Colite ulcerosa e poliposi: stop alla rimozione di colon e retto grazie a innovativa biostampante colonoscopica che ricrea le mucose dell’intestino, grazie al progetto Tentacle
L’Università di Pisa partner del nuovo progetto europeo Tentacle che svilupperà il dispositivo
Una biostampante colonscopica, la prima mai realizzata, per ricreare la mucosa e la sottomucosa dell’intestino ed evitare la rimozione chirurgica del colon e del retto nei pazienti affetti da colite ulcerosa e poliposi adenomatosa familiare. Il rivoluzionario dispositivo sarà realizzato nei prossimi quattro anni grazie a Tentacle, un progetto europeo in partenza a gennaio 2025 che annovera fra i partner l’Università di Pisa.
Le malattie del colon-retto sono molto diffuse a livello globale ed attualmente in Europa ne sono affetti circa 2.2 milioni di individui. Tra queste ci sono la colite ulcerosa e la poliposi adenomatosa familiare. Chi è colpito da queste patologie spesso viene sottoposto a una proctocolectomia, un intervento chirurgico molto invasivo che prevede la rimozione della parte terminale del colon e del retto con gravi conseguenze sulla qualità della vita.
Per ovviare a questo scenario, il progetto TENTACLE mira a sviluppare una strategia innovativa e personalizzata in grado di sostituire la proctocolectomia attraverso la rigenerazione del tessuto mucoso e sottomucoso.
“La biostampante colonoscopica che vogliamo progettare e costruire – spiega il professore Giovanni Vozzi dell’Ateneo pisano – potrà operare direttamente nell’intestino attraverso una procedura minimamente invasiva. Il dispositivo sarà potenziato da un sistema di intelligenza artificiale per monitorare la qualità della stampa e personalizzare l’intervento sulle esigenze del singolo paziente. TENTACLE svilupperà inoltre dei biomateriali all’avanguardia con proprietà avanzate, come la capacità di cambiare forma nel tempo per mimare la morfologia intestinale e di rilasciare agenti antibiotici e antibatterici in maniera controllata e graduale”.
TENTACLE è finanziato dall’Unione Europea nell’ambito del programma di ricerca e innovazione HORIZON Health 2024. Il finanziamento previsto è di poco meno di 8 milioni di euro, di cui circa un milione sono destinati al Centro di Ricerca E. Piaggio dell’Università di Pisa.
Il consorzio del progetto è costituito da dieci partner accademici e industriali. Insieme all’Ateneo pisano ci sono l’Università di Wurzburg (Germania) come coordinatrice del progetto, l’Università di Ghent (Belgio), l’Università di Torino e il Politecnico di Torino. Si aggiungono quattro partner industriali, affiancati dall’Istituto Superiore di Sanità italiano, che forniranno al consorzio l’esperienza e le competenze necessarie per tradurre i risultati in prodotti all’avanguardia, vicini al paziente e al mercato: ADBioink (Turchia), ThioMatrix (Austria), BeWarrant (Belgio), Scinus Cell Expansion Netherland B.V. (Olanda).
Progetto Tentacle: una biostampante colonscopica per ricreare la mucosa e la sottomucosa dell’intestino; stop alla rimozione di colon e retto. Il team UniPi
Testo e foto dall’Ufficio stampa dell’Università di Pisa.
La chirurgia del futuro ripara le articolazioni con biomateriali e stampanti 3D: con lo strumento chirurgico EndoFLight sviluppato dal progetto LUMINATE, per riparare le articolazioni, lesioni alla cartilagine
Al via il progetto europeo LUMINATE coordinato dall’Università di Pisa
una infografica sulla tecnologia che verrà sviluppata
Si chiama EndoFLight, è un rivoluzionario strumento chirurgico avanzato per riparare le articolazioni con biomateriali e stampanti 3D. Il dispositivo sarà sviluppato grazie a LUMINATE, un progetto coordinato dall’Università di Pisa e finanziato dall’Unione Europea nell’ambito del programma di ricerca e innovazione Horizon Health 2024.
“EndoFLight utilizza una combinazione di tecniche di biostampa 3D, cellule del paziente e biomateriali avanzati, per riparare le cartilagini delle articolazioni in maniera personalizzata – spiega il professore Giovanni Vozzi del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa e responsabile di LUMINATE – Il sistema ha una piccola telecamera che viene inserita nell’articolazione durante l’intervento per scansionare la lesione e determinare la dimensione e la forma dell’area danneggiata grazie ad algoritmi di intelligenza artificiale, quindi EndoFLight riempie la lesione con biomateriali avanzati studiati appositamente per integrarsi con i tessuti circostanti e promuovere la rigenerazione della cartilagine”.
LUMINATE mira così ad offrire una soluzione più efficace e meno invasiva per il trattamento delle lesioni alla cartilagine, migliorando la qualità della vita dei pazienti e riducendo la necessità di interventi chirurgici più complessi. La cartilagine articolare è infatti un tessuto fondamentale per la salute delle nostre articolazioni. Grazie alla sua funzione di ‘cuscinetto’ naturale, permette movimenti delle articolazioni fluidi e senza sforzo. Tuttavia, quando si danneggia, ad esempio a causa di un trauma, possono insorgere diversi problemi, tra cui dolore, infiammazione e limitazioni funzionali. Le statistiche mostrano un aumento significativo delle lesioni cartilaginee negli ultimi anni. L’incidenza annuale in alcuni paesi è passata da 22 a 61 casi per 100.000 persone tra il 1996 e il 2011. Un rischio particolarmente grave è lo sviluppo dell’artrosi post-traumatica: secondo recenti studi, fino al 50% dei pazienti che subiscono gravi traumi al ginocchio sviluppano questa condizione entro 10 anni. L’artrosi post-traumatica può portare a disabilità cronica, limitando significativamente la qualità della vita e richiedendo spesso interventi chirurgici.
