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L’UNIONE EUROPEA FINANZIA LO STUDIO CONCETTUALE DELLA NUOVA INFRASTRUTTURA ASTRONOMICA DA TERRA WIDE FIELD SPECTROSCOPIC TELESCOPE – WST

È stato firmato lo scorso 4 novembre il contratto per il finanziamento dello studio concettuale di un nuovo telescopio, il Wide Field Spectroscopic Telescope (in breve WST), che potrebbe diventare operativo in Cile dopo il 2040.  Il consorzio internazionale che ha ottenuto il finanziamento, proporrà WST come progetto candidato a diventare la prossima infrastruttura osservativa dello European Southern Observatory (ESO) dopo il completamento dello Extremely Large Telescope (ELT), attualmente in costruzione nelle Ande Cilene.

Link: https://www.wstelescope.com/

Rendering del progetto WST. Crediti: G.Gausachs/WST
Rendering del progetto WST. Crediti: G.Gausachs/WST

L’innovativo progetto WST per realizzare un telescopio interamente dedicato a survey – campagne osservative estese – spettroscopiche di tutti i tipi di oggetti celesti, dalle galassie più lontane, agli asteroidi e comete del nostro Sistema Solare, è stato selezionato nell’ambito del Programma Quadro Horizon Europe dell’Unione Europea con un bando competitivo destinato alle infrastrutture di ricerca. Il consorzio internazionale alla guida del progetto WST ha ottenuto tre milioni di euro da utilizzare nei prossimi tre anni – durante il triennio 2025-2027 – per completare uno studio concettuale dettagliato del nuovo telescopio.

Il consorzio internazionale vede la partecipazione di diciannove istituti di ricerca in Europa e in Australia, con un team scientifico composto da oltre seicento membri provenienti da trentadue Paesi di tutti e cinque i continenti. Alla guida del consorzio Roland Bacon del Centro Nazionale della Ricerca Scientifica (Centre National de la Recherche Scientifique – CNRS, Francia) e Sofia Randich dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), supportati da un Project Office e da uno Steering Commitee del quale fanno parte rappresentanti di tutti gli istituti coinvolti. L’Italia partecipa, oltre che con l’INAF, anche con l’Università di Bologna. Nutrito è il coinvolgimento di ricercatori e ricercatrici del nostro Paese in ruoli chiave e di responsabilità in WST, sia sugli aspetti scientifici che tecnologici.

WST promette di rispondere a una necessità individuata dalla comunità scientifica internazionale: un telescopio della classe dei 10 metri, con ampio campo visivo,  dedicato in modo esclusivo all’acquisizione di spettri delle sorgenti celesti. La necessità di avere a disposizione questo tipo di struttura osservativa compare esplicitamente in molti piani scientifici strategici internazionali che individuano i punti chiave della ricerca astrofisica della prossima decade, tra cui lo European Astronet Roadmap 2023.

Infatti, nonostante siano in fase di costruzione telescopi da terra con specchi principali di 30-40 metri, non esiste un telescopio fra quelli esistenti, in via di sviluppo, o proposti che presenti le stesse caratteristiche di WST e che lo rende un unicum: l’attuale disegno prevede infatti uno specchio principale del diametro di 12 metri, il funzionamento simultaneo di uno spettrografo multi-oggetto (MOS) in grado di osservare su un ampio campo visivo (tre gradi quadrati, quanto la superficie apparente di 12 lune piene) e altissime capacità di “multiplex” (20.000 fibre), insieme a uno spettrografo a campo integrale panoramico (IFS) che copre una superficie apparente di cielo di 9 minuti d’arco quadrati.

“Queste specifiche sono molto ambiziose e collocano il progetto WST al di sopra delle infrastrutture osservative da terra esistenti e in fase di programmazione. In soli cinque anni di attività, il MOS permetterebbe di ottenere spettri di 250 milioni di galassie e 25 milioni di stelle a bassa risoluzione spettrale e più 2 milioni di stelle ad alta risoluzione, mentre l’IFS fornirebbe 4 miliardi di spettri, grazie ai quali  i ricercatori potranno ottenere una caratterizzazione completa delle sorgenti. Per mettere questi numeri in contesto, sarebbero necessari 43 anni per ottenere gli stessi 4 miliardi di spettri utilizzando la IFS disponibile sul telescopio VLT dell’ESO oppure 375 anni dello strumento 4MOST che sta per diventare operativo, per osservare i 250 milioni di galassie, raggiungendo la stessa ‘profondità’ ”, dice Roland Bacon.

“Il Wide Field Spectroscopic Telescope produrrà scienza di punta e trasformativa, e permetterà di affrontare temi e domande scientifiche rilevanti riguardanti la cosmologia; la formazione, l’evoluzione, arricchimento chimico delle galassie (inclusa la Via Lattea); l’origine di stelle e pianeti; l’astrofisica che studia eventi transienti o variabili nel tempo; l’astrofisica-multimessaggera”, aggiunge Sofia Randich.

 Il Wide Field Spectroscopic Telescope (WST) verrà utilizzato per affrontare molte questioni aperte nell'astrofisica moderna: dalla formazione delle strutture su larga scala nell'universo primordiale, all'interazione delle galassie nella rete cosmica, dalla formazione della nostra stessa Galassia, fino all'evoluzione delle stelle e alla formazione di pianeti intorno a esse. Crediti: WST/V.Springel, Max-Planck-Institut für Astrophysik/ESO
Il Wide Field Spectroscopic Telescope (WST) verrà utilizzato per affrontare molte questioni aperte nell’astrofisica moderna: dalla formazione delle strutture su larga scala nell’universo primordiale, all’interazione delle galassie nella rete cosmica, dalla formazione della nostra stessa Galassia, fino all’evoluzione delle stelle e alla formazione di pianeti intorno a esse. Crediti: WST/V.Springel, Max-Planck-Institut für Astrophysik/ESO

Lo studio concettuale finanziato grazie ai fondi del programma Horizon Europe affronterà tutti gli aspetti rilevanti necessari per avere un quadro completo: il disegno del telescopio e degli strumenti che verranno installati a bordo, l’individuazione del sito in Cile dove collocare il telescopio stesso, l’ulteriore definizione dei casi scientifici, la predisposizione di un “survey plan” insieme allo sviluppo di un modello operativo per il telescopio, schemi e idee innovative per l’analisi dei dati acquisiti, con lo scopo di massimizzare il ritorno scientifico.

Lo studio concettuale presterà particolare attenzione alla sostenibilità ambientale.  L’impatto ambientale sarà infatti uno dei criteri che guiderà le scelte tecnologiche e si svilupperanno soluzioni che permetteranno di mitigare le principali fonti di emissione di anidride carbonica. L’impatto ambientale previsto sia in fase di costruzione, che in fase di operatività di WST sarà documentato in dettaglio alla fine dello studio.

Nel futuro prossimo, l’ESO aprirà una call for ideas per valutare i progetti più innovativi e promettenti dal punto di vista scientifico su cui investire dopo la realizzazione di Elt, la cui prima luce è prevista nel 2028. Se approvato, il WST diventerebbe la prossima grande infrastruttura dell’ESO, con il potenziale per affrontare questioni astrofisiche dal carattere rivoluzionario dal 2040 in poi.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

LA PRIMA ANALISI 3D SULLA FORMAZIONE ED EVOLUZIONE DEGLI AMMASSI GLOBULARI

Uno studio pubblicato oggi sulla rivista Astronomy & Astrophysics apre nuove prospettive sulla nostra comprensione della formazione ed evoluzione dinamica delle popolazioni stellari multiple negli ammassi globulari, agglomerati di stelle di forma sferica, molto compatti, formati tipicamente da 1-2 milioni di stelle. Un gruppo di ricercatori, dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), dell’Università degli Studi di Bologna e dell’Università dell’Indiana negli USA, ha infatti condotto la prima analisi cinematica 3D (tridimensionale) delle popolazioni stellari multiple per un campione rappresentativo di 16 ammassi globulari nella nostra Galassia, fornendo una descrizione osservativa pionieristica del modo in cui le stelle si muovono al loro interno e della loro evoluzione dall’epoca di formazione fino allo stato presente.

Galleria di immagini dei 16 ammassi globulari analizzati in ordine di differenza delle proprietà cinematiche osservate tra le popolazioni stellari multiple. Crediti: ESA/Hubble - ESO - SDSS
Galleria di immagini dei 16 ammassi globulari analizzati in ordine di differenza delle proprietà cinematiche osservate tra le popolazioni stellari multiple. Crediti: ESA/Hubble – ESO – SDSS

Emanuele Dalessandro, ricercatore presso l’INAF di Bologna, primo autore dell’articolo e coordinatore del gruppo di lavoro spiega:

“La comprensione dei processi fisici alla base della formazione ed evoluzione iniziale degli ammassi globulari è una delle più affascinanti e discusse domande astrofisiche degli ultimi 20-25 anni. I risultati del nostro studio forniscono la prima evidenza concreta che gli ammassi globulari si siano generati attraverso molteplici eventi di formazione stellare e pongono vincoli fondamentali sul percorso dinamico seguito dagli ammassi nel corso della loro evoluzione. Questi risultati sono stati possibili grazie a un approccio multi-diagnostico e alla combinazione di osservazioni e simulazioni dinamiche allo stato dell’arte”.

Lo studio evidenzia che le differenze cinematiche tra le popolazioni multiple sono estremamente utili per comprendere i meccanismi di formazione ed evoluzione di queste antiche strutture.

