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Fisica quantistica: ora è possibile certificare le proprietà dei dispositivi ottici integrati programmabili

Un team di ricerca internazionale ha identificato nuove tecniche per quantificare le risorse computazionali fornite dalla meccanica quantistica nei dispositivi ottici.  Gli esperimenti, condotti presso il gruppo Quantum Lab del Dipartimento della Sapienza di Roma, hanno coinvolto anche l’Istituto di fotonica e nanotecnologie del Cnr. I risultati, pubblicati sulla rivista Science Advances, serviranno a implementare le future applicazioni nei campi della metrologia, crittografia e della computazione.

Foto del chip integrato, insieme all'elettronica di controllo. Speciali stati quantistici della luce, ovvero stati a singolo fotone, vengono inviati nel chip e manipolati attraverso le guide d'onda, in modo da certificare le proprietà quantistiche considerando porzioni sempre più grandi del chip
Foto del chip integrato, insieme all’elettronica di controllo. Speciali stati quantistici della luce, ovvero stati a singolo fotone, vengono inviati nel chip e manipolati attraverso le guide d’onda, in modo da certificare le proprietà quantistiche considerando porzioni sempre più grandi del chip

Man mano che i nuovi dispositivi quantistici crescono in dimensioni e complessità, risulta fondamentale sviluppare metodi affidabili per certificare e individuare le risorse quantistiche che forniscono un effettivo vantaggio computazionale, al fine di delineare il modo migliore di utilizzarle.

In un nuovo studio, pubblicato sulla rivista Science Advances è stato mostrato proprio come certificare le varie proprietà quantistiche di dispositivi fotonici integrati di crescente complessità.

Il risultato è frutto di una collaborazione scientifica di lunga data nel campo della certificazione quantistica tra la Sapienza di Roma, l’Istituto di fotonica e nanotecnologie del Consiglio nazionale delle ricerche di Milano (Cnr-Ifn), il Politecnico di Milano e il Laboratorio Internazionale di Nanotecnologia iberica (INL).

I circuiti ottici integrati programmabili sono tra le principali piattaforme candidate per l’elaborazione dell’informazione quantistica basata sui qubits. Essi infatti consentono da un lato di effettuare esperimenti finalizzati a verificare le proprietà fondamentali della meccanica quantistica, dall’altro di implementare i dispositivi per future applicazioni nel campo della metrologia, crittografia e della computazione.

Team Quantum Lab della Sapienza Università di Roma
Team Quantum Lab della Sapienza Università di Roma

Gli esperimenti, guidati da Fabio Sciarrino della Sapienza e condotti presso il gruppo Quantum Lab dell’Ateneo, hanno certificato la presenza di caratteristiche quantistiche autentiche come la contestualità e la coerenza in un circuito ottico integrato programmabile.

La metodologia seguita è stata quella sviluppata dal team teorico guidato da Ernesto Galvão dell’INL in Portogallo.

“L’utilizzo di un chip fotonico completamente integrato e programmabile migliora la precisione e la coerenza del processo di caratterizzazione, offrendo il potenziale per l’implementazione di questi dispositivi in applicazioni pratiche”, commenta il Dott. Roberto Osellame, direttore di ricerca presso CNR-IFN.

“Il nostro lavoro – aggiunge Taira Giordani, ricercatrice presso la Sapienza e membro del team Quantum Lab – è la prima applicazione sperimentale di tale tecnica per quantificare le risorse computazionali fornite dalla meccanica quantistica nei dispositivi ottici”.

Le tecniche sviluppate hanno permesso però di verificare anche il vantaggio quantistico in applicazioni pratiche come il quantum imaging. I sistemi di imaging, grazie a determinate correlazioni quantistiche, permettono di ottenere una risoluzione che supera i limiti dell’ottica classica, trovando applicazione in diversi campi della metrologia e dei sensori.

“I nostri risultati – conclude Fabio Sciarrino, capogruppo del Quantum Lab della Sapienza – motivano la ricerca per nuove tecniche per lo studio delle risorse non classiche. Ci aspettiamo che questo lavoro stimolerà la ricerca sulla futura certificazione di dispositivi ottici che sfruttano stati quantistici della luce sempre più complessi”.

Questa linea di ricerca è supportata dal National Quantum Science and Technology Institute (NQSTI), il finanziamento italiano per la ricerca fondamentale sulle tecnologie quantistiche, dall’ERC Advanced Grant QU-BOSS, dal progetto Horizon Europe FoQaCiA e dalla FCT – Fundação para a Ciência e a Tecnologia del Portogallo.

Rappresentazione del chip fotonico integrato programmabile utilizzato utilizzato nel lavoro. Le guide d'onda vengono create mediante la scrittura laser a femtosecondo sul vetro. Le operazioni del circuito sono controllate applicando correnti su vari resistori disposti sulla superficie del chip
ora è possibile certificare le proprietà dei dispositivi ottici integrati programmabili. Rappresentazione del chip fotonico integrato programmabile utilizzato utilizzato nel lavoro. Le guide d’onda vengono create mediante la scrittura laser a femtosecondo sul vetro. Le operazioni del circuito sono controllate applicando correnti su vari resistori disposti sulla superficie del chip

Riferimenti bibliografici:

Experimental certification of contextuality, coherence, and dimension in a programmable universal photonic processor – Giordani T, Wagner R, Esposito C, Camillini A, Hoch F, Carvacho G, Pentangelo C, Ceccarelli F, Piacentini S, Crespi A, Spagnolo N, Osellame R, Galvão EF, Sciarrino F. – Sci Adv. 2023. doi: 10.1126/sciadv.adj4249

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

CARDIOMIOPATIA ARITMOGENA: finanziato con 4 milioni di euro il progetto di ricerca IMPACT, coordinato dall’Università di Padova

Finanziato con 4 milioni di euro e coordinato dall’Università di Padova, studierà il ruolo e l’impatto di alterazioni genetiche sulla progressione clinica della cardiomiopatia aritmogena aprendo la strada allo sviluppo di nuove terapie per la gestione clinica della malattia e a un miglioramento della qualità di vita dei pazienti.