“LUMINATE vuole fare la differenza in questo scenario – conclude Vozzi . il progetto durerà 4 anni a partire da gennaio 2025 e coinvolge un vasto consorzio con partner accademici e industriali provenienti da nove paesi. In particolare, oltre al coordinamento generale noi ci occuperemo dello sviluppo di EndoFLight insieme al Politecnico Federale di Zurigo”.
il gruppo di ricerca Unipi con al centro (quinto da destra con occhiali rossi) Giovanni Vozzi
Testo e foto dall’Ufficio stampa dell’Università di Pisa.
Un modello di intelligenza artificiale prevede la ricomparsa del tumore al fegato post-trapianto
Uno studio internazionale, coordinato dal Dipartimento di Chirurgia generale e specialistica della Sapienza di Roma ha raccolto i dati di circa 4000 pazienti provenienti da Nord America, Europa e Asia per sviluppare un calcolatore in grado di predire il rischio di recidiva di epatocarcinoma. Il sistema, disponibile su una pagina online completamente gratuita, consentirà una migliore gestione e cura dei pazienti.
Il tumore al fegato o epatocarcinoma rappresenta una delle indicazioni più comuni al trapianto: in Italia, più della metà degli oltre 1.500 trapianti di fegato effettuati ogni anno ha come causa principale l’epatocarcinoma. In questo contesto è di fondamentale importanza prevedere la possibilità che il tumore possa ripresentarsi, evitando da una parte di sottoporre a questo intervento pazienti ad alto rischio e dall’altra migliorando la cura e la gestione dei pazienti trapiantati.
Uno studio internazionale, pubblicato su Cancer Communications e coordinato dal Dipartimento di Chirurgia generale e specialistica della Sapienza di Roma, ha raccolto i dati di circa 4.000 pazienti provenienti da Nord America, Europa e Asia per sviluppare un calcolatore in grado di predire il rischio di recidiva di epatocarcinoma post-trapianto.
Per sviluppare questo calcolatore, che è disponibile su una pagina online completamente gratuita, è stata sfruttata, grazie all’aiuto degli ingegneri del Politecnico di Torino, l’intelligenza artificiale. Usando questo sistema innovativo e sofisticato, il nuovo calcolatore sviluppato si è dimostrato più attendibile di quelli già esistenti, aumentando quindi la possibilità di migliorare la cura di tutti i pazienti che vengono sottoposti a trapianto per tumore al fegato.
“Lo score sviluppato è stato chiamato TRAIN-AI, acronimo di Time-Response-AlphafetoproteIN-Artificial Intelligence – spiega Quirino Lai della Sapienza. Tutte le variabili che compongono lo score sono facilmente ottenibili prima del trapianto al fine di consentire il suo calcolo praticamente in ogni parte del mondo, basandosi quindi su parametri user-friendly. Un’altra importante novità è stata quella di sviluppare un calcolatore basato su migliaia di pazienti provenienti da tutto il mondo, mentre gli score già esistenti si basavano su realtà regionali, o tuttalpiù nazionali, decisamente più circoscritte”.
La possibilità di predire il rischio di sviluppare una recidiva ha enorme importanza per il paziente per due motivi: può consentire di identificare una classe a rischio inaccettabilmente alto di recidiva che può quindi essere esclusa dal trapianto stesso (trapianto futile per causa oncologica); può consentire di studiare il paziente nel post-trapianto con maggiore attenzione (controlli più ravvicinati, riduzione della terapia immunosoppressiva) per prevenire la recidiva in pazienti a rischio aumentato.
Riferimenti:
Development and validation of an artificial intelligence model for predicting post-transplant hepatocellular cancer recurrence – Quirino Lai, Carmine De Stefano, Jean Emond, Prashant Bhangui, Toru Ikegami, Benedikt Schaefer, Maria Hoppe-Lotichius, Anna Mrzljak, Takashi Ito, Marco Vivarelli, Giuseppe Tisone, Salvatore Agnes, Giuseppe Maria Ettorre, Massimo Rossi, Emmanuel Tsochatzis, Chung Mau Lo, Chao-Long Chen, Umberto Cillo, Matteo Ravaioli, Jan Paul Lerut; EurHeCaLT and the West-East LT Study Group – Cancer Commun (Lond). 2023 doi: 10.1002/cac2.12468.
Un modello di intelligenza artificiale prevede la ricomparsa del tumore al fegato post-trapianto. Foto di Gerd Altmann
Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
Allo IEO una sonda “cerca-tumore” individua con precisione i tessuti tumorali da rimuovere nel corso degli interventi di chirurgia dei tumori neuroendocrini
Uno studio clinico condotto presso l’Istituto Europeo di Oncologia dimostra l’efficacia di un’innovativa sonda, sviluppata dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e dalla Sapienza Università di Roma, nell’individuare con precisione i tessuti tumorali da rimuovere nel corso degli interventi di chirurgia dei tumori neuroendocrini.
