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Dire la verità o mentire a proprio vantaggio: neuroscienze sociali e neuroimmagini insieme per mostrare i meccanismi cerebrali delle scelte morali
Uno studio condotto presso la Fondazione Santa Lucia IRCCS in collaborazione Sapienza Università di Roma ha approfondito le reazioni del cervello alle scelte morali: non tutti si comportano allo stesso modo.

Pinocchio neuroscienze sociali e neuroimmagini insieme per mostrare i meccanismi cerebrali delle scelte morali
Dire la verità o mentire a proprio vantaggio: neuroscienze sociali e neuroimmagini insieme per mostrare i meccanismi cerebrali delle scelte morali. Foto di Roland Schwerdhöfer

Un nuovo studio condotto presso il Laboratorio di Neuroscienze Sociali e Cognitive della Fondazione Santa Lucia IRCCS in collaborazione con il Dipartimento di Psicologia di Sapienza Università di Roma e con il Laboratorio di Neuroimmagini della Fondazione Santa Lucia IRCCS ha rivelato che le scelte disoneste adottate durante le interazioni sociali coinvolgono determinate aree del cervello, rilevabili attraverso la tecnica della Risonanza Magnetica Funzionale.

Attraverso questa tecnica è stato possibile anche individuare le differenze nell’attivazione cerebrale quando i partecipanti decidevano se mentire o no mentre la loro reputazione poteva essere a rischio.

Lo studio, pubblicato sulla rivista Communications Biology, ha coinvolto 34 persone sane tra i 20 e i 46 anni, e ha utilizzato un semplice gioco associato alla possibilità di guadagnare un premio in denaro con la risonanza magnetica funzionale, una tecnologia non invasiva che analizza l’attività cerebrale in tempo reale misurando l’afflusso di sangue nelle varie aree del cervello.

Il gioco di carte prevedeva l’interazione tra due giocatori: il giocatore fuori dalla risonanza magnetica doveva tentare di pescare la carta vincente tra due possibili senza poter verificare il risultato della sua scelta. Il partecipante all’interno della risonanza magnetica aveva invece il compito di osservare e comunicare l’esito del gioco. Poteva quindi decidere se dire la verità o mentire cambiare l’esito del gioco (ad esempio vincendo la partita quando avrebbe dovuto vincere l’altro- compiendo una bugia egoistica).

Il partecipante nella risonanza magnetica era consapevole del fatto che in metà dei casi il compagno di gioco non avrebbe potuto sapere se avesse mentito oppure no (reputazione non a rischio), mentre nell’altra metà avrebbe potuto aver contezza di eventuali menzogne (reputazione a rischio).

“I risultati della ricerca”, commentano Valerio Santangelo e Lennie Dupont, ricercatori del laboratorio di neuroimmagini della Fondazione Santa Lucia IRCCS “mostrano che le decisioni disoneste sono associate ad un aumento dell’attività in un circuito cortico-sottocorticale che include il cingolato anteriore bilaterale (ACC), l’insula anteriore (AI), il dorsolaterale prefrontale sinistro, l’area motoria supplementare e il nucleo caudato destro.”

Come previsto, le persone tendono a diminuire il numero di bugie egoistiche durante la condizione in cui la loro reputazione è a rischio. Grazie alle neuroimmagini è stato possibile evidenziare che le bugie egoistiche durante la condizione di reputazione a rischio erano collegate all’aumento di connettività tra la corteccia cingolata anteriore bilaterale e l’insula anteriore sinistra, due regioni cerebrali che sono fortemente implicate nell’elaborazione emotiva e nel controllo cognitivo.

Il gruppo di ricerca ha inoltre dimostrato che questa attivazione cerebrale non è la stessa per tutti i partecipanti, ma varia in base ai tratti di personalità.

Maria Serena Panasiti, neuroscienziata clinica coinvolta nello studio e vincitrice di un progetto “Giovani Ricercatori” del Ministero della Salute sulle implicazioni cliniche delle decisioni morali, afferma:

“In particolare, gli individui più manipolativi mostrano un coinvolgimento minore del cingolato anteriore durante le menzogne a proprio vantaggio, ma un coinvolgimento maggiore durante la verità a vantaggio degli altri. Questo evidenzia la necessità di un controllo cognitivo solo quando la decisione contrasta con i propri scopi, in questo caso quello di manipolare gli altri a proprio vantaggio.

Salvatore Maria Aglioti, coordinatore dello studio, ha commentato:

“La nostra ricerca fornisce importanti informazioni sulle basi neurali delle decisioni disoneste durante le interazioni sociali. La comprensione di questi meccanismi potrebbe aiutare a sviluppare strategie per promuovere comportamenti più etici e responsabili in diversi contesti sociali”.

Riferimenti:

Reputation risk during dishonest social decision-making modulates anterior insular and cingulate cortex activity and connectivity – L Dupont, V Santangelo, RT Azevedo, MS Panasiti, SM Aglioti – Communications Biology 2023 https://doi.org/10.1038/s42003-023-04827-w

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Simulare l’attività cerebrale con l’intelligenza artificiale
“Come funziona il cervello?” Le neuroscienze si giovano dei contributi della fisica sperimentale e teorica per comprendere la complessità del cervello

Come funziona il cervello?

Il sistema nervoso umano contiene miliardi di neuroni e ciascuno di essi è connesso a decine di migliaia di altri neuroni mediante le sinapsi, che modificano la loro forza in una rete plastica la cui struttura dipende dalla storia dell’individuo e dalla selezione naturale, evolutiva, vissuta dal cervello. Ad oggi, la tecnologia disponibile consente di creare algoritmi, che sono alla base dell’intelligenza artificiale, capaci di riprodurre alcuni semplici aspetti cognitivi del cervello umano. Quest’ultimo si presenta come un sistema complesso, cioè è costituito da un elevato numero di componenti (i neuroni) che interagiscono tra loro dando vita a comportamenti collettivi emergenti. La comprensione di tali comportamenti sarebbe impossibile osservando il comportamento del singolo neurone, sebbene ad oggi, dal punto di vista biologico, si conosca tutto (o quasi) di questa cellula.

