Con le donne al comando si respira un’aria migliore, letteralmente: uno studio rileva una correlazione tra politiche ambientali ed empowerment politico delle donne
Studio dell’Università di Pisa pubblicato sull’European Journal of Political Economyevidenza che la qualità dell’aria è migliore con l’empowerment femminile. L’analisi ha riguardato 230 regioni di 27 paesi UE.
La qualità dell’aria è migliore se le donne comandano le istituzioni. La notizia arriva da uno studio condotto all’Università di Pisa e pubblicato sull’European Journal of Political Economy. L’analisi ha riguardato 230 regioni di 27 Paesi dell’Unione europea.
“I nostri risultati evidenziano una relazione positiva tra l’empowerment politico delle donne e la qualità dell’aria – spiega una delle autrici dello studio, la professoressa Lisa Gianmoena del dipartimento di Economia e Management dell’Ateneo pisano – Questo suggerisce che le donne, quando occupano posizioni di potere, tendono ad adottare politiche ambientali più rigide e orientate verso la sostenibilità rispetto alle regioni governate da uomini e questo fenomeno può essere attribuito alla loro maggiore sensibilità e al loro impegno sociale”.
In particolare, questa correlazione positiva risulta evidente in numerose regioni del Nord Europa, tra cui Finlandia, Irlanda, Estonia, Svezia e Danimarca, mentre la maglia nera va alla Polonia, Ungheria e Romania. In Italia, la Valle d’Aosta si distingue per la qualità dell’aria migliore, mentre la Lombardia registra i livelli peggiori.
Per realizzare lo studio ricercatori e ricercatrici hanno lavorato alla costruzione di un dataset a livello regionale che integrasse empowerment politico femminile e dati ambientali. Questa impostazione è stata fondamentale anche perché nel contesto europeo le condizioni ambientali e sociali possono variare notevolmente tra le diverse zone e sono poi le autorità sub-nazionali ad essere maggiormente responsabili dell’applicazione di direttive e standard ambientali nazionali e sovranazionali. Per quanto riguarda le donne, è stato utilizzato l’Indice di Empowerment Politico delle Donne (WPEI), considerando la loro presenza a vari livelli di governo (nazionale, regionale e locale).
“Per assicurarci che il rapporto tra empowerment politico femminile e qualità aria non fosse una “correlazione spuria”, cioè puramente casuale – conclude Gianmoena – abbiamo testato altre variabili economiche e non economiche come lo sviluppo economico, il livello di istruzione, le innovazioni in tecnologie verdi, l’ideologia politica e la densità di popolazione. Tuttavia la relazione positiva tra empowerment politico femminile e qualità dell’aria è rimasta significativa, confermando la robustezza del risultato”.
Lisa Gianmoena è autrice dell’articolo insieme al collega Vicente Rios, docente del dipartimento di Economia e management dell’Ateneo pisano. Entrambi collaborano con il centro di ricerca REMARC (Responsible Management Research Center) dell’Università di Pisa. Gli altri autori sono la dottoranda Izaskun Barba e il professore Pedro Pascual entrambi deldipartimento di Economia della Università Pubblica di Navarra (Universidad Pública de Navarra – UPNA), Spagna.
Testo dal Polo Comunicazione CIDIC – Centro per l’innovazione e la diffusione della cultura dell’Università di Pisa.
Stipendi, carriera e livelli di stress: la fotografia della qualità del lavoro in Italia con l’indagine di Italian Lives
Nuovi dati dall’indagine longitudinale e pluriennale “Italian Lives”, promossa dal dipartimento di Sociologia e ricerca sociale dell’Università di Milano-Bicocca
Milano, 21 settembre 2023 – Più della metà dei lavoratori italiani lamenta scarse prospettive di carriera e livelli di impegno fisico e di stress troppo elevati sul posto di lavoro. Mentre la maggioranza degli intervistati percepisce come abbastanza adeguati: retribuzione, orari, riconoscimento del merito e supporto relazionale. Emerge una qualità disuguale del lavoro italiano. Per le donne delle generazioni X e Millennials, l’ingresso nel mondo occupazionale avviene tre anni in ritardo rispetto ai maschi. E impiegano un mese in più a uscire dal primo episodio di disoccupazione.
Sono alcuni degli ultimi dati restituiti da “Italian Lives” (Ita.Li), l’indagine longitudinale e pluriennale quanti-qualitativa promossa dall’Istituto IASSC del dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale dell’Università di Milano-Bicocca, che si basa su un campione di 5mila famiglie, per un totale di 9mila individui che appartengono a 280 Comuni di tutta Italia. Un sondaggio realizzato nel 2019 per ricostruire il corso di vita di tutti i membri delle famiglie selezionate dal momento della nascita a quello dell’intervista, in relazione a diversi ambiti, tra i quali la mobilità geografica, l’istruzione, la carriera lavorativa, la costituzione delle unioni e la nascita dei figli.
I dati sono stati presentati nel pomeriggio di oggi, 21 settembre 2023, all’Università di Milano-Bicocca durante l’incontro di inaugurazione della settima edizione del Festival delle Trasformazioni, la rassegna di eventi, dibattiti e mostre organizzata dal dipartimento di Sociologia e ricerca sociale dell’ateneo milanese e da Rete Cultura Vigevano, che quest’anno ha come tema principale “Vita & lavoro: gli orizzonti del domani” e continuerà fino al 1° ottobre. L’incontro è stato aperto dai saluti della rettrice dell’Università di Milano-Bicocca, Giovanna Iannantuoni, e della direttrice del dipartimento di Sociologia e ricerca sociale, Sonia Stefanizzi.
