LUCE SUI TITANI DELL’ALBA COSMICA: I PRIMI QUASAR SFIDANO I LIMITI DELLA FISICA PER CRESCERE
Scoperte nuove evidenze che spiegano come si siano formati i buchi neri supermassicci nel primo miliardo di anni di vita dell’Universo. Lo studio, condotto dai ricercatori dell’INAF, analizza 21 quasar distanti e rivela che questi oggetti si trovano in una fase di accrescimento super veloce, offrendo preziose informazioni sulla loro formazione ed evoluzione, in parallelo con quella delle galassie ospitanti.
In un articolo pubblicato oggi sulla rivista Astronomy & Astrophysics emergono nuove indicazioni che suggeriscono come i buchi neri supermassicci, con masse pari ad alcuni miliardi di volte quella del nostro Sole, si siano formati così rapidamente in meno di un miliardo di anni dopo il Big Bang. Lo studio, guidato dai ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), analizza un campione di 21 quasar, tra i più distanti scoperti finora, osservati nei raggi X dai telescopi spaziali XMM-Newton e Chandra. I risultati suggeriscono che i buchi neri supermassicci al centro di questi titanici quasar, i primi a essersi formati durante l’alba cosmica, potrebbero aver raggiunto le loro straordinarie masse grazie a un accrescimento molto rapido e intenso, fornendo così una spiegazione plausibile alla loro esistenza nelle prime fasi dell’Universo.
I quasar sono galassie attive, alimentate da buchi neri supermassicci al loro centro (chiamati nuclei galattici attivi), che emettono enormi quantità di energia mentre attraggono materia. Sono estremamente luminosi e lontani da noi. Nello specifico, i quasar esaminati in questo studio sono tra gli oggetti più distanti mai osservati e risalgono a un’epoca in cui l’Universo aveva meno di un miliardo di anni.
In questo lavoro, l’analisi delle emissioni nei raggi X di tali oggetti ha rivelato un comportamento completamente inaspettato dei buchi neri supermassicci al loro centro: è emerso un legame tra la forma dell’emissione in banda X e la velocità dei venti di materia lanciati dai quasar. Questa relazione associa la velocità dei venti, che può raggiungere migliaia di chilometri al secondo, alla temperatura del gas nella corona, la zona che emette raggi X più prossima al buco nero, legata a sua volta ai potenti meccanismi di accrescimento del buco nero stesso. I quasar con emissione X a bassa energia, quindi con una minore temperatura del gas nella corona, mostrano venti più veloci. Ciò è indice di una fase di crescita estremamente rapida che valica un limite fisico di accrescimento di materia denominato limite di Eddington, per questo motivo tale fase viene chiamata ‘super Eddington’. Viceversa, i quasar con emissioni più energetiche nei raggi X tendono a presentare venti più lenti.
“Il nostro lavoro suggerisce che i buchi neri supermassicci al centro dei primi quasar che si sono formati nel primo miliardo di anni di vita dell’Universo possano effettivamente aver aumentato la loro massa molto velocemente, sfidando i limiti della fisica”, afferma Alessia Tortosa, prima autrice del lavoro e ricercatrice presso l’INAF di Roma. “La scoperta di questo legame tra emissione X e venti è cruciale per comprendere come buchi neri così grandi si siano formati in così poco tempo, offrendo in tal modo un’indicazione concreta per risolvere uno dei più grandi misteri dell’astrofisica moderna”.
Il risultato è stato raggiunto soprattutto grazie all’analisi di dati raccolti con il telescopio spaziale XMM-Newton dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) che ha permesso di osservare i quasar per circa 700 ore, fornendo dati senza precedenti sulla loro natura energetica. La maggior parte dei dati, raccolti tra il 2021 e 2023 nell’ambito del Multi-Year XMM-Newton Heritage Programme, sotto la direzione di Luca Zappacosta, ricercatore dell’INAF di Roma, fa parte del progetto HYPERION, che si propone di studiare i quasar iperluminosi all’alba cosmica dell’Universo. L’estesa campagna di osservazioni è stata guidata da un team di scienziati italiani e ha ricevuto il sostegno cruciale dell’INAF, che ha finanziato il programma, sostenendo così una ricerca di avanguardia sulle dinamiche evolutive delle prime strutture dell’Universo.
“Per il programma HYPERION abbiamo puntato su due fattori chiave: da una parte l’accurata scelta dei quasar da osservare, selezionando i titani, cioè quelli che avevano accumulato la maggior massa possibile, e dall’altra lo studio approfondito delle loro proprietà nei raggi X, mai tentato finora su così tanti oggetti all’alba cosmica”, sostiene Zappacosta. “Direi proprio che abbiamo fatto bingo! I risultati che stiamo ottenendo sono davvero inaspettati e puntano tutti su un meccanismo di crescita dei buchi neri di tipo super Eddington”.
Questo studio fornisce indicazioni importanti per le future missioni in banda X, come ATHENA (ESA), AXIS e Lynx (NASA), il cui lancio è previsto tra il 2030 e il 2040. Infatti, i risultati ottenuti saranno utili per il perfezionamento degli strumenti di osservazione di nuova generazione e per la definizione di migliori strategie di indagine dei buchi neri e dei nuclei galattici nei raggi X a epoche cosmiche più remote, elementi essenziali per comprendere la formazione delle prime strutture galattiche nell’Universo primordiale.
Cinque straordinarie galassie nelle nuove, dettagliatissime immagini realizzate dal VST, il telescopio italiano gestito dall’Istituto Nazionale di Astrofisica presso l’Osservatorio ESO di Paranal, in Cile
L’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) rilascia oggi le immagini di cinque galassie dell’universo locale, riprese con il telescopio italiano VST (VLT Survey Telescope) gestito da INAF in Cile. Le nuove immagini mostrano queste iconiche galassie nei minimi dettagli, immortalandone la forma, i colori e la distribuzione delle stelle fino a grandi distanze dal centro. Due di esse, la galassia irregolare NGC 3109 e la irregolare nana Sestante A, si trovano ai confini del cosiddetto Gruppo Locale, di cui fa parte anche la nostra galassia, la Via Lattea, e si trovano a circa quattro milioni di anni luce da noi. Altre due galassie, la splendida galassia a spirale nota come Girandola del Sud (ma anche NGC 5236 o M 83) e la irregolare NGC 5253, si trovano, rispettivamente, a circa quindici e undici milioni di anni luce dalla nostra, mentre la quinta e più lontana, la galassia a spirale IC 5332, dista circa trenta milioni di anni luce.
Le osservazioni sono state realizzate in tre filtri, o colori, nell’ambito della survey VST-SMASH (VST Survey of Mass Assembly and Structural Hierarchy), un progetto guidato da Crescenzo Tortora, ricercatore dell’INAF a Napoli, per comprendere i meccanismi che portano alla formazione delle tante e diverse galassie che popolano il cosmo. Le cinque galassie di cui oggi vengono diffuse le immagini sono parte di un campione di 27 galassie che il team sta studiando con il VST, telescopio dotato di uno specchio dal diametro di 2,6 metri, costruito in Italia e ospitato dal 2012 presso l’Osservatorio ESO di Cerro Paranal, in Cile. Queste galassie sono state selezionate accuratamente nella porzione di cielo che, nel corso dei prossimi anni, sarà osservata anche dal satellite Euclid dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) per fornire una controparte ottica più dettagliata (fino a lunghezze d’onda corrispondenti al colore blu) ai dati spaziali raccolti dallo strumento VIS (a lunghezze d’onda corrispondenti al colore rosso) e dallo strumento NISP nel vicino infrarosso. Il gruppo ha presentato la survey in un articolo pubblicato sulla rivista The Messenger dell’ESO.