Con età che possono arrivare a 12-13 miliardi di anni (quindi fino all’alba del Cosmo), gli ammassi globulari sono tra i primi sistemi a essersi formati nell’Universo e rappresentano una popolazione tipica di tutte le galassie.  Sono sistemi compatti – con masse di alcune centinaia di migliaia di masse solari e dimensioni di pochi parsec –  e osservabili anche in galassie lontane.

“La loro rilevanza astrofisica è enorme – afferma Dalessandro – perché non solo ci aiutano a verificare i modelli cosmologici della formazione dell’Universo grazie alla loro età, ma ci offrono anche laboratori naturali per studiare la formazione, l’evoluzione e l’arricchimento chimico delle galassie”.

Nonostante gli ammassi stellari siano stati studiati per oltre un secolo, risultati osservativi recenti dimostrano che la loro conoscenza è ancora incompleta.

“Risultati ottenuti negli ultimi due decenni, hanno inaspettatamente dimostrato che gli ammassi globulari sono composti da più di una popolazione di stelle: una primordiale, con proprietà chimiche simili a quelle di altre stelle nella Galassia, e una con abbondanze chimiche anomale di elementi leggeri quali elio, ossigeno, sodio, azoto”,

dice Mario Cadelano, ricercatore al Dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Bologna e associato INAF, tra gli autori dello studio.

“Nonostante il gran numero di osservazioni e modelli teorici finalizzati a caratterizzare le proprietà di queste popolazioni, i meccanismi che regolano la loro formazione non sono tutt’ora compresi”.

Il satellite Gaia dell’ESA che mappa le stelle della Via Lattea. Crediti: ESA/ATG medialab; background: ESO/S. Brunier
Il satellite Gaia dell’ESA che mappa le stelle della Via Lattea. Crediti: ESA/ATG medialab; background: ESO/S. Brunier

Lo studio si basa sulla misura delle velocità nelle tre dimensioni, ovvero sulla combinazione di moti propri e velocità radiali, ottenuti dal telescopio dell’ESA Gaia e da dati ottenuti tra gli altri con il telescopio VLT dell’ESO principalmente nell’ambito della survey MIKiS (Multi Instrument Kinematic Survey), una survey spettroscopica specificamente indirizzata all’esplorazione della cinematica interna degli ammassi globulari. L’utilizzo di questi telescopi, dallo spazio e da terra, ha garantito una visione 3D senza precedenti della distribuzione di velocità delle stelle negli ammassi globulari selezionati.

Il Very Large Telescope (VLT) dell'ESO durante alcune osservazioni. Crediti: ESO/S. Brunier
Il Very Large Telescope (VLT) dell’ESO durante alcune osservazioni. Crediti: ESO/S. Brunier

Dalle analisi emerge che le stelle con differenti abbondanze di elementi leggeri sono caratterizzate da proprietà cinematiche differenti, come la velocità di rotazione e la distribuzione delle orbite.

“In questo lavoro abbiamo analizzato nel dettaglio come si muovono all’interno di ogni ammasso migliaia di stelle”, aggiunge Alessandro Della Croce, studente di dottorato presso l’INAF di Bologna. “È risultato subito chiaro che stelle appartenenti a diverse popolazioni sono caratterizzate da proprietà cinematiche differenti: le stelle con composizione chimica anomala tendenzialmente ruotano all’interno dell’ammasso più velocemente delle altre e si diffondono progressivamente dalle regioni centrali verso quelle più esterne”.

L’intensità di queste differenze cinematiche dipende all’età dinamica degli ammassi globulari.

“Questi risultati sono compatibili con l’evoluzione dinamica a ‘lungo termine’ di sistemi stellari in cui le stelle con abbondanze chimiche anomale si formano più centralmente concentrate e più rapidamente rotanti di quelle standard. Ciò di conseguenza suggerisce che gli ammassi globulari si siano generati attraverso eventi multipli di formazione stellare e fornisce un tassello importante nella definizione dei processi fisici e dei tempi-scala alla base della formazione ed evoluzione di ammassi stellari massicci”, sottolinea Dalessandro.

Questa nuova visione tridimensionale del moto delle stelle all’interno degli ammassi globulari fornisce un quadro inedito e affascinante sulla formazione ed evoluzione dinamica di questi sistemi, contribuendo a chiarire alcuni dei misteri più complessi riguardanti l’origine di queste antichissime strutture.


 

Riferimenti Bibliografici:

L’articolo “A 3D view of multiple populations kinematics in Galactic globular clusters”, di  E. Dalessandro, M. Cadelano, A. Della Croce, F. I. Aros, E. B. White, E. Vesperini, C. Fanelli, F. R. Ferraro, B. Lanzoni, S. Leanza, L. Origlia, è stato pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Testo e immagini dagli Uffici Stampa INAF – Istituto Nazionale di Astrofisica e Alma Mater Studiorum – Università degli Studi di Bologna

Scienziati scoprono Barnard b, un pianeta in orbita intorno alla stella di Barnard, la stella singola più vicina al Sole

This artist’s impression shows Barnard b, a sub-Earth-mass planet that was discovered orbiting Barnard’s star. Its signal was detected with the ESPRESSO instrument on ESO’s Very Large Telescope (VLT), and astronomers were able to confirm it with data from other instruments. An earlier promising detection in 2018 around the same star could not be confirmed by these data. On this newly discovered exoplanet, which has at least half the mass of Venus but is too hot to support liquid water, a year lasts just over three Earth days.Crediti: ESO/M. Kornmesser
Impressione artistica del pianeta Barnard b.
Crediti: ESO/M. Kornmesser

Utilizzando il VLT (Very Large Telescope) dell’ESO (Osservatorio Europeo Australe), alcuni astronomi hanno scoperto un esopianeta in orbita intorno alla stella di Barnard, la stella singola più vicina al Sole. Su questo esopianeta appena scoperto, che ha una massa pari ad almeno la metà di quella di Venere, un anno dura poco più di tre giorni terrestri. Le osservazioni dell’équipe suggeriscono anche l’esistenza di altri tre candidati esopianeti, in orbite diverse intorno alla stella.

Situata a soli sei anni luce di distanza, la stella di Barnard è il secondo sistema stellare, dopo il gruppo di tre stelle di Alpha Centauri, e la stella singola più vicina a noi. Grazie alla sua vicinanza, è un obiettivo primario nella ricerca di esopianeti simili alla Terra. Nonostante una promettente riveazione nel 2018, finora nessun pianeta era stato confermato in orbita intorno alla stella di Barnard.

Rappresentazione grafica delle distanze relative tra le stelle più vicine e il Sole.
Crediti: IEEC/Science-Wave – Guillem Ramisa
Il grafico mostra la costellazione di Ofiuco (o Serpentario), a cavallo dell'equatore celeste. È indicata la posizione della stella di Barnard, così come l'ubicazione della maggior parte delle stelle visibili a occhio nudo in una notte buia e serena. Crediti: ESO, IAU and Sky & Telescope
Il grafico mostra la costellazione di Ofiuco (o Serpentario), a cavallo dell’equatore celeste. È indicata la posizione della stella di Barnard, così come l’ubicazione della maggior parte delle stelle visibili a occhio nudo in una notte buia e serena.
Crediti: ESO, IAU and Sky & Telescope

La scoperta di questo nuovo esopianeta, annunciata in un articolo pubblicato oggi sulla rivista Astronomy & Astrophysics, è il risultato di osservazioni effettuate negli ultimi cinque anni con il VLT dell’ESO, situato presso l’Osservatorio del Paranal in Cile.

Anche se ci è voluto molto tempo, siamo sempre stati fiduciosi di poter trovare qualcosa“,

afferma Jonay González Hernández, ricercatore presso l’Instituto de Astrofísica de Canarias in Spagna e autore principale dell’articolo. L’équipe stava cercando segnali da possibili esopianeti all’interno della zona abitabile o temperata della stella di Barnard, l’intervallo in cui l’acqua può essere liquida sulla superficie del pianeta. Le nane rosse come la stella di Barnard sono spesso considerate dagli astronomi poiché lì i pianeti rocciosi di piccola massa sono più facili da rilevare che intorno a stelle più grandi, simili al Sole. [1]

Barnard b [2], come viene chiamato l’esopianeta appena scoperto, è venti volte più vicino alla stella di Barnard di quanto Mercurio lo sia al Sole. Orbita intorno alla stella in 3,15 giorni terrestri e ha una temperatura superficiale di circa 125 °C.

Barnard b è uno degli esopianeti di massa più piccola trovati finora e uno dei pochi noti con una massa inferiore a quella della Terra. Ma il pianeta è troppo vicino alla stella ospite, più vicino rispetto alla zona abitabile“, spiega González Hernández. “Anche se la stella è circa 2500 gradi più fredda del Sole, in quella posizione fa troppo caldo perchè si possa mantenere acqua liquida sulla superficie“.

Per le osservazioni, il gruppo di lavoro ha utilizzato ESPRESSO, uno strumento molto preciso progettato per misurare l’oscillazione di una stella causata dall’attrazione gravitazionale di uno o più pianeti in orbita intorno ad essa. I risultati ottenuti da queste osservazioni sono stati confermati dai dati di altri strumenti specializzati nella caccia agli esopianeti: HARPS presso l’Osservatorio di La Silla dell’ESO, HARPS-N e CARMENES. I nuovi dati, tuttavia, non supportano l’esistenza dell’esopianeta segnalato nel 2018.

Oltre al pianeta confermato, l’équipe internazionale ha anche trovato indizi di altri tre candidati esopianeti in orbita intorno alla stessa stella. Serviranno ulteriori osservazioni con ESPRESSO per la conferma.

Ora dobbiamo continuare a osservare questa stella per confermare gli altri segnali candidati“, afferma Alejandro Suárez Mascareño, anch’egli ricercatore presso l’Instituto de Astrofísica de Canarias e coautore dello studio. “Ma la scoperta di questo pianeta, insieme con altre scoperte precedenti come Proxima b e d, dimostra che il nostro angolino cosmico è pieno di pianeti di piccola massa“.