 
Simulare l’attività cerebrale con l’intelligenza artificiale
Simulare l’attività cerebrale con l’intelligenza artificiale. Immagine di Gerd Altmann

 

I sistemi artificiali che simulano il sistema nervoso

Molteplici sono le sfide scientifiche e tecnologiche da affrontare per ottenere sistemi artificiali con capacità cognitive realmente paragonabili a quelle umane. Il primo modello teorico di “rete neurale artificiale”, nato con lo scopo di spiegare il funzionamento del neurone, fu quello di McCulloch e Pitts nel 1943. La loro idea si è poi evoluta e negli anni abbiamo assistito alla nascita di molteplici altri modelli di reti neurali artificiali, insieme allo studio e allo sviluppo di algoritmi di machine learning (apprendimento automatico), che rappresenta il cuore computazionale dell’intelligenza artificiale. Le più recenti versioni di machine learning, basate sul deep learning (cioè su una o più reti neurali artificiali, capaci di apprendere e condensare le informazioni rilevanti), vengono largamente utilizzate nella ricerca di base.

Simulare l’attività cerebrale con l’intelligenza artificiale
Immagine di Ahmed Gad

L’intelligenza artificiale all’opera

Intelligenza artificiale, robotica e macchine neuromorfe (cioè costruite incorporando meccanismi simili a quelli biologici) assumono un ruolo chiave nella rivoluzione tecno-scientifica e industriale in atto. Siamo circondati da esempi di intelligenza artificiale e di apprendimento automatico, talvolta senza neanche rendercene conto. Basti pensare ai sistemi di riconoscimento del parlato, i prototipi di riconoscimento visivo per i sistemi di guida automatica, all’algoritmo di deep learning che c’è dietro una semplice ricerca per immagini in Google.

L’intelligenza artificiale è coinvolta anche nella comprensione della fisio-patologia cerebrale. L’impatto socio-economico delle patologie del sistema nervoso desta non poche preoccupazioni per i sistemi sanitari pubblici per cui è richiesto un approccio multidisciplinare.

Immagine di Robina Weermeijer

Per approfondire:

Immagine di Gerd Altmann

Comunicazione cervello-ambiente: il ruolo dei microrganismi intestinali

Un nuovo studio, coordinato dal Dipartimento di Fisiologia e farmacologia Vittorio Erspamer della Sapienza, ha individuato alcuni ceppi batterici che mediano gli effetti benefici di un ambiente arricchito sulla plasticità del sistema nervoso centrale

cervello ambiente microrganismi intestinali
Comunicazione cervello-ambiente: il ruolo dei microrganismi intestinali. Foto di 政徳 吉田

Negli ultimi anni è stato dimostrato che un ambiente arricchito dal punto di vista motorio, sensoriale e sociale può avere un effetto benefico sul sistema nervoso centrale, poiché ne favorisce la plasticità cerebrale e la funzione cognitiva.

Tuttavia, non era ancora stato indagato il possibile ruolo dei microrganismi intestinali nel mediare questi effetti benefici.

Un nuovo studio, coordinato da Cristina Limatola del Dipartimento di Fisiologia e farmacologia Vittorio Erspamer della Sapienza, ha analizzato in un modello sperimentale murino le modifiche indotte dagli stimoli ambientali – di un ambiente arricchito rispetto alle condizioni standard dello stabulario – sul microbiota intestinale e sui suoi metaboliti. Questa ricerca ha permesso di identificare alcuni ceppi batterici e i prodotti del loro metabolismo – in particolare, gli acidi grassi a catena corta – che mediano gli effetti benefici dell’ambiente arricchito sulla plasticità del sistema nervoso centrale.

Lo studio, pubblicato sulla rivista Communications Biology, nasce dalla collaborazione dei dipartimenti di Fisiologia e farmacologia Vittorio Erspamer, di Chimica, di Biologia ambientale e l’NMLab della Sapienza con l’Istituto Pasteur Italia, l’Istituto italiano di tecnologia, il Cnr, l’Università di Trieste e l’IRCCS Neuromed di Pozzilli.

“Il nostro lavoro – spiega Cristina Limatola, coordinatrice dello studio – aggiunge alle attuali conoscenze due elementi fondamentali. Il primo è che le cellule microgliali – cioè le cellule del sistema nervoso centrale con funzione immunitaria – rappresentano l’interfaccia tra ambiente e segnali provenienti dal microbiota intestinale. La seconda è che i cambiamenti dell’ambiente in cui viviamo e gli stimoli che da esso riceviamo contribuiscono in modo cruciale a determinare la composizione del nostro microbiota”.

Per ottenere questi risultati è stato necessario un approccio multidisciplinare, che ha unito le competenze di neurofisiologia e metabolomica – la scienza che studia il metaboloma, ovvero l’insieme di tutti i metaboliti che partecipano ai processi biochimici di un organismo – con la metagenomica – cioè la branca della genomica che studia le comunità microbiche nel loro ambiente naturale – e la bioinformatica.

“Questa ricerca – conclude Cristina Limatola – evidenzia il ruolo del microbiota, del metaboloma, delle cellule dell’immunità innata e degli acidi grassi a catena corta nei meccanismi di comunicazione tra cervello e ambiente e apre la strada a nuove interpretazioni di questo cross-talk bidirezionale”.

Riferimenti:
Short-chain fatty acids promote the effect of environmental signals on the gut microbiome and metabolome in mice – Francesco Marrocco, Mary Delli Carpini, Stefano Garofalo, Ottavia Giampaoli, Eleonora De Felice, Maria Amalia Di Castro, Laura Maggi, Ferdinando Scavizzi, Marcello Raspa, Federico Marini, Alberta Tomassini, Roberta Nicolosi, Carolina Cason, Flavia Trettel, Alfredo Miccheli, Valerio Iebba, Giuseppina D’Alessandro, Cristina Limatola – Communications Biology (2022) https://doi.org/10.1038/s42003-022-03468-9

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Migliorare la memoria è una questione di allenamento ripetuto, ma nel tempo

Un nuovo studio firmato dalla Sapienza ha scoperto che il coinvolgimento di aree diverse del cervello nella memorizzazione, alla base del ricordo, è legato alla distribuzione nel tempo dell’apprendimento. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista PNAS.

migliorare la memoria allenamento
Migliorare la memoria è una questione di allenamento ripetuto, ma nel tempo. Foto di Dariusz Sankowski

L’apprendimento migliora se un’esperienza viene distribuita nel tempo piuttosto che essere concentrata in un’unica soluzione. Questo vale nello studio, ma anche nell’ambito della pubblicità e di tanti altri aspetti della vita quotidiana.

