LA “DIETA” DEGLI ELEFANTI NANI DELLA SICILIA, PALAEOLOXODON FALCONERI E PALAEOLOXODON MNAIDRIENSIS
Il Palaeoloxodon falconeri e il Palaeoloxodon mnaidriensis erano pascolatori: la loro dieta era basata su un alto consumo di materiale erbaceo abrasivo. La scoperta dei ricercatoridell’Università di Padova e Saragozza grazie all’analisi dell’usura dentaria prodotta dal cibo consumato e rinvenuta sui reperti fossili conservati al Museo della Natura e dell’Uomo
Pubblicata su «Papers in Palaeontolgy» con il titolo “Feeding strategies of the Pleistocene insular dwarf elephants Palaeoloxodon falconeri and Palaeoloxodon mnaidriensis from Sicily (Italy)” la ricerca delle Università di Padova e Saragozza sulle abitudini alimentari degli elefanti nani della Sicilia, Palaeoloxodon falconeri e Palaeoloxodon mnaidriensis, vissuti nel Pleistocene Medio (tra gli 800 e i 100 mila anni fa). È la prima volta che viene fatta un’ipotesi sulla loro dieta grazie all’analisi, sui reperti presenti nella sezione di Geologia e Paleontologa del Museo della Natura e dell’Uomo (MNU) dell’Università di Padova, dell’usura dentaria prodotta dal cibo consumato dall’animale.
Palaeoloxodon falconeri al Museo della Natura e dell’Uomo (MNU)
la vetrina degli elefanti nani al Museo della Natura e dell’Uomo (MNU)
Gli elefanti nani in Sicilia nel Pleistocene Medio
Il MNU dell’Università di Padova custodisce numerosi resti di elefanti nani fossili della Sicilia, provenienti da quattro località del palermitano. Si tratta di due specie estinte, Palaeoloxodon falconeri e Palaeoloxodon mnaidriensis, che derivano da uno stesso antenato comune continentale, Palaeoloxodon antiquus, arrivato sull’isola a seguito di diversi episodi indipendenti di dispersione con successiva diminuzione della taglia corporea. Il Palaeoloxodon falconeri (800-400 mila anni fa) è la specie più piccola fino ad ora conosciuta, con una altezza al garrese di circa 1 m nei maschi adulti e 0,9 m nelle femmine; il Palaeoloxodon mnaidriensis (400-100 mila anni fa) è andato incontro ad una minor riduzione di taglia ma, con i suoi 1,8-2,0 m al garrese, è sostanzialmente alto la metà dell’antenato continentale che raggiungeva i 4 m di statura
Nel Pleistocene Medio la Sicilia era probabilmente frammentata in isole più piccole e la fauna a mammiferi era estremamente impoverita. Il Palaeoloxodon falconeri era l’unico mammifero di taglia medio-grande: non aveva altre specie con cui competere per il cibo e nemmeno predatori da cui difendersi, fattore questo, che ne ha consentito l’estrema riduzione di taglia. Al contrario il Palaeoloxodon mnaidriensis viveva in una Sicilia con dimensioni prossime alle attuali e coabitava con una fauna che comprendeva ippopotami, quattro grossi ruminanti e carnivori che ne giustificano una riduzione di taglia meno marcata.
I ricercatori si sono concentrati sull’usura dentaria prodotta dal cibo consumato dall’animale per ricostruirne la dieta. Gli studiosi si sono chiesti se gli animali prediligessero la vegetazione erbacea tendenzialmente più abrasiva (pascolatori) oppure più tenera e nutriente come foglie, frutti e germogli (brucatori) o ancora se avesse una dieta mista.
«In questo studio abbiamo condotto per la prima volta un’analisi della dieta delle due specie nane utilizzando due tecniche di analisi dell’usura dentaria: quella della microusura (microwear) e della mesousura (mesowear)», dice Marzia Breda del Centro di Ateneo per i Musei dell’Università di Padova. «Il risultato più interessante è la convergenza in termini di dieta dei due elefanti in risposta a diverse pressioni ecologiche».
Marzia Breda
L’analisi della microusura dentaria studia le tracce microscopiche che il cibo ingerito dall’animale durante gli ultimi pasti prima della morte lascia sulla superficie occlusale dello smalto dei denti. I mammiferi erbivori con una dieta costituita da materiale vegetale molto abrasivo (graminacee) presentano dei pattern composti da abbondanti striature prodotte durante la masticazione. L’analisi della mesousura dentaria studia invece come le abitudini alimentari modificano la superficie occlusale del dente durante un periodo di tempo relativamente lungo rispetto alla vita dell’animale stesso (mesi o anni). Negli elefanti, i cui denti sono costituiti da un insieme di lamelle allineate, questa analisi tiene conto del rilievo tra le creste di smalto e la dentina racchiusa al loro interno. L’angolo tra il fondo della “valle” di dentina e il rilievo delle creste di smalto che le delimitano si correlano con abitudini alimentari distinte: angoli chiusi indicano diete caratterizzate da maggior consumo di materiale vegetale tenero, mentre angoli più aperti si associano a una dieta più abrasiva che, con il tempo, “appiattisce” la superficie occlusale del dente.
«Per i piccoli denti, di Palaeoloxodon falconeri,siè dovuto procedere – aggiunge Breda – alla scansione 3D del dente con un microscopio e poi estrarre digitalmente gli angoli, mettendo a punto un nuovo protocollo di riferimento per studi futuri».
Strie di microusura in tre denti di Palaeoloxodon falconeri sopra e tre di Palaeoloxodon mnaidriensis sotto.
I risultati
Nonostante la riduzione/assenza di competitori per l’accesso alle limitate risorse vegetali cheavrebbe potuto consentire quindi la selezione di materiale vegetale più tenero e digeribile, i risultati dimostrano, per entrambe le specie, un alto consumo di materiale abrasivo tipico di una dieta di tipo pascolatore.
«Nel caso di Palaeoloxodon mnaidriensis, probabilmente si trattava di un adattamento all’espansione delle zone a prateria avvenuto durante le fasi finali del Pleistocene Medio e di una spartizione delle nicchie ecologiche con gli altri mammiferi di taglia medio-grande presenti sull’isola», sottolinea Flavia Strani, Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Saragozza. «Per Palaeoloxodon falconeri si può invece ipotizzare che l’assenza della pressione predatoria abbia portato ad un aumento della popolazione e quindi ad un sovra sfruttamento delle risorse vegetali, di per sé già limitate in ambiente insulare, spingendo le piante a “difendersi” con l’aumento di deposizioni di silice amorfa nelle cellule vegetali e con una maggior lignificazione, da cui l’usura riscontrata nelle nostre analisi».