L’Extremely Large Telescope (ELT) dell’ESO, attualmente in costruzione, è destinato a trasformare il campo della ricerca sugli esopianeti. Lo strumento ANDES dell’ELT consentirà di rivelare un numero sempre maggiore di questi piccoli pianeti rocciosi nella zona temperata intorno a stelle vicine, oltre la portata degli attuali telescopi, e di studiarne la composizione dell’atmosfera.

La panoramica mostra i dintorni della nana rossa nota come stella di Barnard, nella costellazione dell'Ofiuco. L'immagine è stata prodotta a partire dai dati della DSS2 (Digitized Sky Survey 2). Nel centro dell'immagine si trova la stella di Barnard, catturata in tre diverse esposizioni. La stella è la più veloce nel cielo notturno e il suo grande moto proprio - lo spostamento apparente sulla volta celeste - viene evidenziato dal fatto che la posizione cambi tra osservazioni successive - mostrate in rosso, giallo e blu. Crediti: ESO/Digitized Sky Survey 2 Acknowledgement: Davide De Martin E — Red Dots
La panoramica mostra i dintorni della nana rossa nota come stella di Barnard, nella costellazione dell’Ofiuco. L’immagine è stata prodotta a partire dai dati della DSS2 (Digitized Sky Survey 2). Nel centro dell’immagine si trova la stella di Barnard, catturata in tre diverse esposizioni. La stella è la più veloce nel cielo notturno e il suo grande moto proprio – lo spostamento apparente sulla volta celeste – viene evidenziato dal fatto che la posizione cambi tra osservazioni successive – mostrate in rosso, giallo e blu.
Crediti:
ESO/Digitized Sky Survey 2 Acknowledgement: Davide De Martin
E — Red Dots

Note

[1] Gli astronomi osservano preferenzialmente le stelle fredde, come le nane rosse, perché la loro zona temperata è molto più vicina alla stella rispetto alle stelle più calde, come il Sole. Ciò significa che i pianeti che orbitano all’interno della zona temperata hanno periodi orbitali più brevi, consentendo agli astronomi di monitorarli per diversi giorni o settimane, anziché anni. Inoltre, le nane rosse sono molto meno massicce del Sole, quindi sono più facilmente disturbate dall’attrazione gravitazionale dei loro pianeti  e quindi oscillano maggiormente.
[2] È pratica comune nella scienza dare agli esopianeti il nome della stella ospite seguito da una lettera minuscola: “b” indica il primo pianeta identificato, “c” il successivo e così via. Il nome Barnard b è stato quindi dato anche a un candidato pianeta precedentemente identificato, ma non confermato, intorno alla stella di Barnard.

Ulteriori Informazioni

Questo risultato è stato presentato nell’articolo “A sub-Earth-mass planet orbiting Barnard’s star” pubblicato su Astronomy & Astrophysics. (https://www.aanda.org/10.1051/0004-6361/202451311)

L’équipe è composta da J. I. González Hernández (Instituto de Astrofísica de Canarias, Spagna [IAC] e Departamento de Astrofísica, Universidad de La Laguna, Spagna [IAC-ULL]), A. Suárez Mascareño (IAC e IAC-ULL), A. M. Silva (Instituto de Astrofísica e Ciências do Espaço, Universidade do Porto, Portogallo [IA-CAUP] e Departamento de Física e Astronomia Faculdade de Ciências, Universidade do Porto, Portogallo [FCUP]), A. K. Stefanov (IAC e IAC-ULL), J. P. Faria (Observatoire de Genève, Université de Genève, Svizzera [UNIGE]; IA-CAUP e FCUP), H. M. Tabernero (Departamento de Física de la Tierra y Astrofísica & Instituto de Física de Partículas y del Cosmos, Universidad Complutense de Madrid, Spagna), A. Sozzetti (INAF – Osservatorio Astrofisico di Torino, Italia [INAF-OATo]), R. Rebolo (IAC; IAC-ULL e Consejo Superior de Investigaciones Científicas, Spagna [CSIC]), F. Pepe (UNIGE), N. C. Santos (IA-CAUP; FCUP), S. Cristiani (INAF – Osservatorio Astronomico di Trieste, Italia [INAF-OAT] e Institute for Fundamental Physics of the Universe, Trieste, Italia [IFPU]), C. Lovis (UNIGE), X. Dumusque (UNIGE), P. Figueira (UNIGE e IA-CAUP), J. Lillo-Box (Centro de Astrobiología, CSIC-INTA, Madrid, Spagna [CAB]), N. Nari (IAC; Light Bridges S. L., Canarias, Spagna e IAC-ULL), S. Benatti (INAF – Osservatorio Astronomico di Palermo, Italia [INAF-OAPa]), M. J. Hobson (UNIGE), A. Castro-González (CAB), R. Allart (Institut Trottier de Recherche sur les Exoplanètes, Université de Montréal, Canada e UNIGE), V. M. Passegger (National Astronomical Observatory of Japan, Hilo, USA; IAC; IAC-ULL e Hamburger Sternwarte, Hamburg, Germania), M.-R. Zapatero Osorio (CAB), V. Adibekyan (IA-CAUP e FCUP), Y. Alibert (Center for Space and Habitability, University of Bern, Svizzera e Weltraumforschung und Planetologie, Physikalisches Institut, University of Bern, Svizzera), C. Allende Prieto (IAC e IAC-ULL), F. Bouchy (UNIGE), M. Damasso (INAF-OATo), V. D’Odorico (INAF-OAT e IFPU), P. Di Marcantonio (INAF-OAT), D. Ehrenreich (UNIGE), G. Lo Curto (European Southern Observatory, Santiago, Cile [ESO Chile]), R. Génova Santos (IAC e IAC-ULL), C. J. A. P. Martins (IA-CAUP e Centro de Astrofísica da Universidade do Porto, Portogallo), A. Mehner (ESO Chile), G. Micela (INAF-OAPa), P. Molaro (INAF-OAT), N. Nunes (Instituto de Astrofísica e Ciências do Espaço, Universidade de Lisboa, Portogallo), E. Palle (IAC e IAC-ULL), S. G. Sousa (IA-CAUP e FCUP), e S. Udry (UNIGE).

L’ESO (European Southern Observatory o Osservatorio Europeo Australe) consente agli scienziati di tutto il mondo di scoprire i segreti dell’Universo a beneficio di tutti. Progettiamo, costruiamo e gestiamo da terra osservatori di livello mondiale – che gli astronomi utilizzano per affrontare temi interessanti e diffondere il fascino dell’astronomia – e promuoviamo la collaborazione internazionale per l’astronomia. Fondato come organizzazione intergovernativa nel 1962, oggi l’ESO è sostenuto da 16 Stati membri (Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Finlandia, Germania, Irlanda, Italia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Spagna, Svezia e Svizzera), insime con il paese che ospita l’ESO, il Cile, e l’Australia come partner strategico. Il quartier generale dell’ESO e il Planetario e Centro Visite Supernova dell’ESO si trovano vicino a Monaco, in Germania, mentre il deserto cileno di Atacama, un luogo meraviglioso con condizioni uniche per osservare il cielo, ospita i nostri telescopi. L’ESO gestisce tre siti osservativi: La Silla, Paranal e Chajnantor. Sul Paranal, l’ESO gestisce il VLT (Very Large Telescope) e il VLTI (Very Large Telescope Interferometer), così come due telescopi per survey, VISTA, che lavora nell’infrarosso, e VST (VLT Survey Telescope) in luce visibile. Sempre a Paranal l’ESO ospiterà e gestirà la schiera meridionale di telescopi di CTA, il Cherenkov Telescope Array Sud, il più grande e sensibile osservatorio di raggi gamma del mondo. Insieme con partner internazionali, l’ESO gestisce APEX e ALMA a Chajnantor, due strutture che osservano il cielo nella banda millimetrica e submillimetrica. A Cerro Armazones, vicino a Paranal, stiamo costruendo “il più grande occhio del mondo rivolto al cielo” – l’ELT (Extremely Large Telescope, che significa Telescopio Estremamente Grande) dell’ESO. Dai nostri uffici di Santiago, in Cile, sosteniamo le operazioni nel paese e collaboriamo con i nostri partner e la società cileni.

La traduzione dall’inglese dei comunicati stampa dell’ESO è un servizio dalla Rete di Divulgazione Scientifica dell’ESO (ESON: ESO Science Outreach Network) composta da ricercatori e divulgatori scientifici da tutti gli Stati Membri dell’ESO e altri paesi. Il nodo italiano della rete ESON è gestito da Anna Wolter.

Testo, video e immagini dall’Osservatorio Europeo Australe – ESO.