Dalle domande di Ita.Li dedicate alla qualità del lavoro, rivolte a circa 4mila soggetti
«emergono gli aspetti ritenuti meno attraenti – spiega Serafino Negrelli, docente dell’Ateneo, direttore dell’Istituto IASSC e direttore scientifico del Festival – che potrebbero essere all’origine del crescente mismatch tra domanda e offerta, ovvero di scelte di rifiuto, dimissioni e/o cambiamento da parte dei lavoratori. Il Bollettino Excelsior di settembre, realizzato da Unioncamere con Anpal riporta che dei 531mila profili di offerte di lavoro, ben il 48 per cento resterà vacante».
E così, dai dati raccolti si ricavache il 54,4 per cento del campione ritiene scarse le prospettive di carriera. Il 56,2 per cento ritiene che il lavoro lo impegni molto fisicamente e il 59,3 per cento si sente sotto pressione per ritmi e scadenze temporali.
«Un dato confermato purtroppo da livelli ormai intollerabili di infortuni e morti»,
sottolinea Negrelli. Il 60 per cento del campione concorda invece che la retribuzione sia adeguata, che il lavoro svolto abbia un adeguato riconoscimento, che gli orari di lavoro, al di là dei ritmi stressanti, si concilino abbastanza con gli impegni familiari e sociali e il 58,2 per cento degli intervistati sostiene di ricevere supporto e aiuto da colleghi e vertici.
Dalle analisi condotte sempre sui dati Ita.Li da Mario Lucchini,Davide Bussi, Carlotta Piazzoni, rispettivamente professore e ricercatori del dipartimento di Sociologia dell’Università di Milano-Bicocca, emerge
«un innalzamento progressivo dell’età di completamento degli studi e un conseguente ritardo dell’ingresso nel mercato del lavoro, della costituzione delle unioni matrimoniali e della genitorialità».
Le donne nelle generazioni più recenti, X e Millennials
«studiano di più rispetto ai coetanei maschi ed entrano più tardi nel mercato del lavoro. Più nello specifico, le donne appartenenti alle ultime generazioni mostrano un’età mediana di ingresso nel mercato del lavoro che si attesta a 24 anni, tre anni in più rispetto ai coetanei uomini».
Tale differenza di genere è da imputare alla persistenza di stereotipi, norme, modelli culturali e carenza di domanda di lavoro che penalizzano in primo luogo le donne meridionali. Va comunque sottolineato che nelle generazioni più recenti l’età mediana delle donne al Sud si è ridotta significativamente, segno di un profondo cambiamento culturale e di un allentamento della specializzazione dei ruoli di genere».
Anche in riferimento al fenomeno della disoccupazione si delinea
«un divario di genere: la durata mediana di fuoriuscita dal primo episodio di ricerca di lavoro è di un mese in più per le donne rispetto ai coetanei uomini. Il divario si attesta a due mesi per gli episodi di disoccupazione successivi al primo. La mobilità di lavoro cresce nel volgere delle coorti, segno che le traiettorie lavorative diventano più differenziate e incerte. Classe sociale e area geografica continuano ad essere importanti fattori di eterogeneità nel condizionare i tempi delle transizioni e i pattern di mobilità di lavoro e di carriera».
Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca
Abitare con i nonni rende più bilanciata la divisione del lavoro domestico all’interno della coppia
Un’indagine su dati ISTAT realizzata da due studiosi dell’Università di Bologna e dell’Università di Padova mostra come la presenza in casa dei nonni aiuti ad alleggerire il peso dei lavori domestici più routinari, che ancora oggi gravano spesso sulle spalle delle donne.
Quando i nonni vivono sotto lo stesso tetto con genitori e nipoti, la divisione delle faccende domestiche all’interno della coppia è più egualitaria e quindi meno sbilanciata a sfavore delle donne. È la conclusione di uno studio pubblicato sulla rivista GENUS e firmato da Marco Albertini (Università di Bologna) e Marco Tosi (Università di Padova).
Gli studiosi hanno analizzato la distribuzione asimmetrica dei compiti domestici all’interno delle coppie di genitori italiani in relazione ai rapporti tra nonni, genitori e nipoti. Una distribuzione che non viene alterata da incontri faccia a faccia più o meno frequenti con i nonni non conviventi, ma diventa invece più bilanciata all’interno della coppia quando i nonni sono parte stabile del nucleo familiare.
“In termini di equità nella divisione del lavoro domestico, avere dei nonni che vivono in casa ha un effetto comparabile a quello di pagare un aiutante domestico e maggiore di quello di una baby sitter assunta”, spiega Marco Albertini. “Esternalizzare il lavoro domestico tende dunque a favorire l’equità di genere all’interno delle coppie”.
Negli ultimi anni, il ruolo dei nonni è diventato sempre più centrale, sia nell’influenzare le scelte riproduttive delle coppie, sia nel favorire la conciliazione tra vita familiare e vita lavorativa. Diversi studi hanno mostrato, ad esempio, come la presenza dei nonni in famiglia favorisca la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, o anche come vada ad incentivare il benessere sia dei nipoti e che dei nonni stessi. Un’attenzione minore è stata però dedicata a come i rapporti tra nonni, genitori e nipoti possano influenzare la divisione del lavoro domestico all’interno delle coppie.