Flavia Strani
«Si tratta di un risultato estremamente importante – puntualizza Marzia Breda dell’Università di Padova – che dimostra ancora una volta come le isole siano dei veri e propri laboratori naturali dell’evoluzione, perché in esse l’isolamento geografico e le variate condizioni ecologiche – risorse limitate, pressione predatoria ridotta o assente, e competizione ridotta o assente – forniscono le condizioni ideali per osservare e comprendere processi evolutivi che, nel più ricco e vario ambiente continentale, vengono talvolta oscurati».
«Questo studio dimostra come il MNU non sia solo un moderno centro espositivo e didattico, ma anche un vivo laboratorio di ricerca», conclude Fabrizio Nestola, Presidente del Centro di Ateneo per i Musei e Direttore del Museo della Natura e dell’Uomo. «Si tratta ancora una volta di nuovi studi su vecchi esemplari, fossili che, nonostante facciano parte delle collezioni storiche, hanno ancora tanto da raccontare e mantengono quindi un alto valore scientifico. Il nostro compito è preservarli per le generazioni future».
Riferimenti bibliografici:
Flavia Strani, Simone Rebuffi, Manuela Gialanella, Daniel DeMiguel, Stefano Castelli, Mariagabriella Fornasiero, Gilberto Artioli, Gregorio Dal Sasso, Claudio Mazzoli, Giuseppe Fusco, Marzia Breda, “Feeding strategies of the Pleistocene insular dwarf elephants Palaeoloxodon falconeri and Palaeoloxodon mnaidriensis from Sicily (Italy)” – «Papers in Palaeontology» 2025, DOI: https://doi.org/10.1002/spp2.70036
Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova
Pubblicato da un team internazionale di ricercatori, tra cui Francesco Visioli del Dipartimento di Medicina Molecolare dell’Università di Padova, lo studio che dimostra come questo composto vegetale presente nell’olio extravergine di oliva aiuti a ridurre l’ossidazione del colesterolo LDL e prevenire malattie come l’aterosclerosi
Un team internazionale di ricercatori dell’Università di Padova (Italia), dell’Istituto IMDEA-Alimentacion (Madrid) e del CEBAS-CSIC (Murcia) ha pubblicato sulla rivista «Molecular Nutrition Food Research» uno studio in cui associa il consumo di idrossitirosolo, un composto vegetale presente nell’olio extravergine di oliva, a una riduzione dell’ossidazione del colesterolo LDL, noto anche come colesterolo “cattivo”.
La ricerca dimostra come determinati nutrienti o composti bioattivi presenti nella dieta influenzino l’epigenoma umano (che regola come i geni vengono attivati o disattivati in base a fattori ambientali, stili di vita e altre influenze esterne senza cambiare il codice genetico del DNA) e agiscano per prevenire varie malattie comuni come l’aterosclerosi.
In particolare, lo studio fornisce nuove informazioni sugli effetti dell’idrossitirosolo, uno dei composti più attivi presenti nell’olio extravergine di oliva, che potrebbe agire nelle fasi iniziali dello sviluppo di queste patologie proteggendo dall’accumulo di grassi, colesterolo o altre sostanze nelle arterie.
«Abbiamo scoperto che questo composto modula alcuni elementi genetici che circolano nel plasma trasportati in nanovescicole, chiamate esosomi. Abbiamo inoltre identificato microRNA (molecole che influenzano l’espressione genica) correlati a processi legati al miglioramento delle malattie cardiovascolari, come i meccanismi di risposta ai bassi livelli di ossigeno e le funzioni dell’epitelio e delle cellule muscolari lisce», spiega Francesco Visioli, autore della ricerca e docente al Dipartimento di Medicina Molecolare dell’Università di Padova. «Questi risultati ci aiutano a comprendere meglio i benefici dell’olio extravergine di oliva per la salute e a sviluppare nuovi strumenti per la nutrizione di precisione, poiché è stato dimostrato che la risposta individuale non dipende solo dall’età, dal sesso o dalla genetica, ma anche dall’attività fisica, dalle abitudini alimentari e dalla composizione del microbiota».
Francesco Visioli
Il lavoro è stato guidato dal gruppo di epigenetica del metabolismo dei lipidi dell’IMDEA Food Institute di Madrid, insieme al laboratorio di alimentazione e salute del Centro de Edafología y Biología Aplicada del Segura (CEBAS-CSIC) di Murcia e al Dipartimento di Medicina Molecolare dell’Università di Padova. I ricercatori hanno esaminato come l’integrazione con 25 mg/giorno di idrossitirosolo agisca su una delle fasi iniziali dell’aterosclerosi, riducendo l’ossidazione del colesterolo LDL e inducendo cambiamenti epigenetici attraverso i microRNA.
«Questi risultati ci forniscono una visione molto più chiara dei meccanismi molecolari alla base degli effetti benefici per la salute associati all’olio extravergine di oliva. Abbiamo dimostrato che l’integrazione con idrossitirosolo influisce sull’epigenoma e favorisce la secrezione di esosomi, che trasportano alcuni microRNA specifici derivati dall’assunzione di questo composto fenolico» commentano gli autori Alberto Dávalos (IMDEA Alimentación) e Juan Carlos Espín (CEBAS-CSIC).
La ricerca apre la strada alla possibilità di incorporare nuovi elementi nella dieta per prevenire l’insorgere di disturbi diffusi e fornisce nuove informazioni sul potenziale impatto dell’olio extravergine di oliva e dell’idrossitirosolo sulla prevenzione e il trattamento delle malattie cardiovascolari.
Andrea del Saz-Lara, María-Carmen López de las Hazas, Joao Tomé-Carneiro, Maria-Ángeles Ávila-Gálvez, María Carmen Crespo, Carmen Mazarío-Gárgoles, Luis A. Chapado, Lidia Daimiel, Francesco Visioli, Victoria Martín-Santiago, Juan Carlos Espín, Alberto Dávalos,Hydroxytyrosol Enhances Plasma Extracellular Vesicle Secretion, Modulates Their miRNAs Cargo, and Reduces LDL Oxidation in Humans: Postprandial and 1-Week Effects – «Molecular Nutrition Food Research» – 2025
Uno studio dimostra come l’idrossitirosolo, presente nell’olio extravergine di oliva, aiuti a ridurre l’ossidazione del colesterolo LDL e prevenire malattie. Ulivi in Puglia. Foto di Orubino, in pubblico dominio
Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova
Scoperto il legame tra la carenza di vitamina B6 e l’insorgenza di tumori maligni
Una ricerca coordinata dalla Sapienza e dalla Fondazione Santa Lucia ha dimostrato che la mancanza della vitamina B6 è in grado di trasformare i tumori benigni in forme più aggressive. La comprensione di questo fenomeno, descritto in un articolo pubblicato su Cell Death & Disease e indagato sperimentalmente sul moscerino della frutta è utile per chiarire i legami presenti tra carenza di micronutrienti e comparsa di tumori.