Si chiama IMPACT – Cardiogenomics meets Artificial Intelligence: a step forward in arrhythmogenic cardiomyopathy diagnosis and treatment – il progetto di ricerca della durata di 36 mesi finanziato con 4 milioni di euro dall’European Innovation Council per la cardiogenomica. La missione dell’European Innovation Council, istituito dalla Commissione europea nel 2021, è quella di individuare e sviluppare tecnologie innovative per la ricerca.

LOGO IMPACT

 Il team internazionale – coordinato dalla professoressa Alessandra Rampazzo del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova e composto da Universiteit Maastricht (dottoressa Martina Calore), Universitair Medisch Centrum Utrecht (dottoressa Anneline te Riele), Gruppo Lutech (dottoressa Barbara Alicino), Consorzio Italbiotec (dottoressa Melissa Balzarotti), Ksilink (dottor Peter Sommer) e Italfarmaco (dottor Christian Steinkuhler) – studierà lo sviluppo di nuove terapie per la cardiomiopatia aritmogena (ACM), una malattia genetica che colpisce il cuore e che rappresenta una delle principali cause di aritmie ventricolari e morte cardiaca improvvisa. Con un’incidenza di 1 su 5000, può essere considerata una malattia cardiovascolare di grande rilevanza.

Del gruppo padovano guidato da Alessandra Rampazzo fanno parte il professor Libero Vitiello e la dottoressa Martina Calore del dipartimento di Biologia che si focalizzeranno sull’analisi di modelli in vivo e in vitro di malattia allo scopo di identificare dei bersagli terapeutici, la professoressa Milena Bellin sempre del dipartimento di Biologia che valuterà l’effetto patogeno di varianti genetiche utilizzando microtessuti cardiaci umani generati da cellule staminali pluripotenti coltivate in laboratorio, la professoressa Paola Braghetta del dipartimento di Medicina Molecolare e il dottor Nicola Facchinello del CNR-Istituto di Neuroscienze  che metteranno a disposizione le competenze istologiche e biochimiche per studiare i meccanismi molecolari che controllano la funzionalità cardiaca nei modelli di malattia.

Alessandra Rampazzo cardiomiopatia aritmogena
Alessandra Rampazzo, coordinatrice del progetto di ricerca IMPACT per lo sviluppo di nuove terapie per la cardiomiopatia aritmogena – ACM

La cardiomiopatia aritmogena è una patologia degenerativa che interessa il cuore, frequentemente coinvolta nella morte improvvisa di atleti e adolescenti. Il segno istopatologico caratterizzante è la sostituzione fibroadiposa del miocardio, che pregiudica il funzionamento del muscolo cardiaco portando all’insorgenza di aritmie ventricolari. Ad oggi non è disponibile alcuna terapia per prevenire o almeno rallentare le progressive modificazioni del tessuto cardiaco.

Numerosi sono i geni le cui mutazioni sono certamente coinvolte in questa patologia, alcuni dei quali scoperti dal gruppo di ricerca della professoressa Alessandra Rampazzo. Tuttavia, molte delle alterazioni genetiche identificate nel DNA dei pazienti affetti sono di significato incerto e non ancora direttamente correlati alla patologia, e quindi di utilità limitata sia per i genetisti che per i medici.

«Grazie ai finanziamenti ottenuti da Horizon Europe, il nostro progetto di ricerca si propone di aprire nuove prospettive terapeutiche basandosi sui risultati ottenuti nei diversi modelli proposti. Si tratta di un progetto innovativo e multidisciplinare, il cui successo è fortemente sostenuto dalle diverse ma complementari competenze dei partner europei che fanno capo a istituzioni accademiche e aziende leader nel settore informatico, biotecnologico e farmaceutico – dice la professoressa Alessandra Rampazzo del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova, coordinatrice scientifica del team internazionale –. Una tale collaborazione consentirà di raggiungere gli ambiziosi traguardi prefissati. L’obiettivo generale del progetto finanziato dalla comunità europea è quello di integrare e analizzare mediante l’intelligenza artificiale i dati clinici e molecolari provenienti dal registro dei pazienti con ACM con dati provenienti da analisi strutturali e funzionali di modelli cellulari, quali microtessuti cardiaci tridimensionali, e modelli in vivo. Questi risultati ci permetteranno di ottenere una migliore comprensione del ruolo e dell’impatto di alterazioni genetiche sulla progressione clinica della cardiomiopatia aritmogena. Inoltre – conclude Alessandra Rampazzo – il progetto prevede uno screening e una successiva valutazione del potenziale terapeutico di numerosi composti e molecole innovative, sia in modelli cellulari che animali».

La scoperta di nuovi bersagli terapeutici e la comprensione dei meccanismi patogenetici sottostanti non solo potrebbero portare a nuove terapie per l’ACM, ma potrebbero aprire la strada ad una migliore gestione clinica della malattia e a un miglioramento della qualità di vita dei pazienti.

Il meeting di tutti i partecipanti, che ufficializzerà l’avvio del progetto, si terrà a Padova il 26 e 27 ottobre 2023.

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MORTI IMPROVVISE E CARDIOMIOPATIA ARITMOGENA: GIOVEDÌ VERRÀ PRESENTATO IL PROGETTO IMPACT

Giovedì 26 ottobre 2023, dalle ore 14.00, nella Casa della Rampa Carrarese della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo in via Arco Valaresso 32 a Padova verranno presentati partner, competenze e dati preliminari del progetto IMPACT.

Il meeting si concluderà nel primo pomeriggio di venerdì 27 ottobre nella Sala Conferenze di Palazzo del Monte di Pietà in piazza Duomo 14 a Padova della Fondazione Cariparo con la discussione degli aspetti tecnico scientifici del progetto IMPACT.

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova. Aggiornato il 24 ottobre 2023.