“Cerchiamo di capire come si formano le galassie, in funzione della loro massa e del loro tipo morfologico. Questo significa chiedersi come si formano le stelle in situ, all’interno delle galassie, ma anche come vengono accumulate (ex situ) attraverso processi di merging, cioè di fusione, con altre galassie” spiega Tortora, alla guida di un team internazionale che coinvolge molti ricercatori e ricercatrici di svariate sedi INAF. “Per fare questo, dobbiamo tracciare i colori di queste galassie fino alle regioni periferiche, per poter investigare la presenza di strutture molto deboli appartenenti a queste galassie, e popolazioni di galassie poco brillanti che vi orbitano attorno. Questo è utile per poter tracciare i residui delle interazioni galattiche, e quindi vincolare il processo gerarchico della formazione delle strutture cosmiche”.
L’analisi dei dati raccolti è ancora all’inizio, ma le osservazioni si sono già dimostrate efficaci, permettendo al team di esaminare le galassie fino a brillanze superficiali molto basse, che fino a qualche anno fa erano difficili da osservare. Il telescopio VST, grazie al suo grande campo di vista di un grado quadrato, pari a circa quattro volte l’area della luna piena nel cielo, è stato lo strumento fondamentale che ha permesso di realizzare queste immagini in un tempo relativamente breve – osservando il campo intorno a queste galassie, nei tre filtri, con 10 ore di osservazioni per grado quadrato. In confronto, realizzare una sola di queste immagini con il telescopio spaziale Hubble avrebbe richiesto molti puntamenti consecutivi.
“È la prima volta che tutte queste galassie vengono osservate in maniera così profonda e dettagliata, e con dati omogenei”, aggiunge Tortora. “Negli anni a venire, solo Euclid raggiungerà le nostre profondità ottiche, ma non potrà contare sulla vasta copertura nelle lunghezze ottiche del VST. Il Vera Rubin Observatory, invece, pur osservando in regioni spettrali simili alle nostre, raggiungerà profondità simili solo dopo molti anni di osservazione. Questo rende VST uno strumento che può ancora dire la sua, e dà speranze per interessanti risultati all’interno della nostra survey”, conclude.
Riferimenti bibliografici:
L’articolo “VST-SMASH: the VST survey of Mass Assembly and Structural Hierarchy”, di Crescenzo Tortora, Rossella Ragusa, Massimiliano Gatto, Marilena Spavone, Leslie Hunt, Vincenzo Ripepi, Massimo Dall’Ora, Abdurro’uf, Francesca Annibali, Maarten Baes, Francesco Michel Concetto Belfiore, Nicola Bellucco, Micol Bolzonella, Michele Cantiello, Paola Dimauro, Mathias Kluge, Federico Lelli, Nicola R. Napolitano, Achille Nucita, Mario Radovich, Roberto Scaramella, Eva Schinnerer, Vincenzo Testa e Aiswarya Unni, è stato pubblicato online sulla rivista The Messenger dell’ESO.
Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF
LA PRIMA ANALISI 3D SULLA FORMAZIONE ED EVOLUZIONE DEGLI AMMASSI GLOBULARI
Uno studio pubblicato oggi sulla rivista Astronomy & Astrophysics apre nuove prospettive sulla nostra comprensione della formazione ed evoluzione dinamica delle popolazioni stellari multiple negli ammassi globulari, agglomerati di stelle di forma sferica, molto compatti, formati tipicamente da 1-2 milioni di stelle. Un gruppo di ricercatori, dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), dell’Università degli Studi di Bologna e dell’Università dell’Indiana negli USA, ha infatti condotto la prima analisi cinematica 3D (tridimensionale) delle popolazioni stellari multiple per un campione rappresentativo di 16 ammassi globulari nella nostra Galassia, fornendo una descrizione osservativa pionieristica del modo in cui le stelle si muovono al loro interno e della loro evoluzione dall’epoca di formazione fino allo stato presente.
Emanuele Dalessandro, ricercatore presso l’INAF di Bologna, primo autore dell’articolo e coordinatore del gruppo di lavoro spiega:
“La comprensione dei processi fisici alla base della formazione ed evoluzione iniziale degli ammassi globulari è una delle più affascinanti e discusse domande astrofisiche degli ultimi 20-25 anni. I risultati del nostro studio forniscono la prima evidenza concreta che gli ammassi globulari si siano generati attraverso molteplici eventi di formazione stellare e pongono vincoli fondamentali sul percorso dinamico seguito dagli ammassi nel corso della loro evoluzione. Questi risultati sono stati possibili grazie a un approccio multi-diagnostico e alla combinazione di osservazioni e simulazioni dinamiche allo stato dell’arte”.
Lo studio evidenzia che le differenze cinematiche tra le popolazioni multiple sono estremamente utili per comprendere i meccanismi di formazione ed evoluzione di queste antiche strutture.
Con età che possono arrivare a 12-13 miliardi di anni (quindi fino all’alba del Cosmo), gli ammassi globulari sono tra i primi sistemi a essersi formati nell’Universo e rappresentano una popolazione tipica di tutte le galassie. Sono sistemi compatti – con masse di alcune centinaia di migliaia di masse solari e dimensioni di pochi parsec – e osservabili anche in galassie lontane.
“La loro rilevanza astrofisica è enorme – afferma Dalessandro – perché non solo ci aiutano a verificare i modelli cosmologici della formazione dell’Universo grazie alla loro età, ma ci offrono anche laboratori naturali per studiare la formazione, l’evoluzione e l’arricchimento chimico delle galassie”.
Nonostante gli ammassi stellari siano stati studiati per oltre un secolo, risultati osservativi recenti dimostrano che la loro conoscenza è ancora incompleta.
“Risultati ottenuti negli ultimi due decenni, hanno inaspettatamente dimostrato che gli ammassi globulari sono composti da più di una popolazione di stelle: una primordiale, con proprietà chimiche simili a quelle di altre stelle nella Galassia, e una con abbondanze chimiche anomale di elementi leggeri quali elio, ossigeno, sodio, azoto”,
dice Mario Cadelano, ricercatore al Dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Bologna e associato INAF, tra gli autori dello studio.
“Nonostante il gran numero di osservazioni e modelli teorici finalizzati a caratterizzare le proprietà di queste popolazioni, i meccanismi che regolano la loro formazione non sono tutt’ora compresi”.
Lo studio si basa sulla misura delle velocità nelle tre dimensioni, ovvero sulla combinazione di moti propri e velocità radiali, ottenuti dal telescopio dell’ESA Gaia e da dati ottenuti tra gli altri con il telescopio VLT dell’ESO principalmente nell’ambito della survey MIKiS (Multi Instrument Kinematic Survey), una survey spettroscopica specificamente indirizzata all’esplorazione della cinematica interna degli ammassi globulari. L’utilizzo di questi telescopi, dallo spazio e da terra, ha garantito una visione 3D senza precedenti della distribuzione di velocità delle stelle negli ammassi globulari selezionati.
Dalle analisi emerge che le stelle con differenti abbondanze di elementi leggeri sono caratterizzate da proprietà cinematiche differenti, come la velocità di rotazione e la distribuzione delle orbite.
“In questo lavoro abbiamo analizzato nel dettaglio come si muovono all’interno di ogni ammasso migliaia di stelle”, aggiunge Alessandro Della Croce, studente di dottorato presso l’INAF di Bologna. “È risultato subito chiaro che stelle appartenenti a diverse popolazioni sono caratterizzate da proprietà cinematiche differenti: le stelle con composizione chimica anomala tendenzialmente ruotano all’interno dell’ammasso più velocemente delle altre e si diffondono progressivamente dalle regioni centrali verso quelle più esterne”.
L’intensità di queste differenze cinematiche dipende all’età dinamica degli ammassi globulari.