VLT E ALMA CATTURANO RAFFICHE DI VENTO RELATIVISTICO DAL QUASAR DELLA GALASSIA J0923+0402, IN PIENA ATTIVITÀ

Un team di ricerca guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dall’Università degli studi di Trieste ha di nuovo imbrigliato i lontanissimi ed energici venti relativistici generati da un quasar lontano ma decisamente attivo (uno dei più luminosi finora scoperti). In uno studio pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal viene riportata la prima osservazione a diverse lunghezze d’onda dell’interazione tra buco nero e il quasar della galassia ospite durante le fasi iniziali dell’Universo, circa 13 miliardi di anni fa. Oltre all’evidenza di una tempesta di gas generata dal buco nero, gli esperti hanno scoperto per la prima volta un alone di gas che si estende ben oltre la galassia, suggerendo la presenza di materiale espulso dalla galassia stessa tramite i venti generati dal buco nero.

alone quasar della galassia J0923+0402 Alone gigante di gas freddo, esteso quasi 50 mila anni luce, rivelato attorno ad una galassia dell’Universo di circa 13 miliardi di anni fa tramite osservazioni multibanda. Questa scoperta fornisce informazioni chiave su come il gas venga espulso o catturato dalle galassie dell’Universo giovane. Crediti: International Gemini Observatory/NOIRLab/NSF/AURA/M. Zamani, J. da Silva & M. Bischetti
Alone gigante di gas freddo, esteso quasi 50 mila anni luce, rivelato attorno ad una galassia dell’Universo di circa 13 miliardi di anni fa tramite osservazioni multibanda. Questa scoperta fornisce informazioni chiave su come il gas venga espulso o catturato dalle galassie dell’Universo giovane. Crediti: International Gemini Observatory/NOIRLab/NSF/AURA/M. Zamani, J. da Silva & M. Bischetti

La galassia protagonista dello studio è J0923+0402, un oggetto lontanissimo da noi, per la precisione a redshift z = 6.632 (ossia la sua radiazione che osserviamo è stata emessa quando l’Universo aveva meno di un miliardo di anni) con al centro un quasar. La luce dei quasar (o quasi-stellar radio source) viene prodotta quando il materiale galattico che circonda il buco nero supermassiccio si raccoglie in un disco di accrescimento. Infatti, nell’avvicinarsi al buco nero per poi esserne inghiottita, la materia si scalda emettendo grandi quantità di radiazione brillante nella luce visibile e ultravioletta.

“L’utilizzo congiunto di osservazioni multibanda ha permesso di studiare, in un range di scale spaziali molto ampio e dalle regioni più nucleari fino al mezzo circumgalatico, il quasar più lontano con misura di vento nucleare e l’alone di gas più esteso rilevato in epoche remote (circa 50 mila anni luce)”, spiega Manuela Bischetti, prima autrice dello studio e ricercatrice presso l’INAF e l’Università degli studi di Trieste.

I dati descritti nell’articolo sono frutto della collaborazione di gruppi di ricerca che lavorano su frequenze diverse dello spettro elettromagnetico. In primis lo spettrografo X-Shooter, installato sul Very Large Telescope (VLT) dell’ESO, ha captato raffiche di materia, in gergo BAL winds (dall’inglese venti con righe di assorbimento larghe o broad absorption line), in grado di raggiungere velocità relativistiche fino a decine di migliaia di chilometri al secondo, misurandone e calcolandone le caratteristiche. Le potenti antenne cilene di ALMA (l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array sempre dell’ESO), ricevendo frequenze dai 242 ai 257 GHz provenienti dall’alba del Cosmo, sono state attivate per cercare la controparte nel gas freddo dei venti BAL e capire se si estendesse oltre la scala della galassia.

La ricercatrice sottolinea: “I BAL sono venti che si osservano nello spettro ultravioletto del quasar che, data la grande distanza da noi, osserviamo a lunghezze d’onda dell’ottico e vicino infrarosso. Per fare queste osservazioni abbiamo usato lo spettrografo X-Shooter del Very Large Telescope. Avevamo già scoperto il BAL di questo quasar due anni fa. Il problema è che non sapevamo quantificare quanto fosse energetico. Questo vento BAL è un vento di gas caldo (decine di migliaia di gradi) che si muove a decine di migliaia di km/s. Allo stesso tempo le osservazioni in banda millimetrica di ALMA ci hanno permesso di capire cosa stia succedendo nella galassia e attorno a essa andando a vedere cosa succede al gas freddo (qualche centinaio di gradi). Abbiamo trovato che il vento si estende anche sulla scala della galassia (ma ha delle velocità più basse, 500 km/s. Questa è una cosa aspettata, il vento decelera man mano che si espande), il che ci ha fatto pensare che questo mega alone di gas sia stato creato dal materiale che i venti hanno espulso dalla galassia”.

La posizione della sorgente energetica è stata poi “immortalata” dapprima dalla Hyper Suprime-Cam (HSC), una gigantesca fotocamera installata sul telescopio Subaru e sviluppata dall’Osservatorio Astronomico Nazionale del Giappone (National Astronomical Observatory of Japan – NAOJ), e – con una misura molto più accurata – dalla NIRCam, una fotocamera a raggi infrarossi installata sul telescopio spaziale James Webb (JWST delle agenzie spaziali NASA, ESA e CSA).

“Questo quasar verrà osservato nuovamente dal JWST in futuro per studiare meglio sia il vento che l’alone”, annuncia Bischetti.

La ricercatrice prosegue spiegando il perché di questa survey: “Ci siamo chiesti se l’attività del buco nero potesse avere un impatto sulle fasi iniziali di evoluzione delle galassie, e tramite quali meccanismi questo avvenga. Vincente è stata la combinazione di dati multibanda che vanno dall’ottico e vicino infrarosso – per misurare le proprietà del buco nero, e cosa avviene nel nucleo della galassia – fino alle osservazioni in banda millimetrica – per studiare cosa avviene all’interno e attorno alla galassia”. Le misure effettuate “sono di routine nell’Universo locale, ma questi risultati non erano mai stati ottenuti prima a redshift z>6”, aggiunge.

“Il nostro studio ci aiuta a capire come il gas venga espulso o catturato dalle galassie dell’Universo giovane e come i buchi neri crescono e possono avere un impatto sull’evoluzione delle galassie. Sappiamo che il fato delle galassie come la Via Lattea è strettamente legato a quello dei buchi neri, poiché questi possono generare tempeste galattiche in grado di spegnere la formazione di nuove stelle. Studiare le epoche primordiali ci permette di capire le condizioni iniziali dell’Universo che vediamo oggi”, conclude Bischetti.


 

Per altre informazioni:

L’articolo “Multi-phase black-hole feedback and a bright [CII] halo in a Lo-BAL quasar at z∼6.6”, di Manuela Bischetti, Hyunseop Choi, Fabrizio Fiore, Chiara Feruglio, Stefano Carniani, Valentina D’Odorico, Eduardo Bañados, Huanqing Chen, Roberto Decarli, Simona Gallerani, Julie Hlavacek-Larrondo, Samuel Lai, Karen M. Leighly, Chiara Mazzucchelli, Laurence Perreault-Levasseur, Roberta Tripodi, Fabian Walter, Feige Wang, Jinyi Yang, Maria Vittoria Zanchettin, Yongda Zhu, è stato pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal.

 

 

Testo e immagine dall’Ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

CONSORZIO ANDES, VIA LIBERA ALLO SPETTROGRAFO CHE CI INFORMERÀ SULLE PROPRIETÀ DEGLI OGGETTI ASTRONOMICI E CI DIRÀ DOVE C’È VITA SU ALTRI MONDI

Oggi l’ESO ha firmato l’accordo con un consorzio internazionale guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) per la progettazione e la costruzione di ANDES, uno strumento di altissima tecnologia che sarà installato sull’Extremely Large Telescope (ELT) dell’ESO, in costruzione sulle Ande cilene. ANDES verrà utilizzato per cercare segni di vita negli esopianeti e studiare le prime stelle che si sono accese nell’Universo, ma anche per testare le variazioni delle costanti fondamentali della fisica e misurare l’accelerazione dell’espansione dell’Universo.

rendering dell'Extremely Large Telescope, in costruzione sulla cima del Cerro Armazones in Cile, ad oltre 3000 metri di quota. Crediti: ESO
rendering dell’Extremely Large Telescope, in costruzione sulla cima del Cerro Armazones in Cile, ad oltre 3000 metri di quota. Crediti: ESO

L’accordo è stato firmato dal Direttore Generale dell’European Southern Observatory (ESO) Xavier Barcons e da Roberto Ragazzoni, Presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), l’Ente che guida il consorzio ANDES. Alla cerimonia della firma erano presenti anche Sergio Maffettone, Console Generale d’Italia a Monaco di Baviera, e Alessandro Marconi dell’Università di Firenze e associato INAF, Principal Investigator di ANDES, oltre ad altri rappresentanti dell’ESO, dell’INAF e del consorzio ANDES, che vede la partecipazione di Istituti, Università ed Enti di Ricerca di 13 Paesi. La firma ha avuto luogo presso il quartier generale dell’ESO a Garching, in Germania.

foto della firma dell'accordo. Crediti: ESO
foto della firma dell’accordo. Crediti: ESO

“ANDES è una macchina che sfrutta molte delle tecnologie sviluppate in Italia e che complementa gli sforzi che come INAF stiamo facendo per individuare mondi alieni” commenta Roberto Ragazzoni, presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica. “Poterne analizzare chimicamente la composizione delle atmosfere è uno di quei problemi formidabili che mettono a dura prova la filiera tecnologica sia della ricerca che industriale. Anche se al limite delle sue capacità, potrebbe riuscire a fornire misure dirette della espansione dell’universo, ma certamente aprire nuovi quesiti che solleciteranno ulteriori sviluppi tecnologici, in un circolo virtuoso che l’INAF porta avanti da tempo”.

rappresentazione artistica dello strumento ANDES. Crediti: ESO
Consorzio ANDES, via libera allo spettrografo che ci informerà sulle proprietà degli oggetti astronomici e ci dirà dove c’è vita su altri mondi. L’immagine è una rappresentazione artistica dello strumento ANDES. Crediti: ESO

Precedentemente denominato HIRES, ANDES (ArmazoNes high Dispersion Echelle Spectrograph) è un sofisticato spettrografo, uno strumento che divide la luce nelle lunghezze d’onda che la compongono in modo che gli astronomi possano determinare importanti proprietà degli oggetti astronomici, come la loro composizione chimica. Lo strumento avrà prestazioni senza precedenti nelle osservazioni in luce visibile e nel vicino infrarosso e, in combinazione con il potente sistema di specchi ed ottica adattiva che costituiscono ELT, consentirà enormi passi in avanti nello studio dell’Universo.