Dopo 500 anni torna il castoro europeo in Italia

Uno studio congiunto dell’Università Statale di Milano e dell’Istituto di ricerca sugli ecosistemi terrestri del Consiglio nazionale delle ricerche, pubblicato su Animal Conservation, sancisce il ritorno del castoro europeo sul territorio italiano dopo 500 anni: un esempio di ritrovata biodiversità, che necessita di strumenti di monitoraggio per ridurre i possibili danni dovuti alle attività di questo animale.

 

Milano, 11 ottobre 2023 – Le attività di reintroduzione e “rewilding” sono alcuni degli strumenti principali usati nel campo della biologia della conservazione per cercare di mitigare gli impatti dell’uomo sull’ambiente e riportare gli ecosistemi ad uno stato più naturale. Queste azioni possono talvolta comportare alcune sfide, in particolare quando le specie coinvolte sono grandi carnivori, grandi erbivori, o “ingegneri ecosistemici”, specie che con le loro attività possono modificare notevolmente gli habitat e il paesaggio.

Fino a pochi anni fa, il castoro europeo (Castor fiber) era totalmente assente dall’Italia, in quanto caccia e perdita di habitat avevano portato all’estinzione tutte le popolazioni presenti sul territorio nazionale. Dopo più di 500 anni di totale assenza, questa specie ha recentemente iniziato la ricolonizzazione dell’Italia a causa di espansione naturale dall’Austria verso Trentino Alto-Adige e Friuli Venezia-Giulia e di reintroduzioni (non autorizzate) in Italia centrale (Toscana, Umbria, Marche).

Nello studio pubblicato su Animal Conservationi ricercatori dell’Università Statale di Milano e dell’Istituto di ricerca sugli ecosistemi terrestri del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR-IRET) di Sesto Fiorentino (Firenze)  hanno raccolto tutti i dati di presenza disponibili per il castoro in Europa, tramite l’utilizzo di database di distribuzione delle specie (iNaturalist, GBIF) e tramite ricerche mirate sul campo finanziate dal fondo Beaver Trust (UK).

Castoro europeo
Castoro europeo. Foto © Renato Pontarini

Le attività sono state coordinate dal CNR-IRET, beneficiario italiano del fondo del Beaver Trust per la ricerca sul castoro in Italia:

Abbiamo curato le attività di monitoraggio, raccolta dei campioni per le analisi genetiche, monitoraggio dei punti di presenza, eventuali analisi necroscopiche e determinazione degli effetti sugli ecosistemi forestali”, afferma Emiliano Mori (CNR-IRET), principal investigator del progetto con Andrea Viviano (CNR-IRET).

Sono stati, quindi, utilizzati modelli di distribuzione delle specie per stimare l’idoneità ambientale per il castoro in Europa. Successivamente, tramite l’applicazione di modelli di connettività gli esperti hanno valutato quali fossero le aree d’Italia in cui l’espansione del castoro fosse più probabile nel prossimo futuro. La mappa risultante dal modello di connettività è stata sovrapposta a mappe di coltivazioni arboree e presenza di canali artificiali, per andare ad indentificare le aree in cui le attività di costruzione di tane/dighe dei castori potrebbero causare conflitti con le attività umane.

“Ampie zone d’Italia risultano essere idonee per la stabilizzazione del castoro e, mentre le popolazioni settentrionali sembrano essere più isolate, in centro Italia abbiamo riscontrato un maggiore potenziale di espansione della specie. Le aree di potenziale conflitto con l’uomo sono principalmente distribuite in centro Italia (soprattutto in Toscana, Umbria e Marche), e in Trentino Alto-Adige, dove i castori potrebbero avere accesso ad aree con presenza di piantagioni arboree o infrastrutture sensibili alle attività della specie. I modelli suggeriscono invece aree di potenziale conflitto molto limitate in Friuli Venezia-Giulia” spiega Mattia Falaschi, ricercatore zoologo dell’Università Statale di Milano e primo autore dello studio.

Se da una parte la presenza del castoro può ridurre il rischio idraulico, mitigando l’intensità degli eventi di piena, in altri casi le attività di foraggiamento/rosicchiamento del castoro possono causare danni alle coltivazioni. Inoltre, la costruzione di dighe e tane può talvolta ridirezionare il flusso d’acqua causando danni ad infrastrutture umane come canali artificiali, strade e ponti. È quindi fondamentale una attenta attività di monitoraggio nelle zone più a rischio, in modo da applicare prontamente misure di gestione che possano arginare o mitigare i possibili danni dovuti alle attività del castoro. Tra questi metodi troviamo ad esempio la protezione dei campi agricoli con recinzioni invalicabili al castoro, e il drenaggio di eventuali aree umide derivanti dalle attività di costruzione di dighe, quando queste minacciano infrastrutture umane.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano

PROGETTO GLAMS: BASI LUNARI COSTRUITE CON LA MATERIA PRIMA DEL SATELLITE TERRESTRE

Finanziato da ASI – Agenzia Spaziale Italiana – il progetto di ricerca dell’Università di Padova coordinato da Luca Valentini del Dipartimento di Geoscienze in cui si utilizzerà la tecnologia di stampa 3D per realizzare leganti cementizi a partire da sedimenti, polvere e frammenti di materiale lunari che si trovano in loco.

GLAMS (Geopolimeri per Additive Manufacturing e Monitoraggio Lunare) è il nome del progetto biennale dell’Università di Padova finanziato con oltre 400.000 euro dall’Agenzia Spaziale Italiana ed è risultato vincitore del bando “Giornate della ricerca accademica spaziale”, classificandosi al primo posto nell’area tematica “Materiali Avanzati”.

Si pone la finalità di realizzare elementi strutturali per la costruzione di basi lunari, mediante un approccio di stampa 3D che utilizza leganti cementizi formulati a partire da suoli lunari (regoliti), secondo il principio dello sfruttamento di materie prime disponibili in loco. Tale principio consentirà di minimizzare i costi e l’impatto ambientale dovuti al trasporto di materie prime dal pianeta Terra alla Luna.