“Questi risultati sono compatibili con l’evoluzione dinamica a ‘lungo termine’ di sistemi stellari in cui le stelle con abbondanze chimiche anomale si formano più centralmente concentrate e più rapidamente rotanti di quelle standard. Ciò di conseguenza suggerisce che gli ammassi globulari si siano generati attraverso eventi multipli di formazione stellare e fornisce un tassello importante nella definizione dei processi fisici e dei tempi-scala alla base della formazione ed evoluzione di ammassi stellari massicci”, sottolinea Dalessandro.
Questa nuova visione tridimensionale del moto delle stelle all’interno degli ammassi globulari fornisce un quadro inedito e affascinante sulla formazione ed evoluzione dinamica di questi sistemi, contribuendo a chiarire alcuni dei misteri più complessi riguardanti l’origine di queste antichissime strutture.
LA LUNA E LA TERRA IN POSA PER LA CAMERA JANUS DURANTE IL PRIMO FLYBY DI JUICE
Nelle immagini raccolte dalla sonda ESA, oltre 400, crateri e paesaggi lunari, le isole degli arcipelaghi delle Hawaii e delle Filippine e immensi banchi di nuvole sull’Oceano Pacifico. Lo strumento italiano funziona alla perfezione.
Roma, 23 agosto 2024 – Si chiama JANUS la camera ottica che viaggia da oltre un anno a bordo della sonda ESA JUICE (Jupiter Icy Moon Explorer) e nei giorni scorsi – durante il primo flyby del sistema Luna-Terra della storia – ha acquisito immagini straordinarie del nostro satellite naturale e del nostro pianeta. La fionda gravitazionale doppia è avvenuta con successo la notte tra il 19 e 20 agosto scorsi: tale manovra, mai realizzata in precedenza anche per i notevoli rischi, ha permesso a JUICE di cambiare velocità e direzione di volo, preparando la sonda al successivo sorvolo ravvicinato di Venere previsto per agosto 2025.
La camera JANUS è stata progettata per studiare la morfologia e i processi globali regionali e locali delle lune ghiacciate di Giove e per eseguire la mappatura delle nubi del gigante gassoso. Lo strumento è stato realizzato da un consorzio di industrie a guida Leonardo sotto la responsabilità dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI). La camera JANUS è stata realizzata anche grazie alla collaborazione con l’agenzia tedesca DLR, il CSIC-IAA di Granada e il CEI-Open University di Milton Keynes. La responsabilità scientifica dello strumento è dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).
La Luna e la Terra in posa per la camera JANUS durante il primo flyby di JUICE. Gallery
“Dopo oltre 12 anni di lavoro per proporre, realizzare e verificare lo strumento, questa è la prima occasione per toccare con mano dati simili a quelli che acquisiremo nel sistema di Giove a partire dal 2031”, commenta Pasquale Palumbo, ricercatore all’INAF di Roma e principal investigator del team che ha progettato, testato e calibrato la fotocamera JANUS. “Anche se il flyby è stato pianificato esclusivamente per facilitare il viaggio interplanetario fino a Giove, tutti gli strumenti a bordo della sonda hanno approfittato del passaggio in prossimità di Luna e Terra per acquisire dati, provare operazioni e tecniche di elaborazione con il vantaggio di conoscere già cosa stavamo osservando”, aggiunge.
“L’insieme degli strumenti italiani a bordo della missione JUICE è quanto di più tecnologicamente avanzato sia stato mai realizzato e consentirà di ottenere dei risultati scientifici di assoluta rilevanza consolidando la posizione di leadership raggiunta dall’Italia nell’ambito dell’esplorazione del sistema solare”, dichiara Barbara Negri responsabile dell’ufficio Volo Umano e Sperimentazione Scientifica dell’ASI. “Infatti, la nostra agenzia ha coordinato e gestito, oltre alla realizzazione della camera JANUS, la realizzazione del radar sotto-superficiale RIME, la realizzazione dell’esperimento di radio scienza 3GM e la realizzazione della testa ottica dello spettrometro MAJIS a guida francese”, prosegue.
“A poco più di un anno dal lancio di JUICE, questo doppio passaggio ravvicinato ha rappresentato una pietra miliare per il viaggio della sonda verso la sua destinazione finale, commenta Angelo Zinzi responsabile per l’ASI dello strumento JANUS.
“Oltre ad aver ottenuto l’assistenza gravitazionale richiesta, i vari strumenti sono stati accesi e hanno operato in modalità simili a quelle attese intorno a Giove e ai suoi satelliti: i dati sono stati ottenuti, inviati a terra e processati così come previsto, mostrando l’ottima preparazione dei team di strumento coinvolti. La camera nel visibile JANUS e lo spettrometro MAJIS hanno inoltre sfruttato la possibilità di acquisire immagini quasi contemporanee con il satellite multispettrale PRISMA dell’ASI. Dopo un lungo lavoro di preparazione tra i vari team coinvolti è stato infatti possibile ottenere una serie di osservazioni PRISMA da poter confrontare con quelle di JANUS e MAJIS: queste saranno molto utili per testare le procedure di calibrazione e l’accuratezza dei due strumenti di JUICE coinvolti, così da rendere più robusto il lavoro scientifico futuro”, prosegue Zinzi.
“Mentre la Luna offre il vantaggio di conoscere quello che osserviamo – spiega Palumbo – il problema della Terra è la sua estrema variabilità temporale; si pensi alle nuvole che si muovono e cambiano nell’arco anche di minuti. Per ovviare a questo abbiamo pianificato osservazioni contemporanee con satelliti di osservazione della Terra: questo ci garantirà un termine di confronto.
Lo strumento italiano è equipaggiato con un sistema di 13 filtri (5 a banda larga e 8 a banda stretta) distribuiti nell’intervallo spettrale dal visibile al vicino infrarosso. Avere immagini della stessa zona in diversi filtri permette ai ricercatori di avere molto di più di semplici immagini a “colori”: le fotocamere che conosciamo acquisiscono le immagini con tre diversi filtri (rosso, verde e blu o RGB) depositati a scacchiera sullo stesso sensore, mentre JANUS ne posiziona ben 13 davanti al rivelatore coprendo un intervallo più ampio di quello percepibile dall’occhio umano.
Lo scopo primario dei dati raccolti da JANUS durante il doppio flyby è stato quello di valutare prestazioni e funzionalità dello strumento, non di eseguire misure scientifiche. Per questa ragione, le immagini (circa 200 della Luna e altrettante della Terra) sono state acquisite a diversi intervalli temporali, con diversi filtri, numerosi fattori di compressione e altrettanti tempi di integrazione.
“In alcuni casi – sottolinea il ricercatore – abbiamo provocato volontariamente un peggioramento della qualità utilizzando tempi di integrazione lunghi, ottenendo immagini per così dire ‘mosse’, in modo da testare algoritmi di recupero della risoluzione. In altri casi abbiamo parzialmente saturato l’immagine per studiare gli effetti indotti sulle zone non saturate”. E aggiunge: “abbiamo anche misurato per la prima volta e meglio del millesimo di grado l’allineamento fra il laser altimetro e la camera. Questo è un dato essenziale per integrare le risposte dei due strumenti”, dice Palumbo. Le immagini pubblicate oggi sono preliminari e non elaborate per un utilizzo scientifico.
Palumbo conclude commentando le immagini della Terra raccolte all’alba del 20 agosto: “L’osservazione della superficie dei satelliti ghiacciati di Giove, come per la Luna, non è disturbata dall’atmosfera. Al contrario, Giove è una gigantesca, dinamica e turbolenta atmosfera. Le immagini di JANUS della Terra, con diversi filtri, possono simulare quello che potremo fare a Giove: osservare diversi strati e componenti dell’atmosfera semplicemente cambiando filtro”.