Un team congiunto di medici, ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Europeo di Oncologia (IEO), dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e di Sapienza Università di Roma, coordinato da Emilio Bertani della Divisione di Chirurgia dell’apparato digerente e Direttore dell’Unità di Chirurgia dei tumori neuroendocrini dello IEO, e Francesco Ceci Direttore della Divisione di Medicina Nucleare dello IEO, ha dimostrato con uno studio clinico che l’impiego di una innovativa sonda “cerca-tumore” migliora l’efficacia della chirurgia dei tumori neuroendocrini gastrointestinali.
La sonda oggetto dello studio costituisce uno strumento innovativo in grado di rilevare i positroni, particelle emesse da radiofarmaci come quelli comunemente utilizzati per eseguire una diagnostica PET. Il dispositivo, sviluppato da INFN e Sapienza, ha dimostrato un’elevata sensibilità nell’individuare cellule tumorali marcate con un radiofarmaco specifico per i tumori neuroendocrini. Una capacità che rende la sonda efficace nel guidare la mano del chirurgo esattamente alla sede della lesione, per quanto microscopica o in una posizione difficile. Lo studio condotto in IEO fra maggio 2022 e aprile 2023 su 20 pazienti ha infatti dimostrato che la nuova sonda è in grado rivelare le sedi di malattia con una sensibilità e specificità del 90%.
Grazie all’impiego della sonda le operazioni chirurgiche, sia tradizionale che con robot, risulteranno quindi più precise e conservative, in quanto sarà possibile rilevare con grande precisione la presenza di tessuti da rimuovere, evitando al contempo asportazioni inutili. In sintesi, la procedura prevede l’iniezione di una minima dose di radiofarmaco specifico per i tumori neuroendocrini che va selettivamente a posizionarsi sulle cellule tumorali.
“La chirurgia radioguidata – spiegano Francesco Collamati dell’INFN e Riccardo Faccini di Sapienza Università di Roma – fino ad oggi ha utilizzato le sonde a raggi gamma che non funzionano quando quello che si vuole rivelare è vicino ad organi che assorbono molto radiofarmaco, come per esempio nell’addome. Una sonda come quella da noi ideata, che rivela i positroni anziché i fotoni, permette di rivelare esattamente specifiche forme di tumore in zone del corpo dove sarebbe altrimenti impossibile individuarle. Grazie alla collaborazione con IEO, siamo riusciti a validare per la prima volta la sonda durante interventi chirurgici”.
Ideatore della possibilità di effettuare questa sperimentazione presso l’IEO è stato Francesco Ceci, Direttore della Divisione di Medicina Nucleare, nonché uno dei maggiori esperti del settore.
“Da sempre il mio focus di ricerca è stata la Teranostica, quella disciplina che unisce la diagnostica di ultima generazione con le terapie di precisione. Quando sono venuto a conoscenza di questo dispositivo ho subito intuito le incredibili potenzialità ed è iniziata una proficua collaborazione con il dott. Collamati. La vera innovazione di questa procedura chirurgica risiede nel somministrare ai pazienti durante l’intervento lo stesso radiofarmaco cancro-specifico usato per la diagnostica PET. Prima individuiamo con la PET le localizzazioni del tumore e poi utilizziamo la sonda per rimuoverle con grande accuratezza. Diagnosi e terapia, le basi della Teranostica, questa volta applicate alla chirurgia”.
“IEO è sempre più vicino all’obiettivo “chirurgia di precisione”, capace di asportare niente di più e niente di meno di ciò che è necessario per guarire – spiega Emilio Bertani, chirurgo della Divisione di Chirurgia dell’Apparato Digerente e coordinatore dello studio clinico – Anche il chirurgo più esperto in un caso su tre può lasciare della malattia residua, non visibile neppure alla PET perché localizzata ad esempio nei piccoli linfonodi vicini ai vasi mesenterici. La sonda beta è in grado di rilevare anche la minima presenza di cellule tumorali e nell’ 80% dei casi il chirurgo riesce a rimuoverle senza creare danni eccessivi. Il punto forte della procedura è che bilancia la capacità di trovare la malattia e la necessità di preservare tessuti vitali per il paziente”.
“È importante ricordare che per i Tumori Neuroendocrini la chirurgia è l’unica forma di cura radicale – continua Bertani – purtroppo però fino al 30% delle laparotomie non arrivano a sterilizzare il letto tumorale e dunque a controllare il tumore. Le metastasi linfonodali si ripresentano nel 10% dei casi. La nuova sonda rappresenta quindi un grande progresso e una speranza nel trattamento dei NET anche se occorre sottolineare che ciò che cambia il risultato non è tanto la tecnologia quanto la procedura. La sonda è efficace soltanto se è in mano a un chirurgo esperto”.
“Gli eccellenti risultati ottenuti sui tumori neuroendocrini ci incoraggiano ad estendere lo studio. È già in corso in IEO uno studio nel carcinoma prostatico, e abbiamo in programma di applicare la procedura con la sonda beta anche ad altri tumori gastrointestinali e ai tumori ginecologici” conclude Ceci.
Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
Una sonda per aiutare la chirurgia oncologica
A compiere un nuovo passo avanti verso una “chirurgia di precisione” sempre più sofisticata e ottimizzata sul paziente potrebbe contribuire una sperimentazione in-vivo su pazienti avviata nelle scorse settimane per validare una tecnica di chirurgia radioguidata con farmaci che emettono radiazione beta. La nuova tecnica, sviluppata dalla Sapienza Università di Roma e dall’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare), è frutto della stretta collaborazione interdisciplinare tra fisici, chimici, radio-farmacisti, medici nucleari e chirurghi, e potrebbe diventare uno strumento aggiuntivo a supporto del chirurgo oncologico durante la rimozione dei tumori.