GLAMS – coordinato dal Centro di Ateneo di Studi e Attività Spaziali “Giuseppe Colombo” (CISAS) – in partnership con l’Istituto di Chimica della Materia Condensata e di Tecnologie per l’Energia del CNR (ICMATE) con sede a Genova e WASP, azienda italiana leader nel settore della stampa 3D – vede come responsabile scientifico il professor Luca Valentini del Dipartimento di Geoscienze, mentre il professor Carlo Bettanini e la dottoressa  Giorgia Franchin del Dipartimento di Ingegneria Industriale sono i leader di specifici work package.

Il team di ricerca intende ottimizzare il “cemento lunare” formulato a partire dalla regolite, tenendo conto delle specificità delle condizioni ambientali del satellite, tra cui le elevate escursioni termiche, le condizioni di ridotta gravità e pressione atmosferica e l’impatto di micro-meteoriti.

A tal fine, gli elementi strutturati verranno realizzati mediante un processo produttivo che consentirà di realizzare materiali con struttura macro-porosa, capace di conferire eccellenti proprietà di isolamento termico, con la finalità di mitigare il degrado dovuto ai cicli gelo-disgelo causato dalle estreme variazioni di temperatura. Inoltre, all’interno delle unità strutturali verranno integrati opportuni sensori per il monitoraggio di impatti micro-meteoritici.

Progetto GLAMS basi lunari Esempio di struttura porosa - analisi 3D mediante microtomografia a raggi X - di un campione di cemento
Esempio di struttura porosa – analisi 3D mediante microtomografia a raggi X – di un campione di cemento

Il progetto GLAMS

Nella prima fase del progetto, l’unità di ricerca dell’Università di Padova, sotto la guida di Luca Valentini e Giorgia Franchin, formulerà i “leganti geopolimerici” ottenuti dall’attivazione chimica della regolite lunare: questo tipo di legante non prevede l’utilizzo del classico cemento Portland, comunemente utilizzato per la costruzione in ambiente terrestre. Infatti, rispetto a quest’ultimo, sono caratterizzati da emissioni di CO2 significativamente ridotte, inoltre le proprietà allo stato fresco di questi leganti verranno opportunamente ottimizzate per consentire una corretta estrusione mediante stampa 3D.

Nelle fasi successive, l’Istituto di Chimica della Materia Condensata e di Tecnologie per l’Energia del CNR con sede a Genova provvederà a selezionare opportuni agenti schiumogeni che consentiranno di conferire una struttura macro-porosa al legante geopolimerico indurito.

Progetto GLAMS basi lunari Stampa 3D per estrusione di miscela geopolimerica
Stampa 3D per estrusione di miscela geopolimerica

Successivamente i partner di WASP si occuperanno di implementare le formulazioni ottimizzate durante le fasi precedenti del progetto, alla realizzazione di un prototipo di elemento strutturale, con struttura macro-porosa, a media scala, mediante stampa 3D.

Infine, il gruppo coordinato da Carlo Bettanini provvederà alla sensorizzazione degli elementi strutturali, integrando opportune reti di sensori, finalizzate al monitoraggio continuo degli impatti micro-meteoritici.

L’auspicio è che i risultati del progetto GLAMS possano contribuire a soddisfare le esigenze delle agenzie spaziali che prevedono, entro il prossimo decennio, di realizzare missioni spaziali finalizzate a costruire habitat lunari che possano ospitare insediamenti umani semi-permanenti.

Luca Valentini
Luca Valentini

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova sul Progetto GLAMS per la costruzione di basi lunari con materia prima dal satellite.

Ricerca ecologica e avanzamento tecnologico in Artico: il progetto PRA “EcoClimate”
Utilizzato per la prima volta un drone idrografico nei laghi glaciali a latitudini estreme

Nell’ambito del progetto PRA “EcoClimate”, coordinato dal Gruppo di Ecologia trofica del Dipartimento di Biologia ambientale della Sapienza Università di Roma in collaborazione con l’Istituto di ricerca sulle acque del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR-IRSA, sede di Roma) e Istituto di scienze polari (CNR-ISP, sedi di Messina e Roma), per la prima volta è stato utilizzato un drone idrografico, appositamente configurato per il lavoro a latitudini estreme, per ottenere batimetrie 2D e 3D ad altissima risoluzione dei bacini lacustri nelle isole Svalbard, nel circolo polare Artico.

 il drone utilizzato / credits: E. Calizza
il drone utilizzato. Credits: E. Calizza

I dati acquisiti consentiranno di calcolare con una precisione mai raggiunta prima i volumi d’acqua, i tempi di ricambio dei laghi artici e prevederne l’evoluzione in funzione delle condizioni ambientali attese nella regione per il prossimo futuro.

progetto PRA “EcoClimate” il gruppo di ricerca. Credits: S. Montaguti
il gruppo di ricerca. Credits: S. Montaguti

“Il drone utilizzato è stato progettato e adattato proprio per questo scopo: piccolo, leggero e facilmente trasportabile, ci ha permesso di raggiungere laghi ai piedi dei ghiacciai mai mappati prima. I risultati ottenuti e i calcoli volumetrici dei laghi verranno, poi, correlati con i dati ecologici, per ottenere informazioni uniche su questi delicati ecosistemi acquatici”, spiega David Rossi (CNR-IRSA), responsabile della sperimentazione.

“Benchè l’uso dei droni stia diventando di uso comune nell’ambito delle attività di ricerca polare, questa è la prima volta che un drone idrografico viene utilizzato sulla terraferma per lo studio degli ecosistemi lacustri artici”, aggiunge Edoardo Calizza (Sapienza Università di Roma), coordinatore del progetto. “Questo rientra nell’approccio fortemente interdisciplinare che caratterizza il progetto PRA “EcoClimate”: l’obiettivo è comprendere come i cambiamenti climatici potranno influenzare la struttura e il funzionamento di questi delicati ecosistemi, considerati hotspot di biodiversità e sink di carbonio alle più elevate latitudini”.