“ANDES è uno strumento con un enorme potenziale per scoperte scientifiche rivoluzionarie, che possono influenzare profondamente la nostra percezione dell’Universo ben oltre la comunità di scienziati”, afferma Alessandro Marconi.

ANDES permetterà di realizzare indagini dettagliate delle atmosfere di esopianeti simili alla Terra, consentendo agli astronomi di analizzare la loro composizione, alla ricerca di tracce legate alla presenza di vita. Sarà anche in grado di analizzare elementi chimici in oggetti lontani nell’Universo primordiale, rendendolo probabilmente il primo strumento in grado di rilevare le firme delle stelle di Popolazione III, le prime stelle in assoluto che si sono formate nell’Universo. Inoltre, gli astronomi saranno in grado di utilizzare i dati ANDES per verificare se le costanti fondamentali della fisica variano nel tempo e nello spazio. I suoi dati saranno utilizzati anche per misurare direttamente l’accelerazione dell’espansione dell’Universo, uno degli enigmi ancora insoluti dell’astrofisica.

Il contributo di INAF ad ANDES, oltre alla responsabilità di gestione manageriale e ingegneristica del progetto a livello di sistema e di sviluppo software (con le sedi coinvolte di Trieste per il management, Milano per l’ingegneria del sistema e Bologna per la parte di collegamento scientifico), copre anche la progettazione e la successiva realizzazione opto-meccanica e software, di alcuni moduli che compongono ANDES. In particolare, la sede INAF di Firenze con i contributi di quelle di Trieste e Brera è responsabile sia del collegamento in fibra ottica che consentirà il passaggio della luce tra i vari moduli di ANDES che del modulo di ottica adattiva. Oltre all’aspetto tecnologico, quello scientifico vede la partecipazione di ricercatrici e ricercatori di quasi tutte le sedi INAF, con quella di Trieste responsabile anche del coordinamento del pacchetto scientifico che studierà le galassie ed il mezzo intergalattico.

Il telescopio ELT dell’ESO è attualmente in costruzione nel deserto di Atacama, nel nord del Cile. Quando entrerà in funzione alla fine di questo decennio, l’ELT sarà il più grande telescopio mai costruito al mondo, che aprirà letteralmente una nuova era nell’astronomia da Terra.

Per ulteriori informazioni:

https://andes.inaf.it/

https://elt.eso.org/

 

Testo e immagine dall’Ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

PROGETTO FATE: PREVISIONI DELLA TURBOLENZA OTTICA PER SPINGERE IL VERY LARGE TELESCOPE AL MASSIMO DELLE SUE POTENZIALITÀ

Per ottenere immagini astronomiche sempre più accurate non basta solo aumentare le dimensioni dei nuovi telescopi o dotarli di strumentazione allo stato dell’arte. Le prestazioni della maggior parte degli strumenti che osservano il cielo, soprattutto nella luce visibile e nell’infrarosso, dipendono fortemente dalle condizioni meteorologiche in atto durante le operazioni, e in particolare dalla turbolenza dell’atmosfera sopra di essi.  Conoscere con sufficiente anticipo tali condizioni diventa quindi sempre più importante e decisivo per ottimizzare l’utilizzo dei migliori telescopi al mondo, come l’attuale Very Large Telescope (VLT) e il futuro Extremely Large Telescope (ELT), sulle Ande cilene, entrambi dell’European Southern Observatory (ESO). È cruciale poter sfruttare al massimo le capacità di questi gioielli della tecnologia compatibilmente con le condizioni atmosferiche massimizzando il ritorno scientifico prodotto.  Il costo tipico di una notte di osservazioni con il VLT si aggira infatti attorno ai 100mila euro: una cifra che spiega da sé quanto sia critico sfruttare al meglio le condizioni ideali dell’atmosfera. Con questi obiettivi l’Istituto Nazionale di Astrofisica ha vinto un bando internazionale di ESO finalizzato a produrre previsioni della turbolenza ottica (TO) e dei principali parametri atmosferici per ottimizzare le osservazioni astronomiche del VLT e di tutti gli strumenti di cui è equipaggiato. Il progetto selezionato, denominato FATE (Forecasting Atmosphere and Turbulence for ESO sites) vede la collaborazione del consorzio CNR/Regione Toscana LaMMA (Laboratorio di Monitoraggio e Modellistica Ambientale per lo sviluppo sostenibile), che fornisce servizi meteo anche per la Protezione Civile italiana.

Il progetto FATE è iniziato nel novembre 2022 e nel periodo settembre – dicembre 2023 è entrato in fase di ‘commissioning’, con i test di verifica delle specifiche tecniche e di funzionamento. Una volta terminato, si entrerà nella fase operativa in cui ESO potrà ottimizzare strategie osservative per il VLT e iniziare a pianificare quelle di ELT, la cui entrata in funzione è attualmente prevista per il 2028.

“Il commissioning è durato 4 mesi e aveva come scopo quello di verificare la robustezza del sistema di previsione e il rispetto delle specifiche tecniche richieste da ESO, ovvero dell’accuratezza delle previsioni dei distinti parametri a scale temporali differenti” dice Elena Masciadri, ricercatrice INAF e responsabile scientifica del progetto FATE. “Le fluttuazioni spazio-temporali della turbolenza ottica hanno scale tipiche molto più piccole di quelle dei classici parametri atmosferici e pertanto la previsione della turbolenza ottica è un obiettivo molto più difficile da raggiungere. Le specifiche tecniche di ESO sono inoltre abbastanza stringenti come è naturale aspettarsi, considerando che il VLT è senza dubbio uno dei telescopi di maggior prestigio al mondo ma anche uno dei più complessi, essendo costituito da ben quattro telescopi da 8,2 m di diametro più quattro telescopi ausiliari da 1.8 metri, dotati di una grande varietà di strumentazione e quindi di possibilità osservative. Possiamo dire di essere soddisfatti del commissioning – prosegue Masciadri – in quanto ci ha permesso di dimostrare la robustezza e l’affidabilità del sistema e allo stesso tempo di meglio definire i margini di miglioramento dell’accuratezza delle previsioni dove ci concentreremo nella seconda fase del progetto”.

I moderni telescopi sono ormai dotati di strumentazione intercambiabile che ha specifiche condizioni di utilizzo, che dipende anche dalle condizioni atmosferiche in essere durante le osservazioni. Alcuni di questi strumenti sono poco sensibili, ad esempio, ad una elevata concentrazione di umidità nell’aria, altri invece ne vengono quasi completamente “accecati”. Per alcune tipologie di programmi scientifici è molto importante raccogliere dati in presenza di poca turbolenza atmosferica, ad esempio in tutte le osservazioni che necessitano un elevato livello di dettaglio in piccole porzioni di cielo che sfruttano i benefici dell’ottica adattiva, come nella ricerca di esopianeti. In generale la conoscenza della turbolenza ottica è fondamentale in tutte le osservazioni supportate da ottica adattiva (OA).  L’ELT sarà una facility supportata al 100% dall’OA quindi la previsione della TO è certamente cruciale per l’astronomia del prossimo futuro.

Oltre a prevedere una serie di parametri atmosferici sopra il sito osservativo del VLT come temperatura, intensità e direzione del vento, umidità relativa, vapore acqueo e copertura nuvolosa, il progetto FATE si occuperà nelle ore notturne anche della previsione di parametri cosiddetti astroclimatici, tra cui il cosiddetto seeing, un parametro che indica il livello di perturbazione dell’atmosfera nella qualità delle immagini astronomiche. Ma cosa è la turbolenza ottica? Le fluttuazioni di temperatura nell’aria generano fluttuazioni dell’indice di rifrazione che a sua volta perturba il fronte d’onda della luce proveniente dagli oggetti celesti osservati. Tale fronte d’onda risulta così ‘imperfetto’ e l’immagine raccolta dal telescopio perde l’accuratezza dei dettagli, limitando così le potenzialità della strumentazione impiegata. Le tecniche di ottica adattiva hanno l’obiettivo di correggere queste perturbazioni, ma le loro prestazioni dipendono dallo stato della turbolenza: per questo è fondamentale poter disporre di una previsione accurata della turbolenza ottica.

Un sistema di previsione come quello previsto nel progetto FATE si basa su modelli idrodinamici che si definiscono a “mesoscala”: il modello viene applicato su una regione limitata della Terra, raggiungendo una più alta risoluzione rispetto a quello che potrebbe fornire una previsione su scala globale. Si tratta di una previsione che viene realizzata usando come dati di inizializzazione quelli prodotti da modelli a circolazione generale, ovvero applicati all’intero globo terrestre dallo European Centre for Medium Range Weather Forecast (ECMWF), il centro che agisce per conto dell’intera comunità europea.