JANUS permetterà l’acquisizione di immagini multi spettrali dei satelliti ghiacciati di Giove a una risoluzione e con una estensione 50 volte migliore delle camere inviate nel sistema gioviano in passato. La camera include anche un computer con un software che controlla tutte le funzionalità dello strumento, riceve i comandi e invia telemetria e dati a terra attraverso la grande antenna parabolica di JUICE.
Tutte le operazioni si sono svolte secondo quanto programmato e, come confermato dalle telemetrie, completate con successo. Attualmente i dati che stanno piano piano arrivando a terra, anche da RIME, 3GM e MAJIS (gli altri strumenti italiani) sono al vaglio del team scientifico.
Dopo il lancio della missione nell’aprile del 2023, le manovre gravitazionali previste nella tabella di marcia di JUICE sono fondamentali per avvicinare sempre di più la sonda verso il sistema di lune gioviano, che dista in media 800 milioni di km dal nostro pianeta, con il minor dispendio di propellente. Il sorvolo di Venere nel 2025 spingerà JUICE di nuovo verso la Terra. Gli altri flyby sono previsti a settembre 2026 e a gennaio 2029; l’arrivo su Giove è invece in programma per luglio 2031.
Per ulteriori informazioni:
Leonardo è responsabile industriale per la realizzazione, integrazione e test dello strumento JANUS, con il contributo di sottosistemi dal DLR di Berlino, CSIC-IAA di Granada e CEI-Open University di Milton Keynes. Le Agenzie Spaziali Italiana, Tedesca, Inglese (ASI, DLR e UKSA), con il Ministero della Ricerca Spagnolo, sono i principali finanziatori del progetto. JANUS è stata sviluppata da un team internazionale composto da Istituti e ricercatori situati in Italia, Germania, Spagna, Gran Bretagna, Francia, Usa, Giappone e Israele. Il team è guidato dall’INAF-IAPS di Roma e include partecipanti anche da altri istituti INAF (gli Osservatori di Padova, Roma, Napoli, Teramo e Catania), dal CISAS-Università di Padova e da altri istituti di ricerca e università.
Gli altri strumenti italiani a bordo della missione JUICE
RIME (Radar for Icy Moon Exploration) è un radar sottosuperficiale ottimizzato per penetrare la superficie ghiacciata dei satelliti Galileiani fino alla profondità di 9 Km con una risoluzione verticale fino a 30 m. Il radar RIME, è stato realizzato con la il contributo del Jet Propulsion Laboratory (JPL) della NASA che ne ha fornito la parte ricevente e trasmittente e ricevente.
3GM (Gravity and Geophysics of Jupiter and the Galilean Moons) è uno strumento per radio scienza che comprende un transponder in banda Ka e un oscillatore ultrastabile (USO), realizzato in collaborazione con l’agenzia spaziale Israeliana (ISA). Sarà utilizzato per studiare il campo di gravità fino alla decima armonica di Ganimede e l’estensione degli oceani interni sulle lune ghiacciate. L’esperimento 3GM sarà inoltre supportato dall’accelerometro ad alta precisione (HAA) necessario per calibrare i disturbi dinamici interni del satellite, in particolare dovuti al movimento del propellente nei serbatoi.
Importante, inoltre, il coinvolgimento italiano per la testa ottica dello strumento MAJIS (Moons and Jupiter Imaging Spectrometer), uno spettrometro iper-spettrale a immagine per osservare le caratteristiche e le specie minori della troposfera di Giove nonché per la caratterizzazione dei ghiacci e dei minerali sulle lune ghiacciate. MAJIS, di responsabilità francese è stato realizzato con un accordo bilaterale tra ASI e CNES e vede la partecipazione dell’INAF nel coordinamento delle attività scientifiche dello strumento.
IL BUCO NERO DI MASSA INTERMEDIA DELL’AMMASSO STELLARE OMEGA CENTAURI: L’ANELLO MANCANTE NELL’EVOLUZIONE DEI BUCHI NERI MASSICCI
Sette nuove stelle in rapido movimento identificate al centro dell’ammasso stellare Omega Centauri forniscono una solida prova dell’esistenza di un buco nero centrale nell’ammasso stesso. Con una massa di almeno 8200 masse solari, questo buco nero è il miglior candidato per appartenere alla classe di buchi neri chiamata di massa intermedia. Gli astronomi credono che questo tipo di buchi neri si formi nelle prime fasi dell’evoluzione delle galassie. Questa scoperta, a cui partecipa anche l’INAF, rafforza l’ipotesi che Omega Centauri sia la regione centrale di una galassia inglobata nella Via Lattea miliardi di anni fa. Spogliato delle sue stelle esterne, il nucleo galattico da allora è rimasto “congelato nel tempo”.
Osservando Omega Centauri con un piccolo telescopio, non appare diversa dagli altri cosiddetti ammassi globulari: una spettacolare collezione sferica di stelle, così densa verso il centro che diventa impossibile distinguere le singole stelle. Questo nuovo studio, guidato da Maximilian Häberle (Istituto Max Planck per l’astronomia di Heidelberg, MPIA) e a cui partecipa anche Mattia Libralato dell’INAF – Istituto Nazionale di Astrofisica (e precedentemente in forza all’AURA per l’Agenzia Spaziale Europea presso lo Space Telescope Science Institute), porta nuova luce su questo oggetto celeste, confermando ciò che gli astronomi ipotizzavano da tempo: Omega Centauri ospita un buco nero centrale. Il buco nero sembra essere l'”anello mancante” tra i suoi simili di taglia stellare, che hanno masse comprese tra una e alcune decine di masse solari, e quelli supermassicci, con masse di milioni o miliardi di volte quelle del Sole, situati al centro delle galassie. Omega Centauri sembra essere il nucleo di una piccola galassia separata la cui evoluzione è stata interrotta quando è stata inglobata dalla Via Lattea.
Mattia Libralato, coautore dell’articolo appena pubblicato sulla rivista Nature che descrive la scoperta, commenta:
“L’esistenza di buchi neri di massa intermedia al centro degli ammassi globulari è un argomento molto controverso perché questi oggetti sono elusivi ed è difficile dedurre la loro presenza. In questa analisi sono state trovate sette stelle vicino al centro di Omega Centauri la cui velocità molto elevata e posizione sono compatibili con la presenza di un buco nero con una massa di almeno 8.200 volte quella del Sole al centro dell’ammasso. La scoperta di queste stelle è una delle prove più solide che sia stata raccolta dell’esistenza di un buco nero di massa intermedia”.
L’attuale teoria dell’evoluzione delle galassie ipotizza che le prime galassie dovessero avere buchi neri centrali di dimensioni intermedie, che sarebbero poi cresciuti nel tempo man mano che quelle galassie si evolvevano, inglobando galassie più piccole (come ha fatto la nostra Via Lattea) o fondendosi con galassie più grandi. Tali buchi neri di medie dimensioni sono notoriamente difficili da trovare: le galassie come la nostra Via Lattea hanno superato quella fase, contenendo ora buchi neri centrali molto più grandi, mentre le galassie nane invece sono difficili da osservare e rendono estremamente complicato rilevare i loro buchi neri centrali con la tecnologia attuale. Sebbene esistano candidati promettenti, fino ad ora non è mai stato rilevato un buco nero di massa intermedia.
Nadine Neumayer, capo gruppo al MPIA, e Anil Seth, dell’Università dello Utah, nel 2019 hanno dato vita ad un progetto di ricerca mirato a migliorare la comprensione della storia della formazione di Omega Centauri: identificare le stelle in rapido movimento attorno al buco nero centrale per poi misurarne la massa. Maximilian Häberle, uno studente di dottorato al MPIA, ha guidato il lavoro creando un enorme catalogo con i movimenti delle stelle in Omega Centauri e misurando le velocità di 1,4 milioni di stelle. Per questo lavoro, sono state utilizzate oltre 500 immagini di Hubble dell’ammasso, prodotte con lo scopo di calibrare gli strumenti del satellite, ma che con le loro visualizzazioni ripetute di Omega Centauri, si sono rivelate il set ideale di dati.
“Cercare stelle in rapido movimento e documentarne il movimento era come cercare il proverbiale ago in un pagliaio”
dice Häberle, che ha trovato ben sette stelle in rapido movimento in una piccola regione al centro di Omega Centauri dove non vi è nessun oggetto visibile. Tali stelle, con diverse velocità e direzioni di movimento, hanno permesso a Häberle e ai suoi colleghi di determinare la presenza di una massa centrale in Omega Centauri, di almeno 8.200 masse solari.
A una distanza di circa 18.000 anni luce, questo è l’esempio del più vicino buco nero massiccio ad oggi conosciuto. Infatti il buco nero supermassiccio nel centro della Via Lattea è a una distanza di circa 27.000 anni luce da noi. Questa rilevazione non solo promette di risolvere il dibattito decennale sul buco nero di massa intermedia in Omega Centauri, ma fornisce, in generale, anche il miglior candidato, fino ad ora, della rilevazione di un buco nero di massa intermedia.
“Negli ultimi 10 anni, l’astrometria, e in particolare lo studio della cinematica interna degli ammassi globulari, ha vissuto un vero e proprio “Rinascimento” grazie alla missione Gaia” ricorda Libralato. “Tuttavia, regioni affollate come il centro degli ammassi globulari sono difficili, e in alcuni casi impossibili, da studiare anche con Gaia, lasciando Hubble come unica risorsa. Il lavoro di Maximilian dimostra che anche dopo più di 30 anni dal suo lancio, il telescopio Hubble è uno dei migliori strumenti per ottenere astrometria di alta precisione in regioni estremamente affollate come il centro degli ammassi globulari”.
Neumayer, Häberle e i loro colleghi ora intendono studiare il centro di Omega Centauri con ancora maggiore dettaglio. Hanno già ottenuto l’approvazione per misurare il movimento delle stelle in rapido movimento utilizzando il Telescopio spaziale James Webb. L’utilizzo successivo di strumenti attualmente in costruzione, come GRAVITY+ al VLT dell’ESO e MICADO all’Extremely Large Telescope, potrebbe portare a misure più accurate delle posizioni delle stelle di quelle ottenute con le immagini di Hubble. L’obiettivo a lungo termine è determinare come le stelle accelerano e come curvano le loro orbite. Seguire le orbite intere delle stelle, come per le osservazioni del buco nero al centro della Via Lattea che hanno portato al premio Nobel, è un progetto per le future generazioni di astronomi. Infatti, la piccola massa del buco nero per Omega Centauri si traduce in tempi scala dieci volte più grandi rispetto a quelli utilizzati per lo studio del centro della Via Lattea, ovvero periodi orbitali di più di cento anni.
Per ulteriori informazioni:
L’articolo “Fast-moving stars around an intermediate-mass black hole in ω Centauri”, di Häberle M., Anil Seth, Andrea Bellini, Mattia Libralato, Holger Baumgardt, Matthew Whitaker, Mayte Alfaro Cuello, Jay Anderson, Nikolay Kacharov, Sebastian Kamann, Antonino Milone, Renuka Pechetti e Glenn van de Ven è stato pubblicato online sulla rivista Nature.
Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza
Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.
JWST CATTURA IL QUASAR DEL SISTEMA PJ308–21 E GALASSIE IN RAPIDA CRESCITA NELL’UNIVERSO LONTANO
Un gruppo internazionale di ricerca guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha utilizzato lo spettrografo nel vicino infrarosso NIRSpec a bordo del James Webb Space Telescope (JWST di NASA, ESA e CSA) per osservarela drammatica interazione tra un quasar all’interno del sistema PJ308–21 e due galassie satelliti massicce nell’universo lontano. Le osservazioni, realizzate a settembre 2022, hanno rivelato dettagli senza precedenti fornendo nuove informazioni sulla crescita delle galassie nell’universo primordiale. I risultati sono stati riportati in un recente articolo in pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics e presentati oggi durante il meeting della Società Astronomica Europea (European Astronomical Society – EAS) a Padova.
Il quasar in questione (già descritto dagli stessi autori in un altro studio pubblicato lo scorso maggio), uno dei primi osservati con il Near Infrared Spectrograph (NIRSpec) quando l’universo aveva meno di un miliardo di anni (redshift z = 6,2342), ha rivelato dati di una qualità sensazionale: lo strumento ha “catturato” il suo spettro con un’incertezza inferiore all’1% per pixel. La galassia ospite del quasar PJ308–21 mostra un’alta metallicità e condizioni di fotoionizzazione tipiche di un nucleo galattico attivo (AGN), mentre una delle galassie satelliti presenta una bassa metallicità e fotoionizzazione indotta dalla formazione stellare; la seconda galassia satellite è caratterizzata invece da una metallicità più elevata ed è parzialmente fotoionizzata dal quasar. Per metallicità si intende l’abbondanza di elementi chimici più pesanti di idrogeno ed elio. La scoperta ha permesso di determinare la massa del buco nero supermassiccio al centro del sistema (circa 2 miliardi di masse solari) e di confermare che sia il quasar che le galassie circostanti sono altamente evolute, in termini di massa e di arricchimento metallico, e in costante crescita.
Roberto Decarli, ricercatore presso l’INAF di Bologna e primo autore dell’articolo, spiega:
“Il nostro studio rivela che sia i buchi neri al centro di quasar ad alto redshift, sia le galassie che li ospitano, attraversano una crescita estremamente efficiente e tumultuosa già nel primo miliardo di anni di storia cosmica, coadiuvata dal ricco ambiente galattico in cui queste sorgenti si formano”.
I dati sono stati ottenuti a settembre 2022 nell’ambito del Programma 1554, uno dei nove progetti a guida italiana del primo ciclo osservativo di JWST. Decarli è alla guida di questo programma che ha come obiettivo osservare proprio la fusione fra la galassia che ospita il quasar (PJ308-21) e due sue galassie satelliti.
Le osservazioni sono state realizzate in modalità di spettroscopia a campo integrale: per ogni pixel dell’immagine si ottiene l’intero spettro della banda ottica nel sistema di riferimento delle sorgenti osservate, che a causa dell’espansione dell’universo viene osservato nell’infrarosso. Ciò consente di studiare vari traccianti del gas (righe di emissione) con un approccio 3D. Grazie a questa tecnica il team (formato da 34 istituti di ricerca e università di tutto il mondo) ha rilevato emissioni spazialmente estese di diverse righe di emissione, che sono state utilizzate per studiare le proprietà del mezzo interstellare ionizzato, comprese la fonte e la durezza del campo di radiazione fotoionizzante, la metallicità, l’oscuramento della polvere, la densità elettronica e la temperatura, e il tasso di formazione stellare. Inoltre, è stata rilevata marginalmente l’emissione di luce stellare continua associata alle sorgenti compagne.
Federica Loiacono, astrofisica, assegnista di ricerca in forze all’INAF di Bologna, commenta entusiasta i risultati:
“Grazie a NIRSpec, possiamo per la prima volta studiare, nel sistema PJ308-21, la banda ottica ricca di preziosi dati diagnostici sulle proprietà del gas vicino al buco nero nella galassia che ospita il quasar e nelle galassie circostanti. Possiamo vedere, per esempio, l’emissione degli atomi di idrogeno e confrontarla con quella degli elementi chimici prodotti dalle stelle, per stabilire quanto sia ricco di metalli il gas nelle galassie. L’esperienza ottenuta nella riduzione e calibrazione di questi dati, alcuni dei primi collezionati con NIRSpec in modalità di spettroscopia a campo integrale, ha assicurato un vantaggio strategico per la comunità italiana rispetto alla gestione di dati simili”.