La sperimentazione è stata possibile grazie alla strumentazione fornita e configurata ad hoc dalla Seafloor System Inc. per il drone idrografico portatile e dall’azienda Italiana Microgeo per l’antenna GNSS (Global Navigation Satellite System).

I dati acquisiti tramite la tecnologia appena testata saranno associati a dati ecologici per la ricostruzione delle reti trofiche, dati microbiologici per lo studio del metabolismo lacustre, immagini satellitari e misure radiometriche di campo per lo studio della dinamica di neve e vegetazione.

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Tsunami di luce contro il cancro: grazie alle onde luminose estreme sarà possibile concentrare energia in modo preciso e non-invasivo in tessuti tumorali profondi. Questa la scoperta di un gruppo di ricerca formato da Sapienza Università di Roma, Istituto dei Sistemi Complessi del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Università Cattolica del Sacro Cuore e Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS, che è riuscito nella trasmissione di luce laser di intensità estrema attraverso tumori millimetrici. Il risultato, pubblicato su Nature Communications, apre importanti prospettive per nuove tecniche di fototerapia per il trattamento del cancro.

Onde luminose per trasmettere luce laser attraverso tessuti tumorali
Onde luminose estreme possono essere sfruttate per trasmettere luce laser intensa e concentrata attraverso campioni di tessuti tumorali

La luce laser ha potenzialità enormi per lo studio ed il trattamento dei tumori.

Fasci laser in grado di penetrare in profondità in regioni tumorali sarebbero di importanza vitale per la fototerapia, un insieme di tecniche biomediche d’avanguardia che utilizzano luce visibile ed infrarossa per trattare cellule cancerose o per attivare farmaci e processi biochimici.

Tuttavia, la maggior parte dei tessuti biologici è otticamente opaca ed assorbe la radiazione incidente, e questo rappresenta il principale ostacolo ai trattamenti fototerapici. Trasmettere fasci di luce intensi e localizzati all’interno di strutture cellulari è quindi una delle sfide chiave per la biofotonica.

Un team di ricerca di fisici e biotecnologi, guidato da Davide Pierangeli per il Consiglio Nazionale delle Ricerche, Claudio Conti per la Sapienza Università di Roma, e Massimiliano Papi per l’Università Cattolica del Sacro Cuore e la Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS, ha scoperto che all’interno di strutture cellulari tumorali possono formarsi degli “tsunami ottici”, onde luminose di intensità estrema note in molti sistemi complessi, che possono essere sfruttate per trasmettere luce laser intensa e concentrata attraverso campioni tumorali tridimensionali di tumore pancreatico.

“Studiando la propagazione laser attraverso sferoidi tumorali – spiega Davide Pierangeli – ci siamo accorti che all’interno di un mare di debole luce trasmessa c’erano dei modi ottici di intensità estrema.  Queste onde estreme rappresentano una sorgente super-intensa di luce laser di dimensioni micrometriche all’interno della struttura tumorale. Possono essere utilizzate per attivare e manipolare sostanze biochimiche”.

“Il nostro studio mostra come le onde estreme, che fino ad oggi erano rimaste inosservate in strutture biologiche, siano in grado di trasportare spontaneamente energia attraverso i tessuti – continua Claudio Conti – e possano essere sfruttate per nuove applicazioni biomediche.

“Con questo raggio laser estremo – conclude Massimiliano Papi – potremmo sondare e trattare in maniera non-invasiva una specifica regione di un organo. Abbiamo mostrato come tale luce può provocare aumenti di temperatura mirata che inducano la morte di cellule cancerose, e questo ha implicazioni importanti per le terapie fototermiche.”

Lo studio, pubblicato su Nature Communications, dimostra uno strumento totalmente nuovo nella cura al cancro.

 

Riferimenti:

Extreme transport of light in spheroids of tumor cells – Davide Pierangeli, Giordano Perini, Valentina Palmieri, Ivana Grecco, Ginevra Friggeri, Marco De Spirito, Massimiliano Papi, Eugenio DelRe, e Claudio Conti – Nature Communications (2023) https://doi.org/10.1038/s41467-023-40379-7

 

Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Misure sperimentali e simulazioni al calcolatore per contrastare la crescita delle cellule tumorali: un nuovo metodo consente di ottenere informazioni sulla stabilità di multimeri di G-quadruplex telomerici

Un nuovo metodo basato sull’applicazione della fisica della materia a sistemi biologici permette di studiare particolari molecole coinvolte nella crescita delle cellule tumorali. Il protocollo messo a punto, frutto della collaborazione fra il Dipartimento di Fisica della Sapienza, il Dipartimento di Fisica e Geologia dell’Università di Perugia e l’Istituto Officina dei Materiali del Cnr, potrà essere applicato tanto per sviluppare farmaci antitumorali di nuova generazione quanto per valutare l’efficacia di quelli esistenti. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Journal of American Chemical Society (JACS), che ha anche selezionato un’immagine creata dagli autori come copertina supplementare.

DNA multimeri di G-quadruplex telomerici
Foto di Gerd Altmann 

I telomeri sono particolari aree del DNA umano legate a più dell’85% dei tumori maligni e il loro studio potrebbe portare allo sviluppo di farmaci antitumorali di nuova generazione con un ampio spettro d’azione.

Questi elementi si trovano all’estremità dei cromosomi e hanno una funzione protettiva poiché preservano l’integrità del DNA durante i processi di replicazione cellulare, svolgendo un ruolo importante nel processo di invecchiamento cellulare. Ogni volta che una cellula si divide, i telomeri a poco a poco si accorciano sempre di più. Quando diventano troppo corti, la cellula perde la sua capacità di replicarsi correttamente e può entrare in uno stato di invecchiamento o morire. Nel caso delle cellule tumorali di più dell’85% dei tumori maligni, si verifica l’attivazione di un enzima chiamato telomerasi, che mantiene i telomeri più lunghi rispetto alle cellule normali. Ciò conferisce alle cellule tumorali immortalità e la capacità di proliferare in modo illimitato. La stabilizzazione dei G-quadruplex, strutture elicoidali a quattro filamenti che si formano nei telomeri, tramite l’uso di molecole chiamate ligandi, rappresenta un efficace approccio per inibire l’attività della telomerasi e limitare la crescita delle cellule tumorali. Questi ligandi potrebbero quindi fungere da nuovi farmaci per il trattamento del cancro.