La carenza di vitamina B6 è correlata all’insorgenza di tumori maligni secondo una nuova ricerca dei Dipartimenti di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin e di Scienze Biochimiche Alessandro Rossi Fanelli della Sapienza e del Laboratorio di Neurobiologia Cellulare della Fondazione Santa Lucia di Roma. Lo studio, i cui risultati sono pubblicati sulla rivista Cell Death & Disease, ha chiarito i meccanismi alla base di questo legame effettuando per la prima volta esperimenti in vivosu esemplari di Drosophila melanogaster, il comune moscerino della frutta. In particolare, questa ricerca ha dimostrato che la deficienza della vitamina B6 è in grado di trasformare tumori benigni che esprimono l’oncogene RasV12 (un gene legato alla formazione di neoplasie) in forme più aggressive che producono metastasi.
La vitamina B6 è un composto idrosolubile e dalle proprietà antiossidanti, che rende possibile l’attività di enzimi coinvolti nel 4% delle reazioni metaboliche. Per questo motivo, all’interno del delicato equilibrio cellulare, la carenza di vitamina B6 determina, fra le altre cose, danno al DNA e aberrazioni cromosomiche. I ricercatori hanno dimostrato per la prima volta in vivo la correlazione tra la deficienza della vitamina B6, il danno genomico e lo stress ossidativo nelle cellule tumorali.
Per arrivare a tale risultato, gli studiosi hanno utilizzato la Drosophila melanogaster. Attraverso opportuni incroci genetici, gli scienziati hanno ottenuto larve di Drosophila che esprimessero contemporaneamente l’oncogene Ras, che provoca tumori benigni, e una proteina fluorescente verde in modo da poter seguire agevolmente le masse tumorali e le eventuali metastasi generatesi dal tumore primario. Tali larve, trattate con uno specifico inibitore della vitamina B6 per ridurne la concentrazione, sono state poi esaminate per valutare gli effetti di tale deficienza sul fenotipo tumorale.
Oltre agli innumerevoli vantaggi legati all’utilizzo del moscerino della frutta come modello sperimentale per studi di natura genetica, l’utilizzo di Drosophila come organismo modello per lo studio del metabolismo e del suo impatto sul cancro: risulta oltremodo vantaggioso poiché l’insetto possiede la maggioranza delle vie metaboliche che negli esseri umani risultano alla base dei tumori. Pertanto, questo modello di indagine sperimentale potrà essere usato in futuro per studiare l’impatto della carenza di altri micronutrienti nei processi di formazione e metastatizzazione dei tumori.
Nonostante la condizione di carenza primaria di vitamina B6 nei paesi sviluppati sia rara dal momento che questa è presente nella maggior parte degli alimenti, carenze secondarie derivanti da farmaci, abuso di alcool o patologie come diabete e sindromi di malassorbimento sono frequenti. Pertanto, applicati all’uomo, questi risultati suggeriscono l’importanza di valutare l’integrità del genoma come biomarcatore predittivo in tutti quei contesti in cui la vitamina B6 è ridotta. Inoltre l’impatto della dieta sui tumori è un argomento di interesse generale che va divulgato anche per promuovere la prevenzione.
BATTERI INTESTINALI COME IL LACTIPLANTIBACILLUS PLANTARUM MIGLIORANO CRESCITA ANIMALE PRINCIPALMENTE IN QUANTO PARTNER ATTIVI (SIMBIONTI)
Pubblicato su «Scientific Reports» lo studio dell’Università di Padova in cui si dimostra per la prima volta che se i batteri intestinali (Lactiplantibacillus plantarum) sono vivi e attivi entrano in simbiosi benefica con l’animale e sono fonte nutritiva
Il microbiota intestinale è l’insieme dei microrganismi (batteri, ma anche virus, funghi e protozoi) ospitati da ciascun essere umano o animale sin dalla nascita e per tutta la sua vita. È una popolazione composta da centinaia di specie diverse formate da cellule e geni.
Queste “comunità”, come è noto da tempo, esercitano un effetto benefico sulla nostra salute: temprano il sistema immunitario, proteggono dalle infezioni di agenti patogeni, favoriscono la digestione e prevengono malattie cardiovascolari. Negli ultimi anni è stato scoperto che specifici batteri intestinali favoriscono anche la nostra crescita in condizioni di denutrizione. Semplificando, se una dieta è povera in nutrienti come ad esempio le proteine e se sono presenti batteri intestinali benefici, questi ultimi favoriscono comunque la crescita compensando la mancanza, come si avesse una dieta standard.
È stato anche dimostrato che ceppi di batteri appartenenti alla specie Lactiplantibacillus plantarum, comunemente isolati da diverse piante e presenti nel microbiota intestinale di molti animali, sono in grado di migliorare la crescita sia di insetti che di mammiferi (ad esempio i topi) se gli animali hanno un deficit nutrizionale.
Rimane da capire, però, il perché alcuni batteri intestinali – tra cui appunto il Lactiplantibacillus plantarum – migliorino la crescita di un animale. Sono batteri simbionti, cioè colonizzano l’intestino, ma al contempo apportano un vantaggio per l’organismo? Oppure sono semplicemente una fonte nutritiva? Su questo argomento la comunità scientifica si è sempre divisa.
Lo studio dal titolo “Gut microbes predominantly act as living beneficial partners rather than raw nutrients” pubblicato su «Scientific Reports» e guidato dalla professoressa Maria Elena Martino del Dipartimento di Biomedicina Comparata e Alimentazione dell’Università di Padova ha dimostrato, per la prima volta, che i batteri intestinali esplicano la loro azione benefica migliorando la crescita animale principalmente in quanto partner attivi (simbionti) e, solo secondariamente, perché costituiscono anche una riserva energetica.
La ricerca è stata condotta sull’attività batterica intestinale nel moscerino della frutta, la Drosophila melanogaster, attraverso l’uso di batteriostatici, cioè agenti in grado di inibire o limitare la replicazione batterica senza però uccidere il microorganismo. Questa metodologia ha permesso di analizzare tre condizioni fisiologiche nei batteri per vedere e quantificare gli effetti sull’animale: la condizione naturale, cioè l’attività di batteri vivi e attivi accoppiata alla crescita; l’attività di batteri vivi, ma che non si replicano; infine l’attività di batteri morti, cioè utilizzati come sola fonte nutritiva dall’animale.