Un team di ricerca della Sapienza ha svelato per la prima volta che la maggiore efficienza di un apprendimento ripartito nel tempo dipende dal fatto che il cervello utilizza circuiti cerebrali diversi a seconda della modalità di apprendimento, indipendentemente da ciò che deve essere appreso. Inoltre, i ricercatori hanno dimostrato che la stimolazione artificiale dei circuiti responsabili dell’apprendimento distribuito nel tempo si traduce in un miglioramento della memoria.

In particolare lo studio, pubblicato sulla rivista PNAS, ha messo in evidenza, che lo striato, una struttura del cervello che si pensava coinvolta principalmente in funzioni motorie (ad esempio il Parkinson), ha un ruolo anche in funzioni cognitive complesse.

“Inoltre – spiega Andrea Mele, coordinatore dello studio – abbiamo visto che la sua stimolazione esogena durante l’apprendimento, migliora la durata della memoria nei topi”.

Lo studio è molto importante sia da un punto di vista teorico, perché include tra le aree del cervello responsabili del ricordo regioni cui prima erano attribuite altre funzioni, sia da un punto di vista traslazionale perché suggerisce la possibilità di migliorare la memoria attraverso una stimolazione artificiale del cervello, aprendo nuove prospettive nel trattamento di patologie neurodegenerative come l’Alzheimer.

Riferimenti:

The neural substrate of spatial memory stabilization depends on the distribution of the training sessions – Valentina Mastrorilli, Eleonora Centofante, Federica, Arianna Rinaldi and Andrea Mele – PNAS 2022 https://doi.org/10.1073/pnas.2120717119

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Un prelievo di sangue per identificare specifiche alterazioni cerebrali alla base della sindrome di Down

Un gruppo di ricercatori della Sapienza, in collaborazione con l’ospedale pediatrico Bambino Gesù e la Fondazione Policlinico Gemelli, ha evidenziato per la prima volta la possibilità di identificare, con un semplice prelievo di sangue, le specifiche alterazioni del segnale dell’insulina nel cervello dei bambini con sindrome di Down, alla base della loro disabilità intellettiva. Lo studio è stato pubblicato su Alzheimer’s & Dementia: The Journal of the Alzheimer’s Association.

prelievo di sangue Sindrome di Down trisomia 21
Cariotipo esemplificativo per la trisomia 21. Immagine U.S. Department of Energy Human Genome Program in pubblico dominio

La sindrome di Down è la più comune causa genetica di disabilità intellettiva ed è dovuta alla presenza, parziale o totale, di un cromosoma 21 in sovrannumero (la cosiddetta “trisomia 21”). Si stima che l’attuale prevalenza nella popolazione generale vari tra 1:1000 e 1:2.000 nati. La disabilità intellettiva è costante, ma di grado variabile. Inoltre, l’evoluzione della sindrome di Down può essere condizionata da un invecchiamento precoce e dalla comparsa della malattia di Alzheimer.

È noto il ruolo svolto dal segnale dell’insulina nel cervello che, in particolare, risulta fondamentale rispetto a funzioni cognitive quali memoria e apprendimento. Diversi studi precedenti hanno infatti evidenziato come alterazioni di questo segnale a livello del cervello, che vanno sotto il nome di insulino-resistenza cerebrale, siano alla base del declino cognitivo sia durante il normale processo di invecchiamento che durante lo sviluppo di malattie neurodegenerative come il morbo di Alzheimer, caratterizzato proprio dalla comparsa della demenza.

Un gruppo di ricercatori coordinati da Eugenio Barone e Marzia Perluigi del Dipartimento di Scienze biochimiche A. Rossi Fanelli della Sapienza, in collaborazione con il Centro Sindrome di Down dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù – che si prende cura di circa 800 bambini e ragazzi con sindrome di Down e che ha contribuito con la sua ampia casistica a reclutare i ragazzi coinvolti nello studio – e la Fondazione Policlinico Gemelli di Roma, ha evidenziato per la prima volta che le alterazioni del segnale dell’insulina a livello cerebrale si verificano molto presto nei bambini e negli adolescenti con sindrome di Down. Queste alterazioni dell’età pediatrica, indipendentemente dalla trisomia 21, contribuiscono in maniera importante alla disabilità intellettiva che presentano i bambini affetti da sindrome di Down. Inoltre, i ricercatori della Sapienza hanno messo in luce la possibilità di identificare questo tipo di alterazioni attraverso un semplice prelievo di sangue. I risultati del lavoro sono stati pubblicati sulla rivista Alzheimer’s & Dementia: The Journal of the Alzheimer’s Association.

“Quello che pensiamo – spiega Eugenio Barone della Sapienza – è che il perdurare di questo tipo di alterazioni possa facilitare lo sviluppo precoce della malattia di Alzheimer in queste persone”.

“Questo lavoro rappresenta una scoperta importante principalmente per tre motivi – chiarisce Marzia Perluigi della Sapienza. “Il primo è l’aver dimostrato che queste alterazioni si verificano molto presto, già nei bambini con Sindrome di Down”; il secondo riguarda il metodo: riuscire con un prelievo di sangue a risalire ad alterazioni cerebrali per le quali oggi non abbiamo altri strumenti diagnostici in grado di identificarle”.

“Il terzo motivo – conclude Barone – sta nel fatto che identificare quanto prima le alterazioni che si verificano nel cervello, soprattutto nei bambini con sindrome di Down, permetterà di studiare in maniera ancora più approfondita le cause della loro disabilità intellettiva, aprendo di conseguenza a possibili trattamenti terapeutici in grado di migliorarne la qualità di vita”.

Riferimenti:

Aberrant crosstalk between insulin signaling and mTOR in young Down syndrome individuals revealed by neuronal-derived extracellular vesicles – Marzia Perluigi, Federico Marini, Giuseppe Familiari, Emanuele Marzetti, Anna Picca, Elita Montanari, Riccardo Calvani, Roberto Matassa, Antonella Tramutola, Fabio Di Domenico, D. Allan Butterfield, Alberto Villani, Kenneth J. Oh, Emanuele Marzetti, Diletta Valentini, Eugenio Barone – Alzheimer’s & Dementia: The Journal of the Alzheimer’s Association DOI: 10.1002/alz.12499

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma.

Istituto Italiano di Tecnologia – IIT e Sapienza Università di Roma: realizzati in laboratorio per la prima volta organoidi cerebrali per lo studio della Sindrome dell’X fragile
Questo risultato consentirà di studiare in vitro il meccanismo molecolare della malattia e testare futuri farmaci.

organoidi cerebrali sindrome X fragile
Dettaglio a livello cellulare degli organoidi cerebrali derivati da cellule iPS umane di Controllo viste al microscopio confocale. Credits: Istituto Italiano di Tecnologia – © IIT, all rights reserved

Riprodotti per la prima volta in laboratorio organoidi cerebrali (3D) come modello di studio della Sindrome dell’X Fragile, una malattia ereditaria legata a mutazioni nel gene FMRP localizzato sul cromosoma X, causa di disabilità cognitiva, problemi di apprendimento e relazionali.