La maggior parte delle ricerche attuali si concentra sui G-quadruplex in condizioni ideali, cioè come molecole biologiche che non interagiscono reciprocamente. Tuttavia, in condizioni biologicamente rilevanti, come ad esempio alle estremità dei cromosomi, possono formarsi strutture composte da più unità interagenti di G-quadruplex, note come multimeri.

In uno studio coordinato da Cristiano De Michele del Dipartimento di Fisica della Sapienza, Lucia Comez dell’Istituto Officina dei Materiali del Cnr di Perugia e Alessandro Paciaroni del Dipartimento di Fisica e Geologia dell’Università di Perugia è stato sviluppato un nuovo metodo che consente di ottenere informazioni sulla stabilità di multimeri di G-quadruplex telomerici.

I risultati dello studio, pubblicati sulla rivista Journal of American Chemical Society (JACS), potranno essere applicati tanto per sviluppare farmaci antitumorali di nuova generazione quanto per valutare l’efficacia di quelli esistenti.

In particolare, i ricercatori hanno utilizzato per la prima volta delle simulazioni “extremely coarse-grained” in cui i G-quadruplex vengono rappresentati con semplici forme geometriche, come cilindri o parallelepipedi. Queste simulazioni non sono particolarmente pesanti e consentono lo studio di migliaia di G-quadruplex interagenti tra di loro, riproducendo così condizioni biologicamente rilevanti. Questo ha permesso un confronto diretto tra i risultati numerici al calcolatore e gli esperimenti effettuati sia presso i nostri laboratori che in centri di ricerca internazionali, fornendo una inedita rappresentazione dei multimeri di G-quadruplex.

“In particolare – spiega De Michele – abbiamo studiato come dei ligandi, cioè dei potenziali farmaci antitumorali, agiscano sui G-quadruplex e grazie al nostro innovativo approccio abbiamo potuto capire in che modo risultano efficaci nella loro stabilizzazione”.

“Inoltre – aggiunge Paciaroni – nel nostro lavoro definiamo un protocollo che si potrà applicare per lo studio dei G-quadruplex, ma che in futuro potrà anche essere utilizzato per altri sistemi biofisici”.

“Questo studio – conclude Comez – rappresenta un notevole passo in avanti nel nostro percorso, iniziato diversi anni fa, per comprendere le proprietà elusive di questi sistemi biologici altamente complessi”

Riferimenti:

Stacking Interactions and Flexibility of Human Telomeric Multimers – Benedetta Petra Rosi, Valeria Libera, Luca Bertini, Andrea Orecchini, Silvia Corezzi, Giorgio Schirò, Petra Pernot, Ralf Biehl, Caterina Petrillo, Lucia Comez, Cristiano De Michele, e Alessandro Paciaroni – J. Am. Chem. Soc. 2023 DOI: 10.1021/jacs.3c04810

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Zanzare: le loro storie d’amore per combattere la malaria 

Dall’accoppiamento delle zanzare, nuove strategie per ridurre la diffusione della pericolosa infezione da malaria. Lo evidenzia uno studio di Cnr-Isc e Sapienza in collaborazione con l’Università degli Studi di Perugia, ora pubblicato su Scientific Reports.

Osservare delle zanzare che si accoppiano può sembrare un’attività particolarmente bizzarra, ma che si sta rivelando essenziale nello sviluppo di nuove strategie di lotta contro la malaria. Le femmine di Anopheles gambiae sono vettori di trasmissione del plasmodio della malaria, che ogni anno è responsabile di centinaia di migliaia di decessi. Le tecniche sviluppate negli ultimi anni per contrastare questa malattia si basano su un principio molto semplice: meno zanzare, meno vettori di trasmissione, meno decessi. L’uso di zanzariere impregnate di insetticidi si è rivelato molto efficace negli ultimi 20 anni. Ma questo non basta. Le zanzare hanno sviluppato resistenze agli insetticidi, per cui, dopo una iniziale riduzione, il numero dei contagi annuali è ora in salita.

L’imperativo scientifico è quindi di identificare nuove strategie, da utilizzare in associazione con i metodi di controllo attualmente in uso. Attraverso un approccio “gene drive”, si cerca di sfruttare l’accoppiamento delle zanzare per diffondere modificazioni genetiche che rendano le zanzare sterili o incapaci di trasmettere il parassita della malaria.

“Per valutare l’efficacia di queste tecniche innovative è necessario conoscere approfonditamente il meccanismo dell’accoppiamento”, spiega la Prof.ssa Roberta Spaccapelo, dell’Università degli Studi di Perugia, “sappiamo che questi insetti si accoppiano in volo e che i maschi si associano in gruppi, sciami di centinaia di individui, per essere più visibili e attrattivi alle femmine. Ma non ne sappiamo molto di più. Sono le femmine che entrano nello sciame a scegliere con quale maschio accoppiarsi? Come avviene la scelta? Ci sono delle caratteristiche che rendono alcuni maschi più attrattivi di altri?”

L’articolo “Characterization of lab-based swarms of Anopheles gambiae mosquitoes using 3D-video tracking” appena pubblicato su Scientific Reports, nato da una collaborazione fortemente interdisciplinare tra il Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università degli studi di Perugia, il gruppo CoBBS (Collective Behavior in Biological Systems – www.cobbs.it) del Dipartimento di Fisica della Sapienza Università di Roma e dell’Istituto dei Sistemi Complessi del CNR, muove i primi passi per cercare di rispondere a questi interrogativi.