«Lo studio – dice la professoressa Maria Elena Martino – ha evidenziato due importanti risultati: il primo è che l’effetto maggiore di promozione della crescita animale si ottiene esclusivamente in presenza di batteri vivi e attivi, in particolare il 60% dell’effetto benefico esercitato dai batteri intestinali deriva dalla loro interazione attiva con l’organismo. Il secondo è che l’effetto benefico, sempre e solo con batteri vivi e attivi, sulla crescita è il risultato di due componenti: da un lato le cellule batteriche rappresentano comunque una fonte nutritiva, dall’altro vi è sia la produzione di metaboliti (amino-acidi) che una stimolazione del sistema immunitario dell’animale. Specificando ulteriormente abbiamo notato che il 60% dell’effetto benefico, come detto, è dovuto all’attività batterica (vitalità), la risorsa nutritiva è circa il 15%, mentre il resto della percentuale deriva da altri fattori minori. In conclusione, la ricerca ha permesso, per la prima volta, di dimostrare e quantificare l’effetto benefico dei batteri intestinali: esso deriva dall’interazione tra il batterio con il proprio ospite animale. Secondariamente dalla capacità dell’animale di trarre nutrienti dalla biomassa batterica. Questo studio – conclude Martino – non solo rappresenta un significativo passo in avanti nella comprensione delle relazioni tra animali e microbiota, ma determina in maniera inequivocabile il ruolo dei batteri intestinali per la crescita animale e umana».
SIAMO “CIÒ CHE MANGIAMO” MA NON SIAMO “DOVE VIVIAMO”
Uno studio di ricercatori dell’Università di Torino, Trieste e Padova – pubblicato su PNAS – ha esaminato le preferenze alimentari di sei popolazioni lungo l’antica Via della seta e ha scoperto come le nostre scelte, più che dal luogo dove siamo nati o abitiamo, dipendono maggiormente dal sesso biologico, dall’età e da altri fattori culturali.
Gli studi genetici degli ultimi 20 anni hanno ampiamente dimostrato che, tra le popolazioni di tutto il mondo, la maggior parte delle differenze genetiche si riscontrano a livello individuale piuttosto che a livello di popolazione. Due individui presi a caso nella stessa popolazione tendono infatti a essere geneticamente più diversi l’uno dall’altro rispetto alla differenza media fra due popolazioni distinte. Si può dire la stessa cosa anche se si parla di stile di vita e cultura?
In un recente articolo pubblicato sulla rivista scientifica PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences) da ricercatori delle Università di Torino, Trieste e Padova, gli autori hanno indagato la questione utilizzando le abitudini alimentari come una possibile fonte di differenze culturali fra individui. In particolare, hanno esaminato le preferenze alimentari relative a 79 diversi alimenti insei popolazioni lungo la Via della seta, l’antica rotta commerciale che si estende attraverso tutta l’Asia centrale.
“Abbiamo scoperto che la preferenza per alcuni cibi era informativa della preferenza per altri cibi, o che, in altre parole, le preferenze alimentari possono essere descritte combinando un numero discreto di ‘profili alimentari’”, ha affermato il Prof. Luca Pagani, autore senior dello studio, professore associato in Antropologia Molecolare presso l’Università di Padova.
Luca Pagani
Inaspettatamente, i profili così individuati non sono tipici di un determinato villaggio o nazione, ma sono invece legati ad altre caratteristiche degli individui partecipanti come la loro età, il sesso e altre scelte culturali. Questo naturalmente con qualche eccezione, rappresentata da alcuni alimenti disponibili solo in determinati Paesi: tra questi spiccano alcuni prodotti locali, come il “sulguni”, un formaggio in salamoia tipico della Georgia ed il “kurut”, un alimento diffuso tra le popolazioni nomadi dell’Asia centrale a base di yogurt essiccato.
I ricercatori hanno verificato che solo il 20% delle abitudini alimentari sono legate al Paese di origine, un valore piuttosto alto se confrontato con la sua controparte genetica (1%) ma ancora non sufficiente a spiegare le differenze osservate, nonostante le migliaia di chilometri che separano le aree geografiche oggetto di studio.
I ricercatori hanno poi condensato le differenze nella composizione genetica e nelle preferenze alimentari tra i Paesi in distanze “genetiche” e “alimentari”, e le hanno confrontate con le distanze geografiche reali tra i luoghi di campionamento, rappresentandole insieme in una mappa. Da essa emerge che la “localizzazione culturale” è leggermente più simile a quella geografica, rispetto a quella “genetica” per i gruppi analizzati (Figura 1), coerentemente con quanto emerso dal resto dei risultati.
“Non importa dove viviamo o dove siamo nati. Le nostre scelte (almeno quelle legate all’alimentazione) dipendono maggiormente dal sesso biologico, dall’età e da altri fattori culturali”, ha concluso la dott.ssa Serena Aneli, prima autrice dello studio, ricercatrice del Dipartimento di Scienze della Sanità Pubblica e Pediatriche dell’Università di Torino.
Serena Aneli
Informazioni
Titolo dell’articolo: “The impact of cultural and genetic structure on food choices along the Silk Road”
Da Napoli lo studio dell’equipe della Diabetologia della Federico II pubblicato su “Advances in Nutrition”
Mangiare pesce fa bene al cuore? Sì, ma solo se è grasso!
Il consumo di pesce azzurro, anche detto pesce grasso, riduce il rischio di malattie cardiovascolari e di mortalità precoce, mentre il pesce bianco, identificato come pesce magro, non ha lo stesso potenziale.
Importante l’impatto che la ricerca avrà sulle scelte alimentari della popolazione adulta e sull’ecosistema marino.
Mangiare pesce fa bene al cuore? Acciuga europea o alice (Engraulis encrasicolus). Acciughe fotografate nel Mar Ligure. Foto di Alessandro Duci, caricata da Massimiliano Marcelli, in pubblico dominio
Chi di noi, rivolgendosi ad un esperto, non ha ricevuto l’indicazione di consumare pesce almeno tre volte a settimana? Ebbene, da oggi qualcosa potrebbe cambiare.
Se, infatti, numerosi studi hanno dimostrato che il consumo di pesce si associa alla riduzione del rischio di malattie cardiovascolari ischemiche, come l’infarto del miocardio, sino ad ora nessuno aveva chiarito se i tipi di pesce fossero intercambiabili o se fosse meglio preferire le alici alla spigola, le sardine ai gamberi, in sintesi se fosse meglio il pesce azzurro, anche detto pesce grasso o il pesce bianco, noto come pesce magro.