L’esperienza di INAF nel campo delle previsioni di turbolenza ottica per l’astronomia acquisita negli anni è stata fondamentale per arrivare al progetto FATE:

“Abbiamo sviluppato un modello per la previsione della turbolenza ottica, denominato Astro-Meso-NH negli anni ’90 e da allora il sistema si è evoluto, è stato applicato a diversi tra i maggiori osservatori al mondo e più recentemente è stato automatizzato rendendo il modello utilizzabile in modalità operativa e non solo di ricerca” ricorda Elena Masciadri. “lo sviluppo delle moderne tecniche di ‘assimilation data’ e più in generale le tecniche statistiche di filtraggio spaziale ci hanno garantito livelli di accuratezza inimmaginabili solo una decina di anni fa. INAF – conclude Masciadri – ha la responsabilità scientifica del progetto FATE, curando lo sviluppo del sistema automatico di previsione operativa, dello studio e sviluppo degli algoritmi necessari per ottenere le specifiche tecniche del sistema di previsione e di tutte le attività necessarie al miglioramento delle prestazioni che verrà attuato nel corso dei primi anni della fase operativa. Il LaMMA ha la responsabilità operativa di gestire e monitorare il sistema di previsione, sia a livello giornaliero che su intervalli temporali più lunghi e di garantire quindi una copertura ottimale del sistema.” “Il software per la produzione delle previsioni della turbolenza ottica è operativo presso il LaMMA e sfrutta risorse computazionali dei sistemi HPC (High Performance Computing) dedicate esclusivamente a FATE e acquisite anche grazie ad un contributo di Regione Toscana. La collaborazione del LaMMA in questo progetto poggia in primis sul suo Centro di Calcolo che da oltre venti anni, ha mostrato la propria affidabilità in termini di robustezza e resilienza nell’ambito del servizio meteo svolto per la Regione Toscana” dice Alberto Ortolani, ricercatore del LaMMA e responsabile delle attività LaMMA in FATE. “Le notevoli competenze scientifiche sviluppate presso INAF nel campo della previsione della turbolenza ottica e la pluriennale esperienza del Consorzio LaMMA nel gestire servizi operativi ha fatto sì che la proposta risultasse vincitrice nella call internazionale aperta da ESO. Aver vinto con una proposta toscana ci rende particolarmente orgogliosi”.

Progetto FATE Very Large Telescope VLT La Via Lattea si staglia sopra ai telescopi che costituiscono il Very Large Telescope, all'Osservatorio del Paranal, in Cile. Crediti: P. Horálek/ESO
La Via Lattea si staglia sopra ai telescopi che costituiscono il Very Large Telescope, all’Osservatorio del Paranal, in Cile. Crediti: P. Horálek/ESO

Testo e immagine dall’Ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

TRIPUDIO DI GALASSIE IN TRE NUOVE IMMAGINI DEL TELESCOPIO VST MOSTRANO ABELL 1689, HGC 90 ED ESO 510-G13

L’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) pubblica tre splendide immagini di galassie, gruppi e ammassi di galassie, realizzate con il telescopio italiano VST, gestito da INAF nel deserto di Atacama, in Cile. Le immagini sono state presentate oggi durante il VST Science Workshop a Napoli.

Galassie, lontane e lontanissime. Galassie interagenti, la cui forma è stata scolpita dalla reciproca influenza gravitazionale, ma anche galassie che formano gruppi e ammassi, tenute insieme dalla mutua gravità. Sono le protagoniste di tre nuove immagini rilasciate dal VLT Survey Telescope (VST) in occasione del convegno dedicato alle attività scientifiche del telescopio, in corso dal 16 al 18 aprile presso l’Auditorium nazionale dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) a Napoli.

Il VST è un telescopio ottico dal diametro di 2,6 metri, costruito completamente in Italia e operativo dal 2011 presso l’osservatorio dello European Southern Observatory (ESO) di Paranal, in Cile. Da ottobre 2022, il telescopio è gestito interamente da INAF attraverso il Centro Italiano di Coordinamento per VST presso la sede INAF di Napoli, con il 90% del tempo osservativo dedicato alla comunità astronomica italiana. Il VST è specializzato nelle osservazioni di grandi aree del cielo grazie alla sua fotocamera a grande campo, OmegaCAM, un vero e proprio “grandangolo celeste” in grado di immortalare, in ciascuna ripresa, un grado quadrato di cielo, ovvero una porzione della volta celeste larga due volte il diametro apparente della Luna piena. Oltre alle immagini raccolte per la ricerca astrofisica, che per il VST spazia dalle stelle alle galassie fino alla cosmologia, nell’ultimo anno il telescopio ha condotto un nuovo programma dedicato al grande pubblico, osservando nebulose, galassie e altri oggetti celesti iconici durante alcune notti di Luna piena, nelle quali la luminosità del nostro satellite naturale disturba l’acquisizione dei dati scientifici. Nuove immagini saranno pubblicate nei prossimi mesi.

“Oltre alla ricerca scientifica, uno degli obiettivi del centro VST è quello di disseminare la conoscenza scientifica e condividere le meraviglie dell’universo con i non-esperti del settore. In particolare, ci piacerebbe che le nuove generazioni di ragazze e ragazzi, attraverso queste fantastiche immagini, possano scoprire ed alimentare l’interesse per l’astrofisica”, commenta Enrichetta Iodice, ricercatrice INAF a Napoli e responsabile del Centro Italiano di Coordinamento per VST.

ESO 510-G13, HGC 90 e Abell 1689 nelle nuove immagini dal Telescopio VST. Gallery

ESO 510-G13 Telescopio VST galassie
Crediti: INAF/VST. Acknowledgment: M. Spavone (INAF), R. Calvi (INAF)

Una delle tre immagini rilasciate oggi ritrae ESO 510-G13, una curiosa galassia lenticolare a circa 150 milioni di anni luce da noi, in direzione della costellazione dell’Idra. Spicca il rigonfiamento centrale della galassia, su cui si staglia la silhouette scura del disco di polvere visto di taglio, che ne oscura parte della luce. La forma distorta del disco ricorda vagamente una S rovesciata, indice del passato turbolento di ESO 510-G13, che potrebbe aver acquisito la sua attuale conformazione a seguito di una collisione con un’altra galassia. Nell’angolo in basso a destra, tra le tantissime stelle della Via Lattea disseminate nell’immagine, si distingue anche una coppia di galassie a spirale a circa 250 milioni di anni luce da noi. Zoomando nell’immagine, si possono notare molte altre galassie ancora più distanti, visibili come piccole macchie di luce elongate tra i tanti puntini sullo sfondo.

Hickson Compact Group 90 HGC 90 Telescopio VST galassie
Crediti: INAF/VST. Acknowledgment: M. Spavone (INAF), R. Calvi (INAF)

La seconda immagine mostra un piccolo gruppo formato da quattro galassie, chiamato Hickson Compact Group 90 (HGC 90), che dista circa 100 milioni di anni luce di distanza dalla Terra, verso la costellazione del Pesce Australe. Le due macchie di luce rotondeggianti vicino al centro dell’immagine sono le galassie ellittiche NGC 7173 e NGC 7176. La striscia luminosa che si biforca e collega queste due galassie è la terza componente del gruppo, la galassia a spirale NGC 7174: la sua forma singolare tradisce l’interazione in corso tra i tre corpi celesti, che ha strappato loro stelle e gas, rimescolandone la distribuzione. Un alone di luce diffusa avvolge le tre galassie. Non sembra partecipare a questa danza celeste la quarta galassia appartenente al gruppo, NGC 7172, visibile nella parte superiore dell’immagine: si tratta di una galassia il cui nucleo, solcato da scure nubi di polvere, nasconde un buco nero supermassiccio che divora attivamente il materiale circostante. Il quartetto di galassie HGC 90 è immerso in una struttura molto più vasta, che comprende decine di galassie, alcune delle quali visibili in questa immagine.

Abell 1689 Telescopio VST galassie
Crediti: INAF/VST. Acknowledgment: M. Spavone (INAF), R. Calvi (INAF)

La terza immagine mostra un raggruppamento di galassie molto più ricco e ancora più distante: l’ammasso di galassie Abell 1689, che si può osservare nella costellazione della Vergine. Abell 1689 contiene più di duecento galassie, visibili per lo più come macchie di colore giallo-arancio, la cui luce ha viaggiato per circa due miliardi di anni prima di raggiungere il VST. L’enorme massa, che oltre alle galassie comprende anche enormi quantità di gas caldo e della misteriosa materia oscura, deforma lo spazio-tempo in prossimità dell’ammasso, che funge così da “lente gravitazionale” sulle galassie ancora più lontane, amplificando la  loro luce e creando immagini distorte, in modo non dissimile da quanto farebbe una comune lente ottica. Alcune di queste galassie si possono distinguere sotto forma di puntini e di minuscoli trattini dalla forma leggermente curva, in particolare intorno alle regioni centrali dell’ammasso.


 

Per ulteriori informazioni:

L’immagine di HCG 90 fa parte del progetto di ricerca VST Elliptical Galaxy Survey (VEGAS) e consiste di 266 immagini per un totale di circa 11 ore di osservazioni. Le immagini di ESO 510-G13 e di Abell 1689 fanno parte del programma GIOB, dedicato alla raccolta di immagini per il public engagement, e consistono rispettivamente di 19 immagini (1,5 h) e 66 immagini (5,5 h).

Il sito web del VST: https://vst.inaf.it/

 

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

CILE: PRIMA LUCE PER LE OTTICHE ADATTIVE DELLO SPETTROGRAFO ERIS

Ha completato con successo le sue prime osservazioni di prova lo spettrografo ERIS (Enhanced Resolution Imager and Spectrograph), uno strumento di nuova generazione installato al VLT (Very Large Telescope) dell’ESO a Cerro Paranal, in Cile. Con ERIS sarà possibile osservare il Sistema solare, gli esopianeti e le galassie lontane con un dettaglio senza precedenti grazie anche al suo modulo per l’ottica adattiva completamente a firma italiana. In particolare, l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) è impegnato in prima linea nella progettazione e nella realizzazione del modulo di ottica adattiva e calibrazione di ERIS e nell’architettura generale del software di gestione di tutto lo strumento.