Neuroni derivati da cellule iPS umane di Xfragile visti a microscopio confocale per identificazioni delle sinapsi glutammatergiche. Credits: Istituto Italiano di Tecnologia – © IIT, all rights reserved

Lo studio, pubblicato sulla rivista Cell Death and Disease, è il risultato di una collaborazione tutta italiana fra Istituto Italiano di Tecnologia – IIT e Sapienza Università di Roma. In particolare tra Silvia Di Angelantonio e Alessandro Rosa, entrambi docenti Sapienza e ricercatori affiliati presso il centro IIT di Roma “Center for Life Nano & Neuro-Science” coordinato da Giancarlo Ruocco e il gruppo D3Validation dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, coordinato da Angelo Reggiani.

organoidi cerebrali sindrome X fragile
Organoidi cerebrali ottenuti da cellule iPS umane di controllo viste al microscopio confocale. Credits: Istituto Italiano di Tecnologia – © IIT, all rights reserved

Gli organoidi 3D sono strutture cellulari tridimensionali artificiali, generate a partire da cellule staminali umane, che riproducono le caratteristiche dei veri organi. Si tratta di modelli in vitro che mostrano condizioni molto simili a quelle umane sia dal punto di vista fisiologico che patologico e che mimano in vitro l’interazione tra cellule. Negli ultimi anni la messa a punto di organoidi cerebrali umani derivati da cellule staminali pluripotenti indotte (cellule iPS, Premio Nobel per la Medicina 2012) ha permesso di ridurre i test condotti su modelli animali e ha aperto nuovi orizzonti per lo studio delle malattie del neuro-sviluppo come autismo e schizofrenia o della nota infezione da Zika virus.

organoidi cerebrali sindrome X fragile
Organoidi cerebrali ottenuti da cellule iPS umane di Xfragile viste al microscopio confocale. Credits: Istituto Italiano di Tecnologia – © IIT, all rights reserved

Le cellule iPS sono cellule staminali che si possono ottenere ‘riprogrammando’ cellule non staminali, per esempio del sangue o della pelle, prelevate da qualunque individuo adulto.

organoidi cerebrali sindrome X fragile
Dettaglio a livello cellulare degli organoidi cerebrali derivati da cellule iPS umane di Xfragile viste al microscopio confocale. Credits: Istituto Italiano di Tecnologia – © IIT, all rights reserved

In questo studio le colture cellulari classiche (2D) e gli organoidi cerebrali (3D) sviluppati a partire da cellule iPS, riproducono in vitro alcune caratteristiche tipiche della sindrome dell’X Fragile, consentendo ai ricercatori di studiare il meccanismo molecolare della patologia e di dimostrare  come la proteina FMRP sia necessaria per supportare correttamente la proliferazione delle cellule neuronali e gliali e per impostare il corretto rapporto eccitazione-inibizione nello sviluppo del cervello umano.

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Organoidi cerebrali ottenuti da cellule iPS umane di controllo. Le frecce rosse indicano lo sviluppo di strutture corticali. Credits: Istituto Italiano di Tecnologia – © IIT, all rights reserved

Lo studio su modelli cellulari 3D, inoltre, ha permesso di scoprire uno squilibrio di dimensioni tra organoidi X fragile e organoidi di controllo cioè sani, ma soprattutto uno squilibrio in termini di bilancio eccitazione – inibizione delle cellule di X Fragile a favore dell’ipereccitabilità che si potrebbe ipotizzare essere alla base delle crisi epilettiche, sintomi tipici dei pazienti X Fragile.

organoidi cerebrali sindrome X fragile
Organoidi cerebrali ottenuti da cellule iPS umane di X Fragile. Le frecce rosse indicano lo sviluppo di strutture corticali. Credits: Istituto Italiano di Tecnologia – © IIT, all rights reserved

Questi risultati ampliano le conoscenze sulla Sindrome dell’X Fragile e gettano le basi per lo screening di nuovi farmaci efficaci per questa patologia oltre al riposizionamento di quelli già in uso.

Silvia Di Angelantonio, ricercatrice affiliata presso il centro IIT di Roma “Center for Life Nano & Neuro-Science”. Credits: Istituto Italiano di Tecnologia – © IIT, all rights reserved

 “Ad oggi questo lavoro è il primo a dimostrare la possibilità di studiare la Sindrome dell’X Fragile in organoidi cerebrali e suggerisce che questa piattaforma sperimentale possa essere applicata per modellizzare in vitro la Sindrome dell’X Fragile” dichiara Silvia Di Angelantonio, ricercatrice affiliata presso il centro IIT – Center for Life Nano & Neuro-Science e docente Sapienza.

Alessandro Rosa, ricercatore affiliato presso il centro IIT di Roma “Center for Life Nano & Neuro-Science”
Caption: Alessandro Rosa, ricercatore affiliato presso il centro IIT di Roma. Credits: Istituto Italiano di Tecnologia – © IIT, all rights reserved

“L’uso di organoidi umani per lo studio di malattie come la Sindrome dell’X Fragile presenta notevoli vantaggi per la comprensione dei meccanismi molecolari che ne sono alla base” aggiunge Alessandro Rosa, ricercatore affiliato presso il centro IIT – Center for Life Nano & Neuro-Science e docente Sapienza.

Angelo Reggiani, Ricercatore Istituto Italiano di Tecnologia. Credits: Istituto Italiano di Tecnologia – © IIT, all rights reserved

“La disponibilità di organoidi derivati da cellule umane crea i presupposti per la identificazione di farmaci migliori e, in un futuro prossimo, di terapie sempre più personalizzate sulle necessità del malato” conclude Angelo Reggiani, coordinatore del laboratorio D3Validation dell’Istituto Italiano di Tecnologia.