La risposta è arrivata dallo studio dell’equipe della Diabetologia del Policlinico Federico II, guidata dalla professoressa Olga Vaccaro, che ha analizzato tutti i dati disponibili in letteratura sulla relazione tra il consumo di pesce e le malattie cardiovascolari.
“Utilizzando una metodologia basata sulla sistematicità della ricerca, grazie a procedure statistiche in grado di combinare tutti i dati disponibili, abbiamo analizzato una popolazione di 1,320,509 individui, seguiti per un periodo di tempo che va dai 4 ai 40 anni. I risultati hanno mostrato, con estrema chiarezza, che il consumo di 1-2 porzioni di pesce grasso a settimana si associa ad una riduzione significativa del rischio di infarto e di altre patologie cardiache che, per i casi fatali, si colloca intorno al 17%. Al contrario, il consumo abituale di pesce magro, pur non aumentando il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari, non si associa a questi benefici”, spiega la professoressa Vaccaro.
Vale a dire che il consumo di pesce grasso, come sardine, sgombri ed altri pesci azzurri, riduce il rischio di malattie cardiovascolari e di mortalità precoce, mentre il pesce magro, come merluzzo, spigola, crostacei, molluschi, non ha lo stesso potenziale.
“I risultati di questo studio mettono in luce, per la prima volta, che l’effetto benefico sulla salute cardiovascolare attribuito finora al consumo di pesce in generale è in realtà limitato esclusivamente al pesce grasso. Questo ha una sua logica: il pesce grasso contiene, infatti, quantità fino a 10 volte più elevate di grassi cosiddetti omega-3, benefici per la salute, rispetto al pesce magro, inoltre, il pesce grasso è più ricco di molte altre sostanze salutari come calcio, potassio, ferro e Vitamina D, che possono contribuire all’impatto benefico del pesce azzurro sul cuore”, sottolinea il professore Gabriele Riccardi, già direttore della Diabetologia Federiciana.
Le conclusioni dello studio avranno implicazioni rilevanti per le scelte alimentari della popolazione adulta e per la preservazione dell’ecosistema marino.
“La consapevolezza che bastano una o due porzioni di pesce azzurro a settimana per ridurre marcatamente il rischio di malattie cardiache facilita l’adesione alle raccomandazioni nutrizionali in confronto al generico consiglio di consumare ogni tipo di prodotto della pesca con una frequenza maggiore. Guardando agli aspetti ambientali, la scelta preferenziale di pesce azzurro di piccola taglia, e con un breve ciclo di vita come alici, sardine, sgombri, aringhe e molti altri pesci meno noti ma molto diffusi nel mar Mediterraneo, ha un impatto rilevante sull’ecosistema marino ed è molto più sostenibile dell’utilizzo di specie, ritenute più pregiate, che arrivano sulla nostra tavola grazie all’acquacultura o alla pesca intensiva”, conclude la professoressa Vaccaro.
All’innovativo studio, insieme ai professori Vaccaro e Riccardi, hanno preso parte le nutrizioniste Marilena Vitale e Ilaria Calabrese, la dottoranda di ricerca in “Nutraceuticals Functional Foods and Human Health” Annalisa Giosuè e la diabetologa Roberta Lupoli.
Testo dall’Ufficio Stampa Università Federico II di Napoli.
Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare: tra credenze e evidenze
Anche io, almeno fino a qualche tempo fa, cadevo nella facile conclusione che ci fosse una connessione tra Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) e Vegetarianismo. D’altronde, entrambe condividono una tendenza a orientare le proprie scelte alimentaria favore di vegetali e frutta, cibi tendenzialmente ipocalorici. Poi a un certo punto, come mi accade per molte credenze, mi è venuta voglia di sbirciarci dentro e ho deciso di approfondire il tema, un po’ per curiosità personale, un po’ per “dovere” professionale.
Spoiler per chi non vuole leggere fino in fondo: la letteratura scientifica esistente su questo argomento è molto intricata, un po’ per le diverse metodiche utilizzate, un po’ a causa della complessità nel definire il “vegetarianismo” in modo chiaro e ineluttabile. Insomma, trarre una conclusione univoca è difficile. Per chi invece si è incuriosito e vorrebbe saperne di più, andate avanti e godetevi la lettura, la ricompensa sarà l’averci capito qualcosa in più rispetto a chi si ferma qui!
Intanto, cosa sono i Disturbi del Comportamento Alimentare?
I DCA sono una serie di disturbi psichiatrici accomunati da due sintomi principali: l’alterazione delle abitudini alimentari e l’eccessiva preoccupazione per il peso e per la forma del corpo. Insorgono prevalentemente durante l’adolescenza e ne soffrono soprattutto le donne. Sebbene ognuno di noi possa utilizzare strategie comportamentali o cognitive per cercare di limitare l’ingestione di cibo o controllare il proprio peso corporeo, non tutti soffrono di un DCA: ci sono infatti dei criteri diagnostici ben precisi che chiariscono cosa è patologico e cosa no, e sono ben descritti nel DSM-5 [1] e nell’ICD-11 [2].
I 3 principali DCA sono i) l’anoressia nervosa, caratterizzata da una costante ricerca della magrezza, da una paura patologica di prendere peso e da una distorta immagine corporea, le quali determinano un’assunzione di calorie insufficiente rispetto alle richieste fisiologiche, con conseguente perdita di peso che si attesta sotto la norma; ii) la bulimia nervosa, caratterizzata da abbuffate a cui seguono sensi di colpa legati alle preoccupazione per il peso e quindi condotte di eliminazione/compensatorie (vomito autoindotto, uso di lassativi, diuretici, pratica sportiva eccessiva ecc.) che dovrebbero placare l’ansia di prendere peso e iii) il disturbo da alimentazione incontrollata (o binge eating disorder) in cui sono presenti abbuffate e sensi di colpa, ma mancano le condotte eliminatorie che caratterizzano la bulimia nervosa; spesso si associa a un peso sopra la norma.
Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Foto di StockSnap
E invece il vegetarianismo cos’è?
Qui iniziano i problemi, perché la prima vera difficoltà con cui si scontra la letteratura che indaga il rapporto tra vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare è la definizione stessa di vegetarianismo e il modo in cui questa variabile viene declinata nei diversi studi.
Partiamo col dire che il vegetarianismo (o vegetarianesimo o vegetarismo) è un insieme di pratiche alimentari accomunate dal prevalente consumo di alimenti vegetali. Il fatto è che è possibile distinguere molti sottogruppi di vegetariani: i latto-ovo-vegetariani sono le persone che non assumono carne animale e prodotti della pesca, ma che assumono altri derivati animali come latticini e uova (esistono però anche i latto-vegetariani e gli ovo-vegetariani); i vegani, evitano anche tutti gli altri derivati animali come appunto latte e uova; i semi-vegetariani invece evitano solo alcune tipologie di carne oppure mangiano pesce ma non carne (pescetariani) oppure possono consumare carne, ma in modo saltuario (flexitariani).
Molti studi, per semplicità, raggruppano i “vegetariani” in un unico gruppo, confrontandoli con i non vegetariani; altri studi si sono sforzati di suddividerli nei vari sottogruppi, in modo da confrontarli tra di loro, oltre che con gli onnivori. Quest’ultimo approccio, probabilmente il migliore, è stato usato di rado, a causa della difficoltà a reclutare un numero sufficientemente grande di individui con i vari tipi di vegetarianismo, ma la comprensione della relazione tra alimentazione a base vegetale e DCA sembra passare di qui.
Come se non bastasse, la decisione di diventare vegetariani può originare da una infinità di motivi: ci sono persone che sono vegetariane perché richiesto dalla loro religione (in India, ad esempio, il vegetarianismo è una questione storicamente religiosa), vegetariani che semplicemente non possono permettersi la carne o vegetariani che rifiutano di consumare carne solo per le proprietà gustative.
Ciononostante, nelle società industrializzate e secolarizzate occidentali possiamo distinguere fondamentalmente tre motivazioni che spingono una persona a diventare vegetariana. La prima motivazione è quella di stampo etico-animalista, cioè i vegetariani che affermano di seguire una dieta a base vegetale allo scopo di ridurre lo sfruttamento e le pratiche crudeli che subiscono gli animali d’allevamento. Un’altra parte di vegetariani riferisce di evitare carne e derivati animali per ragioni salutistiche e nutrizionali, ed in effetti una dieta a base vegetale – se ben bilanciata – sembra ridurre l’incidenza di disturbi cardiovascolari e cancro (Campbell, 1998; Hart, 2009). Infine, una terza motivazione è quella etico-ecologista, legata alla problematiche che gli allevamenti determinano a livello ambientale, causate dal sovraconsumo di acqua o dall’eccessiva emissione di gas inquinanti.
Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Foto di Daniel Reche
Ora, quali sono le motivazioni più spesso addotte da chi ha deciso di seguire una dieta a base vegetale? Klopp e colleghi (2003) suggeriscono che la ragione più di frequente riportata da chi intraprende una dieta vegetariana è quella relativa alla maggior salubrità rispetto alla dieta onnivora (37,5%), Timko e collaboratori (2012) invece hanno trovato che le motivazioni più spesso richiamate dai vegetariani sono quelle di natura etico-animalista (50% del campione). A complicare il panorama ci pensa la ricerca di Baş e collaboratori (2005) che riportava come ragione più comune semplicemente le preferenze gustative (cioè il 58,1% del campione ha dichiarato di essere vegetariano semplicemente perché non apprezza a livello gustativo carne e/o derivati animali).
Queste differenze sono in parte spiegate dalle caratteristiche sociodemografiche dei partecipanti, in prevalenza statunitensi sia nello studio di Klopp che in quello di Timko, ma in quest’ultimo caso più adulti (età media 26 contro i 19 del campione di Klopp). Nello studio di Baş invece i partecipanti erano turchi con un’età media di 21 anni. Queste differenze ci indicano che è fondamentale considerare gli aspetti sociodemografici, ma è invece trasversale la constatazione che molti dei vegetariani che parlano di motivazioni salutistiche/nutrizionali dietro alle loro scelte alimentari, fanno riferimento più o meno esplicito anche alla possibilità di poter controllare più facilmente il proprio peso e la forma del proprio corpo, escludendo i grassi animali dalla propria dieta (Bardone-Cone et al., 2012). Ed in effetti i vegetariani presentano un più accentuato tratto di ortoressia (fissazione sull’alimentazione salutare) rispetto agli onnivori (Barthels et al., 2018). È qui che nasce un primo collegamento con i DCA.
Partiamo dagli stili alimentari…
Come abbiamo detto sopra, per fare diagnosi di DCA si deve soddisfare una serie di criteri. Questo non vuol dire che però ognuno di noi non possa presentare stili alimentari più o meno disfunzionali, senza per forza sfociare nella patologia. Uno di questi stili è il Restrained Eating, che potremmo tradurre come restrizione alimentare o dietetica. Per restrizione dietetica si intende il ricorso sistematico a diete o il tentativo di limitare il consumo di cibo in generale, al fine di controllare il proprio peso corporeo. Nella realtà dei fatti, le restrizioni dietetiche si manifestano come il ricorso a digiuni o, più frequentemente, come una riduzione nel consumo di specifici prodotti o macronutrienti, senza un reale riscontro sul peso, che è esattamente ciò che accade nel vegetarianismo. Inoltre, poiché a restrizioni croniche conseguono spesso abbuffate, elevati tratti di “restrained eating” sembrano predire la manifestazione di diversi DCA (Stiche, 2002; Polivy & Herman, 2002).
Dato che è possibile misurare le restrizioni dietetiche come fossero un tratto di personalità utilizzando specifici questionari, molti studi si sono concentrati su questo stile, per vedere se è più accentuato nei vegetariani che negli onnivori. I dati ci dicono che vegani e latto-ovo-vegetariani non si differenziano per questo tratto rispetto agli onnivori, ed anzi qualcuno suggerisce che una dieta vegana sia collegata a minori livelli di restrizioni alimentari (Janelle & Bar, 1995; Kahleova et al., 2013). Al contrario flexitariani e semi-vegetariani, che evitano quindi specifici tipi di carne o che cercano di limitare il consumo, mostrano un restrained eating più pronunciato rispetto agli onnivori (Forrestell et al., 2013; Timko et al., 2012). Questo lascerebbe ipotizzare che il vegetarianismo abbracciato da latto-ovo-vegetariani e vegani sia di fatto più di tipo morale ed etico, rispetto a quello dei flexitariani e semi-vegetariani, probabilmente più legato ad aspetti salutistici e di peso. Di conseguenza, questi ultimi sarebbero più a rischio di sviluppare un DCA o comunque comportamenti alimentari disfunzionali.