Nell’ambito dei compiti familiari, negli ultimi decenni si è assistito infatti ad una distribuzione progressivamente più equa rispetto alla cura dei figli, in particolare tra le coppie con un alto livello di istruzione. Lo stesso non è però accaduto per quanto riguarda la distribuzione dei compiti domestici più routinari come cucinare, pulire la casa, fare il bucato e occuparsi della spesa: compiti che ancora oggi, in genere, vengono portati avanti in larga parte dalle donne.
Per capire se questo fenomeno possa essere influenzato dalla presenza dei nonni in famiglia, gli studiosi hanno quindi realizzato un’analisi a partire dai dati del rapporto ISTAT “Famiglie e Soggetti sociali”. Lo studio ha mostrato che la presenza dei nonni nell’ambito domestico aiuta le coppie ad esternalizzare i compiti più intensi e routinari, che gravano spesso sulle spalle delle donne. E se l’ammontare di lavoro domestico diminuisce, le coppie hanno meno necessità di negoziare la suddivisione dei compiti e meno possibilità di suddividerli in modo disuguale.
“In un contesto come quello italiano, in cui la convivenza estesa tra generazioni è parte di una cultura di legami familiari forti e tradizionalismo, le famiglie composte da tre generazioni conviventi hanno una divisione dei compiti domestici più egualitaria, dovuta al supporto che i nonni forniscono all’interno del nucleo familiare”, conferma Marco Tosi. “In questo senso, una più equa divisione del lavoro domestico è dovuta al fatto che le madri tendono a beneficiare in modo maggiore del vivere in casa con i nonni”.
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista GENUS con il titolo “Grandparents, family solidarity and the division of housework: evidence from the Italian case”. Gli autori sono Marco Albertini, professore al Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna, e Marco Tosi, ricercatore al Dipartimento di Scienze Statistche dell’Università di Padova.
Covid-19: durante il lockdown sintomi depressione per 5 persone su 10, giovani e donne i più colpiti
In Italia durante il lockdown l’88,6% delle persone sopra i 16 anni ha sofferto di stress psicologico e quasi il 50% di sintomi di depressione, con le persone più giovani, le donne e i disoccupati che si sono rivelati più a rischio. Sono questi i risultati di una survey condotta dall’Iss e dall’Unità di Biostatistica Epidemiologia e Sanità Pubblica del Dipartimento di Scienze Cardio-Toraco-Vascolari e Sanità pubblica dell’Università degli Studi di Padova, appena pubblicata dalla rivista Bmj Open.
Lo studio si basa su interviste somministrate via web attraverso il portale del progetto (www.prestoinsieme.com). In totale hanno risposto alla survey 5008 persone, di età media 37 anni e in prevalenza donne (63%).
Ecco i risultati principali:
l’88,6% del campione ha lamentato sintomi di stress psicologico, più frequente nelle donne (il 63% di chi ha avuto il sintomo era donna) e nei disoccupati.
metà dei soggetti hanno sofferto di sintomi depressivi moderati (il 25,5%) o gravi (il 22%). Le giovani donne hanno mostrato una maggiore probabilità di sintomi gravi.
il 23,3% ha mostrato un impatto psicologico moderato o severo. Anche in questo caso le donne e i giovani sono emersi come i gruppi più a rischio.
in generale si è assistito ad una diminuzione della qualità della dieta, con un consumo meno frequente di latticini, frutta e verdura, e, in particolare per soggetti con sintomatologia depressiva, un incremento dei consumi di cibi ricchi di grassi e zuccheri.
“Questi risultati – concludono gli autori – possono essere utili nella valutazione complessiva delle risposte a nuovi outbreaks pandemici, perché forniscono indicazioni sulla necessità di implementare programmi pubblici di supporto psicologico per la comunità a fianco delle misure per il controllo pandemico. Questi dati sono anche per valutare quali sono le ricadute a livello di salute pubblica, potenzialmente a lungo termine, sulla popolazione, nel caso debba affrontare lunghi periodi di stress o costrizione. La conoscenza e consapevolezza dei possibili effetti di una pandemia anche su chi non subisce direttamente il trauma della malattia, può comunque avere delle conseguenze a medio e lungo termine su ampie fasce di cittadini. Il fatto che si assista anche ad un cambiamento in senso peggiorativo di abitudini alimentari, ci pone di fronte all’evidenza che alti livelli di stress portano al bisogno di nutrirsi in modo “consolatorio”. L’aumento di zuccheri e grassi nella dieta quotidiana, per periodi di tempo lunghi, va ad appesantire il nostro metabolismo e ha conseguenze nello stato di salute delle persone più fragili. I risultati di una cattiva alimentazione, l’aumento di peso o l’insorgere di malattie connesse, si ripercuotono anche a livello psicologico. Agire preventivamente nell’educazione alimentare, aiuta sicuramente ad arginare le conseguenze di periodi di stress, individuali o comunitari, che registrano un costo sociale”.
Testo dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Padova
L’IMPATTO DEL PRECARIATO SUI PROGETTI DI VITA DEI GIOVANI IN EUROPA
Presentazione del volume “Social exclusion of youth in Europe”, pubblicato nel 2021, che raccoglie dati, statistiche ed esperienze dei giovani europei.
Mercoledì 16 febbraio 2022, dalle 9 alle 13, in diretta streaming dal Campus Luigi Einaudi dell’Università di Torino, si tiene la presentazione del volume“Social exclusion of youth in Europe, the multifaceted consequences of labour market insecurity”, a cura di Sonia Bertolini,docente di sociologia dei processi economici e del lavoroalDipartimento di Culture, Politica e SocietàUniTo, Michael Gebel (Università di Bamberg), Vasiliki Deliyanni-Kouimtzis (Università di Salonicco) e Dirk Hofäcker (Università di Duisburg-Essen). Modera il giornalista Paolo Volpato.
