum tra quelle presentate dagli altri gruppi di ricerca. Pur essendo al suo primo utilizzo nell’ambito del riconoscimento di frammenti, il report scientifico pubblicato ha certificato che SuMD è il migliore metodo in assoluto sia per quanto riguarda il numero di frammenti posizionati correttamente sia in termini di errore medio commesso nel loro posizionamento. La metodologia SuMD è stata sviluppata da Maicol Bissaro, Giovanni Bolcato, Matteo Pavan e Davide Bassani, dottorandi della Scuola di Dottorato in Scienze Molecolari, indirizzo Scienze Farmaceutiche, con la supervisione di Mattia Sturlese attualmente ricercatore al Dipartimento di Scienze del Farmaco e il coordinamento del professor Stefano Moro.

«Passione, tenacia, determinazione e profonda visione prospettica sono le doti speciali che caratterizzano tutti i ricercatori con i quali ho avuto il privilegio di collaborare – conclude Stefano Moro – qualità che hanno portato, anche in questo caso specifico, al raggiungimento di obiettivi che li proiettano ad essere protagonisti della chimica farmaceutica computazionale a livello internazionale. Doti che ereditiamo da 800 anni di grande tradizione scientifica e che ci consentono di guardare alle prossime grandi sfide che ci attendono con rinnovata passione, tenacia, determinazione e visione prospettica».

La Molecular Modeling Section (MMS) afferisce al Dipartimento di Scienze del Farmaco dell’Università di Padova e da più di vent’anni si dedica allo sviluppo e all’applicazione di metodi computazionali nella progettazione di nuovi candidati farmaci. Nel corso di questi anni si sono avvicendati una serie di laureandi, dottorandi e assegnisti di ricerca che, con il loro impegno, hanno consentito al laboratorio di crescere e di acquisire credibilità scientifica sia a livello nazionale che internazionale, instaurando collaborazioni scientifiche anche con ambito industriale farmaceutico.

È tutta questione di metodo, quello padovano per la progettazione di nuovi candidati farmaci è il migliore. Foto di Arek Socha

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Padova