Altri stili alimentari misurabili sono l’Emotional Eating (o alimentazione emotiva) ovvero la tendenza più o meno pronunciata a sovralimentarsi, in risposta ad emozioni stressanti e l’External Eating (o alimentazione disinibita), cioè la tendenza a cedere o meno a delle tentazioni alimentari che provengono dall’ambiente, indipendentemente dal nostro appetito fisiologico. Ad oggi non ci sono confronti tra vegetariani e onnivori in questi specifici tratti. D’altra parte alcuni studi hanno riportato una maggiore tendenza ad abbuffarsi da parte dei vegetariani rispetto agli onnivori (Robinson-O’Brien et al., 2009; MacLean et al., 2021). Questo risultato potrebbe avere tre cause: i) i vegetariani potrebbe essere più indulgenti con loro stessi in relazione alla quantità di cibo da consumare, essendo verdura e frutta prodotti sani; ii) una dieta a base vegetale non sempre potrebbe fornire un senso di pienezza o un apporto equilibrato di macronutrienti e questo potrebbe innescare episodi di abbuffate; iii) i vegetariani potrebbero anche avere una soglia più bassa relativa al concetto di “abbuffata” rispetto agli onnivori, a causa delle loro abitudini alimentari più ponderate.
Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Foto di RitaE
Ma i vegetariani presentano più spesso un DCA rispetto agli onnivori?
Gli studi che hanno utilizzato domande dicotomiche non standardizzate, per rilevare la presenza di DCA tra i vegetariani, non sono arrivati a conclusioni definitive. Tre revisioni retrospettive (Hadigan et al., 2000; O’Connor et al., 1987; Kadambari et al., 1986), hanno rilevato che circa la metà delle persone con diagnosi di anoressia nervosa riferiva di aver aderito a una dieta vegetariana. Purtroppo, in nessuno di questi studi era specificato il sottotipo di vegetarianismo. Al contrario, un altro studio non ha trovato differenze nella distribuzione di vegetariani e onnivori in partecipanti con diagnosi di DCA e partecipanti sani (Estima et al., 2012). Infine, una ricerca, ha rilevato la maggiore propensione da parte dei vegetariani ad abbuffarsi ed utilizzare misure di controllo del peso non salutari, come il vomito autoindotto o l’uso di lassativi (Robinson-O’Brien et al., 2009).
Atteggiamenti alimentari disfunzionali nei vegetariani: i campanelli d’allarme
Un altro metodo per capire se il vegetarianismo è più o meno correlato ai Disturbi del Comportamento Alimentare è quello di valutare i punteggi ottenuti ai questionari self-report che indagano aspetti comportamentali o cognitivi che caratterizzano i DCA. Se è vero che il vegetarianismo è collegato ai Disturbi del Comportamento Alimentare, allora i vegetariani dovrebbero ottenere punteggi maggiori (che corrispondono a tratti più pronunciati) nelle varie scale e sottoscale che valutano la sintomatologia DCA rispetto agli onnivori. Gli studi che hanno utilizzato questo metodo d’indagine sono stati condotti prevalentemente su studenti universitari, ed hanno mostrato che i vegetariani avevano punteggi più alti (rispetto agli onnivori) nelle sottoscale che valutano le preoccupazioni relative all’alimentazione, alla forma e al peso corporeo, ma non in quelle che valutano le restrizioni caloriche (Sieke et al., 2013). Inoltre quelli che riferivano di essere vegetariani per motivi di salute o di forma/peso mostravano in media punteggi più alti rispetto a quelli che dichiaravano di seguire questa dieta per motivi etico-morali. E mentre Zuromsky e collaboratori (2015) hanno osservato punteggi maggiori in tutte le sottoscale in chi riferiva una qualsiasi forma di vegetarianismo, Timko e collaboratori (2012) hanno evidenziato che i punteggi critici nella sottoscala “preoccupazioni per l’alimentazione” caratterizzava solo il sottogruppo dei semi-vegetariani.
In definitiva anche in questo caso i vari studi mostrano risultati contrastanti: alcuni hanno trovato punteggi più alti (e quindi atteggiamenti alimentari più disfunzionali) nei vegetariani rispetto agli onnivori, altri studi non hanno trovato differenze se non nei semi-vegetariani, che sembrano essere anche in questo caso quelli con più problematiche alimentari (Timko et al., 2012; Forestell et al., 2012). Infine, ad oggi un solo studio ha indagato gli atteggiamenti riguardanti la propria immagine corporea, meno negativi nelle ragazze vegetariane rispetto a quelle onnivore. Questa minore preoccupazione per la propria immagine corporea potrebbe dipendere dal BMI generalmente inferiore dei vegetariani (Dorard & Mathiue, 2021).
In linea generale, dunque, sembrerebbe che chi ha una diagnosi di DCA riferisca di essere vegetariano più spesso rispetto a chi non ha una diagnosi di DCA. Inoltre, i gruppi subclinici quindi con punteggi alti nelle scale che misurano la sintomatologia DCA ma senza diagnosi, riferiscono storie di vegetarianismo più di frequente rispetto a chi non presenta alcun sintomo. Questi dati forniscono un supporto almeno preliminare all’idea che ci sia una relazione tra vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Gli studi che hanno confrontato sottogruppi di vegetariani, però, hanno sottolineato la necessità di distinguere tra i diversi sottotipi, i quali mostrano punteggi molto diversi nelle scale che misurano i comportamenti alimentari patologici.
In particolare, rispetto a ovo-latto-vegetariani, vegani e onnivori, sembra che i semi-vegetariani siano quelli che riportano un comportamento alimentare più disfunzionale (sono i “più patologici” secondo Heiss et al., 2017). I semi-vegetariani hanno maggiori probabilità di limitare l’assunzione di cibo a causa di preoccupazioni riguardo l’alimentazione (Timko et al., 2012), mentre gli ovo-latto-vegetariani e i vegani aderiscono a una dieta vegetariana principalmente per motivi etici (Forestell et al., 2012; Curtis e Comer , 2006). Non solo, i semi-vegetariani sono anche più suscettibili alle abbuffate rispetto agli altri vegetariani e agli onnivori. Queste conclusioni suggeriscono che i semi-vegetariani sono categoricamente diversi dagli altri vegetariani e questa distinzione dovrebbe essere considerata quando si valuta il comportamento alimentare (Robinson-O’Brien et al., 2009).
Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Foto di Дарья Яковлева
Da questo punto di vista, sarebbe interessante se ci fossero più studi provenienti dai paesi mediterranei (come l’Italia), dove, se da una parte il vegetarianismo è abbastanza diffuso, dall’altra la dieta mediterranea prevede già di per sé un consumo di carne e di derivati animali moderato, a favore del consumo di vegetali (Willett et al., 1995). In un campione con tali abitudini alimentari, il sottogruppo semi-vegetariano potrebbe essere molto meno numeroso rispetto ad altri paesi occidentali, dove il consumo di carne e grassi animali è maggiore. In generale, la tipologia di vegetarianismo e i motivi che ne sono alla base non possono non prescindere dal campione di riferimento, ma ad oggi la maggior parte dei dati sul tema derivano dagli Stati Uniti e dai Paesi del Nord Europa.