Il volume raccoglie dati, statistiche ed esperienze dei giovani europei raccolti attraverso Horizon Except, il progetto che dal 2016 ha cercato risposte a una serie di interrogativi: Cosa significa diventare autonomi in un mondo precario? Come si vive la progettualità e il percorso del divenire adulti in questo contesto? Quali sono le conseguenze dell’insicurezza sul benessere e sulla scelta di uscire dalla famiglia di origine? Che ruolo ha il significato del lavoro, in questo processo, e come si declinano questi aspetti in paesi diversi, quando diverso è il mercato del lavoro, il sistema di welfare, la cultura?
Social exclusion of youth in Europe rende conto di un lavoro interdisciplinare, comparativo e multi-metodo, fatto di analisi e lettura delle dinamiche tra lavoro e progetti di vita che riguardano i giovani in Europa. Un’iniziativa che ha coinvolto 9 paesi (Bulgaria, Estonia, Germania, Grecia, Italia, Polonia, Svezia, Ucraina e Regno Unito), con 386 interviste e 117 fotografie in tema di “divenire adulti oggi”.
In alcuni paesi come Italia, Polonia e Bulgaria emerge una doppia esclusione dei giovani: si può parlare di una sorta di “insicurezza istituzionalizzata” per indicare quando la precarietà lavorativa produce una serie di esclusioni a catena, ad esempio dal sostegno al reddito (in Italia fino allo scorso anno) o dall’accesso al credito bancario, che in questo Paesi è impossibile da ottenere senza un contratto fisso o la garanzia dei genitori, indipendentemente dal reddito.
In Italia l’insicurezza istituzionalizzata riguarda numeri considerevoli, se pensiamo che il 30% della popolazione giovanile è disoccupata e il 50% ha un contratto precario. La ricerca mette in luce le conseguenze negative sul benessere psicosociale e sull’autonomia psicologica, economica e abitativa: far fronte a questa insicurezza è un compito arduo, perché le strategie individuali e sociali non sono sufficienti per contrastare un sistema fortemente strutturato sull’insicurezza.
I dati degli ultimi anni ci dicono che la pandemia da Covid-19 ha avuto conseguenze sproporzionate su giovani e donne. Questo libro, fornendo una fotografia articolata e comparata della situazione prepandemica, aiuta a comprendere su quali premesse e su quali meccanismi abbia trovato terreno fertile quest’ultima ondata di precarietà ed esclusione.
Il team italiano di Horizon Except all’Università di Torino è composto da Sonia Bertolini, Magda Bolzoni, Chiara Ghislieri, Valentina Goglio, Antonella Meo, Valentina Moiso, Rosy Musumeci, Roberta Ricucci e Paola Torrioni.
Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Torino
Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare: tra credenze e evidenze
Anche io, almeno fino a qualche tempo fa, cadevo nella facile conclusione che ci fosse una connessione tra Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) e Vegetarianismo. D’altronde, entrambe condividono una tendenza a orientare le proprie scelte alimentaria favore di vegetali e frutta, cibi tendenzialmente ipocalorici. Poi a un certo punto, come mi accade per molte credenze, mi è venuta voglia di sbirciarci dentro e ho deciso di approfondire il tema, un po’ per curiosità personale, un po’ per “dovere” professionale.
Spoiler per chi non vuole leggere fino in fondo: la letteratura scientifica esistente su questo argomento è molto intricata, un po’ per le diverse metodiche utilizzate, un po’ a causa della complessità nel definire il “vegetarianismo” in modo chiaro e ineluttabile. Insomma, trarre una conclusione univoca è difficile. Per chi invece si è incuriosito e vorrebbe saperne di più, andate avanti e godetevi la lettura, la ricompensa sarà l’averci capito qualcosa in più rispetto a chi si ferma qui!
Intanto, cosa sono i Disturbi del Comportamento Alimentare?
I DCA sono una serie di disturbi psichiatrici accomunati da due sintomi principali: l’alterazione delle abitudini alimentari e l’eccessiva preoccupazione per il peso e per la forma del corpo. Insorgono prevalentemente durante l’adolescenza e ne soffrono soprattutto le donne. Sebbene ognuno di noi possa utilizzare strategie comportamentali o cognitive per cercare di limitare l’ingestione di cibo o controllare il proprio peso corporeo, non tutti soffrono di un DCA: ci sono infatti dei criteri diagnostici ben precisi che chiariscono cosa è patologico e cosa no, e sono ben descritti nel DSM-5 [1] e nell’ICD-11 [2].
I 3 principali DCA sono i) l’anoressia nervosa, caratterizzata da una costante ricerca della magrezza, da una paura patologica di prendere peso e da una distorta immagine corporea, le quali determinano un’assunzione di calorie insufficiente rispetto alle richieste fisiologiche, con conseguente perdita di peso che si attesta sotto la norma; ii) la bulimia nervosa, caratterizzata da abbuffate a cui seguono sensi di colpa legati alle preoccupazione per il peso e quindi condotte di eliminazione/compensatorie (vomito autoindotto, uso di lassativi, diuretici, pratica sportiva eccessiva ecc.) che dovrebbero placare l’ansia di prendere peso e iii) il disturbo da alimentazione incontrollata (o binge eating disorder) in cui sono presenti abbuffate e sensi di colpa, ma mancano le condotte eliminatorie che caratterizzano la bulimia nervosa; spesso si associa a un peso sopra la norma.