“Riprodurre sciami di Anopheles nell’ambiente controllato del laboratorio è stato un compito molto complicato. Abbiamo scelto di studiare questi sciami in gabbie molto grandi, per poter analizzare la dinamica di volo delle zanzare evitando potenziali effetti sul comportamento dovuti allo spazio confinato di gabbie piccole”, dice la Prof.ssa Irene Giardina della Sapienza.

“Abbiamo ripreso sciami di centinaia di zanzare con un sistema stereometrico di telecamere, che ci permette di ricostruire nello spazio tridimensionale le traiettorie di ogni singola zanzara nel gruppo. L’analisi di questi dati ci ha permesso di verificare che gli sciami ricreati in laboratorio hanno caratteristiche compatibili con quelle di sciami osservati in ambiente naturale“, spiega Stefania Melillo, ricercatrice dell’Istituto dei Sistemi Complessi del CNR. “La novità più importante presentata nell’articolo è che siamo riusciti a documentare vari eventi di accoppiamento: coppie di zanzare che volano insieme per un periodo di tempo che arriva anche a 15 secondi. Ma la cosa più stupefacente è sicuramente aver osservato e  documentato la competizione nell’accoppiamento. Più maschi che competono per accoppiarsi nello stesso momento con la stessa femmina.”

L’articolo rappresenta, quindi, il primo passo verso la comprensione della dinamica di accoppiamento nelle zanzare e costituisce un importante punto di riferimento per la comunità scientifica internazionale, per valutare l’efficacia delle nuove tecnologie per ridurre la popolazione di insetti così pericolosi per l’uomo.

Dall’accoppiamento delle zanzare, nuove strategie per combattere la malaria. Gallery

 

Ulteriori sviluppi di questo studio, sia dal punto di vista sperimentale che modellistico, sono tema del progetto dal titolo: Demystifying mosquito sex: unraveling MOsquito SWARMs with lab-based 3D video tracking (acronimo: MoSwarm), presentato congiuntamente dall’Università di Perugia e il CNR, appena finanziato dal MUR nell’ambito dei progetti PRIN 2022.

 

Riferimenti:

Characterization of lab‐based swarms of Anopheles gambiae mosquitoes using 3D‐video tracking – Andrea Cavagna, Irene Giardina, Michela Anna Gucciardino, Gloria Iacomelli, Max Lombardi, Stefania Melillo, Giulia Monacchia, Leonardo Parisi, Matthew J. Peirce & Roberta Spaccapelo – Scientific Reports https://doi.org/10.1038/s41598-023-34842-0

Testo, video e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Sciami di insetti: gli ingredienti per il volo perfetto

Abilità di muoversi nello spazio e una buona dose di ‘pigrizia’. Sono le caratteristiche necessarie per mantenere unito il gruppo. Lo evidenzia un nuovo studio sul comportamento collettivo di un sistema biologico, come gli sciami di insetti, pubblicato sulla rivista Nature Physics dal CNR-ISC e dal Dipartimento di fisica della Sapienza Università di Roma.

sciami di insetti
Traiettorie tridimensionali del volo dei moscerini all’interno di uno sciame. Crediti: Gruppo CoBBS

Sciami di moscerini e stormi di uccelli sono esempi comuni di comportamenti collettivi biologici. Sebbene gli organismi che compongono tali gruppi siano molto diversi a livello individuale, spesso i comportamenti dei gruppi hanno caratteristiche simili a livello globale. Per esempio, gli sciami di moscerini, che osserviamo nei parchi, ci appaiono tutti uguali, ma in realtà sono spesso sciami di specie diverse. Sembrerebbe dunque che, nonostante le specificità degli individui che ne fanno parte, solo alcuni ingredienti determinano le proprietà collettive di un gruppo.

Uno studio, pubblicato su Nature Physics dal gruppo CoBBS – Collective Behavior in Biological Systems – composto da ricercatori dell’Istituto dei sistemi complessi del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isc) e del Dipartimento di fisica della Sapienza Università di Roma, identifica tali ingredienti grazie ad un approccio teorico mutuato dalla fisica dei sistemi complessi interagenti, permettendo di caratterizzare per la prima volta il comportamento collettivo di un sistema biologico.

“Gli sciami sono sistemi solo apparentemente disordinati e caotici; in realtà, al loro interno, gli insetti si comportano in modo altamente coordinato e fortemente correlato. Alla base di questa coordinazione vi è un meccanismo imitativo: ogni moscerino tende a voler imitare il comportamento dei propri vicini”, spiega Stefania Melillo, ricercatrice Cnr-Isc e afferente al gruppo CoBBS. “Sotto questo punto di vista, sciami di insetti e sistemi fisici come i magneti sembrano estremamente simili: in ambedue i casi gli agenti – atomi o animali che siano – provano ad allinearsi gli uni agli altri. Nei magneti questo allineamento permette di generare un campo magnetico stabile, nel caso degli animali invece l’allineamento permette al gruppo intero di coordinarsi anche a grandi distanze”.

Setup sperimentale per l’acquisizione dei dati in vivo sul moto degli sciami di insetti. Crediti: Gruppo CoBBS

Nel nuovo studio, i ricercatori del gruppo CoBBS introducono un modello che combina la capacità degli insetti di allineare la loro velocità a due nuovi ingredienti che derivano da osservazioni sperimentali precedentemente condotte.

“Il primo ingrediente, il più intuitivo e ovvio, è l’abilità degli individui di muoversi nello spazio, che in fisica è chiamata ‘attività’; al contrario dei ferromagneti, gli insetti non sono fermi su un reticolo ma sono liberi di muoversi spinti dalla loro velocità”, afferma Mattia Scandolo del Dipartimento di Fisica, Sapienza Università di Roma. “Il secondo ingrediente è invece quella che viene detta ‘inerzia comportamentale’: questa rappresenta la resistenza degli insetti nel modificare il loro comportamento, una sorta di ‘pigrizia’ che porta i singoli moscerini a non allinearsi istantaneamente al comportamento dei vicini”.

Lo studio rivela che la combinazione di questi due ingredienti aggiuntivi, attività e inerzia, spiega in modo accurato la dinamica dei comportamenti collettivi che emergono negli sciami di moscerini, indipendentemente dalla specie in questione, facendo chiarezza sui meccanismi messi in atto.