La chirurgia radioguidata è una tecnica che permette di identificare in tempo reale i residui tumorali. La tecnica consiste nel rivelare, grazie ad una sonda, la radiazione emessa da una sostanza radioattiva, un radiofarmaco contenente una specifica molecola che viene riconosciuta e metabolizzata dai recettori delle cellule tumorali. In questo modo è possibile verificare direttamente durante l’operazione se i tessuti analizzati siano tumorali o meno, e quindi guidare il chirurgo sulle sedi da rimuovere.
Il progetto si basa su un’idea iniziale, brevettata nel 2013 da Sapienza, INFN e Centro Fermi Museo della Scienza, che prevedeva l’utilizzo di radiazione beta-: un tipo di radiazione poco penetrante composta da elettroni, che però pone problemi di natura applicativa a causa della limitata disponibilità di radiofarmaci con questo tipo di emissione.
“Essendo particelle cariche, – spiega Riccardo Faccini, Professore Ordinario del Dipartimento di Fisica della Sapienza e attualmente Preside della Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali, tra gli inventori della tecnica – gli elettroni di cui si compone la radiazione beta perdono velocemente la loro energia a seguito delle interazioni con le altre particelle cariche presenti in tutti i tessuti del corpo umano. Ciò determina l’impossibilità per gli elettroni di uscire dal paziente. Questa è la ragione che ci ha spinti a concepire uno strumento a cui i chirurghi avrebbero potuto far ricorso durante le operazioni, andandolo a posizionare direttamente sui tessuti da analizzare. Sebbene la procedura sia risultata efficace, le difficoltà di somministrazione, i costi elevati e la limitata diffusione dei farmaci beta-, ci hanno spinto a cercare soluzioni alternative più accessibili e sostenibili”.
Dopo studi condotti in collaborazione con l’Istituto Neurologico “Carlo Besta”, l’Istituto Europeo di Oncologia, il Leiden University Medical Center e il Policlinico Universitario Fondazione Agostino Gemelli, la scelta è quindi ricaduta sulla radiazione beta+, caratterizzata dall’emissione di un positrone, l’antiparticella dell’elettrone, e da due fotoni, usata quotidianamente nei reparti di medicina nucleare per gli esami diagnostici PET (Tomografia ad Emissione di Positroni).
“Mentre la radiazione beta-, alla luce delle sue caratteristiche, risulta poco adatta alle indagini diagnostiche – chiarisce Francesco Collamati, ricercatore della sezione INFN di Roma, attuale Principal Investigator dello studio -, i fotoni della radiazione beta+ sono in grado di attraversare senza ostacoli i tessuti del paziente, per essere infine rivelati da apparati diagnostici esterni. Da qui il diffuso utilizzo negli ospedali di farmaci beta+, che potranno quindi essere in parte utilizzati anche per la nostra tecnica.”
Nonostante la loro reperibilità, rispetto a quelli emettenti beta-, questi radiofarmaci presentano difficoltà legate all’abbondanza dei fotoni prodotti non solo nei tessuti malati, ma anche in tutte le aree del corpo raggiunte dalla molecola dopo la somministrazione, che possono disturbare i segnali rivelati dalla sonda.
“Per questa ragione risulta necessario continuare a effettuare test che consentano di comprendere e calibrare il dispositivo e di fornire ai medici indicazioni, per esempio, sui livelli di conteggi associati all’effettiva presenza di un tumore”, conclude Collamati.
Dopo anni di studi di fattibilità e test ex-vivo, effettuati cioè su campioni di tessuto asportati dai pazienti sottoposti a operazioni, recenti sperimentazioni sono ora in corso, con il prototipo sviluppato dalla NUCLEOMED S.r.l., presso lo IEO di Milano, dove sono studiate nel dettaglio le potenzialità della tecnica sia sui tumori Neuro-Endocrini del tratto gastro-intestinale (GEP-NET) che sui carcinomi prostatici, e l’Ospedale ‘Molinette della Città della Salute di Torino’, nel caso di tumori prostatici.Settore Ufficio stampa e comunicazione
Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
Secondo una stima dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2018 253 milioni di persone soffrivano di patologie oftalmiche e di questi 36 milioni erano ciechi: le patologie della cornea (superficie oculare davanti all’iride) rappresentano la quarta causa di cecità a livello globale (5,1%) dopo cataratta, glaucoma e degenerazione maculare legata all’età. Il recente studio pubblicato sulla rivista scientifica JAMA Ophthalmology evidenzia la drammaticaproporzione tra cornee disponibili al trapianto e la richiesta: 1 a 70.
Nell’ultimo decennio sono stati fatti sforzi importanti per incoraggiare la donazione di organi e tessuti, tra i quali le cornee. Tuttavia, circa il 53% della popolazione mondiale non ha accesso ad un trapianto corneale. È comprensibile, quindi, che il mondo della ricerca biomedica dedichi notevoli sforzi nello sviluppo di soluzioni alternative o complementari, come lo sviluppo della cornea artificiale.
Per riparare i danni corneali vi sono diverse strade percorribili a seconda dei casi. Itrapianti parzialmente artificiali prevedono la sostituzione della cornea del paziente con un complesso costituito da tessuto umano, una protesi di materiale plastico (polimetilmetaacrilato) e un anello di titanio.