E invece il vegetarianismo cos’è?
Qui iniziano i problemi, perché la prima vera difficoltà con cui si scontra la letteratura che indaga il rapporto tra vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare è la definizione stessa di vegetarianismo e il modo in cui questa variabile viene declinata nei diversi studi.
Partiamo col dire che il vegetarianismo (o vegetarianesimo o vegetarismo) è un insieme di pratiche alimentari accomunate dal prevalente consumo di alimenti vegetali. Il fatto è che è possibile distinguere molti sottogruppi di vegetariani: i latto-ovo-vegetariani sono le persone che non assumono carne animale e prodotti della pesca, ma che assumono altri derivati animali come latticini e uova (esistono però anche i latto-vegetariani e gli ovo-vegetariani); i vegani, evitano anche tutti gli altri derivati animali come appunto latte e uova; i semi-vegetariani invece evitano solo alcune tipologie di carne oppure mangiano pesce ma non carne (pescetariani) oppure possono consumare carne, ma in modo saltuario (flexitariani).
Molti studi, per semplicità, raggruppano i “vegetariani” in un unico gruppo, confrontandoli con i non vegetariani; altri studi si sono sforzati di suddividerli nei vari sottogruppi, in modo da confrontarli tra di loro, oltre che con gli onnivori. Quest’ultimo approccio, probabilmente il migliore, è stato usato di rado, a causa della difficoltà a reclutare un numero sufficientemente grande di individui con i vari tipi di vegetarianismo, ma la comprensione della relazione tra alimentazione a base vegetale e DCA sembra passare di qui.
Come se non bastasse, la decisione di diventare vegetariani può originare da una infinità di motivi: ci sono persone che sono vegetariane perché richiesto dalla loro religione (in India, ad esempio, il vegetarianismo è una questione storicamente religiosa), vegetariani che semplicemente non possono permettersi la carne o vegetariani che rifiutano di consumare carne solo per le proprietà gustative.
Ciononostante, nelle società industrializzate e secolarizzate occidentali possiamo distinguere fondamentalmente tre motivazioni che spingono una persona a diventare vegetariana. La prima motivazione è quella di stampo etico-animalista, cioè i vegetariani che affermano di seguire una dieta a base vegetale allo scopo di ridurre lo sfruttamento e le pratiche crudeli che subiscono gli animali d’allevamento. Un’altra parte di vegetariani riferisce di evitare carne e derivati animali per ragioni salutistiche e nutrizionali, ed in effetti una dieta a base vegetale – se ben bilanciata – sembra ridurre l’incidenza di disturbi cardiovascolari e cancro (Campbell, 1998; Hart, 2009). Infine, una terza motivazione è quella etico-ecologista, legata alla problematiche che gli allevamenti determinano a livello ambientale, causate dal sovraconsumo di acqua o dall’eccessiva emissione di gas inquinanti.
Ora, quali sono le motivazioni più spesso addotte da chi ha deciso di seguire una dieta a base vegetale? Klopp e colleghi (2003) suggeriscono che la ragione più di frequente riportata da chi intraprende una dieta vegetariana è quella relativa alla maggior salubrità rispetto alla dieta onnivora (37,5%), Timko e collaboratori (2012) invece hanno trovato che le motivazioni più spesso richiamate dai vegetariani sono quelle di natura etico-animalista (50% del campione). A complicare il panorama ci pensa la ricerca di Baş e collaboratori (2005) che riportava come ragione più comune semplicemente le preferenze gustative (cioè il 58,1% del campione ha dichiarato di essere vegetariano semplicemente perché non apprezza a livello gustativo carne e/o derivati animali).
Queste differenze sono in parte spiegate dalle caratteristiche sociodemografiche dei partecipanti, in prevalenza statunitensi sia nello studio di Klopp che in quello di Timko, ma in quest’ultimo caso più adulti (età media 26 contro i 19 del campione di Klopp). Nello studio di Baş invece i partecipanti erano turchi con un’età media di 21 anni. Queste differenze ci indicano che è fondamentale considerare gli aspetti sociodemografici, ma è invece trasversale la constatazione che molti dei vegetariani che parlano di motivazioni salutistiche/nutrizionali dietro alle loro scelte alimentari, fanno riferimento più o meno esplicito anche alla possibilità di poter controllare più facilmente il proprio peso e la forma del proprio corpo, escludendo i grassi animali dalla propria dieta (Bardone-Cone et al., 2012). Ed in effetti i vegetariani presentano un più accentuato tratto di ortoressia (fissazione sull’alimentazione salutare) rispetto agli onnivori (Barthels et al., 2018). È qui che nasce un primo collegamento con i DCA.
Partiamo dagli stili alimentari…
Come abbiamo detto sopra, per fare diagnosi di DCA si deve soddisfare una serie di criteri. Questo non vuol dire che però ognuno di noi non possa presentare stili alimentari più o meno disfunzionali, senza per forza sfociare nella patologia. Uno di questi stili è il Restrained Eating, che potremmo tradurre come restrizione alimentare o dietetica. Per restrizione dietetica si intende il ricorso sistematico a diete o il tentativo di limitare il consumo di cibo in generale, al fine di controllare il proprio peso corporeo. Nella realtà dei fatti, le restrizioni dietetiche si manifestano come il ricorso a digiuni o, più frequentemente, come una riduzione nel consumo di specifici prodotti o macronutrienti, senza un reale riscontro sul peso, che è esattamente ciò che accade nel vegetarianismo. Inoltre, poiché a restrizioni croniche conseguono spesso abbuffate, elevati tratti di “restrained eating” sembrano predire la manifestazione di diversi DCA (Stiche, 2002; Polivy & Herman, 2002).