Loiacono è la referente italiana per la riduzione dei dati NIRSpec al JWST Support Centre dell’INAF, che assiste la comunità astronomica italiana nell’uso dei dati provenienti dal potente osservatorio spaziale.
Loiacono aggiunge: “Grazie alla sensibilità del James Webb Space Telescope nel vicino e medio infrarosso, è stato possibile studiare lo spettro del quasar e delle galassie compagne con una precisione senza precedenti nell’universo lontano. Solo l’eccellente ‘vista’ offerta da JWST è in grado di assicurare queste osservazioni”. Il lavoro ha rappresentato un vero e proprio “rollercoaster emotivo”, continua Decarli, “con la necessità di sviluppare soluzioni innovative per superare le difficoltà iniziali nella riduzione dei dati”.
Decarli conclude sottolineando la straordinaria importanza degli strumenti a bordo del telescopio Webb:
“Fino a un paio di anni fa, dati sull’arricchimento dei metalli (indispensabile per capire l’evoluzione chimica delle galassie) erano quasi al di là della nostra portata, soprattutto a queste distanze. Ora possiamo mappare in dettaglio con poche ore di osservazione anche in galassie osservate quando l’universo era agli albori”.
Riferimenti bibliografici:
L’articolo “A quasar-galaxy merger at z ∼ 6.2: rapid host growth via accretion of two massive satellite galaxies“, di Roberto Decarli, Federica Loiacono, Emanuele Paolo Farina, Massimo Dotti, Alessandro Lupi, Romain A. Meyer, Marco Mignoli, Antonio Pensabene, Michael A. Strauss, Bram Venemans, Jinyi Yang, Fabian Walter, Julien Wolf, Eduardo Bañados, Laura Blecha, Sarah Bosman, Chris L. Carilli, Andrea Comastri, Thomas Connor, Tiago Costa, Anna-Christina Eilers, Xiaohui Fan, Roberto Gilli, Hyunsung D. Jun, Weizhe Liu, Madeline A. Marshall, Chiara Mazzucchelli, Marcel Neeleman, Masafusa Onoue, Roderik Overzier, Maria Anne Pudoka, Dominik A. Riechers, Hans-Walter Rix, Jan-Torge Schindler, Benny Trakhtenbrot, Maxime Trebitsch, Marianne Vestergaard, Marta Volonteri, Feige Wang, Huanian Zhang, Siwei Zou, in pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.
Testo, video e immagini dall’Ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.
VLT E ALMA CATTURANO RAFFICHE DI VENTO RELATIVISTICO DAL QUASAR DELLA GALASSIA J0923+0402, IN PIENA ATTIVITÀ
Un team di ricerca guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dall’Università degli studi di Trieste ha di nuovo imbrigliato i lontanissimi ed energici venti relativistici generati da un quasar lontano ma decisamente attivo (uno dei più luminosi finora scoperti). In uno studio pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal viene riportata la prima osservazione a diverse lunghezze d’onda dell’interazione tra buco nero e il quasar della galassia ospite durante le fasi iniziali dell’Universo, circa 13 miliardi di anni fa. Oltre all’evidenza di una tempesta di gas generata dal buco nero, gli esperti hanno scoperto per la prima volta un alone di gas che si estende ben oltre la galassia, suggerendo la presenza di materiale espulso dalla galassia stessa tramite i venti generati dal buco nero.
La galassia protagonista dello studio è J0923+0402, un oggetto lontanissimo da noi, per la precisione a redshift z = 6.632 (ossia la sua radiazione che osserviamo è stata emessa quando l’Universo aveva meno di un miliardo di anni) con al centro un quasar. La luce dei quasar (o quasi-stellar radio source) viene prodotta quando il materiale galattico che circonda il buco nero supermassiccio si raccoglie in un disco di accrescimento. Infatti, nell’avvicinarsi al buco nero per poi esserne inghiottita, la materia si scalda emettendo grandi quantità di radiazione brillante nella luce visibile e ultravioletta.
“L’utilizzo congiunto di osservazioni multibanda ha permesso di studiare, in un range di scale spaziali molto ampio e dalle regioni più nucleari fino al mezzo circumgalatico, il quasar più lontano con misura di vento nucleare e l’alone di gas più esteso rilevato in epoche remote (circa 50 mila anni luce)”, spiega Manuela Bischetti, prima autrice dello studio e ricercatrice presso l’INAF e l’Università degli studi di Trieste.
I dati descritti nell’articolo sono frutto della collaborazione di gruppi di ricerca che lavorano su frequenze diverse dello spettro elettromagnetico. In primis lo spettrografo X-Shooter, installato sul Very Large Telescope (VLT) dell’ESO, ha captato raffiche di materia, in gergo BAL winds (dall’inglese venti con righe di assorbimento larghe o broad absorption line), in grado di raggiungere velocità relativistiche fino a decine di migliaia di chilometri al secondo, misurandone e calcolandone le caratteristiche. Le potenti antenne cilene di ALMA (l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array sempre dell’ESO), ricevendo frequenze dai 242 ai 257 GHz provenienti dall’alba del Cosmo, sono state attivate per cercare la controparte nel gas freddo dei venti BAL e capire se si estendesse oltre la scala della galassia.
La ricercatrice sottolinea: “I BAL sono venti che si osservano nello spettro ultravioletto del quasar che, data la grande distanza da noi, osserviamo a lunghezze d’onda dell’ottico e vicino infrarosso. Per fare queste osservazioni abbiamo usato lo spettrografo X-Shooter del Very Large Telescope. Avevamo già scoperto il BAL di questo quasar due anni fa. Il problema è che non sapevamo quantificare quanto fosse energetico. Questo vento BAL è un vento di gas caldo (decine di migliaia di gradi) che si muove a decine di migliaia di km/s. Allo stesso tempo le osservazioni in banda millimetrica di ALMA ci hanno permesso di capire cosa stia succedendo nella galassia e attorno a essa andando a vedere cosa succede al gas freddo (qualche centinaio di gradi). Abbiamo trovato che il vento si estende anche sulla scala della galassia (ma ha delle velocità più basse, 500 km/s. Questa è una cosa aspettata, il vento decelera man mano che si espande), il che ci ha fatto pensare che questo mega alone di gas sia stato creato dal materiale che i venti hanno espulso dalla galassia”.
La posizione della sorgente energetica è stata poi “immortalata” dapprima dalla Hyper Suprime-Cam (HSC), una gigantesca fotocamera installata sul telescopio Subaru e sviluppata dall’Osservatorio Astronomico Nazionale del Giappone (National Astronomical Observatory of Japan – NAOJ), e – con una misura molto più accurata – dalla NIRCam, una fotocamera a raggi infrarossi installata sul telescopio spaziale James Webb (JWST delle agenzie spaziali NASA, ESA e CSA).
“Questo quasar verrà osservato nuovamente dal JWST in futuro per studiare meglio sia il vento che l’alone”, annuncia Bischetti.
La ricercatrice prosegue spiegando il perché di questa survey: “Ci siamo chiesti se l’attività del buco nero potesse avere un impatto sulle fasi iniziali di evoluzione delle galassie, e tramite quali meccanismi questo avvenga. Vincente è stata la combinazione di dati multibanda che vanno dall’ottico e vicino infrarosso – per misurare le proprietà del buco nero, e cosa avviene nel nucleo della galassia – fino alle osservazioni in banda millimetrica – per studiare cosa avviene all’interno e attorno alla galassia”. Le misure effettuate “sono di routine nell’Universo locale, ma questi risultati non erano mai stati ottenuti prima a redshift z>6”, aggiunge.
“Il nostro studio ci aiuta a capire come il gas venga espulso o catturato dalle galassie dell’Universo giovane e come i buchi neri crescono e possono avere un impatto sull’evoluzione delle galassie. Sappiamo che il fato delle galassie come la Via Lattea è strettamente legato a quello dei buchi neri, poiché questi possono generare tempeste galattiche in grado di spegnere la formazione di nuove stelle. Studiare le epoche primordiali ci permette di capire le condizioni iniziali dell’Universo che vediamo oggi”, conclude Bischetti.
Per altre informazioni:
L’articolo “Multi-phase black-hole feedback and a bright [CII] halo in a Lo-BAL quasar at z∼6.6”, di Manuela Bischetti, Hyunseop Choi, Fabrizio Fiore, Chiara Feruglio, Stefano Carniani, Valentina D’Odorico, Eduardo Bañados, Huanqing Chen, Roberto Decarli, Simona Gallerani, Julie Hlavacek-Larrondo, Samuel Lai, Karen M. Leighly, Chiara Mazzucchelli, Laurence Perreault-Levasseur, Roberta Tripodi, Fabian Walter, Feige Wang, Jinyi Yang, Maria Vittoria Zanchettin, Yongda Zhu, è stato pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal.
Testo e immagine dall’Ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).
NANE BIANCHE E PIANETI DISTRUTTI: GLI INDIZI TROVATI DAL JAMES WEBB SPACE TELESCOPE
Il telescopio spaziale James Webb (JWST) delle agenzie spaziali NASA, ESA e CSA ci regala nuove immagini mozzafiato del nostro vicinato galattico. Un gruppo di ricerca guidato dall’Istituto nazionale di astrofisica (INAF) ha sfruttato le enormi potenzialità di JWST per osservare, per la prima volta all’infrarosso, l’intera sequenza di raffreddamento delle nane bianche in un vicino ammasso globulare, rivelando un eccesso di emissione infrarossa, potenziale indizio di antichi sistemi planetari distrutti. L’articolo è stato pubblicato di recente nella rivista Astronomische Nachrichten (Astronomical Notes).
La maggior parte delle stelle, soprattutto quelle di massa simile al Sole (da 8 fino a 0.07-0.08 masse solari), terminano la loro evoluzione come nane bianche, cosa che alla nostra stella madre accadrà fra circa 5 miliardi di anni. Dopo aver esaurito il “combustibile” stellare (idrogeno ed elio), questi oggetti non sono in grado di innescare reazioni termonucleari e collassano sotto il proprio peso raffreddandosi fino al loro definitivo spegnimento, perdendo lo strato più esterno della loro atmosfera.
I dati utilizzati nella survey, estrapolati dall’archivio ventennale di Hubble e da recenti osservazioni con il telescopio spaziale Webb, hanno permesso al gruppo di ricerca di sondare le proprietà fondamentali delle nane bianche e di cercare indizi della possibile esistenza di antichi sistemi planetari attorno a esse. Luigi Bedin, ricercatore presso l’INAF di Padova e primo autore dello studio, spiega:
«Abbiamo scoperto che le osservazioni in infrarosso delle nane bianche ci hanno permesso di ricavare informazioni preziose sulle proprietà delle loro dense atmosfere di idrogeno. Dai dati si evince, inaspettatamente, un numero sorprendente di nane bianche con un relativo eccesso di emissione infrarossa. I risultati andranno confermati, ma lasciano intendere che queste nane bianche presentano le tracce di antichi sistemi planetari ormai estinti».
Il team di ricerca ha osservato, in diverse nane bianche, anomalie nella distribuzione spettrale dell’energia. Bedin si riferisce agli eccessi di emissioni nella banda di radiazione infrarossa:
«Questi possono essere dovuti a compagni di taglia sub-stellare o a residui di sistemi planetari distrutti durante l’evoluzione della stella da nane a gigante. Cosa accade? Durante la combustione dell’idrogeno dal nucleo, il guscio della stella si gonfia fino a inglobare i pianeti più interni del suo sistema».
Le osservazioni si riferiscono al vicino ammasso globulare Ngc 6397 (noto anche come C 86), un oggetto abbastanza luminoso e visibile anche a occhio nudo in direzione della costellazione dell’Altare, a 7200 anni luce dal Sole. La survey guidata da Bedin e colleghi con il JWST prevede l’osservazione di stelle intrinsecamente deboli e poco luminose, quindi la vicinanza alla sorgente è fondamentale anche se si utilizza lo strumento operativo nell’infrarosso attualmente più potente in orbita. «In questo ammasso abbiamo osservato circa il 20% di nane bianche con questo eccesso infrarosso, mentre nel campo galattico solo poche sorgenti mostrano un tal anomalo alto flusso nell’infrarosso», aggiunge Bedin.
Il gruppo di ricerca ha in programma una seconda campagna osservativa con la camera/spettrografo Miri del James Webb, uno strumento che – osservando nel medio infrarosso – riesce a caratterizzare l’energia emessa dalle nane bianche con eccesso di infrarosso, discriminando fra la presenza di compagni sub-stellari, dischi di sistemi planetari estinti, residui della fase di gigante rossa. «Queste nuove osservazioni che mapperanno lo spettro fra 2 e 20 micron ci permetteranno di risolvere il mistero», conclude il ricercatore.
EarthCARE: una nuova missione satellitare per capire l’impatto delle nuvole sul cambiamento climatico
Il Politecnico di Torino è tra i protagonisti degli studi scientifici che hanno permesso la realizzazione della missione. Le missioni di ricerca Earth Explorer, realizzate nell’ambito del programma dell’ESA FutureEO, mirano a comprendere la complessità del funzionamento della Terra e l’influenza delle attività umane sui processi naturali.
Nella giornata di martedì 28 maggio, nel contesto del prestigioso programma di osservazione della Terra “Earth Explorer” dell’ESA, è stato lanciato dalla base di Vandenberg, in California, il satellite EarthCARE-Earth Cloud Aerosol Radiation Explorer, frutto della collaborazione tra l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) e quella Giapponese (JAXA). La missione, rivoluzionaria nel suo genere, si prefigge di migliorare la comprensione dell’interazione tra nuvole e aerosol nel modificare i bilanci energetici associati al trasporto di onde elettromagnetiche e il ciclo dell’acqua, così da contribuire in modo significativo ad una migliore previsione dell’entità dei cambiamenti climatici e quindi ad ottimizzare le strategie di adattamento e mitigazione del clima.
Tra gli attori coinvolti nella progettazione della missione il Politecnico di Torino, con il gruppo di ricerca del Dipartimento di Ingegneria dell’Ambiente, del Territorio e delle Infrastrutture-DIATI che ha partecipato, sotto la guida del professor Alessandro Battaglia, agli studi scientifici per la realizzazione del lancio e che contribuirà alle prossime fasi del progetto. Il professor Battaglia è da anni coinvolto nell’ideazione della missione: dal 2008 si registrano i suoi primi interventi negli studi preliminari di settore e nel 2015 viene ufficializzata la sua nomina a membro dell’ESA Mission Advisory Board per lo sviluppo della missione.
Il satellite EarthCARE, una volta lanciato, ha raggiunto in pochi minuti la sua orbita eliosincrona polare, intorno ai 400 km di altezza. Nel corso dei prossimi gironi cominceranno i primi test dei 4 strumenti all’avanguardia inseriti al suo interno: un radar atmosferico a 94 GHzcon capacità Doppler che permette di profilare nuvole e precipitazioni e di mappare per la prima volta le velocità verticali delle idrometeore; un lidar che, grazie alla sua risoluzione spettrale, consente di ottenere profili verticali micro e macrofisici di nubi e aerosol riuscendo anche a distinguere i diversi tipi di aerosol; un imager multispettrale (MSI) capace di offrire una mappatura bidimensionale della scena sotto osservazione; e infine un radiometro a banda larga che misura la radiazione solare riflessa e la radiazione infrarossa proveniente dalla Terra.