In alternativa,il trattamento con cellule staminali: quando l’epitelio di rivestimento corneale viene seriamente danneggiato vengono distrutte anche le cellule limbari, cioè le cellule progenitrici che consentono all’epitelio corneale di rinnovarsi. In questi casi il trapianto di cornea da donatore non è eseguibile.
Molto più raramente è stata utilizzata la membrana amniotica, ossia lo strato più interno del sacco amniotico, per ricostituire l’epitelio corneale, ridurre l’infiammazione e controllare la crescita incontrollata di vasi e tessuto fibroso.
È di all’incirca un mese fa la notizia dell’impianto di una cornea artificiale, in collagene ricavato da pelle di maiale, su 20 pazienti affetti da cheratocono (malattia cronica degenerativa della cornea) in Iran e India (clinicaltrials.gov no. NCT04653922).
La ricerca e i primi test, realizzati dai ricercatori della Linköping University e dell’azienda LinkoCare Life Sciences, sono stati pubblicati sulla rivista Nature Biotechnology.I ricercatori hanno utilizzato la proteina suina purificata (il materiale di partenza è un prodotto di scarto dell’industria alimentare, già utilizzato per dispositivi medici approvati dall’FDA) per costruire materiale robusto e trasparente da impiantare in un occhio umano. Le cornee bioingegnerizzate possono essere conservate anche per due anni prima di essere utilizzate, a differenza di quelle da donatore che devono essere trapiantate entro due settimane.
I pazienti che hanno partecipato al clinical trial sono stati seguiti per due anni e nessun evento avverso è stato osservato. 14 pazienti, inizialmente ciechi, hanno recuperato le capacità visive.
Jamal Furani, 78 anni, da Haifa non era capace di distinguere un amico o il suo vicino di casa se gli fossero stati accanto. L’uomo, infatti, era affetto da cecità corneale bilaterale, una condizione limite causata da patologie gravi della cornea. Le gravi alterazioni della trasparenza corneale lo hanno incatenato nell’ombra per un decennio. L’unico tentativo possibile, dopo 4 precedenti interventi chirurgici falliti, di donargli nuovamente la vista, era provare qualcosa di completamente nuovo.Jamal non era idoneo al trapianto da donatore, ma si presentò un’ultima opportunità: l’impianto di cornea sintetica artificiale. CorNeat KPro, progettata dall’azienda CorNeat Vision, è una cornea artificiale completamente sintetica che si integra tra le componenti dell’occhio, sfruttando cellule esistenti del bulbo oculare. L’intervento è stato condotto al Rabin Medical Center di Petah Tikva, dalla Professoressa Irit Bahar, Direttrice del dipartimento di oftalmologia. Dopo ventiquattro ore dall’intervento sono state rimosse le bende: l’uomo è riuscito a identificare immediatamente le singole dita della mano, i numeri in una tabella, a leggere qualche riga e a vedere sua figlia.
Il successo di questi interventi lasciano concrete speranze per un loro più ampio impiego nell’immediato futuro. Intanto, in India, è stata stampata la prima cornea 3D.
Lesioni del legamento crociato anteriore, un algoritmo aiuta a decidere il trattamento terapeutico migliore nei pazienti più giovani
I risultati dello studio saranno presentati nel corso del terzo congresso del Transalpine Center of Pediatric Sports Medicine and Surgery in programma a Monza.
Milano, 30 novembre 2021 – Un algoritmo aiuta gli specialisti ad individuare il trattamento migliore delle rotture del legamento crociato anteriore nei pazienti più giovani. Negli ultimi venti anni l’incidenza di queste lesioni è aumentata notevolmente nei bambini e nei ragazzini per via di un incremento della pratica sportiva. Nonostante i casi si ripropongano sempre più di frequente, non esiste un percorso terapeutico univoco. L’individuazione del trattamento ottimale tra le tante opzioni possibili è strettamente correlata a circostanze legate al paziente e al tipo di lesione. L’algoritmo messo a punto non esclude l’esperienza clinica, ma la valorizza dal momento che proprio su essa è basato.
I ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca, dell’Ospedale San Gerardo di Monza, della Grenoble Alpes University e del Transalpine Center of Pediatric Sports Medicine and Surgery – in collaborazione con i colleghi di Tolosa (Francia), Rochester (USA) e Thunder Bay (Canada) – hanno effettuato una revisione di tutta la letteratura scientifica in materia e della casistica dei rispettivi centri. Un lavoro che ha portato alla elaborazione di un algoritmo di selezione del trattamento basato su tre condizioni: lo sviluppo scheletrico; la posizione, il tipo e la qualità della lesione; le aspettative di paziente e genitori riguardo le attività future. I risultati dello studio sono confluiti in un articolo (“Management of anterior cruciate ligament tears in Tanner stage 1 and 2 children: a narrative review and treatment algorithm guided by ACL tear location” – DOI: 10.23736/S0022-4707.21.12783-5) pubblicato su “The Journal of Sports Medicine and Physical Fitness”.
L’algoritmo elaborato dai ricercatori e i progressi nel trattamento delle rotture del legamento crociato anteriore nei pazienti giovanissimi saranno il tema del terzo congresso del Transalpine Center of Pediatric Sports Medicine and Surgery, in programma il 3 dicembre prossimo presso il centro congressi dell’Ospedale San Gerardo di Monza. Nelle quattro sessioni in cui si articola la giornata, gli specialisti affronteranno anche tematiche legate alla prevenzione e ai percorsi riabilitativi. Il Transalpine Center of Pediatric Sports Medicine and Surgery nasce dalla collaborazione tra l’Università di Milano-Bicocca e la Grenoble Alpes University con l’obiettivo di creare una sinergia per la presa in carico dei giovani sportivi, sopperendo in questo modo alla mancanza di un centro di riferimento altamente specializzato.