Dato che è possibile misurare le restrizioni dietetiche come fossero un tratto di personalità utilizzando specifici questionari, molti studi si sono concentrati su questo stile, per vedere se è più accentuato nei vegetariani che negli onnivori. I dati ci dicono che vegani e latto-ovo-vegetariani non si differenziano per questo tratto rispetto agli onnivori, ed anzi qualcuno suggerisce che una dieta vegana sia collegata a minori livelli di restrizioni alimentari (Janelle & Bar, 1995; Kahleova et al., 2013). Al contrario flexitariani e semi-vegetariani, che evitano quindi specifici tipi di carne o che cercano di limitare il consumo, mostrano un restrained eating più pronunciato rispetto agli onnivori (Forrestell et al., 2013; Timko et al., 2012). Questo lascerebbe ipotizzare che il vegetarianismo abbracciato da latto-ovo-vegetariani e vegani sia di fatto più di tipo morale ed etico, rispetto a quello dei flexitariani e semi-vegetariani, probabilmente più legato ad aspetti salutistici e di peso. Di conseguenza, questi ultimi sarebbero più a rischio di sviluppare un DCA o comunque comportamenti alimentari disfunzionali.
Altri stili alimentari misurabili sono l’Emotional Eating (o alimentazione emotiva) ovvero la tendenza più o meno pronunciata a sovralimentarsi, in risposta ad emozioni stressanti e l’External Eating (o alimentazione disinibita), cioè la tendenza a cedere o meno a delle tentazioni alimentari che provengono dall’ambiente, indipendentemente dal nostro appetito fisiologico. Ad oggi non ci sono confronti tra vegetariani e onnivori in questi specifici tratti. D’altra parte alcuni studi hanno riportato una maggiore tendenza ad abbuffarsi da parte dei vegetariani rispetto agli onnivori (Robinson-O’Brien et al., 2009; MacLean et al., 2021). Questo risultato potrebbe avere tre cause: i) i vegetariani potrebbe essere più indulgenti con loro stessi in relazione alla quantità di cibo da consumare, essendo verdura e frutta prodotti sani; ii) una dieta a base vegetale non sempre potrebbe fornire un senso di pienezza o un apporto equilibrato di macronutrienti e questo potrebbe innescare episodi di abbuffate; iii) i vegetariani potrebbero anche avere una soglia più bassa relativa al concetto di “abbuffata” rispetto agli onnivori, a causa delle loro abitudini alimentari più ponderate.
Ma i vegetariani presentano più spesso un DCA rispetto agli onnivori?
Gli studi che hanno utilizzato domande dicotomiche non standardizzate, per rilevare la presenza di DCA tra i vegetariani, non sono arrivati a conclusioni definitive. Tre revisioni retrospettive (Hadigan et al., 2000; O’Connor et al., 1987; Kadambari et al., 1986), hanno rilevato che circa la metà delle persone con diagnosi di anoressia nervosa riferiva di aver aderito a una dieta vegetariana. Purtroppo, in nessuno di questi studi era specificato il sottotipo di vegetarianismo. Al contrario, un altro studio non ha trovato differenze nella distribuzione di vegetariani e onnivori in partecipanti con diagnosi di DCA e partecipanti sani (Estima et al., 2012). Infine, una ricerca, ha rilevato la maggiore propensione da parte dei vegetariani ad abbuffarsi ed utilizzare misure di controllo del peso non salutari, come il vomito autoindotto o l’uso di lassativi (Robinson-O’Brien et al., 2009).
Atteggiamenti alimentari disfunzionali nei vegetariani: i campanelli d’allarme
Un altro metodo per capire se il vegetarianismo è più o meno correlato ai Disturbi del Comportamento Alimentare è quello di valutare i punteggi ottenuti ai questionari self-report che indagano aspetti comportamentali o cognitivi che caratterizzano i DCA. Se è vero che il vegetarianismo è collegato ai Disturbi del Comportamento Alimentare, allora i vegetariani dovrebbero ottenere punteggi maggiori (che corrispondono a tratti più pronunciati) nelle varie scale e sottoscale che valutano la sintomatologia DCA rispetto agli onnivori. Gli studi che hanno utilizzato questo metodo d’indagine sono stati condotti prevalentemente su studenti universitari, ed hanno mostrato che i vegetariani avevano punteggi più alti (rispetto agli onnivori) nelle sottoscale che valutano le preoccupazioni relative all’alimentazione, alla forma e al peso corporeo, ma non in quelle che valutano le restrizioni caloriche (Sieke et al., 2013). Inoltre quelli che riferivano di essere vegetariani per motivi di salute o di forma/peso mostravano in media punteggi più alti rispetto a quelli che dichiaravano di seguire questa dieta per motivi etico-morali. E mentre Zuromsky e collaboratori (2015) hanno osservato punteggi maggiori in tutte le sottoscale in chi riferiva una qualsiasi forma di vegetarianismo, Timko e collaboratori (2012) hanno evidenziato che i punteggi critici nella sottoscala “preoccupazioni per l’alimentazione” caratterizzava solo il sottogruppo dei semi-vegetariani.