Neuroni derivati da cellule iPS umane di controllo visti a microscopio confocale per identificazioni delle sinapsi glutammatergiche. Credits: Istituto Italiano di Tecnologia – © IIT, all rights reserved

Riferimenti:

Novel fragile X syndrome 2D and 3D brain models based on human isogenic FMRP-KO iPSCs – Carlo Brighi, Federico Salaris, Alessandro Soloperto, Federica Cordella, Silvia Ghirga, Valeria de Turris, Maria Rosito, Pier Francesca Porceddu, Chiara D’Antoni, Angelo Reggiani, Alessandro Rosa and Silvia Di Angelantonio – Cell Death & Disease https://doi.org/10.1038/s41419-021-03776-8

 

Testo e foto dell’Istituto Italiano di Tecnologia – IIT, Image Library; dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

IL NICO DI ORBASSANO COMPIE 10 ANNI E FESTEGGIA CON I SUBSONICA

La band torinese protagonista di un tour nei laboratori dove si studia il cervello. L’emergenza Covid19 ‘distanzia’ ma non spegne i festeggiamenti per il decennale dell’Istituto di Neuroscienze dell’Università di Torino 

NICO

Seicento pubblicazioni scientifiche e oltre 60 progetti di ricerca finanziati in dieci anni, e una facility di microscopia all’avanguardia a disposizione della comunità scientifica. Sono i risultati con cui il NICO, l’Istituto di Neuroscienze della Fondazione Cavalieri Ottolenghi dell’Università di Torino, festeggia il decennale dalla sua fondazione.

«Un’eccellenza del territorio piemontese di cui siamo particolarmente orgogliosi». È il commento dei Subsonica al termine della visita che ha visto la band torinese protagonista di un tour molto speciale: non per teatri e concerti sold-out, ma nei laboratori del NICO, alla scoperta della ricerca di base in neuroscienze. «L’importanza della ricerca scientifica non è mai spiegata abbastanza – aggiungono i Subsonica – e qui al NICO abbiamo toccato con mano come la ricerca di base riesca a generare delle risposte a dei problemi specifici, anche là dove non si vadano a cercare».

Il NICO nasce nel 2010 dall’unione di 8 gruppi di ricerca, diventati 9 nel 2017, con l’obiettivo di condividere e sfruttare al meglio costose strumentazioni scientifiche e soprattutto le loro competenze specifiche complementari: la complessità degli studi sul cervello richiede infatti un approccio multidisciplinare, che integri ricerca di base, applicata e clinica.  Ed è proprio qui il cuore e il punto di forza del NICO: unire la ricerca di base – che studia lo sviluppo del cervello, i suoi meccanismi di funzionamento, riparazione e rigenerazione – con quella traslazionale, dedicata a trovare nuovi approcci terapeutici per le malattie neurodegenerative e neuropsichiatriche.

NICO

Alzheimer, SMA Atrofia Muscolare Spinale, ma anche tumori cerebrali e lesioni spinali, Huntington e Atassie, sono alcune delle patologie studiate nei laboratori di Orbassano, nella palazzina situata all’interno del comprensorio dell’Ospedale San Luigi Gonzaga. Ospedale  con cui il NICO collabora – come con altri dipartimenti clinici dell’Università di Torino – per la ricerca sulla Sclerosi Multipla: ospita infatti tra i nove il gruppo che lavora a stretto contatto con i neurologi del CRESM, Il Centro di Riferimento Regionale per la SM, e la BIOBANCA, che raccoglie campioni biologici necessari alla comprensione della malattia e allo sviluppo di metodi diagnostici e terapie mirate.

10 ANNI DI RICERCA AL NICO: I NUMERI

«Dieci anni in cui il NICO è cresciuto sia in termini di attività scientifica – con una media appunto di circa 60 pubblicazioni all’anno – sia di prestigio a livello nazionale e internazionale» sottolinea il prof. Alessandro Vercelli, Direttore scientifico del NICO e docente di Anatomia umana del Dipartimento di Neuroscienze Rita Levi Montalcini dell’Università di Torino.

NICO

«Sono oltre 60 i progetti scientifici realizzati in questi 10 anni – continua il prof. Vercelli – tra questi 6 finanziati dall’Unione europea, di cui uno del programma Horizon2020, 3 PRIN del Ministero della Ricerca9 grant di Fondazione Telethon e 7 di Fondazione Veronesialtri progetti tuttora in corso hanno il sostegno di AIRC e della FISM – la Fondazione dell’Associazione Italiana Sclerosi Multipla. Ultimo – ma solo in ordine di tempo perché assegnato a marzo di quest’anno – il prestigioso finanziamento dello Human Frontier Science Program, che ha visto in gara oltre 500 progetti da tutto il mondo. Anche grazie a questi fondi competitivi ottenuti a livello internazionale e nazionale, e al sostegno dei Dipartimenti universitari di appartenenza, abbiamo una strumentazione scientifica di avanguardia, che aggiorniamo continuamente».

«Il nostro è un Istituto giovane – aggiunge il direttore del NICO – non solo per i 10 anni di età, ma anche per l’età media (circa 30 anni) dei nostri ricercatori, attratti da temi di ricerca affascinanti, tecnologie moderne e collaborazioni internazionali. I 25 docenti e tecnici del NICO sono infatti affiancati da circa 50 giovani ricercatrici e ricercatori (post doc, dottorandi e tesisti di UniTo): un mix efficace di esperienza ed entusiasmo giovanile riunito nella stessa squadra, che – ci tengo a sottolinearlo – è composta per il 60% da donne».

LA DIVULGAZIONE SCIENTIFICA

«La ricerca è il nostro obiettivo principale – ricorda il prof. Vercelli – i nostri ricercatori sono anche fortemente impegnati nella divulgazione scientifica presso il pubblico e le associazioni di pazienti e familiari di pazienti. Con queste ultime – che nel caso di Smarathon e Girotondo Onlus sostengono le nostre ricerche sulla SMA – collaboriamo per fornire informazioni corrette sulle prospettiva di cura a cui stiamo lavorando e che, se comunicate in modo errato, rischiano di creare false speranze».

«Tra le attività di divulgazione dedicate agli studenti vorrei ricordare le Olimpiadi delle Neuroscienze – che ogni anno coinvolgono in Piemonte oltre 400 studenti di 30 scuole – e UniStem Day, che da oltre 10 anni coinvolge in contemporanea in tutta Europa oltre 30mila studenti. Infine, le attività pensate per il pubblico: la Settimana del Cervello, che organizziamo con CentroScienza Onlus, e i PorteAperte, un appuntamento che dal 2014 registra il tutto esaurito richiamando oltre 1200 ospiti per la visita dei nostri laboratori di ricercaTutte queste iniziative sono importanti – conclude Alessandro Vercelli – perché ci permettono di condividere l’impegno e la passione che guidano il  nostro lavoro».