Nelle rotture del legamento crociato anteriore la decisione sul migliore trattamento terapeutico per lo specifico caso può essere presa, a volte, soltanto in sede di intervento operatorio. Proprio per questo un momento importante è il rapporto che gli specialisti instaurano con i genitori del paziente, affinché questi ultimi siano messi nelle condizioni di poter prestare il consenso informato per la tipologia di intervento che verrà scelta.
«Nei soggetti scheletricamente immaturi, che presentano un alto potenziale rigenerativo, per alcune lesioni del crociato è possibile un trattamento di tipo riparativo e non ricostruttivo» spiega Marco Turati, ricercatore del Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università di Milano-Bicocca, dirigente medico del reparto di Ortopedia dell’Ospedale San Gerardo di Monza e presidente del congresso del Transalpine Center of Pediatric Sports Medicine and Surgery.
Poi aggiunge: «Questo tipo di trattamento permette la preservazione del tessuto legamentoso nativo. In altri casi è invece raccomandata la ricostruzione del crociato poiché è stato evidenziato che rimandare il trattamento a quando il soggetto presenterà caratteristiche di maturità scheletrica lo espone ad un alto rischio di lesioni associate. L’algoritmo che abbiamo presentato evidenzia, infine, come il trattamento ottimale non comporti solamente scelte chirurgiche specifiche sul singolo paziente, ma anche adattati percorsi riabilitativi che permettano un recupero funzionale il più adeguato possibile».
Testo dall’Ufficio Stampa Università di Milano-Bicocca
Effettuato presso Sapienza-Sant’Andrea il primo trapianto di trachea in Italia, primo al mondo su un paziente post Covid-19
L’intervento, reso necessario a causa delle lesioni provocate dalle complicanze della malattia, rappresenta un modello clinico a livello internazionale
È stato portato a termine con successo il primo trapianto di trachea in Italia, il primo al mondo che viene effettuato su un paziente post Covid-19. I danni conseguenti all’infezione SARS-Cov2 e alle tecniche di ventilazione invasiva che si sono rese necessarie durante la malattia, hanno provocato l’assottigliamento della trachea che impediva quasi completamente la respirazione, rendendo necessario effettuare l’intervento.
Cecilia Menna in sala operatoria
Il trapianto è stato eseguito lo scorso 2 marzo presso la Chirurgia Toracica dell’Azienda ospedaliero-universitaria Sant’Andrea, policlinico universitario della rete Sapienza e azienda di alta specializzazione della Regione Lazio. Il paziente, un uomo di 50 anni originario della Sicilia, immediatamente risvegliato è stato da subito in grado di respirare e parlare autonomamente; dopo un ricovero di tre settimane e un decorso post-operatorio regolare, ha ripreso la sua vita normale, tornando al suo lavoro e alla sua città.
Effettuato presso Sapienza-Sant’Andrea il primo trapianto di trachea in Italia, primo al mondo su un paziente post Covid-19. La conferenza stampa
L’importante traguardo è stato presentato il 15 aprile nell’aula magna della Sapienza da parte dello staff medico della Chirurgia toracica diretta da Erino Rendina e in particolare dalla giovane chirurga Cecilia Menna, la trentacinquenne responsabile del Programma “Tracheal Replacement” del Sant’Andrea che ha condotto con il professor Rendina l’intervento in prima persona. A prender parte, la rettrice della Sapienza Antonella Polimeni, l’Assessore alla Sanità della Regione Lazio Alessio D’Amato, il direttore sanitario dell’Azienda Ospedaliera-universitaria Sant’Andrea Paolo Annibaldi, il preside della Facoltà di Medicina e psicologia Fabio Lucidi, che hanno condiviso il brillante risultato, spiegando la complessità della macchina organizzativa messa in moto per portare a compimento il trapianto.
Erino Rendina, Antonella Polimeni, Cecilia Menna
“Questo successo è motivo di soddisfazione per tutta la nostra comunità e rappresenta un’ulteriore conferma degli eccellenti risultati clinici della ricerca medica e scientifica prodotta dall’Ateneo, al servizio della salute della collettività” – afferma la rettrice Antonella Polimeni – Il fatto poi che questo intervento veda in prima linea una giovane chirurga è un segnale forte di come le competenze femminili si possano affermare in ambiti professionali come quello chirurgico, tradizionalmente a quasi esclusivo appannaggio degli uomini.”
“Un grande risultato a testimonianza dell’eccellenza clinica raggiunta dal sistema sanitario regionale” sottolinea l’Assessore Alessio D’Amato “Voglio ringraziare la Sapienza e i professionisti dell’équipe chirurgica del Sant’Andrea per l’innovativo intervento portato a termine.”
“Un risultato di elevata complessità organizzativa e clinico-assistenziale, frutto dell’esperienza e dello spirito di innovazione dei nostri chirurghi – commenta il direttore generale del Sant’Andrea Adriano Marcolongo – e della capacità di fare rete con altri centri italiani di eccellenza.”