In definitiva anche in questo caso i vari studi mostrano risultati contrastanti: alcuni hanno trovato punteggi più alti (e quindi atteggiamenti alimentari più disfunzionali) nei vegetariani rispetto agli onnivori, altri studi non hanno trovato differenze se non nei semi-vegetariani, che sembrano essere anche in questo caso quelli con più problematiche alimentari (Timko et al., 2012; Forestell et al., 2012). Infine, ad oggi un solo studio ha indagato gli atteggiamenti riguardanti la propria immagine corporea, meno negativi nelle ragazze vegetariane rispetto a quelle onnivore. Questa minore preoccupazione per la propria immagine corporea potrebbe dipendere dal BMI generalmente inferiore dei vegetariani (Dorard & Mathiue, 2021).
Conclusioni
In linea generale, dunque, sembrerebbe che chi ha una diagnosi di DCA riferisca di essere vegetariano più spesso rispetto a chi non ha una diagnosi di DCA. Inoltre, i gruppi subclinici quindi con punteggi alti nelle scale che misurano la sintomatologia DCA ma senza diagnosi, riferiscono storie di vegetarianismo più di frequente rispetto a chi non presenta alcun sintomo. Questi dati forniscono un supporto almeno preliminare all’idea che ci sia una relazione tra vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Gli studi che hanno confrontato sottogruppi di vegetariani, però, hanno sottolineato la necessità di distinguere tra i diversi sottotipi, i quali mostrano punteggi molto diversi nelle scale che misurano i comportamenti alimentari patologici.
In particolare, rispetto a ovo-latto-vegetariani, vegani e onnivori, sembra che i semi-vegetariani siano quelli che riportano un comportamento alimentare più disfunzionale (sono i “più patologici” secondo Heiss et al., 2017). I semi-vegetariani hanno maggiori probabilità di limitare l’assunzione di cibo a causa di preoccupazioni riguardo l’alimentazione (Timko et al., 2012), mentre gli ovo-latto-vegetariani e i vegani aderiscono a una dieta vegetariana principalmente per motivi etici (Forestell et al., 2012; Curtis e Comer , 2006). Non solo, i semi-vegetariani sono anche più suscettibili alle abbuffate rispetto agli altri vegetariani e agli onnivori. Queste conclusioni suggeriscono che i semi-vegetariani sono categoricamente diversi dagli altri vegetariani e questa distinzione dovrebbe essere considerata quando si valuta il comportamento alimentare (Robinson-O’Brien et al., 2009).
Da questo punto di vista, sarebbe interessante se ci fossero più studi provenienti dai paesi mediterranei (come l’Italia), dove, se da una parte il vegetarianismo è abbastanza diffuso, dall’altra la dieta mediterranea prevede già di per sé un consumo di carne e di derivati animali moderato, a favore del consumo di vegetali (Willett et al., 1995). In un campione con tali abitudini alimentari, il sottogruppo semi-vegetariano potrebbe essere molto meno numeroso rispetto ad altri paesi occidentali, dove il consumo di carne e grassi animali è maggiore. In generale, la tipologia di vegetarianismo e i motivi che ne sono alla base non possono non prescindere dal campione di riferimento, ma ad oggi la maggior parte dei dati sul tema derivano dagli Stati Uniti e dai Paesi del Nord Europa.
Infine dobbiamo considerare che non solo il tipo di vegetarianismo, ma anche le tempistiche in cui vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare si sono avvicendati dovrebbero essere maggiormente approfonditi. Al momento non ci sono dati che indicano inequivocabilmente che il vegetarianismo sia di per sé un fattore di rischio dei DCA e che, quindi, potrebbe contribuire all’esordio di un DCA. Piuttosto, il vegetarianismo potrebbe essere un modo per limitare l’introito calorico e/o per “camuffare”, con un metodo socialmente accettabile, un DCA o comunque una sintomatologia alimentare tendente al patologico (Baş et al., 2005). È anche probabile che il vegetarianismo possa contribuire ad un prolungamento della patologia alimentare, rendendo più difficoltosa la guarigione e dunque configurarsi come un fattore di mantenimento più che come un fattore di rischio.
Sono dunque necessarie ricerche ben progettate, con campioni variegati e attente alle numerose variabili relative alle due condizioni, per trarre conclusioni definitive. Ad oggi possiamo dire che sì, ci sono delle relazioni tra vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare, ma quale siano queste relazioni, è ancora tutt’altro che chiaro.
[1] Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), edizione 5: sistema nosografico per i disturbi mentali o psicopatologici redatto dall’American Psychiatric Association
[2] Classificazione Internazionale delle Malattie (International Classification of Disease), edizione 11: sistema di classificazione internazionale delle malattie e dei problemi correlati, stilata dall’Organizzazione mondiale della sanità
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La Sapienza ottiene due nuovi Erc Starting Grant e adotta il Regolamento per sostenere i ricercatori di eccellenza
La Commissione europea ha approvato, nell’ambito della call Erc Starting Grant 2021, due progetti presentati da Principal Investigators della Sapienza. I due Erc, dal valore di circa 1,5 milioni di euro ciascuno, sono stati ottenuti dal progetto NANOWHYR presentato da Marta De Luca del Dipartimento di Fisica, e dal progetto HYQUAKE presentato da Marco Scuderi del Dipartimento di Scienze della Terra. Questo riconoscimento giunge a breve distanza dall’approvazione da parte dell’Ateneo del Regolamento che incentiva i ricercatori coordinatori di progetti di altissimo profilo finanziati dall’Unione Europea o dal Mur.