Cile: prima luce per le ottiche adattive dello spettrografo ERIS
Questa immagine mostra un progetto concettuale per lo strumento ERIS, il nuovo spettrografo del Very Large Telescope dell’ESO in Cile. ERIS, che sarà attivo per almeno dieci anni dopo la sua installazione, utilizzerà l’Adaptive Optics Facility che corregge gli effetti di sfocatura dell’atmosfera terrestre. Crediti: ESO/ERIS Phase A team

ERIS sfrutta la tecnologia dell’ottica adattiva destinata al fuoco Cassegrain del telescopio Yepun, uno dei quattro telescopi che formano il VLT. La versatilità di ERIS permetterà di ottenere risultati di rilevante interesse scientifico in molti campi della ricerca astronomica utilizzando uno solo dei 4 telescopi da 8,2 metri che costituiscono il VLT. ERIS rimpiazza altri due strumenti di grande successo: NACO e SINFONI. Lo spettrografo sarà operativo per almeno dieci anni.

Cile: prima luce per le ottiche adattive dello spettrografo ERIS
ERIS, il nuovissimo occhio a infrarossi sul cielo del Very Large Telescope, rivela l’anello interno della galassia NGC 1097 con dettagli sbalorditivi. Questa galassia si trova a 45 milioni di anni luce dalla Terra, nella costellazione della Fornace. ERIS ha catturato l’anello gassoso e polveroso che si trova proprio al centro dell’oggetto. I punti luminosi sull’anello sono vivai stellari. Questa immagine è stata acquisita attraverso i quattro diversi filtri dall’imager a infrarossi all’avanguardia di ERIS, il Near Infrared Camera System, o NIX, che rimpiazzerà l’imager NACO utilizzato finora al VLT. Per mettere in prospettiva la risoluzione di NIX, questa immagine mostra, in dettaglio, una porzione di cielo inferiore allo 0,03% delle dimensioni della Luna piena. Crediti: Martin Kornmesser/ESO

Le osservazioni di prova di ERIS sono state ottenute in tre fasi, a febbraio, agosto e nuovamente a novembre 2022, per poter testare i limiti dello strumento. Durante una di queste osservazioni, è stato possibile rilevare con un dettaglio senza precedenti l’anello interno della galassia NGC 1097, situata a 45 milioni di anni luce dalla Terra, in direzione della costellazione della Fornace. Per renderci conto della risoluzione di ERIS, questa immagine mostra una porzione di cielo inferiore allo 0,03% delle dimensioni apparenti della luna piena.

Cile: prima luce per le ottiche adattive dello spettrografo ERIS. ERIS, il nuovissimo occhio a infrarossi sul cielo del Very Large Telescope, rivela l’anello interno della galassia NGC 1097 con dettagli sbalorditivi. Questa galassia si trova a 45 milioni di anni luce dalla Terra, nella costellazione della Fornace. ERIS ha catturato l’anello gassoso e polveroso che si trova proprio al centro dell’oggetto. I punti luminosi sull’anello sono vivai stellari. Questa immagine è stata acquisita attraverso i quattro diversi filtri dall’imager a infrarossi all’avanguardia di ERIS, il Near Infrared Camera System, o NIX, che rimpiazzerà l’imager NACO utilizzato finora al VLT. Per mettere in prospettiva la risoluzione di NIX, questa immagine mostra, in dettaglio, una porzione di cielo inferiore allo 0,03% delle dimensioni della Luna piena. Crediti: Martin Kornmesser/ESO

L’Enhanced Resolution Imager and Spectrograph è dotato di un modulo di ottica adattiva che utilizza sensori ad alta risoluzione e ad alta velocità per analizzare gli effetti di disturbo introdotti dall’atmosfera terrestre in tempo reale. Il modulo è capace di inviare, fino a mille volte al secondo, le informazioni alla Adaptive Optics Facility del VLT, che provvede a correggere tali effetti grazie allo specchio secondario deformabile, utilizzando se necessario una stella guida artificiale prodotta da un raggio laser.

Nell’equipaggiamento dello spettrografo è presente poi un imager infrarosso all’avanguardia – il Near Infrared camera System o NIX – utilizzato proprio per riprendere l’anello interno di NGC 1097. Grazie a una tecnica chiamata coronografia, che blocca la luce delle stelle in modo simile a un’eclissi solare, ci permetterà di osservare alcuni degli oggetti astronomici più deboli.

ERIS dispone anche di uno spettrografo 3D chiamato SPIFFIER, che catturerà uno spettro per ogni singolo pixel all’interno del suo campo di vista, fatto che consentirà per esempio agli astronomi di studiare la dinamica di galassie lontane con dettagli incredibili.

 

L’INAF ha un ruolo di prima linea nella progettazione e nella realizzazione di ERIS: fa parte del Consorzio Internazionale insieme al Max Planck Institute (Germania, alla guida del progetto), allo UK Astronomy Technology Centre di Edimburgo (Scozia), l’ETH di Zurigo (Svizzera), NOVA-Leiden (Olanda) e lo European Southern Observatory (ESO).

In particolare l’INAF di Firenze è responsabile di tutto il sistema di ottica adattiva: il team guidato da Simone Esposito e Armando Riccardi ha realizzato i due sensori di ottica adattiva, uno a ‘stella

guida laser’ (Lgs) e l’altro ‘a stella guida naturale’ (Ngs). “Il sistema di ottiche adattive che abbiamo sviluppato per ERIS rende lo strumento estremamente versatile fornendo la risoluzione necessaria per tipologie di osservazioni diversificate: dallo studio di pianeti intorno a stelle vicine della nostra galassia, a osservazioni dettagliate di galassie così lontane e deboli da richiedere di generare una stella artificiale con un laser proiettato da terra per far funzionare in modo ottimale il nostro sistema di ottiche adattive”, spiega Riccardi, responsabile della realizzazione tecnica del modulo di ottica adattiva di ERIS. “Questa versatilità permetterà di andare oltre gli obiettivi prefissati per ERIS, fornendo un grimaldello alla capacità degli astronomi di esplorare nuove frontiere per aprire porte su una più profonda conoscenza del cosmo”.

L’unità di calibrazione è stata invece realizzata da tecnologi e ricercatori dell’INAF di Teramo coordinati da Mauro Dolci, il quale commenta:

“Come gruppo tecnologico eravamo alla nostra prima collaborazione alla realizzazione di uno strumento ESO. Per noi è stata un’esperienza entusiasmante: certamente impegnativa ma al contempo molto formativa. Sapevamo che la Calibration Unit è un sottosistema di importanza fondamentale, al pari di tutti gli altri sottosistemi: calibrare i dati acquisiti li rende effettivamente utilizzabili dal punto di vista scientifico. Ma nel caso di ERIS si trattava di qualcosa di più: oltre alle funzionalità “standard”, legate alle calibrazioni dello spettrografo SPIFFIER e della camera NIX, la Calibration Unit infatti proietta sul piano focale del telescopio alcune immagini di sorgenti artificiali, che vengono utilizzate per monitorare ed ottimizzare le funzionalità e le prestazioni del modulo di Ottica Adattiva e dello spettrografo stesso. È stata una sfida importante, un impegno ampiamente ripagato non solo dalle operazioni al Very Large Telescope, ma anche dall’uso intensivo che è stato fatto della Calibration Unit per la cruciale fase di integrazione e test di ERIS in Europa. Il completamento della Science Verification, con l’inizio della fase operativa che ne conseguirà, è insomma per noi motivo di grandissima soddisfazione”.

L’architettura generale del software di gestione di tutto lo strumento è infine sotto la guida dei ricercatori dell’INAF di Padova coordinati da Andrea Baruffolo. Il ricercatore sottolinea:

“Per noi si tratta del coronamento di un percorso iniziato sin dalle prime fasi, ovvero dallo studio concettuale, del progetto per la costruzione di ERIS. Un lavoro impegnativo, data la complessità dello strumento. In ERIS, il software di controllo deve coordinare le operazioni, monitorare e raccogliere i dati di un sofisticato modulo di Ottica Adattiva, una Unità di Calibrazione ricca di funzioni e due canali scientifici infrarossi avanzati (Spettrografo a Campo Integrale e Imager). Il software integra un Real-Time Computer (RTC), fornito da ESO, che calcola in tempo reale le correzioni di Ottica Adattiva, e deve anche interfacciarsi al telescopio VLT/UT4, alla Adaptive Optics Facility (AOF), e al sistema delle stelle artificiali laser (4LGSF). Per il gruppo “software di controllo,” arrivare alla Science Verification è un traguardo reso possibile dall’ottimo spirito di collaborazione tra tutti i membri dei vari Istituti che ne fanno parte”.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) sul completamento delle prime osservazioni di prova con le ottiche adattive dello spettrografo ERIS. Video ESO.

PROTOSTELLE: LA VIA PER STUDIARE LA FORMAZIONE DEI PIANETI

Uno studio condotto da un team internazionale a cui hanno partecipato ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica ha analizzato le primissime fasi di formazione delle stelle di piccola massa per comprendere in dettaglio il processo di accrescimento che porta alla nascita di stelle come il Sole e pianeti come quelli del Sistema solare. La ricerca ha rivelato una relazione tra il tasso di accrescimento delle protostelle e il disco di materia che le circonda sin dai primordi della formazione stellare. Questi risultati, basati su osservazioni di 26 protostelle, permetteranno di individuare le condizioni iniziali che danno luogo alla formazione dei pianeti.