Infine dobbiamo considerare che non solo il tipo di vegetarianismo, ma anche le tempistiche in cui vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare si sono avvicendati dovrebbero essere maggiormente approfonditi. Al momento non ci sono dati che indicano inequivocabilmente che il vegetarianismo sia di per sé un fattore di rischio dei DCA e che, quindi, potrebbe contribuire all’esordio di un DCA. Piuttosto, il vegetarianismo potrebbe essere un modo per limitare l’introito calorico e/o per “camuffare”, con un metodo socialmente accettabile, un DCA o comunque una sintomatologia alimentare tendente al patologico (Baş et al., 2005). È anche probabile che il vegetarianismo possa contribuire ad un prolungamento della patologia alimentare, rendendo più difficoltosa la guarigione e dunque configurarsi come un fattore di mantenimento più che come un fattore di rischio.
Sono dunque necessarie ricerche ben progettate, con campioni variegati e attente alle numerose variabili relative alle due condizioni, per trarre conclusioni definitive. Ad oggi possiamo dire che sì, ci sono delle relazioni tra vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare, ma quale siano queste relazioni, è ancora tutt’altro che chiaro.
Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Foto di RitaE
[1] Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), edizione 5: sistema nosografico per i disturbi mentali o psicopatologici redatto dall’American Psychiatric Association
[2] Classificazione Internazionale delle Malattie (International Classification of Disease), edizione 11: sistema di classificazione internazionale delle malattie e dei problemi correlati, stilata dall’Organizzazione mondiale della sanità
Bibliografia:
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Convergenza evolutiva: la dieta come fattore determinante? Sì, ma solo in alcune specie
Un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza ha pubblicato sulla rivista Evolution uno studio sulla convergenza evolutiva tra le specie. La ricerca si interroga su quanto sia comune la convergenza morfologica nei carnivori e sulle possibili cause, con il risultato, inatteso, che essa derivi da interazioni complesse tra morfologia, ecologia e biomeccanica.
Convergenza evolutiva: la dieta come fattore determinante? Sì, ma solo in alcune specie. Panda rosso (Ailurus fulgens), Aachen. Foto di Brunswyk, CC BY-SA 3.0
La convergenza evolutiva è un fenomeno per cui specie diverse, che vivono e si sono adattate ad ambienti simili, evolvono caratteristiche morfologiche e funzionali analoghe che li portano a somigliarsi moltissimo pur non avendo parentela in comune.
Una delle questioni più dibattute tra gli studiosi è quella di determinare in maniera affidabile quali siano i tratti maggiormente predisposti a convergere tra le specie, e quali le cause. Numerose le ipotesi ancora inesplorate, non solo ecologiche, ma anche comportamentali e filogenetiche. Il fattore ecologico che più frequentemente si presume abbia prodotto convergenza morfologica nei carnivori, e più specificamente nel loro complesso cranio-mandibolare, è la dieta.
Perché è importante fare chiarezza su questo aspetto? Perché se diete simili producessero morfologie dentali convergenti, i paleoecologi potrebbero arrivare a definire le condizioni ecologiche di una specifica area geografica del passato.
Se finora il numero di casi documentati di convergenza evolutiva è stato più basso di quanto ci si aspettasse, numerosi invece i casi basati su considerazioni unicamente qualitative che però non hanno consentito di comprendere la frequenza del fenomeno, rendendo difficile individuare delle tendenze evolutive ricorrenti, sia tra i vari gruppi tassonomici che al loro interno.
Oggi un nuovo studio pubblicato sulla rivista Evolution e coordinato da Luigi Maiorano del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza, in collaborazione con il Museo di Zoologia dell’Ateneo, l’Università John Moores di Liverpool e l’Università di Napoli Federico II presenta la più vasta valutazione quantitativa mai realizzata, riguardante la convergenza evolutiva cranio-mandibolare nell’ordine Carnivora dei mammiferi.
“Questo studio – spiega Davide Tamagnini del Dipartimento di Biologia ambientale, primo nome dello studio – si inserisce in un trend crescente di ricerca, che impiega metodi innovativi (phylogenetic comparative method) per indagare fenomeni tradizionalmente descritti solo in maniera qualitativa. Nel lavoro si impiegano anche semplici dati morfologici, estratti da un gran numero di taxa dell’ordine Carnivora, per chiarire se la dieta causi convergenza nel loro complesso cranio-mandibolare”.
Le evidenze ottenute sostengono la rarità della convergenza evolutiva all’interno di vaste categorie ecologiche, ma mostrano invece una maggior frequenza di questo fenomeno evolutivo in casi isolati di specie che, pur non essendo imparentate tra loro, hanno lo stesso ruolo nell’ambiente in cui vivono.
È il caso del panda gigante e del panda rosso che appartengono a due famiglie diverse: il primo a quella degli ursidi (come gli orsi), mentre il secondo alla famiglia ailuridae (come i procioni) accomunati dall’alimentazione a base di bambù, dalle tipiche macchie nere intorno agli occhi e dal cosiddetto “falso pollice”.
Se per i panda, dunque, la convergenza si trova in due specie che vivono nello stesso habitat e nella stessa regione, tra i carnivori, invece, si trovano frequenti esempi di adattamenti morfologici convergenti anche in specie evolute in continenti diversi. Queste coppie di specie sono comunemente ritenute “ecologicamente equivalenti”, perché vivono in diverse regioni geografiche ma occupano nicchie ecologiche simili.
“In questa ricerca abbiamo studiato la convergenza morfologica, raggruppando le specie in base al tipo di cibo prevalente nella loro dieta. Poi, abbiamo considerato diversi casi di potenziale convergenza morfologica concentrandoci su specie ecologicamente equivalenti di dimensioni corporee simili, oppure taxa molto affini rispetto a dieta e habitat, ma con grandi differenze di taglia”.
“I nostri risultati – dichiara Luigi Maiorano, coordinatore del lavoro – non supportano quasi mai il verificarsi di un’evoluzione convergente nelle categorie alimentari dei carnivori viventi: l’evoluzione convergente in questo clade sembra essere un fenomeno raro”.
Il fenomeno della convergenza, dunque, è meno frequente di quanto atteso e tale risultato è probabilmente dovuto a interazioni complesse tra morfologia, ecologia e biomeccanica.
Questa ricerca sottolinea inoltre l’importanza della scala tassonomica considerata negli studi macroevolutivi.
Riferimenti:
Testing the occurrence of convergence in the craniomandibular shape evolution of living carnivorans – Davide Tamagnini, Carlo Meloro, Pasquale Raia, Luigi Maiorano – Evolution, 75(7): 1738-1752. DOI: https://doi.org/10.1111/evo.14229
Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma sulla dieta come fattore determinante di convergenza evolutiva.