UN DECENNALE DEDICATO A FERDINANDO ROSSI

NICO

«Nel festeggiare i dieci anni del NICO vorrei prima di tutto ricordare la figura – per noi importantissima – del grande scienziato, collega e amico Ferdinando Rossi – dichiara il Rettore Stefano Geuna –  l’anima di questa realtà: con la sua energia e le sue grandissime capacità ha messo insieme un primo gruppo – poi cresciuto negli anni – di ricercatrici e ricercatori che hanno dato vita al nostro Istituto. Dico ‘nostro’ – spiega – perché nonostante nell’ultimo anno, da quando ho assunto la carica di Rettore dell’Università di Torino, io abbia dovuto sospendere le mie attività scientifiche e quindi anche la mia afferenza al NICO, mi piace ricordare che faccio parte di questa comunità, a cui mi sento particolarmente vicinoIstituto che grazie allo straordinario input del prof. Rossi – prematuramente scomparso nel 2014 – ha continuato a crescere negli anni: lo dimostra una recente valutazione del Consiglio scientifico internazionale che ha qualificato il NICO come eccellenza a livello nazionale e internazionaleÈ questo a mio parere il miglior modo per ricordare Ferdinando, ma anche un’ottima occasione per guardare al futuro con entusiasmo ed energia.

Una spinta – conclude il Rettore – di cui abbiamo particolare bisogno in questi giorni così difficili, in un momento di pandemia e di crisi a livello globale. Momenti di crisi in cui, sappiamo bene, la scienza deve essere in prima linea per dare quelle risposte che possono portarci a ripartire e a crescere nuovamente. Rinnovo quindi i miei auguri e i miei complimenti alle ricercatrici e ai ricercatori del NICO per i traguardi e gli obiettivi raggiunti, e in bocca al lupo per un futuro di ancor più grandi successi».

SUBSONICA

UN TOUR ALLA SCOPERTA DELLA RICERCA DI BASE

I Subsonica sono stati protagonisti di un “tour” speciale, una visita straordinaria nei laboratori dove si studia il cervello al NICO da cui è nato un video con “Il cielo su Torino feat Ensi” colonna sonora d’eccezione. 

Il video è disponibile sul sito e sui canali social della band e del NICO e cliccando QUI

Virtuoso delle tastiere, ma anche grande appassionato di Neuroscienze, Boosta non ha nascosto il suo entusiasmo dopo il pomeriggio passato nei laboratori del NICO: «La domanda che mi pongo sempre non è tanto perché esistiamo, ma perché siamo come siamo… qui cercano le risposte, ed è bellissimo!».

«Abbiamo toccato con mano come la ricerca di base – quella pura senza apparente direzione – riesca a generare delle risposte a dei problemi specifici, anche là dove non si vadano a cercare» spiega Max Casacci, chitarra e voce della band. «E la struttura del NICO – che abbiamo scoperto essere interdisciplinare – mettendo insieme diversi sguardi, diverse discipline intorno allo stesso argomento, aumenta questo fattore serendipico: un approccio che riteniamo molto attuale e necessario».

«Non sta a me dire quanto sia importante la ricerca, in qualsiasi ambito – ha aggiunto Samuel, voce della band – personalmente mi sono sempre adoperato per la ricerca musicale… invece qui al NICO si occupano di ricerca in ambito biomedico, e di soluzioni di problemi e patologie che ci coinvolgono e a cui tutti noi siamo soggetti. È un momento molto drammatico, che ci ricorda l’importanza di posti come questo, dedicati alla ricerca».

«Credo che l’importanza della ricerca scientifica non sia mai spiegata abbastanza – ha aggiunto Ninja – e qui al NICO, un istituto di avanguardia in cui giovani ricercatori studiano con tecnologie incredibilmente sofisticate fenomeni legati alle Neuroscienze, si dimostra in tutta la sua efficacia, competenza e professionalità».

Vicio, il bassista dei Subsonica, è invece rimasto colpito dalla passione vista nelle ricercatrici e nei ricercatori del NICO al lavoro: «Una vera dedizione che è bellissimo vedere al giorno d’oggi, soprattutto in un campo come questo, dove –  credo – senza la passione, determinati risultati non possano essere conseguiti».

NICO

Testo e immagini dall’Università degli Studi di Torino

ERCOLANO – Trovare del tessuto cerebrale in resti archeologici dell’antichità è una cosa molto rara. Nel cervello i processi di morte cellulare sono molto rapidi, essendo costituito per l’80% di acqua. La decomposizione, quindi, inizia dopo 36-75 ore e la scheletrizzazione (cioè l’ultima fase della decomposizione) si ha tra circa i 5 e i 10 anni dopo la morte.  Sempre che non sia stato sottoposto a tecniche di mummificazione, come quelle utilizzate in Egitto, è difficile che questo delicato tessuto possa sopravvivere per anni, se non millenni. Trovare, poi, questo tessuto vetrificato, è una cosa ancor più rara.

Collegio degli Augustali. Foto: Pier Paolo Petrone, Università Federico II di Napoli. Copyright 2020

È quello che è accaduto durante alcune indagini paleoforensi nel sito archeologico di Ercolano a opera di un team di studiosi, guidati dall’antropologo forense Pier Paolo Petrone, responsabile del Laboratorio di Osteobiologia Umana e Antropologia Forense presso la sezione dipartimentale di Medicina Legale dell’Università “Federico II” di Napoli. Durante la loro ricerca, i membri del team hanno rinvenuto del materiale vetroso tra le ossa craniche di una vittima dell’eruzione del Vesuvio del 79 a.C. Tale materiale, in parte incrostato sul cranio della vittima, è stato successivamente analizzato, per poter accertare potesse trattarsi realmente di tessuto cerebrale vetrificato.

Frammento di cervello vetrificato. Foto: Università Roma Tre

La vetrificazione è un processo durante il quale un liquido, esposto a un’elevata temperatura, viene velocemente e bruscamente raffreddato, trasformandosi in un materiale simile al vetro. Gli autori dello studio spiegano che il tessuto cerebrale in questione, inizialmente esposto al caldo estremo della nube piroclastica del Vesuvio, ha poi ricevuto uno shock termico, con un abbassamento brusco di temperatura, che ha determinato la sua trasformazione in un materiale vitreo.

tessuto cerebrale Ercolano Pier Paolo Petrone
Collegio degli Augustali, il luogo del ritrovamento. Foto: Pier Paolo Petrone, Università Federico II di Napoli. Copyright 2020

A seguito di questo ritrovamento, si è proceduto a studiare il campione sfruttando un approccio multidisciplinare, coinvolgente esperti specializzati in diversi ambiti. Tramite l’uso del Microscopio elettronico a scansione e specifici strumenti di elaborazione delle immagini, il team è giunto alla  conclusione che non solo il materiale vetrificato apparteneva al sistema nervoso centrale della vittima, ma anche che al suo interno risultano preservate strutture tubulari simili agli assoni neuronali.

In seguito, il campione è stato sottoposto all’analisi proteomica, che consente di individuare specifici tipi di proteine, le quali sono sintetizzate da diversi geni del DNA. Grazie a questa tecnica, il team ha riscontrato una forte espressione di alcuni geni, presenti in abbondanza nel cervello, oltre che in altri distretti.

tessuto cerebrale Ercolano
Pier Paolo Petrone in laboratorio. Pier Paolo Petrone, Università Federico II di Napoli. Copyright 2020

Questa scoperta e future analisi più approfondite del campione, potranno dirci molto più rispetto alle caratteristiche del tessuto e delle proteine al suo interno, oltre che fornirci informazioni utili su proprietà tipiche dell’espressione genica nella popolazione di Ercolano.

Abbiamo intervistato il dott. Pier Paolo Petrone dell’Università “Federico II” di Napoli, e la dott.ssa Maria Giuseppina Miano del CNR di Napoli, che hanno risposto alle domande di ScientifiCult sul tessuto cerebrale da Ercolano.

tessuto cerebrale Ercolano Pier Paolo Petrone
Assoni, tessuto cerebrale dalla vittima di Ercolano. Foto: Università Roma Tre

Vedendo il profilo dell’espressione genica, si nota come tutte le strutture da voi indicate siano molto vicine a cavità cerebrali in cui è presente il liquido cerebrospinale. Come pensate che questo possa aver influito sul processo di vetrificazione? Pensate che la posizione più centrale e, quindi, più protetta, abbia giocato a sua volta qualche ruolo?

Pier Paolo Petrone: Osservazione interessante, ma non abbiamo al momento evidenze in questo senso. Tutto il cervello sembra aver reagito allo stesso modo, dando luogo a questo materiale dalla consistenza e apparenza vetrosa. Qualcosa di assolutamente unico, mai visto prima né negli altri siti sepolti dall’eruzione, né in eruzioni vulcaniche recenti.

Nel vostro studio avete analizzato l’espressione di alcuni geni le cui mutazioni sono presenti in alcune patologie importanti (Disturbo di Alzheimer, disabilità intellettiva, ipoplasia ponto-cerebellare). Pensate che un’analisi più approfondita di queste espressioni geniche possa dirci di più sullo stato del ragazzo vittima del Vesuvio?

Maria Giuseppina Miano: I dati da noi raccolti non ci consentono di avere informazioni di questo tipo. Non abbiamo dati sulle sequenze amminoacidiche delle proteine identificate né della sequenza nucleotidica dei geni corrispondenti. Ma non possiamo escludere che ulteriori studi possano darci altre importanti informazioni.

Il guardiano nel suo letto. Pier Paolo Petrone, Università Federico II di Napoli. Copyright 2020

Con l’analisi proteomica sono emerse espressioni di geni presenti in gran quantità nel cervello. Questi geni, però, si esprimono allo stesso modo in molti altri distretti del nostro organismo (ad esempio nelle ossa, come il MED13L o ATP6V1F). Con quali modalità avete escluso la possibilità che il campione possa essere stato contaminato nei secoli?

Pier Paolo Petrone: La contaminazione in questo caso è da escludere, in quanto il corpo della vittima era immerso nella cenere vulcanica, e così è rimasto per quasi duemila anni, fino alla sua scoperta negli anni ‘60 e quella, più recente, del  tessuto vetrificato nel cranio. Peraltro, le analisi biochimiche hanno mostrato la presenza di acidi grassi dei capelli umani e di sette proteine altamente rappresentate in tutti i distretti cerebrali, confermando l’appartenenza univoca di questo tessuto al cervello della vittima.

Neurone dal midollo spinale. Foto: Università Roma Tre

Come spiegate nell’articolo, il tessuto non è stato alterato in alcun modo dopo la vostra manipolazione. Pensate quindi di ritornare a fare ulteriori analisi biochimiche? Nel caso in cui pensiate di fare ulteriori analisi, quali ulteriori risultati ipotizzate di poter ottenere? (Es. Alterazioni della struttura proteica che suggeriscono un’anomalia genetica).

Maria Giuseppina Miano: Sono varie le linee di ricerca in corso e tutte molto promettenti. Ulteriori indagini sono in programma per poter identificare la sequenza amminoacidica delle proteine sinora rinvenute, e stabilire la presenza di eventuali varianti polimorfiche che potrebbero “raccontarci” qualcosa in più sulle caratteristiche genetiche degli abitanti di Ercolano a quel tempo.

Pier Paolo Petrone: Altre informazioni le stiamo già avendo dalla sperimentazione in corso su questo cervello, con l’obiettivo di stabilire la temperatura cui è stato esposto e i tempi di raffreddamento del deposito di cenere vulcanica. Informazioni, queste, cruciali per la valutazione del rischio vulcanico al Vesuvio, che incombe su Napoli e i suoi tre milioni di abitanti. Lo studio di un cervello di 2000 anni fa in futuro potrebbe salvare vite umane.

 

Riferimenti bibliografici sul tessuto cerebrale da Ercolano:

Petrone, P., Giordano, G., Vezzoli, E., Pensa, A., Castaldo, G., Graziano, V., Sirano, F., Capasso, E., Quaremba, G., Vona, A., Miano, M. G., Savino, S., & Niola, M. (2020). Preservation of neurons in an AD 79 vitrified human brain. PloS one15(10), e0240017. https://doi.org/10.1371/journal.pone.0240017

Petrone, P., Pucci, P., Niola, M., Baxter, P. J., Fontanarosa, C., Giordano, G., Graziano, V., Sirano, F., & Amoresano, A. (2020). Heat-Induced Brain Vitrification from the Vesuvius Eruption in c.e. 79. The New England journal of medicine382(4), 383–384. https://doi.org/10.1056/NEJMc1909867

COVID-19: non solo polmoni, il virus interessa anche il cervello

Su “European Journal of Neurology”, uno studio europeo, con il contributo della Statale, rileva la presenza di sintomi neurologici nei pazienti affetti da Covid-19.

Uno studio apparso su European Journal of Neurology pochi giorni fa, condotto dalla Clinica Neurologica III dell’Ospedale San Paolo – ASST Santi Paolo e Carlo – e dal Centro di ricerca Aldo Ravelli dell’Università Statale di Milano, in collaborazione con i principali centri neurologici dei paesi europei ha dimostrato che il COVID-19 non si limita ai sintomi polmonari ma può dare manifestazioni neurologiche.

La ricerca si è basata su una indagine condotta attraverso questionari online, composti da 17 domande, distribuiti ai medici europei impegnati nel fronteggiare la pandemia.  Sono stati raccolti più di 2.300 questionari che riportavano la presenza di sintomi neurologici in circa ¾ dei pazienti. I principali disturbi riscontrati andavano da cefalea e mialgie all’encefalopatia.

Alberto Priori, direttore della Clinica Neurologica III dell’Ospedale San Paolo e Professore del dipartimento di Scienze della Salute dell’Università di Milano, fra gli autori dello studio, sostiene che “i meccanismi responsabili dell’interessamento neurologico sono molteplici. Essi possono essere diretti per effetto della diffusione del virus nel tessuto nervoso, come dimostrato proprio qui al Polo Universitario San Paolo dove per la prima volta è stato identificato col microscopio elettronico il virus e i danni tissutali correlati all’infezione. Ci sono anche meccanismi indiretti, come per esempio l’importante attivazione della coagulazione del sangue, che possono portare ad ictus. L’importanza dello studio è che a livello europeo si è dimostrato che i sintomi neurologici sono frequentemente riscontrabili”.

Saranno inoltre da valutare le complicanze neurologiche tardive dell’infezione poiché in molti dei pazienti più gravi poi guariti si riscontrano alterazioni neurologiche che richiedono uno stretto monitoraggio e la collaborazione tra molti specialisti con un percorso riabilitativo complesso che può essere anche molto lungo. In conclusione, lo studio suggerisce che si sta aprendo un nuovo capitolo nei libri di neurologia e che i neurologi potranno avere un ruolo importante nella gestione della pandemia e nei suoi esiti.

 

Testo sullo studio che rileva come il COVID-19 interessi anche il cervello dall’Università Statale di Milano

Ipermemoria: un ricordo per ogni giorno. Nel cervello di “chi non dimentica” svelato il meccanismo che ordina la memoria

Un nuovo studio italiano, pubblicato sulla rivista Cortex, rivela l’esistenza di un’area cerebrale che permette alle persone dotate di ipermemoria autobiografica di “datare” i ricordi

Foto di Alexas_Fotos 

Un nuovo studio interamente italiano e pubblicato sulla rivista Cortex ha rilevato cosa rende il cervello degli individui “ipermemori” capace di ricordare anche i più piccoli dettagli di ogni giorno della loro vita. Grazie all’analisi di questi individui sono state identificate le aree del cervello specificamente deputate a dare una dimensione temporale ai ricordi, organizzando quelle informazioni che nelle persone comuni restano memorie indistinte e sfocate.

La ricerca, condotta presso i laboratori della Fondazione Santa Lucia IRCCS di Roma, è stata coordinata dall’equipe composta dai ricercatori Patrizia Campolongo, Valerio Santangelo, Tiziana Pedale e Simone Macrì, e ha coinvolto la Sapienza Università di Roma, l’Istituto Superiore di Sanità e l’Università di Perugia.

Per realizzare lo studio è stato chiesto a 8 soggetti ipermemori, già protagonisti nel 2018 di un altro lavoro della stessa equipe di ricerca, di ricordare un evento molto lontano nel tempo, di circa 20 anni prima. L’attività neuronale di questi 8 soggetti è stata quindi rilevata in tempo reale attraverso la risonanza magnetica funzionale, una tecnica non invasiva che permette ai ricercatori di osservare il cervello in azione e identificarne le aree più attive durante il ricordo dell’evento passato. Al gruppo di ipermemori è stato affiancato un gruppo di controllo composto da 21 persone senza particolari abilità o deficit della memoria.

I ricercatori hanno poi utilizzato una tecnica molto innovativa, chiamata Multivoxel Pattern Analysis (MVPA) per verificare che la migliore rappresentazione neurale dei ricordi nelle persone ipermemori fosse associata al ruolo funzionale di specifiche aree del cervello.

“I risultati dell’indagine – spiegano gli autori – hanno mostrato che nel discriminare tra ricordi autobiografici vecchi e nuovi, per le persone con ipermemoria si rileva un’elevata specializzazione della porzione ventro-mediale della corteccia prefrontale del cervello, un’area che si ritiene sia deputata all’organizzazione delle funzioni cognitive superiori. Questa stessa regione del cervello sembra essere meno precisa nelle persone con una memoria normale, fino a farci “confondere” la dimensione temporale del ricordo, vecchio o nuovo”.

“La memoria autobiografica permette di rievocare esperienze relative a tutto l’arco della vita consentendoci di conferire una dimensione temporale e narrativa alla nostra esistenza – continuano gli autori – e qui per la prima volta al mondo sono stati studiati i meccanismi neurobiologici associati alla dimensione temporale dei ricordi tramite una metodologia innovativa e, soprattutto, in un gruppo di persone ‘speciali’”.

Il dato che emerge da questo nuovo avanzamento scientifico è cruciale, non solo per l’analisi delle doti speciali di queste persone, ma soprattutto per aprire nuove frontiere di ricerca per la neuroriabilitazione della memoria e per la ricerca sulle funzioni mnesiche, in pazienti con una lesione del sistema nervoso centrale.

“Comprendere i sistemi neurobiologici alla base dell’iper-funzionamento della memoria – concludono i ricercatori – fornisce importanti indicazioni su quali aree è necessario intervenire per stimolare il ripristino di un funzionamento adeguato della memoria in persone con deficit o lesioni neurologiche”.

Riferimenti:

Enhanced cortical specialization to distinguish older and newer memories in highly superior autobiographical memory – Valerio Santangelo, Tiziana Pedale, Simone Macrì, Patrizia Campolongo. – Cortex 2020 https://doi.org/10.1016/j.cortex.2020.04.029

 

Il testo viene congiuntamente da: Ufficio Stampa Sapienza Università di Roma, Ufficio Stampa Fondazione Santa Lucia IRCCS, Ufficio stampa Istituto Superiore di Sanità, Ufficio Comunicazione Istituzionale, Social media e Grafica Università degli Studi di Perugia