PROTOSTELLE: LA VIA PER STUDIARE LA FORMAZIONE DEI PIANETI
Illustrazione che mostra i diversi stadi della formazione stellare. Crediti: Bill Saxton, Nrao/Aui/Nsf

Le stelle di piccola massa, come il nostro Sole, si formano a partire da concentrazioni di gas e polveri cosmiche che collassano sotto la loro stessa gravità. Durante il collasso, questi oggetti ruotano e condensano la massa al centro, dando origine a una protostella, attorno alla quale si forma un disco circumstellare, il tutto all’interno di un alone, o inviluppo, di materia. Un nuovo studio, guidato da Eleonora Fiorellino dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), ha analizzato queste prime fasi della formazione stellare in cerca di una possibile relazione fra il tasso di accrescimento di una stella in formazione e il suo disco circumstellare. I risultati sono stati pubblicati su The Astrophysical Journal Letters.

“Pensiamo che sia l’inviluppo che il disco attorno a una protostella dissipino la propria massa nel tempo, espellendola nel mezzo interstellare e al contempo accrescendo la massa della stella in formazione”, afferma Fiorellino, ricercatrice post-doc presso la sede INAF di Napoli, che ha svolto parte dello studio anche presso il Konkoly Observatory di Budapest, in Ungheria. “Questo lavoro tratta proprio del processo di accrescimento per il quale una parte del materiale del disco, seguendo le linee di campo magnetico della stella in formazione, arriva sulla stella, accrescendone la massa”.

Una simile analisi era già stata realizzata per oggetti un po’ più evoluti: le cosiddette “stelle di pre-sequenza principale”, ovvero lo stadio che precede la sequenza principale, fase fondamentale dell’evoluzione di una stella, caratterizzata dalla fusione dell’idrogeno nel nucleo della stella. Per questi oggetti si era trovata una relazione fra le varie grandezze fisiche in gioco, individuando alcuni modelli teorici, in particolare il modello viscoso e quello che prevede venti idrodinamici, in grado di spiegare i dati osservativi. Il nuovo studio si concentra, per la prima volta, sulle protostelle, cioè lo stadio precedente alle stelle di pre sequenza, registrando un trend evolutivo con le stelle di pre-sequenza, come aspettato, ma anche alcune differenze.

“Paradossalmente, come spesso accade in fisica, sono proprio le differenze che troviamo ad essere interessanti”, commenta Fiorellino, “perché potrebbero dirci non solo come si formano le stelle ma anche darci le condizioni iniziali per la formazione planetaria, che sempre più lavori ci indicano avvenire proprio durante la fase prestellare. Per interpretare al meglio questi dati osservativi, abbiamo capito che abbiamo bisogno di modelli teorici ancora più accurati perché quelli che abbiamo al momento non tengono conto di aspetti specifici della fase protostellare”.

I processi fisici che avvengono mentre le stelle in formazione acquistano massa non sono ancora del tutto chiari. La conoscenza attuale è limitata alla fase di pre-sequenza, facile da osservare in banda ottica. Al contrario, gli oggetti più giovani, nella fase protostellare, non sono visibili nell’ottico ed è molto più complicato studiarli, poiché occorrono osservazioni in banda infrarossa.

La ricercatrice Eleonora Fiorellino, post-doc presso l’Istituto Nazionale di Astrofisica a Napoli (a sinistra) e Lukasz Tychoniec, ricercatore post-doc presso il quartier generale dell’ESO a Garching (a destra). Crediti: E. Fiorellino; L. Tychoniec

Grazie a nuovi strumenti, tra i quali KMOS montato sul Very Large Telescope dell’ESO – European Southern Observatory in Cile, e all’uso di nuove tecniche di analisi, Fiorellino ha studiato le 26 protostelle più brillanti entro circa 1600 anni luce da noi, calcolando i loro tassi di accrescimento. Inoltre, osservazioni ottenute con l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA) hanno permesso al collega Lukasz Tychoniec, ricercatore post-doc presso il quartier generale dell’ESO a Garching, in Germania, di calcolare la massa dei dischi che circondano queste protostelle, per capire se i processi fisici che valgono per le stelle di pre-sequenza sono gli stessi che valgono per le protostelle.

“Questo lavoro mostra un trend evolutivo evidente fra protostelle brillanti (dette di classe I) e stelle di pre-sequenza (classe II), suggerendoci di andare a studiare protostelle ancora più giovani e meno brillanti (classe 0) con strumenti più potenti da Terra o con JWST nello spazio. Inoltre mostra che i modelli che hanno successo nello spiegare le fasi di pre-sequenza falliscono se applicati alle protostelle. Pensiamo che il motivo per cui ciò avvenga sia dovuto al fatto che l’inviluppo delle protostelle, trascurato nelle stelle di pre-sequenza, giochi invece un ruolo cruciale durante l’accrescimento”, conclude Fiorellino. “Queste grandezze non sono utili solo a capire come le stelle si formano ma anche a dare le condizioni iniziali per la formazione dei pianeti, come la Terra, che hanno origine sempre nel disco circumstellare”.


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “The relation between the Mass Accretion Rate and the Disk Mass in Class I Protostars” di Eleonora Fiorellino, Lukasz Tychoniec, Carlo F. Manara, Giovanni Rosotti, Simone Antoniucci, Fernando Cruz-Sáenz de Miera, Ágnes Kóspál e Brunella Nisini, è stato pubblicato online sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.

Testo e foto dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

DALLA MISSIONE DELLA NASA ALLE OSSERVAZIONI UNITO: TOI-500, UN SISTEMA PLANETARIO DI QUATTRO PIANETI CON UN PROCESSO DI MIGRAZIONE PECULIARE

Il pianeta più vicino alla stella è molto simile alla Terra e ha un periodo orbitale di sole 13 ore. La sua orbita stretta può essere spiegata con un modello di migrazione “non violento”

TOI-500

È stata annunciata la scoperta di un sistema planetario non comune attorno alla stella TOI-500, composto da quattro pianeti di piccola massa, uno dei quali con periodo inferiore a un giorno, il cui processo di migrazione ed evoluzione può essere spiegato con uno scenario non violento. Fino ad oggi non era mai stato dimostrato che tale scenario potesse giustificare l’esistenza e l’architettura di sistemi planetari così peculiari. La ricerca, pubblicata sulla prestigiosa rivista Nature Astronomy con il titolo “A low-eccentricity migration pathway for a 13-h-period Earth analogue in a four-planet system”, è stata guidata da Luisa Maria Serrano e Davide Gandolfi del Dipartimento di Fisica dell’Università di Torino e ha coinvolto un team internazionale di ricercatori europei, giapponesi, americani e cileni, di cui fanno anche parte Elisa Goffo ed Enrico Bellomo dello stesso Dipartimento.

Il pianeta più vicino alla stella, battezzato TOI-500b, è un cosiddetto Ultra-Short Period (USP) planet, in quanto il suo periodo orbitale è di appena 13 ore. È inoltre considerato un Earth analogue, ovvero un pianeta roccioso simile alla Terra, perché ha raggio, massa e densità confrontabili con quelli del nostro pianeta.

Tuttavia la sua vicinanza alla stella lo rende così caldo (circa 1350 °C) che la sua superficie è molto probabilmente un’immensa distesa di lava”, afferma Enrico Bellomo.

TOI-500b è stato inizialmente identificato dal telescopio spaziale della NASA TESS (Transiting Exoplanet Survey Satellite) che ricerca pianeti extrasolari utilizzando il metodo dei transiti.  Questo metodo permette di identificare i pianeti che periodicamente occultano la loro stella, causando una diminuzione della luce che riceviamo. Il pianeta è stato successivamente confermato grazie ad un’intensa campagna osservativa condotta da UniTo con lo spettrografo HARPS dell’Osservatorio Europeo Australe (ESO), nell’ambito del programma osservativo del Prof. Davide Gandolfi. I dati coprono un intero anno e la loro analisi, congiunta a quella dei dati TESS, ha consentito di misurare la massa, il raggio, e i parametri orbitali del pianeta interno.

Le stesse misure HARPS hanno anche permesso di scoprire 3 pianeti aggiuntivi, con periodi orbitali di 6.6, 26.2 e 61.3 giorni. TOI-500 è un sistema planetario straordinario per capire l’evoluzione dinamica dei pianeti”, dichiara il Prof. Gandolfi.

In aggiunta alla scoperta del sistema, la novità presentata dall’articolo appena pubblicato risiede nel processo di migrazione che avrebbe portato il sistema planetario alla configurazione attuale.

La comunità scientifica è unanimemente d’accordo che un pianeta come TOI-500b non si possa essere formato nella sua posizione attuale, ma che debba essersi originato in una zona più esterna del disco protoplanetario, per poi migrare molto più vicino alla sua stella”, afferma Elisa Goffo. Sul processo di migrazione c’è attualmente ancora molto dibattito, ma è opinione comune che solitamente avvenga in maniera violenta, un processo che comporta anche “urti” tra pianeti i quali, partendo da orbite non circolari e inclinate tra loro, migrano verso orbite più piccole sempre più circolari e coplanari.

Nell’articolo invece gli autori presentano delle simulazioni con cui dimostrano che i pianeti attorno a TOI-500 possono essersi formati su orbite quasi circolari, per poi migrare seguendo un processo cosiddetto secolare e quasi statico durato circa 2 miliardi di anni.

Si tratta di un modello di migrazione quieto in cui i pianeti, non urtandosi tra loro, si muovono lungo orbite che rimangono pressoché circolari e che sono via via sempre più piccole”, spiega la Dottoressa Serrano.

L’articolo dimostra l’importanza di associare alla scoperta di sistemi che ospitano pianeti di tipo USP simulazioni numeriche per testare i possibili processi migratori che possano averli portati alla configurazione corrente. “Acquisire dati per lunghi periodi di tempo permette di studiare l’architettura interna di sistemi analoghi a TOI-500 e di capire come i pianeti si siano assestati sulle loro orbite”, concludono Luisa Maria Serrano e Davide Gandolfi.

 

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Torino