“La missione EarthCARE è uno dei progetti più ambiziosi mai affrontati dall’Agenzia spaziale europea in collaborazione con quella giapponese – ha commentato il professor Alessandro Battaglia – Nonostante le innumerevoli sfide tecnologiche e logistiche, la missione è diventata finalmente operativa. Insieme a colleghi dell’Università di Leicester, UK e McGill in Canada abbiamo lavorato in particolare allo sviluppo del simulatore e agli algoritmi di inversione del radar Doppler a lunghezza d’onda millimetrica. È quindi con trepidazione che aspettiamo i primi dati dopo tanti anni passati a simulare numericamente la risposta degli strumenti sui nostri computer. La tecnologia innovativa del radar che è stato sviluppato dai colleghi giapponesi ci consentirà di misurare per la prima volta il movimento verticale dell’aria in nuvole (e.g. all’interno di celle convettive) e la dimensione di particelle come gocce di pioggia e fiocchi di neve”. “Questa missione terrestre – ha concluso Battaglia – è cruciale per meglio caratterizzare le nuvole e i sistemi precipitanti che svolgono un ruolo vitale nel sistema climatico. I risultati della missione potranno inoltre fungere da apripista ad altre missioni spaziali che impiegano radar Doppler millimetrici quali la missione WIVERN, al momento in fase A nello stesso programma Earth Explorer dell’ESA, e nella quale il Politecnico svolge un ruolo di punta”.
Testo e immagine dall’Ufficio Web e Stampa del Politecnico di Torino.
GRB 231115A: LA GALASSIA SIGARO SI ACCENDE CON UN MEGA BRILLAMENTO, UN RAPIDO LAMPO DI RAGGI GAMMA
Il satellite Integral, realizzato con un fondamentale contributo dell’Agenzia Spaziale Italiana, scopre il primo caso di giant flare proveniente da una magnetar fuori dalla Via Lattea. Lo studio a guida INAF pubblicato su Nature.
Utilizzando i dati del satellite dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) Integral (International Gamma-Ray Astrophysics Laboratory), costruito con il contributo dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) responsabile del telescopio principale IBIS, il 15 novembre 2023 un gruppo di ricercatrici e ricercatori guidati dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha individuato l’improvvisa esplosione di un oggetto raro: per solo un decimo di secondo, un rapido lampo di raggi gamma è apparso dalla direzione di una luminosa galassia vicino alla nostra. Di cosa si tratta? Il team ha scoperto la presenza di un brillamento gigante (Giant Flare, in inglese) generato da una magnetar nella galassia Sigaro (conosciuta anche con le sigle M82 o NGC 3034), uno degli oggetti celesti più affascinanti che costellano il cielo. L’articolo relativo alla scoperta è stato pubblicato oggi sulla rivista Nature.
Particolare classe di stelle di neutroni (resti stellari super-densi delle esplosioni di supernovae), le magnetar sono i magneti più potenti dell’universo noti per emettere brevi esplosioni di raggi gamma che in genere durano meno di un secondo ma sono miliardi di volte più luminose del Sole. Le magnetar possono produrre brillamenti giganti, cioè brevi esplosioni durante le quali possono emettere in meno di un secondo l’energia che il Sole irradia in un milione di anni, ma individuarle è davvero arduo.
La scoperta è stata ottenuta grazie all’Integral Burst Alert System (IBAS), che permette la localizzazione in tempo reale di lampi di raggi gamma e altri fenomeni transienti nei raggi gamma. Nello specifico, Integral ha rilevato un lampo di raggi gamma solo per un decimo di secondo. Il software di IBAS, che esamina i dati ricevuti al data center scientifico Integral di Ginevra, ha determinato la localizzazione precisa di questo evento e l’ha distribuita agli astronomi di tutto il mondo solo tredici secondi dopo che Integral lo aveva rivelato.
“Quando il software automatico IBAS ci ha allertati per questo evento, ci siamo subito resi conto che si trattava di qualcosa di speciale. Si sospetta da tempo che alcuni dei lampi di raggi gamma di breve durata (GRB, lampi luminosi di raggi gamma osservati al ritmo di uno al giorno da direzioni imprevedibili del cielo) potrebbero essere Giant Flare provenienti da magnetar nelle galassie vicine, ma ciò non era stato ancora dimostrato in maniera inequivocabile”, spiega Sandro Mereghetti, primo autore dell’articolo e ricercatore presso l’INAF di Milano.
Mereghetti aggiunge: “I brillamenti giganti sono la manifestazione più estrema delle magnetar, in termini di energia emessa e rapidità, ma non si conosce ancora bene cosa li produca”.
Quello scoperto dal team guidato da INAF (GRB 231115A) è il primo Giant Flare generato da una magnetar in una galassia che non appartiene al Gruppo Locale.
“Sono eventi estremamente rari, tanto che ne sono stati osservati solo tre in 50 anni: due nella nostra Galassia e uno nella Grande Nube di Magellano. Poterli rivelare anche in galassie più lontane, come nel presente caso, permette di studiarne un maggior numero e in condizioni più favorevoli”, sottolinea l’autore. “I casi precedenti di ‘candidati’ Giant Flare al di fuori del gruppo locale non erano stati individuati in tempo reale e le incertezze sulla loro posizione rende incerte anche le associazioni con galassie vicine”, continua.
“Integral è un telescopio spaziale longevo e a 22 anni dal lancio continua a fornire contributi sorprendenti”, sottolinea Elisabetta Cavazzuti, responsabile ASI del programma Integral. “Il team scientifico ha migliorato sempre più l’utilizzo di tutti gli apparati del satellite, sviluppando un software che sfrutta ogni singola informazione trasmessa dal telescopio anche in maniera completamente nuova. Questo modo di osservare e sfruttare gli strumenti in ottica sempre innovativa consente di raggiungere risultati importanti confermando che l’universo è fonte inesauribile di scoperte”.
La rilevazione del fenomeno con Integral ha avviato poi una serie di osservazioni rapide ad altre lunghezze d’onda (ottiche, X, radio) che hanno permesso di stabilirne la natura. Nell’articolo i ricercatori presentano, infatti, anche dati richiesti al satellite XMM-Newton e dati ottici provenienti da telescopi italiani dell’INAF (il TNG alle Canarie, lo Schmidt di Asiago e lo Schmidt di Campo Imperatore) e francesi (come il French Observatoire de Haute-Provence): se si fosse trattato di un lampo di raggi gamma causato dalla collisione di due stelle di neutroni, lo scontro avrebbe creato onde gravitazionali e avrebbe avuto un intenso bagliore residuo nei raggi X e nella luce visibile. Le osservazioni di XMM-Newton hanno mostrato solo il gas caldo e le stelle nella galassia.
L’articolo pubblicato su Nature conferma quindi un’ipotesi che si sospettava da diversi anni.
“Inoltre non è casuale che questo brillamento gigante provenga proprio da una delle galassie che sta formando nuove stelle di alta massa a un ritmo elevato. In queste regioni ci si aspetta, infatti, di trovare il maggior numero di stelle di neutroni e quindi di magnetar”, aggiunge Ruben Salvaterra, ricercatore INAF di Milano e coautore dell’articolo.
Osservabile anche con piccoli telescopi, M82 è una galassia starburst (in cui appunto il processo di formazione stellare è eccezionalmente elevato) a spirale barrata che si trova a circa 12 milioni di anni luce dalla Terra, in direzione della costellazione dell’Orsa Maggiore. L’interazione gravitazionale con altre galassie vicine, in particolare M81, ha accelerato drasticamente il suo tasso di formazione stellare che è almeno dieci volte maggiore di quello della Via Lattea.
“Dopo questa scoperta, la galassia M82 diventa un ‘sorvegliato speciale’ da cui aspettarci altri eventi simili nei prossimi anni”, conclude Mereghetti.