Effettuato presso Sapienza-Sant’Andrea il primo trapianto di trachea in Italia, primo al mondo su un paziente post Covid-19. Foto di gruppo con gli specializzandi
L’intervento chirurgico, che ha coinvolto 5 operatori ed è durato circa 4 ore e mezza, è stato condotto con sofisticate tecniche di anestesia, che hanno permesso di non instituire la circolazione extracorporea. La trachea malata è stata rimossa nella sua totalità e successivamente è iniziata la delicata fase di ricostruzione che ha previsto la sua sostituzione con un segmento di aorta toracica criopreservata presso la Fondazione Banca dei Tessuti di Treviso, diretta da Diletta Trojan e perfettamente adattabile alle dimensioni della via aerea del paziente.
“La patologia tracheale era estesa e severa e non poteva essere affrontata con le tecniche di ricostruzione, su cui pure abbiamo maturato una esperienza ventennale – spiega Erino Rendina – e l’unica opzione plausibile era la sostituzione dell’intera trachea con biomateriale”.
Cecilia Menna in sala operatoria
“Una delle criticità maggiori nella sostituzione della trachea, tubo rigido e pervio” spiega Cecilia Menna – “è il ripristino della sua rigidità: per questo abbiamo provveduto a inserire all’interno dell’aorta impiantata un cilindro di silicone, la cosiddetta protesi di Dumon, della lunghezza di 10 cm e ripristinato completamente la pervietà aerea, la respirazione, la fonazione e la deglutizione”.
Il paziente, Giuseppe Scalisi
Il paziente, immediatamente risvegliato e da subito in grado di respirare e parlare autonomamente, non ha necessitato di ricovero in terapia intensiva né di tracheostomia ed è stato trasferito direttamente nel reparto di Chirurgia Toracica. Sono state effettuate broncoscopie quotidiane per controllare il corretto posizionamento del cilindro di silicone e il buono stato di conservazione del graft aortico. Il suo decorso post-operatorio è stato regolare e dopo tre settimane dall’intervento, il paziente è stato dimesso, senza la necessità di terapia immunosoppressiva, come avviene invece per gli altri trapianti d’organo, grazie alla scarsissima immunogenicità del graft aortico.
Erino Rendina e Cecilia Menna in studio
Chirurgia Toracica di Sapienza-Azienda ospedaliero-universitaria Sant’Andrea – è il maggior centro di riferimento italiano per la chirurgia della trachea ed uno dei maggiori centri europei, un’eccellenza italiana fortemente voluta dai vertici della Sapienza e dell’Ospedale Sant’Andrea. Conosce una costante crescita in termini di volume e qualità assistenziale con particolare riferimento ad interventi di ricostruzione vascolare e delle vie aeree finalizzate al risparmio delle parti di organo sane. Nel 2020 sono stati effettuati sotto la direzione del professor Rendina 1323 interventi, nonostante la maggiore complessità organizzativa dovuta all’emergenza COVID.
Cecilia Menna
Cecilia Menna – Responsabile del progetto “Tracheal Replacement”, è una giovane chirurga di 35 anni. Dopo essersi laureata e specializzata con il professor Rendina, è attualmente dirigente medico presso l’Azienda ospedaliero-universitaria Sant’Andrea. Esegue quotidianamente, in prima persona, tutti gli interventi più complessi di Chirurgia Toracica e rappresenta, con il suo successo professionale, l’abbattimento di un altro cliché duro a scomparire: che la chirurgia sia preclusa alle donne.
Cecilia Menna
Erino Angelo Rendina – Direttore della Chirurgia Toracica, è stato il primo, trent’anni fa esatti, ad eseguire un trapianto polmonare in Italia, nella notte tra l’11 e il 12 gennaio 1991. Attualmente, dirige un gruppo di 9 chirurghi, tra cui 4 donne. La sua lunga esperienza è stata messa a disposizione del paziente per raggiungere in modo assolutamente innovativo quella che sembra una stabile guarigione; ciò dimostra come la ricerca di base e lo studio, uniti alla tenacia nell’applicazione pratica della ricerca scientifica, possano anche in Italia dare risultati di valore assoluto.
Erino Angelo Rendina
Testo, foto e video dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
Virus Herpes simplex per generare farmaci biologici contro il cancro
La scoperta dei ricercatori del CEINGE-Biotecnologie Avanzate di Napoli e del Dipartimento di Medicina Molecolare e Biotecnologie Mediche dell’Università Federico II, in collaborazione con la NousCom Srl, si è rivelata efficace in modelli preclinici di tumori della mammella
Il virus Herpes simplex si può utilizzare per generare farmaci biologici ad attività oncolitica su carcinomi mammari HER2-negativi, di cui fanno anche parte i cosiddetti tumori della mammella triplo-negativi (TNBC).
È quanto hanno svelato gli studi che da circa 5 anni a questa parte portano avanti i ricercatori del CEINGE-Biotecnologie avanzate di Napoli e del Dipartimento di Medicina Molecolare e Biotecnologie Mediche dell’Università Federico II, guidati da Nicola Zambrano, professore di Biologia molecolare, che nei laboratori del Centro di via Gaetano Salvatore lavora alla messa a punto proprio di nuove tecnologie per la selezione e la produzione di farmaci biologici per sperimentazioni precliniche.
Gli studiosi hanno generato, in collaborazione con la NousCom SRL, un virus erpetico capace di infettare selettivamente le cellule cancerose che espongono, sulla loro superficie, la mesotelina, un antigene tumorale frequentemente espresso nei tumori TNBC e nel mesotelioma pleurico.