L’innovazione della ricerca, tuttavia, sta non solo nei risultati, ma anche nel metodo usato. È infatti la prima volta che un approccio mutuato dalla fisica dei sistemi interagenti predice i comportamenti collettivi di un sistema biologico con tale accuratezza.

“L’idea di fondo di questo approccio, noto come ‘gruppo di rinormalizzazione’, è simile a quanto accade nell’occhio umano, che vede i dettagli di un oggetto sfocarsi man mano che questo si allontana; così nell’ambito della fisica teorica è possibile ‘sfocare’ i dettagli di un sistema fisico, permettendo, al contempo, di apprezzare appieno le caratteristiche collettive su scala macroscopica”, prosegue Scandolo.

Il successo nell’applicazione di uno strumento così sofisticato, come il ‘gruppo di rinormalizzazione’, suggerisce come, anche nei sistemi biologici, un ruolo decisivo può essere giocato dalla “universalità”.

“Qualsiasi sistema che condivide con gli sciami di insetti le stesse caratteristiche generali esibirà comportamenti simili a quelli ora studiati”, conclude Melillo. “Non è stato, infatti, necessario un modello che descrivesse le interazioni biologiche tra gli insetti nel minimo dettaglio, ma è bastato individuare i pochi ingredienti fondamentali per comprendere i comportamenti collettivi negli sciami di insetti”.

Riferimenti:

Natural swarms in 3.99 dimensions – Andrea Cavagna, Luca Di Carlo, Irene Giardina, Tomàas S. Grigera, Stefania Melillo, Leonardo Parisi, Giulia Pisegna & Mattia Scandolo – Nature Physics (2023) https://www.nature.com/articles/s41567-023-02028-0

 

Testo, video e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Rivelare la terza dimensione della luce con l’intelligenza artificiale: sviluppato un polarimetro “intelligente” ultra-veloce e super-compatto che permette di utilizzare la polarizzazione della luce per nuove applicazioni

Ricercatori dell’Istituto dei sistemi complessi del Consiglio nazionale delle ricerche e della Sapienza Università di Roma hanno sviluppato un polarimetro “intelligente” ultra-veloce e super-compatto che permette di utilizzare la polarizzazione della luce per applicazioni nei campi della comunicazione ottica sicura, dei sensori fotonici e della medicina. Lo strumento è descritto in un articolo su Nature Communications.

Ricercatori dell’Istituto dei Sistemi complessi del Consiglio nazionale delle ricerche di Roma (Cnr-Isc) e del Dipartimento di Fisica della Sapienza Università di Roma hanno sviluppato un innovativo strumento che permette di “vedere” tramite la polarizzazione, e utilizzare tale proprietà per applicazioni nei campi della comunicazione ottica sicura su grande distanza, dei sensori fotonici con funzionalità aumentate, e nuovi strumenti per la medicina.

La polarizzazione, assieme alla frequenza e all’intensità, è una delle tre proprietà fondamentali delle onde elettromagnetiche. Mentre le ultime due si manifestano ogni giorno tramite i colori e la brillantezza di una moltitudine di sorgenti di luce diverse quali led, microonde e laser, la polarizzazione della luce è meno conosciuta. I nostri occhi non sono sensibili a questa proprietà – che indica la direzione di oscillazione del campo ottico – e non ci accorgiamo, pertanto, di come essa sia alla base del funzionamento di oggetti di uso comune, come i display. Vedere tramite la polarizzazione permette di rilevare oggetti apparentemente invisibili in condizioni di scarsissima visibilità, e di scoprire dettagli che sono nascosti nelle normali fotografie. Inoltre, in applicazioni quali la visione digitale permette di osservare caratteristiche fisiche dei materiali nascoste – come tensioni, torsioni ed imperfezioni superficiali – e svolge un ruolo chiave nel settore dell’informazione quantistica.

Lo strumento sviluppato da Davide Pierangeli e Claudio Conti, rispettivamente dell’Istituto dei sistemi complessi del Cnr e del Dipartimento di Fisica della Sapienza Università di Roma supera il limite dell’assenza, fino ad oggi, di metodi e strumenti compatti per ottenere immagini in polarizzazione in modo ultraveloce: gli attuali rivelatori, infatti – i cosiddetti polarimetri – utilizzano molte misurazioni tramite apparati ottici costosi e voluminosi.

In particolare, il dispositivo realizzato è innovativo in quanto permette di misurare molte polarizzazioni in un singolo “shot”, basandosi sull’intelligenza artificiale. Inoltre, non necessita dei componenti ottici convenzionali di polarizzazione.

“Rivelare la cosiddetta «terza dimensione della luce» in modo efficiente è una sfida centrale per la fotonica”, spiega Davide Pierangeli (Cnr-Isc). “La nostra idea è stata quella di rivelare la polarizzazione misurando un’altra proprietà fisica apparentemente non collegata ad essa, cioè la distribuzione d’intensità ottica che viene prodotta da un chip disordinato, e da questa tramite tecniche di apprendimento automatico estrarre l’informazione sulle molte polarizzazioni codificate nel fascio laser”.

“Il nostro studio dimostra un rivelatore di polarizzazione smart basato su intelligenza artificiale con funzionalità attualmente non ottenibili in strumenti convenzionali”, continua Claudio Conti (Sapienza Università di Roma). “Questo apre le porte alla comunicazione ottica sicura, a nuovi strumenti per la medicina e la guida autonoma”.

Il risultato, pubblicato sulla rivista Nature Communications, apre importanti prospettive per l’applicazione della luce polarizzata strutturata nella comunicazione ottica, nell’imaging, e nella computazione.

 

polarimetro luce intelligenza artificiale

Riferimenti:

Single-shot polarimetry of vector beams by supervised learning – Davide Pierangeli & Claudio Conti – Nature Communications (2023) https://doi.org/10.1038/s41467-023-37474-0

Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma