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Perché alcuni tumori al colon-retto non rispondono alla chemioterapia?

La risposta potrebbe arrivare dal microbiota intestinale

In uno studio tutto italiano, frutto di una collaborazione tra Università di Torino e IFOM, un gruppo di ricercatori ha studiato il ruolo di alcuni batteri intestinali nel promuovere la resistenza alle terapie nel tumore del colon. Con cellule in coltura in due e tre dimensioni, ottenute sia da linee cellulari sia da campioni di pazienti, i ricercatori hanno scoperto che una particolare tossina batterica, chiamata colibactina e presente in alcuni tumori intestinali, è in grado di addestrare il cancro a resistere alle cure. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica internazionale Cell Reports Medicine. Lo studio è stato sostenuto da Fondazione AIRC e da un grant ERC dell’Unione Europea.

 

Milano, 22 gennaio 2024 – La chemioterapia rappresenta ancora oggi un’arma fondamentale nella terapia dei tumori, specialmente di quelli intestinali. Sono disponibili in clinica numerosi farmaci, alcuni dei quali condividono il meccanismo comune di danneggiare il DNA delle cellule tumorali, sgretolandolo pezzo dopo pezzo, finché il tumore rimane senza “istruzioni” e regredisce. Si tratta però di farmaci che possono colpire anche le cellule normali, causando effetti collaterali che possono precludere la prosecuzione del trattamento. Inoltre non tutti tumori intestinali rispondono fin dall’inizio allo stesso farmaco. Ottimizzare, dunque, la scelta terapeutica per massimizzare il beneficio clinico e ridurre la tossicità collaterale è fondamentale. Attualmente, però, non esistono ancora criteri univoci per scegliere la chemioterapia più adatta a ogni paziente.

Un gruppo di ricercatori attivi in Italia, uniti da una collaborazione tra IFOM e il Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino, ha trovato una nuova strategia per selezionare il trattamento più idoneo ai pazienti con cancro del colon-retto, adottando un cambio di prospettiva innovativo. Anziché concentrarsi solo sul tumore per predire la possibile risposta alla chemioterapia, i ricercatori hanno studiato ciò che lo circonda, tra cui l’insieme dei batteri che popolano l’intestino: il cosiddetto microbiota. Lo studio, svolto grazie al sostegno di Fondazione AIRC e di un grant ERC dell’Unione Europea, è stato coordinato dal professor Alberto Bardelli, Direttore Scientifico di IFOM e Professore Ordinario dell’Università di Torino. I risultati sono stati pubblicati sull’autorevole rivista scientifica Cell Reports Medicine.

“Il microbiota rappresenta un incredibile insieme di microrganismi che dimorano nell’intestino” spiega il professor Bardelli. “Se ognuno di essi fosse una stella, il microbiota sarebbe grande cento volte la Via Lattea. Il microbiota svolge molte funzioni importanti e positive per il nostro organismo, ma ci sono alcuni batteri che promuovono lo sviluppo del cancro. In particolare è noto che alcune specie di Escherichia coli e altri batteri intestinali siano in grado di produrre una specifica tossina, chiamata colibactina, che è stata trovata arricchita in una frazione di tumori colorettali. Questa tossina è in grado di provocare la trasformazione delle normali cellule intestinali in tumorali inducendo delle mutazioni, cioè delle alterazioni nella sequenza del loro DNA, la molecola che è anche il bersaglio dei chemioterapici usati comunemente in clinica. Ci siamo dunque chiesti se ci potesse essere una correlazione, cioè se l’esposizione alla tossina potesse influenzare il modo in cui i tumori rispondono ai trattamenti”.

“Abbiamo avuto l’idea di andare oltre lo studio delle sole cellule tumorali per capire come possano essere guidate dal micro-ambiente che le circonda” prosegue il dottor Alberto Sogari, ricercatore sostenuto da AIRC presso il Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino e primo autore dell’articolo. “Non è stato facile perché questo cambio di approccio ha richiesto l’ideazione di nuovi protocolli sperimentali. Con l’aiuto dei microbiologi del gruppo del professor David Lembo, del Dipartimento di Scienze Cliniche e Biologiche dell’Università di Torino, abbiamo coltivato in laboratorio cellule tumorali colorettali e batteri produttori di colibactina, simulando così quello che avviene nell’intestino. Abbiamo utilizzato sia linee cellulari sia i cosiddetti organoidi, ossia colture in tre dimensioni di cellule di pazienti con cui si cerca di approssimare la struttura tridimensionale dei tumori di origine. In questo modo abbiamo studiato l’impatto funzionale della colibactina sulle cellule, con tecnologie di sequenziamento e analisi bioinformatiche all’avanguardia. Abbiamo scoperto che la colibactina funziona come una sorta di “palestra per i tumori”: questa tossina allena infatti le cellule tumorali a sopportare un carico costante di mutazioni al DNA, abituandole. Così, quando si inizia il trattamento con un farmaco chemioterapico con un meccanismo simile molto usato in clinica, l’irinotecano, il tumore è già allenato. Avendo imparato a sopportare le mutazioni causate dalla colibactina, il cancro impara anche a tollerare il danno provocato dalla chemioterapia, diventando così resistente.”

Lo studio apre dunque nuove prospettive. I ricercatori hanno infatti osservato che anche tumori allenati dalla colibactina possono rispondere ad altri approcci chemioterapici che agiscono con un meccanismo diverso. La colibactina, quindi, può costituire la chiave per selezionare la strategia terapeutica adeguata a colpire questi tumori con maggiore efficacia.

“Nell’ambito della cosiddetta oncologia di precisione” conclude il professor Bardelli “è sempre più importante stratificare i pazienti per poter rendere i trattamenti il più possibile precisi e mirati. I nostri risultati mostrano quanto sia importante un approccio integrato a 360 gradi, che guardi sia al tumore sia a ciò che lo circonda. L’obiettivo è anche scoprire nuovi bio-marcatori, cioè nuovi criteri per selezionare i farmaci più adatti a ciascun tumore e ciascun paziente. Partendo dai nostri risultati pre-clinici, abbiamo così cominciato ad analizzare la presenza della colibactina in campioni clinici provenienti da pazienti dell’Ospedale Niguarda di Milano, in collaborazione con il Professor Siena e il Professor Sartore-Bianchi, per correlare l’eventuale presenza della tossina alla risposta clinica ai farmaci. Abbiamo già ottenuto dei primi risultati incoraggianti che confermano le ricadute traslazionali della nostra scoperta”. L’obiettivo dei ricercatori è adesso di validare questo approccio su coorti più grandi e rappresentative di pazienti di cancro al colon.

cancro colon-retto gene
Perché alcuni tumori al colon-retto non rispondono alla chemioterapia? Immagine di Elionas2

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

INDIVIDUATE NUOVE POSSIBILITÀ TERAPEUTICHE  PER IL MEDULLOBLASTOMA RESISTENTE ALLA CHEMIOTERAPIA

I ricercatori del Dipartimento di Salute della Donna e del Bambino dell’Università di Padova, autori dell’articolo pubblicato sulla rivista Acta Neuropathologica Communicationshanno dimostrato che i farmaci che agiscono sul metabolismo delle cellule tumorali, e che sono chiamati comunemente antimetaboliti, sono particolarmente attivi nel trattamento delle cellule tumorali resistenti alle terapie.

La resistenza alla chemioterapia è una delle sfide più impegnative che i medici devono affrontare durante le cure dei pazienti oncologici e che i ricercatori devono cercare di risolvere con i loro studi sperimentali. L’insorgenza di cellule tumorali resistenti alle terapie è infatti uno dei maggiori ostacoli alla completa eliminazione del tumore. Questo è particolarmente rilevante per il medulloblastoma, un tumore cerebrale pediatrico ancora difficile da curare e spesso refrattario alla chemioterapia. Peraltro, le attuali opzioni terapeutiche prevedono l’utilizzo di farmaci che sono parzialmente efficaci, oltre a causare numerosi effetti collaterali e tossicità per i piccoli pazienti. Ciò lascia spazio a potenziali recidive, insieme alle conseguenze a volte durature di farmaci non del tutto tollerabili.

Allo scopo di identificare i meccanismi molecolari che permettono ad alcune cellule tumorali di resistere alla chemioterapia, alcuni ricercatori del Dipartimento di Salute della Donna e del Bambino dell’Università di Padova insieme a colleghi dell’Istituto di Ricerca Pediatrica – Città della Speranza hanno esposto ciclicamente cellule di medulloblastoma derivate dai pazienti alla stessa combinazione di farmaci comunemente utilizzata in clinica. Hanno così cercato di riprodurre in laboratorio ciò che accade quando un tumore mostra la propria resistenza alla chemioterapia.

I risultati sono stati pubblicati sulla rivista internazionale Acta Neuropathologica Communications in un articolo dal titolo “Molecular and functional profiling of chemotolerant cells unveils nucleoside metabolism-dependent vulnerabilities in medulloblastoma. Lo studio è stato coordinato dal Prof. Giampietro Viola e dal Dott. Luca Persano del Dipartimento di Salute della Donna e del Bambino dell’Università di Padova ed è stato condotto con pari contributo dalle Dottoresse Elena Mariotto, Elena Rampazzo e Roberta Bortolozzi. La ricerca è stata sostenuta dalla Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro, Fondazione Just Italia, Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo (CARIPARO) e dalla charity statunitense Rally Foundation for Childhood Cancer Research.

Grazie a questi esperimenti i ricercatori hanno mostrato che le cellule di medulloblastoma resistenti alla chemioterapia sono in grado di stravolgere completamente molteplici processi intracellulari. Le cellule tumorali contrastano così i danni provocati dai farmaci, si adattano ai trattamenti farmacologici e soddisfano le crescenti esigenze di nutrienti. Questa riconfigurazione metabolica può però trasformarsi nel tallone di Achille di queste cellule.

I ricercatori coinvolti nello studio sono stati in grado di identificare tali vulnerabilità grazie a uno screening di più di 2000 farmaci, con il quale hanno dimostrato che i farmaci che agiscono sul metabolismo delle cellule tumorali, chiamati comunemente antimetaboliti, sono particolarmente attivi nel trattamento delle cellule resistenti. Questo risultato è particolarmente rilevante, dal momento che molti dei farmaci identificati sono già approvati e attualmente impiegati nel trattamento di altre neoplasie, anche pediatriche, facilitando così il loro potenziale futuro impiego anche nel contesto del medulloblastoma.

«Gli studi sulla resistenza alla chemioterapia effettuati e descritti – dice Elena Mariotto, prima coautrice dell’articolo – sono un buon sistema per studiare la resistenza farmacologica e il suo impatto sulla prognosi del medulloblastoma pediatrico. Possono infatti almeno in parte sopperire alla mancanza di campioni di recidive, una lacuna che può ostacolare l’identificazione dei fattori molecolari responsabili della ricrescita del tumore in seguito alla terapia».

«Nonostante siano molto promettenti, questi risultati chiariscono solo su una piccola parte dei potenziali meccanismi con cui le cellule tumorali sfuggono alle attuali terapie antitumorali – spiegano il Prof. Giampietro Viola e il Dott. Luca Persano, coordinatori dello studio –. Anche per questo saranno un punto di partenza per ulteriori studi finalizzati alla caratterizzazione dei processi che sostengono la resistenza terapeutica nei tumori cerebrali pediatrici e l’identificazione di potenziali bersagli farmacologici».

gruppo del professor Giampietro Viola (secondo da destra)
gruppo del professor Giampietro Viola (secondo da destra), impegnato sulla ricerca riguardante il medulloblastoma resistente alla chemioterapia

Link alla ricerca: https://actaneurocomms.biomedcentral.com/articles/10.1186/s40478-023-01679-7

Titolo: “Molecular and functional profiling of chemotolerant cells unveils nucleoside metabolism-dependent vulnerabilities in medulloblastoma” in Acta Neuropathologica Communications – 2023

Autori: Elena Mariotto, Elena Rampazzo, Roberta Bortolozzi, Fatlum Rruga, Ilaria Zeni, Lorenzo Manfreda, Chiara Marchioro, Martina Canton, Alice Cani, Ruben Magni, Alessandra Luchini, Silvia Bresolin, Giampietro Viola & Luca Persano

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

Scoperto un nuovo meccanismo di attivazione del nostro sistema immunitario cerebrale
Le ricercatrici e i ricercatori della Sapienza e dell’IIT svelano un meccanismo fondamentale per l’attivazione della microglia, un gruppo di cellule del sistema nervoso ancora poco compreso. Queste scoperte gettano le basi per possibili nuovi trattamenti contro il dolore neuropatico, spesso riscontrato in seguito alla chemioterapia.

sistema immunitario cerebrale microglia
Scoperto un nuovo meccanismo di attivazione del nostro sistema immunitario cerebrale. Nell’immagine, una microglia. Credits: Istituto Italiano di Tecnologia

Un team di ricercatori e ricercatrici guidato da Silvia Di Angelantonio del Dipartimento di Fisiologia e farmacologia “V. Erspamer” della Sapienza e del laboratorio Nanotechnologies for neurosciences, coordinato da Giancarlo Ruocco dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT), in collaborazione con la Columbia University, ha pubblicato un articolo sulla rivista Cell Reports dove ha messo in luce un nuovo meccanismo di attivazione della microglia, una tipologia di cellule che costituisce la prima linea di difesa nel cervello. Questa scoperta potrebbe costituire la base di nuovi approcci da impiegare contro il dolore neuropatico, spesso riscontrato in seguito ai trattamenti chemioterapici, in cui la microglia è coinvolta.

La microglia è una tipo di cellula presente nel cervello, dove svolge funzione immunitaria, ossia difende il sistema nervoso da ciò che potrebbe danneggiarlo, come patogeni, cellule tumorali o infiammazione. Quando non sono presenti minacce, le cellule della microglia sono presenti nel cosiddetto “stato non attivato” o “di sorveglianza” caratterizzato da un gran numero di ramificazioni che vengono sfruttate proprio per sorvegliare l’ambiente del cervello alla ricerca di segnali di pericolo che, una volta trovati, faranno acquisire alla microglia il suo “stato attivato” passando da una forma ramificata a una forma tondeggiante, conformazione con il quale può svolgere la sua funzione di difesa.

Il gruppo ha scoperto il ruolo fondamentale che hanno i microtubuli, elementi fondamentali per dare la forma alle cellule, in questa conversione da stato non attivato a stato attivato.

Nella microglia non attivata i microtubuli si allineano parallelamente, mentre in quella attivata si dispongono a raggiera, simile a una ruota di bicicletta. Questa riorganizzazione dei microtubuli è fondamentale per l’attivazione della microglia, infatti, bloccando questo processo nel corso dei loro esperimenti, il team ha notato che la microglia non riusciva più ad attivarsi.

Mentre la microglia ramificata non attivata e quella tondeggiante attivata sono entrambe essenziali per la salute del cervello, la microglia che rimane bloccata nello stato attivato contribuisce all’infiammazione cerebrale e alla progressione di malattie neurodegenerative come Parkinson e Alzheimer.

Inoltre, la microglia è implicata nello sviluppo del dolore neuropatico, spesso riscontrato in pazienti trattati con la terapia chemioterapica. Ciò è dovuto al fatto che alcuni farmaci chemioterapici vanno ad attaccare i microtubuli per distruggere le cellule cancerogene. Il problema è che spesso questi farmaci colpiscono non solo le cellule tumorali, ma anche quelle sane, generando quindi il dolore.

“Il futuro sarà lo sviluppo di nuovi approcci terapeutici mirati a modulare in maniera specifica i cambiamenti dei microtubuli della microglia, senza andare a intaccare le altre cellule – conclude Silvia Di Angelantonio, coordinatrice dello studio – Questo nell’ottica di prevenire o contrastare l’attivazione patologica della microglia. Siamo solo all’inizio di questo percorso, ma ci stiamo muovendo in questo senso”.

Riferimenti:

Microglia reactivity entails microtubule remodeling from acentrosomal to centrosomal arrays – Rosito M, Sanchini C, Gosti G, Moreno M, De Panfilis S, Giubettini M, Debellis D, Catalano F, Peruzzi G, Marotta R, Indrieri A, De Leonibus E, De Stefano ME, Ragozzino D, Ruocco G, Di Angelantonio S, Bartolini F. – Cell Reports 2023 Feb 28 42(2): 112104. DOI: https://doi.org/10.1016/j.celrep.2023.112104

Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

PERCHÉ MOLTI TUMORI SONO RESISTENTI ALLE TERAPIE A BERSAGLIO MOLECOLARE? LE RISPOSTE POSSONO ARRIVARE ANCHE DAI MODELLI MATEMATICI

In uno studio tutto italiano condotto da IFOM, Università di Torino, Università Statale di Milano e Candiolo Cancer Institute FPO IRCCS, un gruppo di ricercatori ha investigato la resistenza alle terapie a bersaglio molecolare con un approccio inedito che combina modelli matematici ed esperimenti di laboratorio. Sono così riusciti a caratterizzare le sottopopolazioni cellulari dei tumori con eccezionali livello di dettaglio e approfondimento. I risultati sono stato pubblicato sull’autorevole rivista scientifica Nature Genetics. Lo studio è stato sostenuto da Fondazione AIRC e da un grant ERC dell’Unione europea.

tumori resistenti modelli matematici
Molti tumori sono resistenti alle terapie a bersaglio molecolare: risposte possono arrivare dai modelli matematici. Foto di Darko Stojanovic

Una delle strategie terapeutiche più promettenti per i pazienti oncologici è costituita dalle terapie a bersaglio molecolare. Veicolando il farmaco in modo specifico alle cellule tumorali che portano in superficie un determinato bersaglio, tali terapie garantiscono una maggiore precisione e una minore tossicità rispetto alle chemioterapie tradizionali. L’efficacia di queste terapie è però purtroppo limitata dallo sviluppo di tolleranze e resistenze da parte dei tumori, che possono così dare metastasi.

Lo sviluppo di metastasi e di resistenza alle terapie sono la principale causa di ricadute nei pazienti oncologici. In alcuni casi la recidiva è rapida, ed è dovuta ad alterazioni genetiche già esistenti nella massa tumorale prima della somministrazione del trattamento. In altri casi invece il tumore riappare dopo molto tempo, anche anni dopo la diagnosi, e non sappiamo come e perché. La capacità di prolungare l’efficacia di un trattamento è a oggi limitata dalla scarsa conoscenza dei molteplici meccanismi che portano allo sviluppo della resistenza.

Capire esattamente in che modo i tumori riescono ad opporre resistenza alle terapie è pertanto un quesito cruciale a cui rispondere per riuscire a sconfiggerli, rendendo le terapie a bersaglio molecolare più efficaci e offrendo ai pazienti qualità e aspettative di vita superiori. Un significativo passo avanti in questa direzione è stato segnato dai risultati di uno studio, appena pubblicati sull’autorevole rivista scientifica Nature Genetics. Lo studio è stato condotto in collaborazione a IFOM, all’Università di Torino, all’Università degli studi di Milano e al Candiolo Cancer Institute FPO IRCCS da ricercatori guidati dai Professori Marco Cosentino Lagomarsino e Alberto Bardelli grazie al sostegno di Fondazione AIRC e di un grant ERC dell’Unione europea.

Il gruppo interdisciplinare costituito da fisici e biologi ha investigato la resistenza alle terapie a bersaglio molecolare da un punto di vista quantitativo e con un approccio inedito che combina la matematica alla biologia. Più precisamente, grazie agli strumenti matematici le cellule tumorali sono state caratterizzate nelle loro diverse sottopopolazioni, raggiungendo eccezionali livelli di dettaglio e approfondimento.

“Abbiamo adottato – illustra Marco Cosentino Lagomarsino, di IFOM e Università degli Studi di Milano – un metodo molto simile a quello originariamente utilizzato, nel 1943, da Salvador Luria e Max Delbrück per studiare lo sviluppo di resistenza nei batteri. Quell’esperimento pionieristico diede un impulso fondamentale alla moderna genetica sperimentale e si dimostrò cruciale allo sviluppo della biologia molecolare, al punto che i due scienziati ricevettero il premio Nobel per la fisiologia o la medicina nel 1969. Lo stesso approccio era però stato utilizzato finora in modo assai limitato nelle cellule umane, verosimilmente per la complessità e la durata degli esperimenti richiesti. Occorre infatti campionare e caratterizzare tantissime cellule, nel nostro caso ottenute da pazienti affetti da tumore al colon retto, sia durante il trattamento farmacologico che in condizioni normali di crescita.”

“I risultati ottenuti con gli esperimenti di laboratorio si sono arricchiti delle analisi matematiche e viceversa – spiega Alberto Bardelli, di IFOM e Università di Torino –, e la collaborazione è stata essenziale per la buona riuscita di questo progetto. Da un lato le considerazioni teoriche preliminari basate sui modelli matematici ci hanno permesso di progettare gli esperimenti in maniera ottimale per i nostri scopi. Dall’altro, i risultati degli esperimenti di genetica e biologia molecolare ci hanno permesso di applicare modelli matematici per pensare a protocolli di trattamento innovativi, che possano in prospettiva portare a una riduzione della resistenza alle terapie”.

Cosa hanno evidenziato i ricercatori in laboratorio? “Abbiamo osservato – racconta Mariangela Russo, prima autrice dell’articolo, dell’Università di Torino e Candiolo Cancer Institute – che le terapie a bersaglio molecolare inducono nelle cellule tumorali la transizione a uno stato di letargo, rendendole in grado di tollerare temporaneamente il trattamento. Queste cellule, chiamate appunto “persistenti”essendo tolleranti alla terapia, hanno potenzialmente tempo di acquisire mutazioni genetiche che le rendono in grado di replicarsi in presenza del farmaco, causando così una recidiva di malattia. I nostri studi ci hanno permesso di capire che la terapia induce un aumento significativo della capacità di mutare delle cellule persistenti: non solo le cellule tumorali persistenti hanno del tempo per sviluppare mutazioni a loro favorevoli, ma la terapia rende questo processo più veloce.

Quali risposte hanno fornito i modelli matematici? “Avvalendoci degli strumenti forniti dalla fisica teorica, siamo stati in grado di tradurre gli esperimenti eseguiti in laboratorio in un linguaggio matematico” – riferisce Simone Pompei di IFOM, che è co-primo autore dell’articolo e ha sviluppato i modelli matematici utilizzati –. “Questi strumenti hanno permesso di interpretare e predire con maggiore precisione il comportamento delle cellule tumorali durante i trattamenti. Abbiamo così potuto quantificare la capacità delle cellule tumorali di diventare persistenti e di riuscire in seguito a sviluppare mutazioni genetiche che comportano resistenza alle terapie. In questo modo abbiamo calcolato che le cellule persistenti mutano fino a 50 volte più velocemente delle cellule tumorali. Questo significa che le cellule persistenti, anche se presenti in piccolo numero, comportano un’alta probabilità di recidiva.”

“Oltre a portare una maggiore comprensione dei meccanismi molecolari alla base della resistenza alle terapie – concludono Cosentino-Lagomarsino e Bardelli – i risultati ottenuti nello studio aprono a nuove possibilità per prevenire l’insorgere della resistenza e impedire lo sviluppo di metastasi. In prospettiva, dal punto di vista molecolare, si potrebbe agire sui meccanismi che portano le cellule tumorali ad aumentare il proprio tasso di mutazione, possibilmente impedendo tale incremento. I dati preliminari di esperimenti in corso sembrano promettenti. Anche dal punto di vista dei modelli matematici, il potenziale aperto dai risultati dello studio sono estremamente promettenti e nel tempo potrebbero portare a trattamenti mirati e calibrati su ciascun tumore e paziente. Guidati da modelli matematici, i medici potrebbero modulare le dosi e i tempi di somministrazione dei farmaci antitumorali in modo da minimizzare la probabilità di recidiva di malattia.” Il prossimo passo che vedrà impegnati i ricercatori sarà di trasferire il protocollo – per ora applicato solo a linee cellulari – a esperimenti preclinici più significativi, come colture cellulari in tre dimensioni derivate da campioni tissutali ottenuti da pazienti.

 

Testo dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino sull’approccio che combina modelli matematici ed esperimenti di laboratorio per i tumori resistenti alle terapie a bersaglio molecolare

L’AUTOFAGIA MITOCONDRIALE È UN NUOVO TARGET MOLECOLARE PER CONTRASTARE IL FENOMENO DELLA RESISTENZA AI FARMACI PLATINANTI 

Team di ricercatori dell’Università di Padova e dell’Istituto Veneto di Medicina Molecolare (VIMM), coordinato dalla Prof.ssa Monica Montopoli e dalla Dott.ssa Marta Giacomello, ha dimostrato come la Mitofagia sia un processo chiave nel fenomeno della resistenza ai farmaci platinanti.

Monica Montopoli autofagia mitocondriale resistenza farmaci platinanti
Monica Montopoli

La ricerca “Cisplatin resistance can be curtailed by blunting BNIP3-mediated mithocondrial autophagy”, condotta dalla Dott.ssa Caterina Vianello e pubblicata sulla rivista “Cell, Death and Disease” riporta i risultati degli studi sul processo cellulare di degradazione autofagica selettiva dei mitocondri.

“Il cisplatino e i suoi derivati sono agenti chemioterapici utilizzati in prima linea nel trattamento di diversi tumori soldi, tra cui carcinomi ovarici e sarcomi – spiega la Prof.ssa Montopoli – Tuttavia, la resistenza a questi farmaci spesso ne impedisce l’efficacia terapeutica: comprendere i meccanismi molecolari alla base di questo fenomeno è quindi fondamentale per la ricerca sul cancro”.

Il team internazionale di ricercatori ha osservato in particolare che nell’osteosarcoma e nel carcinoma ovarico con fenotipo resistente, i livelli di mitofagia sono aumentati, causando cambiamenti anche nella morfologia mitocondriale e nella sua comunicazione con il reticolo endoplasmatico. Questi cambiamenti sono dovuti in particolare al recettore mitofagico BNIP3, particolarmente espresso nei diversi modelli sperimentali analizzati e incluso in dati clinici di pazienti affetti da cancro ovarico resistente ai trattamenti platinanti.

Alla luce di questa scoperta, i ricercatori hanno messo a punto un approccio farmacologico basato sull’utilizzo di due nuovi inibitori della proteina VSP34 che bloccano la formazione di autofagosomi, in combinazione con il cisplatino. Tale trattamento combinatorio si è dimostrato efficace nel sensibilizzare le cellule resistenti al chemioterapico, ponendo così le basi per lo sviluppo di una nuova strategia terapeutica atta a contrastare la resistenza al cisplatino nel carcinoma ovarico e nell’osteosarcoma.

“Grazie alla scoperta di questa correlazione tra mitofagia (ed in particolare BNIP3), e resistenza al cisplatino– conclude la Prof.ssa Montopoli– il nostro lavoro potrà fornire un possibile biomarcatore per individuare la resistenza al chemioterapico e dare avvio allo sviluppo di nuove strategie terapeutiche per contrastare la resistenza al cisplatino”.

 

Link all’articolo: https://doi.org/10.1038/s41419-022-04741-9

 

Monica Montopoli è Associate Investigator presso la Fondazione per la Ricerca Biomedica Avanzata Onlus – VIMM e Professore Associato in Farmacologia presso il Dipartimento di Scienze del Farmaco (Facoltà di Medicina) dell’Università di Padova. Direttrice di 2 corsi di alta formazione e docente di master di primo e secondo livello.


La sua attività di ricerca, finanziata da istituzioni pubbliche e aziende private, è documentata da più di 65 articoli peer-reviewed, oltre 100 partecipazioni a convegni nazionali ed internazionali. È tra i fondatori di Metabolism Meets Function (MMF) group, nato grazie alla collaborazione con altre due università. Il gruppo organizza congressi con Top scientist nel campo del metabolismo tumorale.

Testi e foto dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Padova sul nuovo studio che individua l’autofagia mitocondriale come nuovo target molecolare per contrastare la resistenza ai farmaci platinanti.

Trattamento dei tumori infantili: nuove possibilità di cura grazie ai meccanismi di regolazione basati sull’RNA

Un gruppo di ricercatori della Sapienza Università di Roma, in collaborazione con l’Istituto italiano di tecnologia (IIT), ha scoperto come l’interazione tra due specifiche molecole di RNA favorisca in laboratorio la crescita di cellule di rabdomiosarcoma, uno dei tumori maligni più ricorrenti in età pediatrica. I risultati dello studio sostenuto da Fondazione AIRC sono stati pubblicati sulla rivista Molecular Cell e aprono nuove strade al trattamento di tumori maligni infantili.

tumori infantili RNA
Trattamento dei tumori infantili: nuove possibilità di cura grazie ai meccanismi di regolazione basati sull’RNA. Foto di RyanMcGuire

L’interesse della scienza per gli RNA circolari (circRNA) è in crescita per le caratteristiche peculiari di questa classe emergente di molecole e per il loro ruolo in diverse condizioni patologiche tra cui il cancro.

In uno studio del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza Università  di Roma e dell’Istituto italiano di tecnologia (IIT), i ricercatori hanno individuato un inedito meccanismo molecolare alla base della regolazione dell’espressione di diverse proteine. Si tratta dell’interazione tra molecole di RNA (in particolare tra un RNA circolare, circZNF609, e alcuni RNA messaggeri). In esperimenti di laboratorio i ricercatori hanno scoperto che, in un caso specifico, l’interazione con l’mRNA che contiene le istruzioni per la proteina CKAP5, a sua volta coinvolta nel controllo della duplicazione cellulare, regola la capacità proliferativa delle cellule di rabdomiosarcoma, un tumore maligno pediatrico.

I risultati dello studio sostenuto dalla Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro sono stati pubblicati sulla rivista Molecular Cell e rappresentano un ulteriore progresso nella comprensione delle diverse funzioni che l’RNA svolge nelle cellule. In particolare, è stata così chiarita una nuova rilevante funzione delle molecole di RNA circolari.

Nello specifico, i ricercatori hanno dimostrato come questo meccanismo di regolazione genica sia capace di regolare la crescita delle cellule di rabdomiosarcoma, uno dei tumori maligni più ricorrenti in età pediatrica e che fa parte dei cosiddetti sarcomi dei tessuti molli, tumori che si sviluppano nei muscoli, nel grasso e nel tessuto connettivo.

Spiega Irene Bozzoni della Sapienza, coordinatrice dello studio: “Impedendo l’interazione tra le due molecole di RNA, siamo riusciti a rendere le cellule tumorali in coltura più sensibili a diversi trattamenti chemioterapici generalmente usati nella cura del rabdomiosarcoma, ma spesso inefficaci nei casi più gravi”.

Si è inoltre evidenziato che questo meccanismo è presente anche in altri tipi di tumore, come la leucemia mieloide cronica e il neuroblastoma, rendendo questo circuito molecolare un interessante candidato per nuove terapie mediche basate sull’RNA.

Tali risultati sottolineano l’importanza dello studio delle interazioni tra RNA non codificanti e mRNA per l’identificazione di nuovi meccanismi di regolazione di importanti processi cellulari.

Riferimenti:

Circular RNA ZNF609/CKAP5 mRNA interaction regulates microtubule dynamics and tumorigenicity – Francesca Rossi, Manuel Beltran, Michela Damizia, Chiara Grelloni, Alessio Colantoni, Adriano Setti, Gaia Di Timoteo, Dario Dattilo, Alvaro Centrón-Broco, Carmine Nicoletti, Maurizio Fanciulli, Patrizia Lavia, Irene Bozzoni – Mol. Cell 2021 https://doi.org/10.1016/j.molcel.2021.11.032

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Virus Herpes simplex per generare farmaci biologici contro il cancro

La scoperta dei ricercatori del CEINGE-Biotecnologie Avanzate di Napoli e del Dipartimento di Medicina Molecolare e Biotecnologie Mediche dell’Università Federico II, in collaborazione con la NousCom Srl, si è rivelata efficace in modelli preclinici di tumori della mammella

Herpes Simplex visualizzato con ChimeraX. Victor Padilla-Sanchez, PhD. Immagine Victoramuse, CC BY-SA 4.0

Il virus Herpes simplex si può utilizzare per generare farmaci biologici ad attività oncolitica su carcinomi mammari HER2-negativi, di cui fanno anche parte i cosiddetti tumori della mammella triplo-negativi (TNBC).

È quanto hanno svelato gli studi che da circa 5 anni a questa parte portano avanti i ricercatori del CEINGE-Biotecnologie avanzate di Napoli e del Dipartimento di Medicina Molecolare e Biotecnologie Mediche dell’Università Federico II, guidati da Nicola Zambrano, professore di Biologia molecolare, che nei laboratori del Centro di via Gaetano Salvatore lavora alla messa a punto proprio di nuove tecnologie per la selezione e la produzione di farmaci biologici per sperimentazioni precliniche.

Gli studiosi hanno generato, in collaborazione con la NousCom SRL, un virus erpetico capace di infettare selettivamente le cellule cancerose che espongono, sulla loro superficie, la mesotelina, un antigene tumorale frequentemente espresso nei tumori TNBC e nel mesotelioma pleurico.

«Herpes simplex appartiene ad una famiglia di virus con cui l’uomo convive da sempre – sottolinea il prof. Zambrano –, basti pensare alle comuni manifestazioni labiali che interessano tanti di noi, ed è molto ben conosciuto. Contro questo virus esistono anche dei farmaci per controllarne l’infezione. Tali caratteristiche lo hanno reso un modello di elezione per lo sviluppo di farmaci biologici ad attività antitumorale o, più precisamente, oncolitica».

«I vantaggi dei vettori virali da noi generati, validati mediante sperimentazione su cellule e in modelli preclinici – spiega Zambrano – risiedono nel corretto bilanciamento di efficacia nell’attivazione della risposta immunitaria anti-tumorale e della specificità oncolitica verso il tumore, con limitazione degli effetti fuori-bersaglio verso i tessuti normali. I nostri studi prevedono l’utilizzo di questi vettori virali in combinazione con l’immunoterapia dei tumori, che si sta sempre più affermando come il quarto presidio per le cure anticancro, in aggiunta alle terapie più invasive quali la chemioterapia, la radioterapia e la chirurgia».

Questo virus si aggiunge a quelli generati in collaborazione con l’Università di Bologna, per il targeting del cancro alla mammella di tipo HER2 positivo, ampliando di fatto il potenziale “arsenale” terapeutico nei confronti dei tumori mammari e non.

Oltre ad “educare” i virus per renderli efficaci e selettivi, il laboratorio del CEINGE diretto dal prof. Zambrano rappresenta una vera e propria palestra per numerosi studenti di Biotecnologie e dottorandi, che hanno la possibilità a di formarsi, a livello sia teorico che pratico, sull’utilizzo di metodologie e approcci innovativi della ricerca molecolare, in particolar modo per la cura dei tumori.

«Negli ultimi cinque anni abbiamo portato avanti studi per educare Herpes simplex a riconoscere selettivamente cellule tumorali, e a replicare esclusivamente in queste ultime, tralasciando le cellule normali. Il modello iniziale era basato sul riconoscimento di tumori mammari positivi ad HER2 e lo abbiamo migliorato nella selettività verso il tumore. Abbiamo poi generato un nuovo virus in grado di riconoscere anche tumori mammari negativi ad HER2, attraverso un diverso recettore, la mesotelina. Questo recettore potrebbe essere anche sfruttato per l’ingresso del nuovo virus oncolitico in cellule del mesotelioma, un tumore particolarmente aggressivo e con limitate opzioni terapeutiche».

Gli studi pubblicati su riviste scientifiche internazionali *

I risultati degli studi sono stati oggetto di una serie di recentissime pubblicazioni, la più recente nel gennaio 2021, la meno recente a marzo 2020. L’attività di ricerca si è avvalsa del finanziamento SATIN della Regione Campania, sebbene l’analisi di alcuni meccanismi dell’immunità antivirale sia di interesse anche per il chiarimento dei meccanismi patogenetici in capo alla Covid-19 e che, pertanto, riportano anche il contributo della Regione Campania alla Task-Force Covid-19 del CEINGE.

Il gruppo di ricerca guidato da Nicola Zambrano, formato anche da giovani ricercatrici come Guendalina Froechlich (dottoranda SEMM) e Chiara Gentile (dottoranda DMMBM), si è avvalso della collaborazione del dott. Emanuele Sasso della NousCom Srl, di Alfredo Nicosia, professore di Biologia molecolare della Federico II e Principal Investigator CEINGE, e del gruppo di Massimo Mallardo, professore di Biologia cellulare della Federico II.

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International Journal of Molecular Sciences 2021 –Generation of a Novel Mesothelin-Targeted Oncolytic Herpes Virus and Implemented Strategies for Manufacturing

Froechlich G, Gentile C, Infante L, Caiazza C, Pagano P, Scatigna S, Cotugno G, D’Alise AM, Lahm A, Scarselli E, Nicosia A, Mallardo M, Sasso E, and Zambrano N.

Seminars in Immunology 2020 – New viral vectors for infectious diseases and cancer

Sasso E, D’Alise AM, Zambrano N, Scarselli E, Folgori A, Nicosia A.

 

Cancers 2020 – Integrity of the Antiviral STING-mediated DNA Sensing in Tumor Cells Is Required to Sustain the Immunotherapeutic Efficacy of Herpes Simplex Oncolytic Virus

Froechlich G, Caiazza C, Gentile C, D’Alise AM, De Lucia M, Langone F, Leoni G, Cotugno G, Scisciola V, Nicosia A, Scarselli E, Mallardo M, Sasso E, Zambrano N.

 

Molecular Therapy – Oncolytics 2020 – Retargeted and Multi-cytokine-Armed Herpes Virus Is a Potent Cancer Endovaccine for Local and Systemic Anti-tumor Treatment

De Lucia M, Cotugno G, Bignone V, Garzia I, Nocchi L, Langone F, Petrovic B, Sasso E, Pepe S, Froechlich G, Gentile C, Zambrano N, Campadelli-Fiume G, Nicosia A, Scarselli E, D’Alise AM.

 

Scientific Reports 2020 – Replicative conditioning of Herpes simplex type 1 virus by Survivin promoter, combined to ERBB2 retargeting, improves tumour cell-restricted oncolysis

Sasso E, Froechlich G, Cotugno G, D’Alise AM, Gentile C, Bignone V, De Lucia M, Petrovic B, Campadelli-Fiume G, Scarselli E, Nicosia A, Zambrano N.

 

Testo dall’Ufficio Stampa Università Federico II di Napoli sugli studi circa l’utilizzo di Herpes simplex per generare farmaci biologici contro il cancro.

Un gruppo di ricerca tutto italiano ha dimostrato che una combinazione di terapia mirata a bersaglio molecolare e immunoterapia può fronteggiare con successo il tipo più frequente di leucemia acuta linfoblastica degli adulti, evitando la chemioterapia e i suoi pesanti effetti collaterali. I risultati dello studio, promosso dalla Fondazione GIMEMA, sostenuto dal 5 per mille di Fondazione AIRC e con il contributo di Amgen, sono stati pubblicati sulla rivista New England Journal of Medicine il 22 ottobre scorso. L’importanza del lavoro è stata sottolineata anche dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo intervento durante la cerimonia dedicata a “I Giorni della Ricerca” di Fondazione AIRC al Quirinale il 26 ottobre

Foto di Elena Borisova

L’idea del progetto ha avuto inizio circa 15 anni orsono e oggi diventa realtà. I risultati della terapia “chemio-free” sperimentata in un campione di pazienti adulti affetti da leucemia acuta linfoblastica (LAL) con una alterazione del cromosoma Philadelphia (Ph+), confermano il successo del protocollo clinico messo a punto da un gruppo di ricerca tutto italiano. Il 98% dei pazienti raggiunge la remissione ematologica completa, ovvero non presenta più tracce di malattia e il 60% mostra quella che gli esperti chiamano risposta molecolare. Inoltre, dopo un anno e mezzo dall’inizio del trattamento la sopravvivenza generale è pari al 95% e quella senza la malattia arriva all’88%. A tali risultati si è giunti senza ricorrere alla chemioterapia sistemica che porta con sé effetti collaterali molto pesanti, ma puntando su una combinazione di terapia mirata a bersaglio molecolare e immunoterapia.

“Questo studio è la consacrazione di un’idea e giunge alla fine di un lungo percorso nel quale abbiamo cercato di eliminare la chemioterapia nelle fasi iniziali dal trattamento di questa forma speciale di leucemia linfoblastica acuta” afferma Robin Foà, professore di Ematologia all’Università Sapienza di Roma, primo autore dell’articolo pubblicato sulla prestigiosa rivista New England Journal of Medicine grazie anche al sostegno di Fondazione AIRC e al contributo di Amgen.

Nello studio, condotto dai Centri di Ematologia che afferiscono al Gruppo Italiano Malattie Ematologiche dell’Adulto (GIMEMA) con il coordinamento di Robin Foà, sono stati coinvolti 63 pazienti con LAL Ph+ di età superiore a 18 anni e senza limite inclusivo di età (il più anziano aveva 82 anni), sottoposti a una prima fase di trattamento (induzione) con l’inibitore tirosin chinasico dasatinib, seguito da una seconda fase (consolidamento) con l’anticorpo monoclonale bispecifico blinatumomab, quindi una terapia di induzione e consolidamento senza chemioterapia. Ebbene, già dopo la prima fase di induzione, 3 pazienti su 10 mostravano una risposta molecolare e i numeri sono raddoppiati (6 pazienti su 10) dopo i due cicli di blinatumomab previsti nello studio, fino ad arrivare a 8 su 10 se i cicli di anticorpo aumentavano. Tutti gli studi biologici sono stati condotti centralmente per garantire l’uniformità delle analisi in laboratori certificati.

“Con questo trattamento riusciamo a stimolare il sistema immunitario che si attiva contro il tumore e gli effetti collaterali del trattamento sono limitati. Inoltre molta parte della terapia si effettua a domicilio con riduzione quindi dei giorni di ricovero” aggiunge Foà, ricordando anche un altro dato molto incoraggiante legato ai pazienti successivamente sottoposti a trapianto allogenico: “La mortalità associata al trapianto è risultata molto bassa – il 4,1% – e probabilmente questo è legato al fatto che i pazienti non hanno alle spalle la tossicità del trattamento chemioterapico e riescono a sopportare meglio il trapianto”.

Questi risultati potrebbero cambiare profondamente la pratica clinica nel trattamento di quello che rappresenta il sottogruppo più frequente di LAL dell’adulto, la cui incidenza incrementa progressivamente con l’avanzare dell’età, e che prima dell’avvento degli inibitori delle tirosin chinasi aveva una prognosi decisamente nefasta.

“Va anche sottolineato – aggiunge ancora Foà – l’impatto di questa strategia terapeutica sulla qualità di vita dei pazienti dovuto ai limitati effetti collaterali e alla ridotta ospedalizzazione. Questo è stato di particolare rilievo durante il picco primaverile della pandemia di Covid-19. L’induzione e il consolidamento con dasatinib e blinatumomab durano in tutto circa 6 mesi e poter eseguire gran parte del trattamento a domicilio ha permesso di non interrompere né ritardare la terapia prevista”. Conclude Foà, che assieme ai colleghi sta già lavorando a nuove opzioni “chemio-free” per questa forma di leucemia “Questo studio è un punto di arrivo che apre ulteriori sviluppi. Abbiamo infatti anche ottenuto importanti informazioni di tipo molecolare che verranno approfondite nel prossimo protocollo clinico per una ulteriore personalizzazione della terapia dei pazienti adulti con LAL Ph+ di tutte le età”.

Riferimenti:

Dasatinib–Blinatumomab for Ph-Positive Acute Lymphoblastic Leukemia in Adults – Robin Foà, M.D., Renato Bassan, M.D., Antonella Vitale, M.D., Loredana Elia, M.D., Alfonso Piciocchi, M.S., Maria-Cristina Puzzolo, Ph.D., Martina Canichella, M.D., Piera Viero, M.D., Felicetto Ferrara, M.D., Monia Lunghi, M.D., Francesco Fabbiano, M.D., Massimiliano Bonifacio, M.D., et al., for the GIMEMA Investigators – New England Journal of Medicine 2020; http://doi.org/ 10.1056/NEJMoa2016272

Testo dalla Sapienza Università di Roma

Tumori del seno: un nuovo algoritmo indicherà la cura su misura

Identificato allo IEO, dai ricercatori guidati da Di Fiore e Pece, lo studio è stato sostenuto da Fondazione AIRC.

I ricercatori del Programma di Novel Diagnostics dell’Istituto Europeo di Oncologia (IEO), guidati da Pier Paolo Di Fiore e Salvatore Pece, direttore e vice direttore del Programma e docenti del dipartimento di Oncologia ed Emato-Oncologia dell’Università Statale di Milano, hanno messo a punto e convalidato un nuovo modello di predizione del rischio individuale di metastasi in donne con tumori mammari di tipo luminale, che rappresentano i tre quarti di tutti i tumori al seno.
Il modello sarà quindi una guida per gli oncologi per orientare le scelte terapeutiche paziente per paziente, evitando sia il sovra che il sotto-trattamento nelle terapie post-chirurgiche. Gli studi che hanno portato a questo importante risultato per la cura dei tumori del seno, sostenuti da Fondazione AIRC, saranno presentati al convegno annuale dell’ASCO (American Association of Clinical Oncology), il più importante meeting internazionale di oncologia medica.

Il nuovo modello – spiega Di Fiore – si basa sulla combinazione del predittore genomico (un set di geni che formano una “firma molecolare”) StemPrintER, che noi stessi abbiamo scoperto e validato un anno fa, con due parametri clinici: stato dei linfonodi e dimensione del tumore. In sostanza, abbiamo creato un nuovo modello di rischio, che associa, per la prima volta, dati clinici e dati genomici. Il risultato è stato eccellente: abbiamo testato il modello su oltre 1800 pazienti arruolate allo IEO e abbiamo dimostrato che la sua capacità di stimare il reale rischio di sviluppo di recidiva fino a 10 anni è superiore rispetto ai parametri clinico-patologici comunemente utilizzati nella pratica clinica”.

Il biomarcatore StemPrinter, individuato da IEO, è il primo e tuttora l’unico strumento capace di indicare il grado di “staminalità” presente nel tumore mammario primario, vale a dire il numero e l’aggressività delle cellule staminali del cancro. Queste cellule hanno un ruolo cruciale sia nell’avvio del processo di tumorigenesi che della diffusione metastatica nell’organismo, e sono anche alla base della resistenza alla chemioterapia di ogni tumore del seno. Studi recenti del team dell’IEO hanno inoltre confermato che il grado di staminalità delle cellule determina quell’eterogeneità biologica, clinica, e molecolare del tumore del seno, che ha fino ad ora reso molto difficile prevedere la prognosi e la risposta alla terapia.

“In uno studio condotto in collaborazione con Royal Marsden Hospital e Queen Mary University di Londra e anch’ esso presentato all’ASCO di quest’anno – continua Pece – abbiamo dimostrato che la predizione della prognosi e la conseguente scelta delle terapie per il tumore del seno è più efficace se si basa sulla conoscenza della staminalità delle cellule tumorali . Il nostro modello che integra dati di staminalità e dati clinici si candida quindi a diventare il golden standard per la prognosi del tumore del seno. È un modello duttile, oltreché affidabile: si applica sia alle pazienti con linfonodi negativi, che a quelle con pochi (da uno a 3) linfonodi positivi, che rappresentano il gruppo con il maggior bisogno di una predizione accurata del rischio di recidiva per evitare il sovratrattamento con chemioterapie aggressive non indispensabili, senza per questo trascurare il rischio di sviluppare una recidiva a distanza di anni”. 

“Il nuovo modello può rappresentare uno strumento importante per orientare noi oncologi nella scelta del trattamento adiuvante, che deve tenere in considerazione sia il rischio di recidiva della malattia che i vantaggi e gli svantaggi delle terapie mediche precauzionali”, commenta Marco Colleoni, direttore della Divisione di Senologia Medica e Co-chair dell’International Breast Cancer Study Group.

“I risultati del nostro studio rappresentano un ulteriore passo verso l’obiettivo che perseguiamo da anni: dare a ciascuna paziente la terapia migliore per lei e per la sua malattia – conclude Paolo Veronesi, direttore del Programma di Senologia IEO e professore associato all’Università degli Studi di Milano –. Grazie all’approccio multidisciplinare ed alla stretta interazione tra ricerca e clinica, la medicina personalizzata sta finalmente diventando una realtà anche per il tumore della mammella”.

Testo sull’algoritmo per le cure ai tumori del seno dall’Università Statale di Milano