«Herpes simplex appartiene ad una famiglia di virus con cui l’uomo convive da sempre – sottolinea il prof. Zambrano –, basti pensare alle comuni manifestazioni labiali che interessano tanti di noi, ed è molto ben conosciuto. Contro questo virus esistono anche dei farmaci per controllarne l’infezione. Tali caratteristiche lo hanno reso un modello di elezione per lo sviluppo di farmaci biologici ad attività antitumorale o, più precisamente, oncolitica».
«I vantaggi dei vettori virali da noi generati, validati mediante sperimentazione su cellule e in modelli preclinici – spiega Zambrano – risiedono nel corretto bilanciamento di efficacia nell’attivazione della risposta immunitaria anti-tumorale e della specificità oncolitica verso il tumore, con limitazione degli effetti fuori-bersaglio verso i tessuti normali. I nostri studi prevedono l’utilizzo di questi vettori virali in combinazione con l’immunoterapia dei tumori, che si sta sempre più affermando come il quarto presidio per le cure anticancro, in aggiunta alle terapie più invasive quali la chemioterapia, la radioterapia e la chirurgia».
Questo virus si aggiunge a quelli generati in collaborazione con l’Università di Bologna, per il targeting del cancro alla mammella di tipo HER2 positivo, ampliando di fatto il potenziale “arsenale” terapeutico nei confronti dei tumori mammari e non.
Oltre ad “educare” i virus per renderli efficaci e selettivi, il laboratorio del CEINGE diretto dal prof. Zambrano rappresenta una vera e propria palestra per numerosi studenti di Biotecnologie e dottorandi, che hanno la possibilità a di formarsi, a livello sia teorico che pratico, sull’utilizzo di metodologie e approcci innovativi della ricerca molecolare, in particolar modo per la cura dei tumori.
«Negli ultimi cinque anni abbiamo portato avanti studi per educare Herpes simplex a riconoscere selettivamente cellule tumorali, e a replicare esclusivamente in queste ultime, tralasciando le cellule normali. Il modello iniziale era basato sul riconoscimento di tumori mammari positivi ad HER2 e lo abbiamo migliorato nella selettività verso il tumore. Abbiamo poi generato un nuovo virus in grado di riconoscere anche tumori mammari negativi ad HER2, attraverso un diverso recettore, la mesotelina. Questo recettore potrebbe essere anche sfruttato per l’ingresso del nuovo virus oncolitico in cellule del mesotelioma, un tumore particolarmente aggressivo e con limitate opzioni terapeutiche».
Gli studi pubblicati su riviste scientifiche internazionali *
I risultati degli studi sono stati oggetto di una serie di recentissime pubblicazioni, la più recente nel gennaio 2021, la meno recente a marzo 2020. L’attività di ricerca si è avvalsa del finanziamento SATIN della Regione Campania, sebbene l’analisi di alcuni meccanismi dell’immunità antivirale sia di interesse anche per il chiarimento dei meccanismi patogenetici in capo alla Covid-19 e che, pertanto, riportano anche il contributo della Regione Campania alla Task-Force Covid-19 del CEINGE.
Il gruppo di ricerca guidato da Nicola Zambrano, formato anche da giovani ricercatrici come Guendalina Froechlich (dottoranda SEMM) e Chiara Gentile (dottoranda DMMBM), si è avvalso della collaborazione del dott. Emanuele Sasso della NousCom Srl, di Alfredo Nicosia, professore di Biologia molecolare della Federico II e Principal Investigator CEINGE, e del gruppo di Massimo Mallardo, professore di Biologia cellulare della Federico II.
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International Journal of Molecular Sciences 2021 –Generation of a Novel Mesothelin-Targeted Oncolytic Herpes Virus and Implemented Strategies for Manufacturing
Froechlich G, Gentile C, Infante L, Caiazza C, Pagano P, Scatigna S, Cotugno G, D’Alise AM, Lahm A, Scarselli E, Nicosia A, Mallardo M, Sasso E, and Zambrano N.
Seminars in Immunology 2020 – New viral vectors for infectious diseases and cancer
Sasso E, D’Alise AM, Zambrano N, Scarselli E, Folgori A, Nicosia A.
Cancers 2020 – Integrity of the Antiviral STING-mediated DNA Sensing in Tumor Cells Is Required to Sustain the Immunotherapeutic Efficacy of Herpes Simplex Oncolytic Virus
Froechlich G, Caiazza C, Gentile C, D’Alise AM, De Lucia M, Langone F, Leoni G, Cotugno G, Scisciola V, Nicosia A, Scarselli E, Mallardo M, Sasso E, Zambrano N.
Molecular Therapy – Oncolytics 2020 – Retargeted and Multi-cytokine-Armed Herpes Virus Is a Potent Cancer Endovaccine for Local and Systemic Anti-tumor Treatment
De Lucia M, Cotugno G, Bignone V, Garzia I, Nocchi L, Langone F, Petrovic B, Sasso E, Pepe S, Froechlich G, Gentile C, Zambrano N, Campadelli-Fiume G, Nicosia A, Scarselli E, D’Alise AM.
Scientific Reports 2020 – Replicative conditioning of Herpes simplex type 1 virus by Survivin promoter, combined to ERBB2 retargeting, improves tumour cell-restricted oncolysis
Sasso E, Froechlich G, Cotugno G, D’Alise AM, Gentile C, Bignone V, De Lucia M, Petrovic B, Campadelli-Fiume G, Scarselli E, Nicosia A, Zambrano N.
Testo dall’Ufficio Stampa Università Federico II di Napoli sugli studi circa l’utilizzo di Herpes simplex per generare farmaci biologici contro il cancro.