L’Erc – European Research Council, l’organismo dell’Unione Europea che finanzia i ricercatori di eccellenza, ha approvato, nell’ambito della call Starting Grant 2021, due progetti presentati da Principal Investigators della Sapienza nella categoria Physical Sciences and Engineering.
I due Starting Grant, riservati a ricercatori di eccellenza con esperienza compresa tra i due e i sette anni dopo il conseguimento del PhD e ciascuno dal valore di circa 1,5 milioni di euro, sono stati ottenuti dai progetti NANOWHYR presentato da Marta De Luca, docente del Dipartimento di Fisica, e HYQUAKE presentato da Marco Scuderi, ricercatore del Dipartimento di Scienze della Terra, che vedono Sapienza come Hosting Institution.
Il progetto “NANOWHYR – Dots-in-NANOWires by near-field illumination: novel single-photon sources for HYbRid quantum photonic circuits” si propone superare il principale limite alla realizzazione pratica di tecnologie quantistiche, come la computazione e la comunicazione quantistica, con la creazione di nuove sorgenti di fotoni singoli in nanofili (nanowires) semiconduttori.
Tali sorgenti potranno essere fabbricate su silicio o integrate su di esso dopo la crescita realizzando piattaforme ibride. In entrambi i casi, le sorgenti saranno inserite all’interno di cavità, che hanno il compito di assicurare elevata qualità ed efficienza delle sorgenti. Il progetto NANOWHYR mira ad aprire nuovi orizzonti scientifici e tecnologici nell’ambito della fotonica integrata su silicio.
Il progetto “HYQUAKE – Hydromechanical coupling in tectonic faults and the origin of aseismis slip, quasi-dynamic transients and earthquake rupure” ha l’ambizione di sviluppare una struttura teorica basata su modelli fisici capaci di comprendere e predire in laboratorio i sismi indotti da sovrappressione di fluidi pressurizzati, la cui presenza nel sottosuolo gioca un ruolo fondamentale nella meccanica dei terremoti, come dimostrato recentemente dalla sismicità determinata da attività antropiche umane o dalla scoperta dei cosiddetti terremoti lenti. Il progetto si propone di superare il limite dello sviluppo di modelli fisici che possano descrivere l’accoppiamento idro-meccanico all’origine della genesi di un terremoto.
L’approccio di HYQUAKE è multidisciplinare e integra informazioni provenienti da inediti esperimenti di laboratorio con machine learning, sismologia e modelli numerici 3D. L’obiettivo è quello di produrre dei vincoli quantitativi ai processi fisici chiave, che permettano di combinare le leggi di attrito, la dinamica della localizzazione della deformazione e il flusso di fluidi che sono all’origine della nucleazione di terremoti.
Questo importante risultato conferma le linee d’azione del Regolamento recentemente approvato dalla Sapienza per incentivare professori e ricercatori che, in qualità di Principal Investigator (PI), siano risultati vincitori di specifici progetti nazionali e internazionali di eccellenza, finanziati dall’Unione europea o dal MUR, che abbiano l’Ateneo come Hosting Institution (progetti di ricerca ERC, Azioni Marie Skłodowska Curie-MSCA, borse Levi-Montalcini).
Il Regolamento prevede per i Principal Investigator un incentivo in termini di finanziamento ulteriore, ma anche spazi per le attività di laboratorio; sarà inoltre possibile attivare la chiamata diretta per la copertura di posti di professore e di ricercatore a tempo determinato e la riduzione del carico didattico.
“Il riconoscimento Erc Starting Grant – Principal Investigators – dichiara la rettrice Antonella Polimeni – rappresenta un’ulteriore conferma della qualità dei progetti di ricerca coordinati da giovani studiose e studiosi della Sapienza in diversi ambiti disciplinari. Il Regolamento varato dall’Ateneo ha proprio lo scopo di supportare e incentivare queste iniziative di ricerca di alto profilo”.
Focus
Lo European Research Council (ERC) è l’organismo dell’Unione Europea che finanzia progetti di eccellenza legati ad attività di ricerca di frontiera. Sostiene l’eccellenza della ricerca in tutti gli ambiti scientifici e disciplinari, rafforzando il dinamismo e la creatività nella ricerca europea e fornisce finanziamenti competitivi e a lungo termine a progetti di ricerca innovativi, ad alto rischio e ad alto impatto scientifico, condotti da Principal Investigators (PI) con curricula di rilievo a livello internazionale.
Nella call 2021, sono stati premiati 397 giovani ricercatori all’inizio della loro carriera, per un totale di 619 milioni di euro investiti in progetti eccellenti.
I finanziamenti, di circa di 1,5 milioni di euro ciascuno, aiuteranno i giovani ricercatori a lanciare i propri progetti, a formare degli adeguati team e a perseguire le loro idee migliori.
Le proposte selezionate coprono tutte le discipline di ricerca, dalle applicazioni mediche dell’intelligenza artificiale, alla scienza del controllo della materia mediante l’uso della luce.
Quest’anno le ricercatrici hanno vinto circa il 43% delle borse, registrando non solo un aumento del 37% rispetto al 2020, ma anche la quota di donne vincitrici di finanziamenti ERC più alta fino ad oggi.
Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma sulla notizia dei due nuovi ERC Starting Grant 2021 a Marco Scuderi e Marta De Luca, e sul Regolamento per sostenere i ricercatori di eccellenza.